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Sentenza Consiglio di Stato 29 luglio 2011, n. 4535

Sentenza Consiglio di Stato 29 luglio 2011, n. 4535

 

Riforma della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE III BIS n. 03271/2011, resa tra le parti, concernente ISCRIZIONI ALLE SCUOLE DI ISTRUZIONE SECONDARIA DI SECONDO GRADO RELATIVE ALL’ANNO SCOLASTICO 2010- 2011

Sentenza Corte Costituzionale 20 luglio 2011, n. 242

Sentenza 242/2011

Giudizio

Presidente QUARANTA – Redattore QUARANTA

Udienza Pubblica del 05/07/2011 Decisione del 20/07/2011

Deposito del 25/07/2011 Pubblicazione in G. U.

Norme impugnate: Art. 92, c. 2° bis, della legge della Provincia autonoma di Trento 07/08/2006, n. 5, aggiunto dall’art. 53, c. 4°, della legge della Provincia autonoma di Trento 12/09/2008, n. 16; art. 67, c. 8°, della legge della Provincia autonoma di Trento 28/12/2009, n. 19.

Massime:

Atti decisi: ordd. 251, 320 e 356/2010

 

SENTENZA N. 242

ANNO 2011

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 92, comma 2-bis, della legge della Provincia autonoma di Trento 7 agosto del 2006, n. 5 (Sistema educativo di istruzione e formazione del Trentino), come introdotto dall’articolo 53, comma 4, della legge provinciale 12 settembre 2008, n. 16 (Disposizioni per la formazione dell’assestamento del bilancio annuale 2008 e pluriennale 2008-2010 e per la formazione del bilancio annuale 2009 e pluriennale 2009-2011 della Provincia autonoma di Trento. Legge finanziaria provinciale 2009), dell’articolo 67, comma 8, della legge della Provincia autonoma di Trento 28 dicembre 2009, n. 19 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 2010 e pluriennale 2010-2012 della Provincia autonoma di Trento. Legge finanziaria provinciale 2010), promossi dal Consiglio di Stato con ordinanza del 25 marzo 2010 e dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto Adige, sede di Trento, con due ordinanze del 6 luglio 2010, rispettivamente iscritte ai nn. 251, 320 e 356 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 38, 43 e 47, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visti gli atti di costituzione di C.G. e della Provincia autonoma di Trento.

Udito nell’udienza pubblica del 5 luglio 2011 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;

uditi gli avvocati Giacomo Merlo per C.G. e Giandomenico Falcon per la Provincia autonoma di Trento.

 

Ritenuto in fatto

1.— Il Consiglio di Stato, con ordinanza emessa il 25 marzo 2010, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 4, 16, 51 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, comma 2-bis, della legge della Provincia autonoma di Trento 7 agosto 2006, n. 5 (Sistema educativo di istruzione e formazione del Trentino), come introdotto dall’art. 53, comma 4, della legge provinciale 12 settembre 2008, n. 16 (Disposizioni per la formazione dell’assestamento del bilancio annuale 2008 e pluriennale 2008-2010 e per la formazione del bilancio annuale 2009 e pluriennale 2009-2011 della Provincia autonoma di Trento. Legge finanziaria provinciale 2009), nella parte in cui prevede che, a partire dall’anno scolastico 2009-2010, i docenti iscritti nelle graduatorie ad esaurimento che chiedono l’inserimento in quelle provinciali sono inseriti in posizione subordinata a tutte le fasce.

Il remittente è investito dell’appello proposto da C.G. contro la Provincia di Trento e altri, avverso la sentenza, emessa dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto Adige, sede di Trento, che aveva respinto il ricorso avente ad oggetto il bando relativo alla presentazione delle domande di inserimento nelle graduatorie provinciali di Trento, per titoli, del personale docente.

In particolare, il ricorrente nel giudizio a quo aveva impugnato il suddetto bando nella parte in cui prevedeva, così come la norma oggetto di censura, che «a partire dall’anno scolastico 2009-2010 gli iscritti nelle graduatorie ad esaurimento previste dall’articolo 1, comma 605, lettera c), della legge 27 dicembre 2006, n. 296, che chiedono l’inserimento nelle graduatorie provinciali per titoli sono inseriti nelle medesime in posizione subordinata a tutte le fasce».

1.1.— In punto di rilevanza, il remittente osserva che, per effetto della disposizione sopra riportata, il ricorrente, avendo chiesto l’iscrizione nella graduatoria provinciale di Trento a partire dall’anno scolastico 2009-2010, era stato collocato in posizione subordinata a tutte le fasce in quanto proveniente dalla graduatoria ad esaurimento della Provincia di Verona.

Diversamente, in assenza della contestata norma provinciale, il ricorrente si sarebbe collocato al secondo posto della graduatoria e avrebbe ottenuto per l’anno scolastico 2009-2010 un incarico annuale di insegnamento.

A parere del giudice a quo la rilevanza della questione non viene meno per effetto della successiva entrata in vigore dell’art. 66 della legge della Provincia autonoma di Trento 28 marzo 2009, n. 2 (Disposizioni per l’assestamento del bilancio annuale 2009 e pluriennale 2009-2011 della Provincia autonoma di Trento. Legge finanziaria di assestamento 2009). Tale disposizione nel prevedere – in deroga all’art. 92, comma 2, lettera b), della legge provinciale 7 agosto 2006, n. 5 (Sistema educativo di istruzione e formazione del Trentino) – l’aggiornamento delle graduatorie della Provincia di Trento, valevoli per il quadriennio 2009-2013, già dopo il primo anno di validità, stabilisce che questo avvenga inserendo gli aspiranti docenti e riconoscendo loro i punteggi attribuiti e i titoli posseduti.

