Il pericolo della superficialità e della conservazione

IL PERICOLO DELLA SUPERFICIALITA’ E DELLA CONSERVAZIONE

A proposito di un Appello per la scuola pubblica

di Rita Bortone

Più che l’obiettivo di aprire un dibattito sulla scuola e sui suoi discutibili processi di trasformazione, mi sembra che l’Appello per la scuola pubblica persegua l’obiettivo di aprire le ostilità nei confronti delle riforme in atto e, cavalcando la tigre dello scontento diffuso (legittimamente) tra insegnanti e dirigenti, di sparare a zero sugli aspetti fondamentali delle innovazioni promosse a livello ministeriale.

Non sono affatto una sostenitrice tout court delle innovazioni in questione, ma per motivi professionali ho dovuto studiarne storia, ragioni e possibili interpretazioni, obbligo che probabilmente non è stato avvertito né dai firmatari dell’Appello (e che bisogno c’è mai di studiare quando è così facile mettere un mi piace da qualche parte, soprattutto se riguarda una cosa che mi risulta scomoda e difficile da capire?) né da tutti gli estensori del documento (e che bisogno c’è mai di studiare le pochezze degli omuncoli di passaggio, quando si possiedono solide e scientifiche certezze immutabili nel tempo?).

In sostanza penso che i dibattiti, se tali vogliono essere, debbano nutrirsi di conoscenze, approfondimenti, confronti, argomentazioni, articolazioni del pensiero, non di affermazioni di principi e di slogan ideologici. L’Appello, al contrario, in barba alla acclarata intellettualità e ai meriti scientifici di molti dei firmatari, appare molto povero quanto a problematizzazione, aggressivamente assertivo nei toni e metodologicamente fondato sull’opinione non argomentata più che sul pensiero dimostrativo: in coerenza – duole dirlo – con le più diffuse tendenze della “dossologia” imperante sui social più che con i costumi della ricerca scientifica.

Chi negli ultimi decenni ha studiato e ricercato sui punti di forza e di criticità delle riforme che, provenienti da destra o da sinistra, variamente hanno interessato la scuola, sforzandosi di coglierne gli aspetti che portassero qualcosa di buono ad un sistema d’istruzione come quello italiano, pachidermico nonostante l’autonomia, sgangherato nonostante l’abbondanza e l’enfasi normativa, spesso inconcludente nonostante le best practices sbandierate, può farsi una ragione del fatto che la complessità linguistica, concettuale e operativa della nuova scuola non venga ben compresa e/o accettata dal docente periferico, o troppo avanti negli anni, o pigro, o frustrato, o legittimamente stanco e demotivato, o anche ideologicamente accecato; può farsi cioè una ragione del fatto che a questo docente l’innovazione non compresa o mal riuscita appaia solo una deriva culturale, imputabile alle strane parole d’ordine del momento e all’enfasi trasformativa che pervade uffici e aule, centro e periferia, ministri e dirigenti.

Ma non può farsi una ragione del fatto che macroscopiche banalità siano state, prima che condivise dagli ottomila firmatari, concepite e scritte da nomi illustri della intellettualità nazionale e della ricerca scientifica, nomi che peraltro non hanno fatto sentire la propria voce quando il dibattito sulla scuola e sulle stesse annunciate innovazioni è stato aperto, promosso, richiesto, a livello centrale.

Non può farsene una ragione perché appare inaccettabile sia l’ipotesi che la banalità (e il populismo) delle affermazioni e delle denunce derivi da disinformazione, sia l’ipotesi che derivi da una ideologizzazione dei problemi e da una intenzionalità strumentale.

Sarebbe interessante considerare i sette temi dell’Appello uno per uno, per smontare con ragionamenti e dati le singole affermazioni/opinioni, problematizzando davvero, come sarebbe necessario ed urgente, quanto accade oggi nella scuola, quale direzione vanno assumendo le innovazioni in atto, e quali le ragioni e quali i rischi, ma ricorrendo ad argomenti costruttivamente seppur severamente critici, non apoditticamente e perentoriamente liquidatori.

Le questioni sollevate dall’Appello corrispondono realmente a punti caldi del sistema, portatori di ambiguità e di rischi:

è davvero un problema che la scuola italiana (e non solo la scuola) non riesca a “significare” le ragioni e i modi dello sviluppo di competenze e non sappia concepirlo se non come svalutazione delle conoscenze;

è davvero un problema che la lezione non riesca ad adeguarsi alle trasformazioni intervenute nei processi cognitivi dei ragazzi (così come ci insegna la scienza cognitiva) e che la “trasmissione”, pur palesemente inefficace e demotivante, continui ad essere la regina delle metodologie didattiche nella scuola del I e del II ciclo;

è davvero un problema che le nuove tecnologie vengano sottoutilizzate o sovrautilizzate o mal utilizzate o enfaticamente esaltate, in ambienti o da soggetti spesso privi delle necessarie consapevolezze pedagogiche;

che la scuola italiana sia così lontana dalla cultura del lavoro, così incapace di venir fuori dagli schemi progettuali standardizzati, così poco sorretta dal Territorio, da considerare la laboratorialità o l’alternanza una perdita di tempo;

che la scuola italiana non riesca a coniugare la valutazione formativa e l’accompagnamento dei processi con una cultura del risultato e del confronto con standard nazionali e sovranazionali;

