Questioni di progettualità

Questioni di orientamento, di alternanze, di intese: insomma questioni di progettualità

di Rita Bortone

 

Un orientamento lungo nel tempo

Il mese di gennaio propone strutturalmente alle scuole il problema di quella cosa che viene chiamata orientamento anche se spesso si riduce a pratiche propagandistiche esclusivamente finalizzate all’accaparramento di iscrizioni, vuoi negli Istituti secondari di II grado, vuoi nelle Università.

Personalmente sono stata sempre convinta della necessità di “un intero curricolo per l’orientamento” (…), perché penso che la capacità di orientarsi (in ambiti intellettuali e affettivi, in dimensioni sociali e private, in contesti professionali e politici), sia lo strumento più potente di interazione con la realtà, il più efficace mezzo di salvezza esistenziale di fronte alle complicate domande poste dalla contemporaneità, il più indispensabile strumento di cittadinanza e, se questa parola ha ancora qualche valore, di democrazia e penso anche che la capacità di orientarsi debba costituire il complesso unitario traguardo verso il quale far convergere istruzione ed educazione, competenze disciplinari e di cittadinanza, educazione ai valori e costruzione di identità. In sostanza penso che sia possibile e utile pensare ad un curricolo che in tutta la sua interezza e in tutta la sua durata miri a sviluppare la capacità di orientarsi (…) (R.Bortone, Un curricolo per orientarsi, Scuola e Amministrazione, febbraio 2017)

Nell’articolo poc’anzi citato illustravo le mie convinzioni in merito alle conoscenze, alle abilità, alle competenze che dovrebbero caratterizzare un “curricolo orientativo”, nonché alle strategie organizzative e didattiche che ritenevo fosse necessario adottare.

Tra le altre cose affermavo la necessità, per lo studente, di esercitare tre ambiti di studio: le discipline, la realtà contemporanea, se stesso, e in particolare sostenevo quanto contenuto nei seguenti stralci:

Relativamente alle discipline io mi aspetto che gli studenti conoscano non solo i fatti, i fenomeni, i contesti, le regole, le formule, ma che abbiano chiaro ciò che discrimina una disciplina dall’altra. Che abbiano chiara, cioè, la mappa dei saperi, la diversità dei loro oggetti di studio, la funzione che ciascuna di esse esplica nella risposta ai bisogni dell’uomo, i rapporti di ausiliarità che essa intesse con altre discipline e per realizzare cosa; mi aspetto che conoscano i principi, le categorie interpretative e i metodi che ogni disciplina adotta per decodificare la realtà, per costruire le proprie verità o per falsificarle; che conoscano i contesti di possibile applicazione di quella disciplina, che la percepiscano non come “sapere inerte”, ma come dinamico motore, costruttore, ispiratore di forme diverse dell’ agire nella realtà. E mi aspetto che abbiano chiare le diverse professioni che attingono a questo o a quel sapere.

Relativamente alla realtà contemporanea io mi aspetto che gli studenti conoscano, nel loro manifestarsi e nel loro divenire, eventi e soggetti e fenomeni e problemi e contesti, significativi a livello locale e planetario: relativi ai mondi della cultura e dell’economia, della politica nazionale e internazionale, della ricerca scientifica e tecnologica, dei problemi del lavoro e della politica…. Con modalità adeguate alle età, s’intende, ma senza mai perdere il contatto con la realtà e senza indulgere in enunciazioni retoriche, in facili e false discriminazioni tra buoni e cattivi, in improbabili ipotesi risolutive o in prefigurazioni apocalittiche. Mi interessa, cioè, l’informazione ricavabile da letture scientifiche del contesto. Mi interessa che conoscano l’esistenza di criteri diversi di interpretazione, di valutazione, di scelta, principi diversi che presiedano a valutazioni di natura sociale, morale, etica, estetica. Ma principi e criteri scientifici, non costruzione di falsi saperi da social network o da stampa da strapazzo.

Relativamente al sé mi aspetto che lo studente conosca, man mano che cresce, essenziali meccanismi di funzionamento delle relazioni affettive e delle costruzioni identitarie, e che maturi, durante il percorso, una consapevolezza dei propri interessi, delle proprie qualità, delle proprie competenze, dei propri limiti e potenzialità, dei tratti cognitivi e comportamentali che caratterizzano il suo stare con gli altri. Mi aspetto che scopra la propria gerarchia di valori, la propria visione del mondo, le proprie aspirazioni dicibili e indicibili; che conosca il rapporto tra ciò che vorrebbe fare, ciò che può fare, ciò che è opportuno fare…Mi interessa, anche in questo ambito, che conosca l’esistenza di criteri diversi e modi diversi di guardare a se stessi, l’esistenza di principi diversi cui riferirsi nelle scelte di vita.