Il giudice a quo osserva, infatti, che l’oggetto del giudizio riguarda l’inserimento in graduatoria per l’anno scolastico 2009-2010, laddove l’aggiornamento previsto dall’art. 66 potrà eventualmente consentire al ricorrente di avere un diverso inserimento a partire dall’anno scolastico 2010-2011.

1.2.— In punto di non manifesta infondatezza, il Consiglio di Stato ritiene che l’art. 92, comma 2-bis, nello stabilire l’inserimento in fondo alla graduatoria dei docenti provenienti da altre province indipendentemente dal punteggio da essi posseduto, determina una ingiustificata disparità di trattamento tra docenti con i medesimi requisiti che si fonda solo sulla diversa provincia di loro iscrizione.

La norma censurata si porrebbe, poi, in conflitto anche con il principio di buon andamento di cui all’art. 97 della Costituzione, in quanto esso, in relazione al sistema dell’insegnamento scolastico, è assicurato da sistemi di reclutamento fondati su criteri obiettivi e ragionevoli di scelta dei docenti che privilegiano il merito. L’art. 92, comma 2-bis, non terrebbe conto di tali principi, dando preferenza a docenti aventi un minore punteggio di merito, rispetto a chi ha un punteggio superiore ma proviene da una graduatoria di un’altra provincia.

La disciplina censurata contrasterebbe, poi, con l’art. 4 della Costituzione, in quanto i docenti provenienti da una provincia diversa da quella di Trento sarebbero costretti ad un anno di inattività, corrispondente all’anno scolastico 2009-2010, potendo essere inseriti nelle graduatorie trentine secondo il punteggio di merito solo a partire dall’anno successivo.

Ulteriormente lesi risulterebbero anche il diritto di ogni cittadino di circolare liberamente nel territorio nazionale e quello di accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, dovendo nel caso specifico valere i criteri attinenti ai profili attitudinali e di idoneità e non quelli della provenienza dalla graduatoria di una determinata provincia.

2.— Si è costituito in giudizio l’appellante nel giudizio principale chiedendo l’accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale.

La parte privata, nel ribadire sostanzialmente i motivi posti a fondamento dell’ordinanza di remissione, ritiene irrilevante la circostanza che le graduatorie trentine per il conferimento di incarichi di docenza sono soggette ad una disciplina del tutto peculiare rispetto a quella prevista per le analoghe graduatorie nazionali.

3.— Si è costituita in giudizio la Provincia autonoma di Trento chiedendo che la Corte dichiari inammissibile o infondata la questione di legittimità costituzionale sollevate dal Consiglio di Stato, riservandosi con una successiva memoria di indicare le ragioni di tali richieste.

4.— In prossimità dell’udienza la Provincia ha depositato una memoria con la quale ha illustrato le motivazioni poste a fondamento delle indicate richieste.

La premessa da cui muove la Provincia autonoma di Trento è che, in ragione della propria competenza legislativa concorrente in materia di istruzione e della peculiarità del suo territorio, il legislatore provinciale si è posto l’obiettivo di perseguire la continuità didattica mediante una specifica disciplina che favorisce la maggiore permanenza possibile dei docenti nella Provincia.

Tali esigenze trovano espressione nella legge prov. n. 5 del 2006 che, nel prevedere le graduatorie provinciali del personale docente, ha introdotto dei criteri in ordine alla loro formazione del tutto peculiari rispetto a quanto previsto per le analoghe graduatorie nazionali. In particolare, se le prime hanno una validità quadriennale con aggiornamento biennale, quelle statali sono permanenti e, dal 2006, ad esaurimento; la Provincia, inoltre, attribuisce i diversi punteggi ai docenti sulla base di proprie tabelle di valutazione dei titoli.

4.1.— Alla luce di tali premesse, la Provincia autonoma di Trento, in via preliminare, ritiene che la questione di legittimità sollevata difetti del requisito della rilevanza, non avendo il remittente affrontato l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata nel giudizio principale dalla Provincia e potendo il suo esame pregiudicare l’accesso al merito dello stesso.

4.2.— Oltre a ciò la questione risulterebbe priva del carattere dell’incidentalità, in quanto il ricorrente nel giudizio principale ha impugnato il bando di concorso, meramente riproduttivo della norma oggetto del giudizio di costituzionalità, di talché il ricorso avrebbe ad oggetto sostanzialmente quest’ultima e non un atto che si possa definire applicativo di essa, quale avrebbe potuto essere la graduatoria redatta ai sensi del suddetto bando.

4.3.— Nel merito, la Provincia ritiene le censure non fondate.

Quanto all’art. 3 della Costituzione, la Provincia ritiene che le situazioni poste a raffronto non sono uguali, tenuto conto della diversa disciplina che regola le graduatorie trentine da quelle nazionali.

Il remittente, infatti, avrebbe posto sullo stesso piano il docente iscritto in una graduatoria provinciale nazionale che chiede il trasferimento in quelle trentine rispetto al docente che in queste ultime vi è già iscritto.