è davvero un problema che la ricerca accademica in campo educativo appaia talvolta priva di orizzonti culturali di ampio respiro e povera di prospettive, se non anche appiattita su interessi che poco hanno da spartire con la costruzione di una nuova idea di scuola e molto con interessati supporti alle logiche ministeriali;

ed è davvero un problema che nessuna intellettualità e nessuna ricerca riescano a delineare un impianto più flessibile del nostro sistema d’istruzione, che professa principi di inclusione, di lotta alla dispersione, di differenziazione, ma che non riesce a scardinare le rigidità di tempi, spazi, gruppi, che ne impediscono l’attuazione.

Sono davvero problemi, questi, e certamente la frenesia innovativa, l’ansia dell’adeguamento all’Europa, il convulso scopiazzare modelli e sistemi “altri”, la richiesta quasi ricattatoria di pratiche innovative anche se non “significate” dalla base, contribuiscono non poco allo smarrimento dei docenti ed al degrado culturale e pedagogico dell’offerta formativa.

Ma attribuire questo degrado alla L. 107 e ai suoi maldestri tentativi di innovazione è sciocco o disonesto.

Con le sue richieste incalzanti e prive di analisi di fattibilità, con il caos organizzativo e gli algoritmi errati, con l’arrogante e pretenziosa velleità di realizzare la buona scuola, la legge 107 ha solo reso evidenti i mali che già c’erano.

I principi e le visioni contenuti nella L. 107 non nascono con la L.107. Le competenze, l’innovazione metodologica, l’alternanza scuola-lavoro, la diffusione delle nuove tecnologie, il sistema nazionale di valutazione: chi ha scritto l’appello non può non sapere che nessuna di queste “novità” è nata con la L. 107. E non può nascondere a nessuno che neanche la distanza tra Università e scuola e il disinteresse del mondo accademico per la ricerca educativa sono nati oggi.

Certo chi ha concepito la buona scuola ha la pesante responsabilità di aver voluto rendere operative innovazioni, potenzialmente di grande portata, senza alcuna preventiva analisi di fattibilità e senza costruire le condizioni necessarie per una loro significativa interpretazione.

Ha la pesante responsabilità di compiacersi di una sedicente formazione obbligatoria mistificando la realtà e conservando nelle professionalità le gravi lacune che impediscono la costruzione di nuovi significati e l’adozione consapevole di nuove pratiche.

Ha la gravissima responsabilità di non voler vedere, o addirittura di voler coprire le spazzature sotto ai tappeti e di enfatizzare pratiche di autoanalisi e di miglioramenti che spesso son fatti di carta e non migliorano niente.

Ha la gravissima responsabilità di enunciare principi cui non offre strumenti. Di dispensare denaro che non forma e blaterare di meriti che non sa riconoscere.

Di annunciare nuove e migliori professionalità che non è in condizioni di garantire; di adottare sistemi di reclutamento di cui non sa e non può promettere attendibilità, trasparenza, omogeneità sul territorio nazionale…

E l’elenco potrebbe continuare.

Ma se gli insegnanti e i dirigenti di questa scuola, e con loro anche qualche docente universitario, non sono in grado di comprendere il rapporto tra conoscenze e competenze (tanto da vederle in contrapposizione e lesive le une delle altre!), e non sono in grado di costruire contesti e ambienti di apprendimento funzionali e adatti alle menti dei giovani d’oggi, e non sono in grado di coniugare valutazione formativa e sommativa, o valutazione individuale e di sistema, e se l’Università italiana e le intellettualità in essa diffuse fanno sentire la loro voce solo come supponenti j’accuse nei confronti di cose e problemi su cui non vogliono “sporcarsi le mani” (vedi appello dei 600 proff. sulle carenze linguistiche), queste cose sono responsabilità non degli ultimi governi, ma dei governi di destra e di sinistra che in tempi lunghi e con continuità di interventi non fatti o mal fatti hanno prodotto un lento e inesorabile smarrimento della scuola pubblica italiana, attraverso un lento e inesorabile processo di demotivazione, dequalificazione, designificazione sociale di docenti e dirigenti.

Le responsabilità, tuttavia, stanno da più parti. E non sono poche quelle degli intellettuali che stanno a guardare e che avviano presunti dibattiti solo quando vogliono demolire, puntare indici, additare nemici, senza fare la fatica di analizzare, comprendere, scoprire processi e cause, delineare prospettive e soluzioni: è facile e scontato condividere che l’innovazione non è un bene in sé, meno facile è condividere cosa significhi qualità formativa oggi e quali siano le condizioni della sua costruzione.

L’innovazione non è un bene in sé, ma l’alternativa all’innovazione mal fatta non è la conservazione di un esistente del tutto inadeguato.