Le mie riflessioni scaturivano dalla constatazione della povertà formativa delle pratiche, cosiddette orientative, generalmente diffuse nelle scuole di mia conoscenza.

Un’alternanza di qualità

Il mio interesse per l’orientamento ha portato con sé, negli ultimi anni, anche una mia attenzione alla pratica dell’alternanza scuola – lavoro.

In questo gennaio 2018, dunque, le solite chiacchiere in merito al cosiddetto orientamento dei ragazzi (la scelta degli Istituti secondari o dei corsi di studio universitari), si sono arricchite di chiacchiere inconsuete, quelle su questa strana cosa che le ultime strane leggi hanno voluto introdurre, ovvero l’alternanza scuola-lavoro, nuovo modo di perder tempo sottraendolo allo studio vero.

Per vari motivi mi è capitato di discutere sulle ragioni e sulle modalità di realizzazione dell’alternanza scuola-lavoro con persone diverse.

In un corso di preparazione per i futuri dirigenti scolastici (docenti aspiranti alla dirigenza) illustravo, al di là della normativa, le ragioni pedagogiche ed economiche dell’alternanza, ma rilevavo anche, con qualche dato alla mano, le difficoltà che la scuola italiana sembra incontrare non solo nel reperire (come tutti sappiamo) le aziende e gli enti con cui entrare in convenzione, ma nell’abbandonare i vecchi schemi culturali che non riescono a superare la separatezza tra teoria e pratica, a concepire il sapere scolastico come sapere funzionale e spendibile, a guardare (ad esempio) alle discipline insegnate nei licei come a chiavi interpretative di fette di realtà, a fare propria insomma una cultura del lavoro come spazio non solo di applicazione di una formazione già maturata e definita, ma spazio esso stesso di formazione, permanente e globale, della persona, nelle dimensioni sia cognitive (intellettuali o pratiche), che relazionali, autoconoscitive, orientative.

Osservavo anche che tali schemi, lungi dall’appartenere solo a disinformati genitori o a docenti recalcitranti e restii al nuovo, caratterizzano talvolta anche le posizioni di intellettuali e docenti universitari, com’è apparso nel recente Appello per la scuola pubblica, firmato appunto da migliaia di docenti, dirigenti, intellettuali variamente impegnati in diversi ambiti della cultura e della ricerca scientifica.

Le mie considerazioni critiche si riferivano alle numerose circostanze in cui, con insegnanti, genitori, alunni, sono stata negli ultimi mesi indotta ad affermare che no, non è l’alternanza a costituire una “perdita di tempo”, ma la cattiva alternanza, quella che non è sostenuta dalla necessaria progettualità, visionarietà, idealità né della scuola né del territorio; quella che è vissuta solo come adempimento di cui dover rendere conto, quella che non è seguita, monitorata, corretta, migliorata nel suo divenire, perché tanto a cosa serve in fondo…

Quella, del resto, che ha spinto altri appelli, altre firme, altre condivisioni sui social, proponendo la sottoscrizione del recente Manifesto per un’alternanza di qualità.

Anche chiacchierando con docenti universitari miei amici, e ascoltando i loro commenti annoiati sulla presenza degli studenti medi nei loro istituti (i ragazzi non sono sufficientemente preparati, non sono neanche in condizioni di utilizzare i laboratori, e le scuole non danno indicazioni, e noi non sappiamo cosa fare, e insomma finisce col diventare una perdita di tempo, ecc. ecc.) avevo provato una forte delusione: anche la chiacchiera più intellettuale, mi sono detto, finisce col segnalare la mancanza di progettualità vuoi nella scuola, vuoi negli istituti universitari (o almeno in alcuni di essi).

Le isole felici, osservavamo con i docenti presenti al corso, non mancano, ma sono pochine: sono passati pochi giorni da quando ho telefonato ad una collega dirigente per chiederle un parere in merito alla legittimità di alcune pratiche che, relative all’alternanza, erano state adottate da un Istituto della Provincia (a me segnalate da qualche genitore). E’ legale tutto ciò? Le avevo chiesto dopo la illustrazione dei fatti. La risposta che mi è stata data, scherzando ma non troppo, è stata strana: è difficile l’uso della parola legalità quando si parla di alternanza scuola – lavoro

La risposta lasciava cioè intendere che molte sono le pratiche di dubbia legalità diffuse nelle scuole riguardo all’alternanza.