Tale assunto non tiene conto del fatto che se di regola l’iscrizione in una provincia dipende dal collegamento del docente con quella determinata zona, è altresì vero che molti docenti iscritti nelle graduatorie nazionali chiedono il passaggio in quelle trentine al solo fine di conseguire una più rapida immissione in ruolo, salvo poi tornare nei luoghi di originario radicamento. Oltre a ciò, l’iscrizione nelle graduatorie trentine comporta l’impossibilità di iscriversi nelle altre, laddove tale preclusione non opera a livello nazionale, dove è possibile iscriversi contemporaneamente in quattro province.

Quanto alla presunta violazione dell’art. 97 della Costituzione, la Provincia rileva che il criterio del merito trova comunque dei temperamenti. Sul punto esemplificativa è la circostanza che le graduatorie dei docenti sono organizzate in tre fasce e che i docenti iscritti nella terza, seppur in possesso di maggiori titoli, non possono sopravanzare quelli iscritti nelle prime due.

La norma censurata avrebbe operato in tal senso e, bilanciando il criterio del merito con l’esigenza di assicurare la continuità didattica, ha posto, in via temporanea, in coda alla terza fascia, i docenti provenienti da un’altra provincia.

La Provincia autonoma di Trento osserva, infine, di provvedere al conferimento degli incarichi di docenza sia attraverso le suddette graduatorie, sia mediante concorso pubblico, secondo quanto previsto dall’art. 399 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado), che riserva a quest’ultimo il 50% dei posti vacanti.

Quanto alla presunta violazione degli artt. 4, 16 e 51 della Costituzione, la Provincia ritiene inconferente il richiamo all’art. 16 della Costituzione, in quanto il collocamento in coda non si traduce in una limitazione della libertà di circolazione delle persone; per quanto attiene agli altri parametri, l’infondatezza delle censure risiederebbe nel carattere temporaneo della norma impugnata, essendo assicurato il diritto al lavoro degli aspiranti docenti dal rinnovo periodico delle graduatorie e dal loro carattere aperto.

La Provincia conclude ritenendo non applicabili al caso di specie le affermazioni contenute nella sentenza di questa Corte n. 41 del 2011, con la quale è stato dichiarato incostituzionale l’art. 1, comma 4-ter, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 134 (Disposizioni urgenti per garantire la continuità del servizio scolastico ed educativo per l’anno 2009-2010), aggiunto dalla legge di conversione 24 novembre 2009, n. 167, che prevedeva l’inserimento in coda dei docenti che chiedevano l’iscrizione in una graduatoria diversa da quella di provenienza.

Tale disciplina, infatti, oltre a riguardare i mutamenti di graduatoria tra province ordinarie e, dunque, omogenee tra loro, aveva una portata retroattiva ed un effetto limitato all’aggiornamento delle graduatorie statali valevole per il biennio 2009-2011.

5.— Anche l’appellante nel giudizio a quo ha presentato, in prossimità dell’udienza, una memoria con la quale insiste nel chiedere l’accoglimento della questione sollevata sulla base di quanto affermato dalla Corte nella sentenza n. 41 del 2011 che ha dichiarato incostituzionale una norma statale che si assume analoga a quella oggetto del presente giudizio.

6.— Il Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto Adige, sede di Trento, con ordinanza emessa il 6 luglio 2010, iscritta al r.o. n. 320 del 2010, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 67, comma 8, della legge della Provincia autonoma di Trento 28 dicembre 2009, n. 19 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 2010 e pluriennale 2010-2012 della Provincia autonoma di Trento. Legge finanziaria provinciale 2010), nella parte in cui stabilisce, in occasione dell’aggiornamento straordinario delle graduatorie provinciali da effettuarsi nel 2010, l’attribuzione di quaranta punti per il servizio prestato per tre anni scolastici continuativi nelle scuole provinciali, prevedendo, nel contempo, che tale punteggio sia riconosciuto per un massimo di quattro volte, purché il servizio sia stato prestato per almeno sei mesi per anno.

Il giudice a quo è investito del ricorso proposto da F. C., insegnante elementare iscritta nelle graduatorie per titoli della Provincia autonoma di Trento valevoli per gli anni 2009-2013, con il quale si chiede l’annullamento della deliberazione della Giunta provinciale 15 gennaio 2010, n. 14, del bando dalla stessa approvato relativo «all’aggiornamento straordinario delle graduatorie provinciali per titoli del personale docente formate per gli anni scolastici 2009-2010, 2010-2011, 2011-2012 e 2012-2013. Termini e modalità di presentazione delle domande», pubblicato il 25 gennaio 2010, e della graduatoria provvisoria medio tempore pubblicata.

Il remittente riferisce che la ricorrente, dopo aver presentato domanda per l’inserimento nelle graduatorie provinciali degli insegnanti per gli anni 2010-2013, ha impugnato il suddetto bando nella parte in cui riproduce il testo della norma censurata.

6.1.— In punto di rilevanza, il remittente osserva che a seguito dell’assegnazione dei punteggi sopra indicati la ricorrente è arretrata di 39 posti rispetto alla sua originaria posizione con il conseguente superamento da parte di 82 insegnanti.

6.2.— In punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale amministrativo nel rilevare che il principio della continuità didattica, quale strumento volto a garantire l’efficacia del sistema scolastico, si concretizza mediante la presenza stabile di un corpo docente che permette il migliore sviluppo degli studenti, osserva che esso assume una peculiare importanza nella Provincia di Trento le cui graduatorie, nel consentire un più facile accesso ad incarichi di docenza, si caratterizzano per l’iscrizione di numerosi docenti provenienti dalle altre province che, subito dopo aver ottenuto un incarico di docenza, fanno ritorno nei luoghi di originaria provenienza.

Proprio al fine di garantire il principio sopra indicato la Provincia autonoma di Trento nell’ambito della sua competenza in materia di istruzione, con la legge prov. n. 5 del 2006, ha stabilito i criteri direttivi validi per la formazione e l’utilizzo delle graduatorie provinciali rimettendo per la concreta disciplina di esse ad una fonte regolamentare (art. 92).

Il remittente rileva che dalla lettura di tali criteri risulta che le graduatorie in esame sono del tutto differenti da quelle nazionali. Esse permettono l’iscrizione di nuovi aspiranti docenti, mentre quelle nazionali sono ad esaurimento, durano quattro anni con possibilità di aggiornamento biennale del punteggio (quanto ai titoli medio tempore conseguiti dai docenti) e, infine, contemplano l’attribuzione dei punteggi sulla base di apposite tabelle di valutazione dei titoli che, nel fare salvi sia i titoli che i requisiti d’accesso validi sul territorio nazionale, valorizzano ulteriori fattori quali la continuità di servizio nelle scuole della provincia.

In particolare, l’art. 92, comma 2, lettera e), della legge prov. n. 5 del 2006 stabilisce che «per il servizio effettivamente prestato con continuità per periodi non inferiori a tre anni nelle scuole di ogni ordine e grado operanti sul territorio provinciale è attribuito uno specifico punteggio».

In applicazione di tale previsione il decreto del Presidente della Provincia 28 dicembre 2006, n. 27-80/Leg (Regolamento per la formazione e per l’utilizzo delle graduatorie provinciali, per titoli, del personale docente delle scuole provinciali a carattere statale della provincia di Trento – articolo 92 della legge provinciale 7 agosto 2006, n. 5), ha previsto l’attribuzione di 15 punti per «il servizio effettivamente prestato per cinque anni scolastici continuativi nelle scuole provinciali a carattere statale, paritarie, legalmente riconosciute, pareggiate o parificate del territorio provinciale», precisando che detto punteggio è «riconosciuto per un massimo di due volte e purché il servizio sia stato prestato per almeno 6 mesi per anno».

Ad innovare tale disciplina, sulla cui base si sono formate le graduatorie quadriennali 2009-2013, è intervenuto, dapprima, l’art. 66 della legge prov. n. 2 del 2009, con il quale si è previsto il loro aggiornamento straordinario dopo il primo anno di validità e, successivamente, la norma censurata con la quale il legislatore provinciale ha modificato le modalità di attribuzione del punteggio riconosciuto per la continuità didattica nel modo sopra indicato.

Tanto premesso, il giudice a quo ritiene che la norma censurata violerebbe il principio di ragionevolezza, in quanto essa si pone in rapporto di discontinuità con la disciplina previgente che prevedeva l’attribuzione, per un massimo di due volte, di 15 punti per il servizio svolto dai docenti presso le scuole della Provincia per periodi di cinque anni. L’art. 67, comma 8, infatti, assegna, per il solo aggiornamento straordinario delle graduatorie provinciali del 2010, quaranta punti per il servizio continuativo svolto in qualsivoglia scuola provinciale per tre anni scolastici, con la possibilità che esso sia attribuito per un massimo di quattro volte.

Osserva, poi, il remittente che tale punteggio sarebbe sproporzionato rispetto a quelli previsti per i diversi titoli professionali in possesso dei docenti che chiedono l’iscrizione nelle suddette graduatorie, evidenziando ciò un ulteriore aspetto di irragionevolezza della norma censurata la quale, a differenza di quanto in precedenza previsto dal legislatore provinciale, privilegia il mero dato della permanenza nella Provincia pregiudicando quello della professionalità.

Il remittente ritiene, infine, che la norma censurata contrasti anche con il principio di buon andamento dell’amministrazione, di cui all’art. 97 della Costituzione.

Il Tribunale amministrativo, dopo aver rilevato che lo strumento più utilizzato per l’attribuzione degli incarichi di docenza è quello delle graduatorie provinciali, ritiene che la norma censurata nell’attribuire il punteggio sopra indicato in modo indifferenziato a tutti i docenti e, quindi, anche a quelli che hanno prestato servizio presso istituti ove la stipula del contratto di assunzione non è subordinata a principi di evidenza pubblica, consente a questi ultimi il conseguimento di posizioni di vertice all’interno delle graduatorie scolastiche pur potendo essere stati reclutati sulla base di un parametro diverso da quello meritocratico.

7.— Si è costituita in giudizio la Provincia autonoma di Trento chiedendo che la Corte dichiari inammissibili o infondate le sollevate questioni di legittimità costituzionale.

8.— In prossimità dell’udienza, la Provincia autonoma di Trento ha depositato una memoria con la quale ha illustrato i motivi posti a fondamento delle indicate richieste.

8.1.— In via preliminare, la Provincia ritiene la censura relativa alla presunta violazione dell’art. 3 della Costituzione, generica e contraddittoria, in quanto il remittente, pur rilevando che la norma impugnata si applica solo in sede di aggiornamento delle graduatorie per l’anno 2010, ritiene, poi, senza specifica motivazione, che gli effetti di essa si protrarranno nel tempo senza tener conto che le suddette graduatorie hanno, comunque, una validità di quattro anni.

Priva di rilevanza sarebbe, poi, la questione relativa alla presunta violazione del principio di uguaglianza e ciò perché la lesione del suddetto principio, oltre a non rientrare tra i motivi posti a fondamento del ricorso proposto nel giudizio principale, risulta sfornita di ogni motivazione.