Una progettualità nuova e integrata

In questo panorama di chiacchiere e di significati smarriti o mai trovati mi scalda il cuore oggi leggere sul quotidiano della mia città (Quotidiano di Puglia, cronaca di Lecce, 29 gennaio 2018, pagg. 10-11) una notizia che a prima vista è una notizia come tante, non rara nel mare di attività che le scuole ostentano per accaparrare iscrizioni da parte degli studenti della media, o per propagandare il proprio servizio orientativo nei confronti delle scelte universitarie.

Ma questa mi sembra nuova nei contenuti e nei fini. Si tratta di un’intesa tra un Liceo (comprensivo di più indirizzi, il Virgilio-Redi)) e l’Università del Salento. L’Università non è certo nuova alla collaborazione con gli Istituti di II grado, anche in ottica orientativa, ma questa intesa, come sostiene il Rettore su Quotidiano, presenta caratteristiche inedite rispetto alla connessione scuola-università (…) e realizza una forma di orientamento diversa rispetto al solito orientamento divulgativo che prevede la semplice illustrazione della nostra offerta formativa. Il Rettore spiega che in base a questa intesa scuole e università cammineranno insieme, al punto che le attività a cui gli studenti parteciperanno daranno modo di acquisire Cfu spendibili nel percorso universitario.

Il gruppo paritetico che si è formato (docenti medi e universitari di diverse discipline) dovrà ora individuare contenuti e competenze che devono essere potenziate nell’ultimo triennio e in particolare nel monoennio, dice il Dirigente dell’Istituto,  e ricorda che il liceo promotore dell’intesa è sempre stato sensibile al discorso dell’orientamento: dopo il biennio iniziale gli studenti hanno la possibilità di cambiare indirizzo e scegliere tra i dodici attivi qual è quello congeniale al loro talento. Al terzo anno lo studente si confronta con i suoi sogni, le sue idee e il contatto con l’Università è importante per le sue scelte. Il progetto che abbiamo proposto all’Università è la concretizzazione di un orientamento verticale che riduce al minimo gli eventuali errori che uno studente può commettere nella scelta del percorso universitario.

Il progetto prevede che gli studenti, dopo le attività realizzate in contesto universitario, sostengano esami finali che daranno origine a veri Cfu da spendere, in caso di iscrizione presso la stessa Università, nei successivi percorsi di studio.

Il format, come sostiene il rettore, è esportabile appena il progetto sarà definito nei dettagli e approvato dagli Organi collegiali dell’Università e della Scuola.

Secondo alcuni docenti, l’esperienza oltre a favorire l’orientamento e l’acquisizione di competenze specifiche, potrà configurare anche forme di alternanza scuola-lavoro.

Quanto riportato è la cronaca del 29 gennaio.

Dopo aver letto mi capita di pensare che anche se i protagonisti dell’accordo segnalano l’intenzione di realizzare forme di orientamento che superino gli intenti propagandistici, è evidente che il progetto torna “utile”, in termini di immagine e di iscrizioni, sia all’Istituto scolastico che all’Università.

Ma non me ne faccio un cruccio.

Mi piace comunque che l’orientamento aspiri ad una sostanzialità che superi l’informazione e la pubblicità; mi piace che ai ragazzi vengano proposti insegnamenti che più di quelli scolastici avranno i caratteri della scientificità e della specificità semantica e sintattica; che l’approccio a tale specificità cominci fin dal terzo anno, realizzando percorsi strutturalmente e verticalmente orientativi; mi piace che la progettazione didattica venga condivisa dai docenti delle due Istituzioni; che la valutazione venga effettuata dall’ordine superiore e in funzione dei percorsi desiderati; che i ragazzi possano acquisire in tempi distesi, e nel corso dell’esperienza ancora scolastica, punti di vista scientificamente caratterizzati con cui confrontarsi, spendibili nei percorsi di studio e nella interazione con la contemporaneità; mi piace che possano cimentarsi con sfide cognitive capaci di stimolare la conoscenza di sé, la consapevolezza o la scoperta di propri limiti e di propri talenti.

E mi capita di pensare che certo il progetto non basta, né si può ritenerne scontata l’efficacia: le sue potenzialità sono alte, ma i suoi risultati in termini conoscitivi, auto conoscitivi, formativi, orientativi sono legati, come sempre, alla qualità delle azioni che i singoli docenti porranno in essere.

Che l’approccio ai saperi disciplinari si trasformi in autonomia di studio e di ricerca; che le diverse grammatiche vengano utilizzate per interpretare fette della realtà contemporanea; che le esperienze via via vissute diventino oggetto di riflessività in azione, di scoperta metacognitiva, di capacità di scelta: questo probabilmente non sarà scritto nell’intesa, ma costituirà, si auspica, il sostanziale sistema di obiettivi che scuola e università vorranno perseguire.