Sempre in via preliminare, la Provincia di Trento osserva che la ricorrente nel giudizio principale impugna l’art. 1, comma 2, del bando di concorso che prevede l’assegnazione di 40 punti per il servizio prestato nella Provincia e, dunque, che rispetto ad esso risulterebbe estranea la disposizione censurata, la quale ne limita l’applicazione all’aggiornamento straordinario del 2010.

Infine, anche la questione relativa alla presunta violazione dell’art. 97 della Costituzione sarebbe inammissibile, in quanto il ricorso oggetto di esame da parte del remittente non indica la violazione del principio del pubblico concorso.

8.2.— Nel merito, le censure sarebbero infondate in quanto la norma censurata ha la sua ratio nell’esigenza di tutelare il principio della continuità didattica che, nell’ambito della Provincia di Trento, assume un ruolo peculiare.

Quest’ultimo è, infatti, nell’ambito della legislazione provinciale, oggetto di una peculiare disciplina e ciò perché la Provincia di Trento sarebbe esposta, quanto al tema dell’attribuzione delle docenze scolastiche, ad un fenomeno di continui ingressi (facilitati dall’ampia possibilità di posti disponibili) e successive uscite del corpo docente (dovuti alla scomodità della sede).

Sulla base di tali premesse, la Provincia di Trento ritiene la questione relativa alla presunta violazione dell’art. 3 della Costituzione non fondata, in quanto la norma censurata, oltre a non avere carattere retroattivo, è il risultato della discrezionalità di cui gode il legislatore provinciale, che si sarebbe limitato a prevedere i criteri di valutazione dei titoli già posseduti dai docenti, criteri che pongono quest’ultimi in posizione di assoluta parità.

Per quanto riguarda la violazione dell’art. 97 della Costituzione, sarebbe sufficiente osservare che la norma censurata non disciplina l’immissione in ruolo dei docenti ma regola i criteri di formazione delle graduatorie che rappresentano, unitamente alle procedure concorsuali, solo uno degli strumenti mediante i quali la Provincia di Trento conferisce gli incarichi di docenza.

9.— Il Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto Adige, sede di Trento, con ordinanza emessa il 6 luglio 2010, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 67, comma 8, della legge della Provincia autonoma di Trento 28 dicembre 2009, n. 19, nella parte in cui prevede, in sede dell’aggiornamento straordinario delle graduatorie provinciali da effettuarsi nel 2010, l’attribuzione di quaranta punti – rinnovabile per un massimo di quattro volte – per il servizio prestato per tre anni scolastici continuativi nelle scuole provinciali.

Il Tribunale remittente è investito del ricorso proposto dall’A.N.I.E.F. (Associazione Nazionale Insegnanti Educatori in Formazione) e da vari docenti contro la Provincia autonoma di Trento, per l’annullamento della deliberazione della Giunta provinciale e del bando di concorso con la stessa approvato, già oggetto di impugnazione nel giudizio di cui all’ordinanza r.o. n. 320 del 2010.

Nel giudizio principale è anche impugnata la determinazione del Dirigente del Servizio per la gestione risorse umane scuola e F.P. n. 125 del 15 giugno 2010, avente ad oggetto l’«Approvazione e pubblicazione delle graduatorie provinciali per titoli provvisorie del personale docente per il quadriennio 2009-2013»,

In punto di fatto, il giudice a quo riferisce che i ricorrenti, docenti abilitati per diverse classi di concorso, sono iscritti nella terza fascia delle graduatorie per titoli della Provincia di Trento valevoli per gli anni dal 2009 al 2013 e che, in ragione di ciò, hanno presentato la domanda di inserimento nelle graduatorie provinciali per il quadriennio 2010-2013 secondo le procedure stabilite dal bando sopra indicato.

In particolare, i ricorrenti impugnavano quest’ultimo nella parte in cui attribuiva «quaranta punti per il servizio effettivamente prestato per tre anni scolastici continuativi nelle scuole provinciali a carattere statale, paritarie, legalmente riconosciute, pareggiate o parificate del Trentino; tale punteggio è riconosciuto per un massimo di quattro volte e purché il servizio sia stato prestato per almeno sei mesi per anno» (art. 9, comma 1) e stabiliva che «gli aspiranti docenti che non presentano la domanda di aggiornamento conservano il punteggio posseduto, fatta salva la rideterminazione del punteggio attribuito per il servizio effettivamente prestato con continuità ai sensi del comma 1 dell’art. 9» (art. 1, comma 2).

Tale criterio di formazione delle graduatorie, pedissequa applicazione dell’art. 67, comma 8, della legge provinciale n. 19 del 2009, a parere dei ricorrenti sarebbe illegittimo, in quanto in contrasto, tra l’altro, con il principio meritocratico che, nell’attribuire i punteggi ai docenti, tiene conto del loro patrimonio culturale, rappresentato dai titoli di studio e dall’esperienza da essi maturata.

10.— In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che per effetto della norma censurata i ricorrenti si sono visti superare in graduatoria da altri insegnanti in possesso di una maggiore continuità di servizio nella Provincia autonoma di Trento, mentre con il sistema previgente, ove tale requisito incideva in misura inferiore, essi si sarebbero collocati in posizioni migliori rispetto alle attuali con la possibilità di conseguire la nomina in ruolo e, prima ancora, la priorità nella scelta della sede di lavoro.

11.— In punto di non manifesta infondatezza, l’ordinanza prospetta motivazioni del tutto identiche a quelle contenute nell’ordinanza iscritta al r.o. n. 320 del 2010.

12.— Si è costituita in giudizio la Provincia autonoma di Trento chiedendo, con motivazioni sostanzialmente identiche a quelle contenute nella memoria relativa al giudizio che trae origine dall’ordinanza r.o. n. 320 del 2010, che la Corte dichiari inammissibili o infondate le sollevate questioni.

In particolare, in via preliminare, la Provincia solleva una specifica eccezione di inammissibilità rispetto a quelle sopra illustrate e afferente il presunto contrasto della norma censurata con l’art. 3 della Costituzione in ragione della sua retroattività. Tale censura sarebbe carente del requisito della rilevanza in quanto l’art. 67, comma 8, disciplina fattispecie successive alla sua entrata in vigore, incidendo sui criteri che devono essere utilizzati nell’aggiornamento straordinario previsto dall’art. 66 della legge provinciale n. 2 del 2009. Oltre a ciò assumerebbe rilievo la circostanza che tale aspetto non rientra tra i motivi proposti nei ricorsi che hanno dato avvio al giudizio principale.

 

Considerato in diritto

1.— Il Consiglio di Stato dubita, in relazione agli articoli 3, 4, 16, 51 e 97 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 92, comma 2-bis, della legge della Provincia autonoma di Trento 7 agosto 2006, n. 5 (Sistema educativo di istruzione e formazione del Trentino), come introdotto dall’art. 53, comma 4, della legge provinciale 12 settembre 2008, n. 16 (Disposizioni per la formazione dell’assestamento del bilancio annuale 2008 e pluriennale 2008-2010 e per la formazione del bilancio annuale 2009 e pluriennale 2009-2011 della Provincia autonoma di Trento. Legge finanziaria provinciale 2009), nella parte in cui prevede che, a partire dall’anno scolastico 2009-2010, i docenti iscritti nelle graduatorie ad esaurimento che chiedono l’inserimento in quelle provinciali sono inseriti in posizione subordinata a tutte le fasce.

1.1.— In punto di fatto, il remittente rileva che – per effetto della disposizione sopra riportata – il ricorrente nel giudizio a quo, avendo chiesto l’iscrizione nella graduatoria provinciale di Trento a partire dall’anno scolastico 2009-2010, era stato collocato in posizione subordinata a tutte le fasce, in quanto proveniente dalla graduatoria ad esaurimento della Provincia di Verona. In assenza della contestata norma provinciale, per contro, egli si sarebbe, invece, collocato al secondo posto e avrebbe ottenuto per l’anno scolastico 2009-2010 un incarico annuale di insegnamento.

Di qui, pertanto, l’impugnativa del bando di concorso.

2.— Il Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto Adige, sede di Trento, con due ordinanze emesse nel corso di due distinti giudizi, dubita, in relazione agli artt. 3 e 97 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 67, comma 8, della legge della Provincia autonoma di Trento 28 dicembre 2009, n. 19 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 2010 e pluriennale 2010-2012 della Provincia autonoma di Trento. Legge finanziaria provinciale 2010), nella parte in cui prevede, in sede dell’aggiornamento straordinario delle graduatorie provinciali da effettuarsi nel 2010, l’attribuzione di quaranta punti – rinnovabile per un massimo di quattro volte – per il servizio prestato per tre anni scolastici continuativi nelle scuole provinciali.

2.1.— Anche tali giudizi principali hanno ad oggetto l’impugnazione da parte di vari docenti dei bandi di concorso che, in conformità con quanto previsto dalle diposizioni provinciali sopra indicate, hanno determinato la collocazione dei ricorrenti nelle graduatorie provinciali in coda a tutte le posizioni o, comunque, in un posto deteriore rispetto a quello originariamente occupato.

3.— In ragione dell’omogeneità della materia i predetti giudizi devono essere riuniti per essere decisi con un’unica sentenza.

4.— Prima di esaminare le singole censure, è opportuno rilevare che esse investono norme che si collocano nella più ampia disciplina contenuta nella legge provinciale 7 agosto 2006, n. 5 (Sistema educativo di istruzione e formazione del Trentino), con la quale la Provincia autonoma di Trento, nell’ambito della propria competenza legislativa concorrente in materia di istruzione, ha definito i criteri validi nel suddetto ambito.

In particolare, l’art. 92, per quanto attiene alle graduatorie provinciali per titoli del personale docente, stabilisce che:

– hanno durata di quattro anni e sono soggette ad aggiornamento con periodicità biennale al fine di permettere ai docenti di far valere eventuali titoli conseguiti nel suddetto periodo (comma 2, lettera b);

– sono formate sulla base dei punteggi attribuiti in relazione ai titoli posseduti e ai servizi prestati in attività di insegnamento secondo i criteri definiti da un successivo regolamento (comma 2, lettera d);

– per il servizio effettivamente prestato con continuità per periodi non inferiori a tre anni nelle scuole di ogni ordine e grado operanti sul territorio provinciale è attribuito uno specifico punteggio; sono inoltre previsti i casi secondo i quali il servizio è prestato con continuità (comma 2, lettera e).

Per tale ultimo aspetto, l’art. 92 rimette la concreta determinazione dei modi e del calcolo di attribuzione dei punteggi, ad un regolamento, che è stato successivamente adottato con decreto del Presidente della Provincia n. 27-80/Leg del 2006, il quale prevede l’attribuzione di quindici punti per «il servizio effettivamente prestato per cinque anni scolastici continuativi nelle scuole provinciali a carattere statale paritarie, legalmente riconosciute, pareggiate o parificate del territorio provinciale». Tale punteggio è «riconosciuto per un massimo di due volte e purché il servizio sia stato prestato per almeno 6 mesi per anno».

Su tale disciplina generale il legislatore provinciale è intervenuto con le norme censurate, incidendo due volte sulle graduatorie dei docenti valide per il periodo 2009-2013.

Per effetto del primo intervento (prima norma censurata) è stato introdotto il comma 2-bis all’art. 92 secondo il quale, in deroga al principio del merito, i docenti che nell’anno 2009 chiedevano di essere iscritti nelle graduatorie trentine provenienti da altre province venivano collocati in coda alle stesse.

Con un successivo intervento (seconda norma censurata) si è previsto che, in occasione dell’aggiornamento eccezionale delle indicate graduatorie da effettuarsi nel 2010 (previsto dall’art. 66 della legge della Provincia di Trento 28 marzo 2009, n. 2, recante «Disposizioni per l’assestamento del bilancio annuale 2009 e pluriennale 2009-2011 della Provincia autonoma di Trento. Legge finanziaria di assestamento 2009») e, quindi, un anno prima rispetto alla cadenza biennale sopra riportata, chi abbia prestato per tre anni consecutivi servizio nelle scuole della Provincia ha diritto a quaranta punti, concedibili fino ad un massimo di quattro volte.

Dalle norme censurate consegue che, se un docente chiede di essere immesso nelle graduatorie trentine nell’anno della loro formazione, cioè nel 2009, viene collocato in coda e, a seguito del loro aggiornamento previsto l’anno successivo (2010), si vedrà scavalcato da chi vi è iscritto da più tempo, il quale può ottenere quaranta punti.

L’art. 92, comma 2-bis, della legge provinciale n. 5 del 2006 e l’art. 67, comma 8, della legge provinciale n. 19 del 2009 si pongono, quindi, in rapporto di stretto collegamento tra loro, in quanto accomunati dalla medesima ratio di scoraggiare l’ingresso nelle graduatorie trentine dei docenti provenienti da altre Province.

Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, nell’ambito del quale si collocano le disposizioni censurate, si possono affrontare le censure sollevate dai remittenti.

5.— La prima questione ha ad oggetto l’art. 92, comma 2-bis, della legge provinciale di Trento n. 5 del 2006.

Il Consiglio di Stato ritiene che esso violi l’art. 3 Cost, in quanto, nel prevedere l’inserimento in fondo alla graduatoria dei docenti provenienti da altre province indipendentemente dal punteggio da loro posseduto, determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra docenti con i medesimi requisiti, fondata sulla diversa provincia di loro provenienza.

Sarebbe, altresì, violato l’art. 4 Cost. in quanto i docenti provenienti da una provincia diversa da quella di Trento sarebbero costretti, per l’anno scolastico 2009-2010, ad un periodo di inattività, potendo solo successivamente essere inseriti nelle graduatorie trentine in base al punteggio di merito.

Altro profilo di censura attiene, poi, al presunto contrasto della norma provinciale con gli artt. 16 e 51 Cost., in quanto essa limiterebbe il diritto di ogni cittadino di circolare liberamente nel territorio nazionale e di accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, dovendo nel caso specifico valere i criteri attinenti ai profili attitudinali e di idoneità e non quelli della provenienza dalla graduatoria di una determinata provincia.

Infine, sarebbe leso l’art. 97 Cost., fondandosi l’insegnamento scolastico su sistemi di reclutamento del personale docente che ne privilegiano la professionalità e non il luogo di provenienza.

6.— In via preliminare, vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla Provincia autonoma di Trento.

6.1.— In primo luogo, la Provincia ritiene la questione irrilevante, in quanto il remittente, pur dandone conto, non avrebbe motivato sull’eccezione di inammissibilità del ricorso proposta nel giudizio principale, potendo il suo esame pregiudicare l’accesso al merito dello stesso.

Tale eccezione deve essere disattesa, stante la sua natura meramente processuale e quindi risultando la definizione della stessa rimessa al giudice di merito, salvo il limite estremo della manifesta implausibilità della motivazione offerta da quest’ultimo sui punti controversi.

Nel giudizio di costituzionalità ciò che rileva è, infatti, la valutazione formulata dal remittente in ordine alla ritenuta impossibilità di definire il processo principale, indipendentemente dalla soluzione della questione sollevata, potendo la Corte interferire su tale valutazione solo se essa, a prima vista, appare assolutamente priva di fondamento; circostanza, questa, che non ricorre nel caso di specie.

6.2.— Altra eccezione di inammissibilità sollevata dalla Provincia resistente attiene al difetto di incidentalità della questione, in quanto, seppure sia formalmente impugnato nel giudizio a quo il bando di concorso che regola l’accesso nelle graduatorie provinciali di Trento, esso, poiché meramente riproduttivo e non attuativo della norma censurata, fa sì che il ricorso avrebbe ad oggetto sostanzialmente quest’ultima.

Anche tale eccezione non è fondata, «in quanto il controllo della Corte costituzionale, ai fini dell’ammissibilità della questione di legittimità ex art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, va limitato all’adeguatezza delle motivazioni in ordine ai presupposti in base ai quali il giudizio a quo possa dirsi concretamente ed effettivamente instaurato, con un proprio oggetto, vale a dire un petitum, separato e distinto dalla questione di legittimità costituzionale, sul quale il giudice remittente sia chiamato a decidere» (così, ex multis, sentenza n. 263 del 1994).

Nella specie tale petitum distinto e separato è costituito, appunto, dall’impugnativa del bando.

7.— Nel merito, la questione è fondata.

La norma censurata dispone che «a partire dall’anno scolastico 2009-2010 gli iscritti nelle graduatorie ad esaurimento previste dall’articolo 1, comma 605, lettera c), della legge 27 dicembre 2006, n. 296, che chiedono l’inserimento nelle graduatorie provinciali per titoli sono inseriti nelle medesime in posizione subordinata a tutte le fasce».

Tale norma, nell’utilizzare il mero dato formale della maggiore anzianità di iscrizione nelle suddette graduatorie, al fine della attribuzione al suo interno la relativa posizione, pone una deroga al principio previsto dallo stesso art. 92, comma 2, secondo il quale i docenti risultano inseriti tenuto conto dei titoli professionali posseduti.

Una simile disciplina non può superare il vaglio di ragionevolezza, in quanto la suddetta deroga comporta il totale sacrificio del principio del merito posto a fondamento della procedura di reclutamento dei docenti quale strumento volto a garantire, per quanto possibile, la migliore formazione scolastica (sentenza n. 41 del 2011).

8.— La seconda questione ha ad oggetto l’art. 67, comma 8, della legge provinciale di Trento n. 19 del 2009.

Il Tribunale regionale remittente ritiene che tale norma violi l’art. 3 della Costituzione, in quanto il punteggio da essa previsto introduce una modalità di riconoscimento del servizio prestato nella Provincia di Trento che si pone in netta discontinuità rispetto alla disciplina previgente e che, inoltre, vale per il solo aggiornamento straordinario 2010.

La norma censurata contrasterebbe, poi, con l’art. 97 della Costituzione, in quanto il suddetto punteggio è assegnato a tutti i docenti e, quindi, anche a quelli che provengono da istituti ove l’assunzione non è subordinata ai principi di evidenza pubblica, così da consentire agli interessati il conseguimento di posizioni di vertice all’interno delle graduatorie scolastiche, anche se siano stati reclutati sulla base di un parametro diverso da quello meritocratico.

9.— In via preliminare, vanno esaminate le eccezione di inammissibilità sollevate dalla resistente Provincia.

9.1.— Con una prima eccezione, la Provincia ritiene che la questione relativa alla presunta violazione dell’art. 3 Cost. sia stata sollevata in modo generico e contraddittorio, non avendo il remittente chiarito se la norma censurata produca i suoi effetti solo in occasione dell’aggiornamento delle graduatorie previsto per il 2010 o anche per quelli successivi.

L’eccezione non è fondata.

Dalla lettura delle ordinanze di remissione si evince, infatti, che l’art. 67, comma 8, della legge provinciale di Trento n. 19 del 2009, sarebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto introdurrebbe una modalità di riconoscimento del servizio prestato in continuità didattica presso la provincia che si porrebbe in contrasto con il precedente e che si applicherebbe solo per l’aggiornamento straordinario del 2010, tornandosi ad applicare, successivamente, la disciplina stabilita dall’art. 92, comma 2, lettera e), della legge provinciale n. 5 del 2006, oggetto di deroga da parte della norma censurata.

9.2.— La Provincia autonoma di Trento ritiene, poi, le censure relative alla presunta violazione del principio di uguaglianza e di buon andamento della pubblica amministrazione inammissibili per difetto di rilevanza, in quanto non contenute nei ricorsi proposti nei giudizi principali.

L’eccezione non è fondata.

Anche per tale eccezione valgono le considerazioni sopra riportate.

9.3.— La stessa Provincia rileva, poi, che la ricorrente nel giudizio iscritto al r.o. n. 320 del 2010 ha impugnato il bando nella parte in cui esso prevede l’attribuzione di quaranta punti ai docenti che hanno prestato servizio nella Provincia, risultando tale aspetto del tutto estraneo a quanto previsto dalla norma censurata, che limita l’applicazione del suddetto punteggio all’aggiornamento straordinario delle graduatorie trentine da compiersi nell’anno 2010, con la conseguenza che di essa il remittente non deve fare applicazione.

L’eccezione non è fondata.

Sul punto è sufficiente rilevare come dalla ordinanza di remissione emerga con chiarezza il thema dedidendum che deve affrontare il remittente e come, rispetto ad esso, sia preliminare la decisione in ordine alla questione di costituzionalità sollevata, dipendendo proprio dall’applicazione della norma censurata la soluzione del giudizio di cui è investito.

9.4.— Infine, la Provincia di Trento ritiene non rilevante la censura proposta per presunta violazione dell’art. 3 Cost., da parte dell’art. 67, comma 8, della legge provinciale di Trento n. 19 del 2009, in ragione della sua portata retroattiva. Ciò in quanto tale aspetto non rientra tra i motivi proposti dai ricorrenti nel giudizio che origina dall’ordinanza iscritta al r.o. n. 356 del 2010, risultando, comunque, la norma censurata destinata a disciplinare fattispecie successive alla sua entrata in vigore ed incidendo, così, sui criteri che devono essere utilizzati nell’aggiornamento straordinario previsto dall’art. 66 della legge provinciale n. 2 del 2009.

Anche detta eccezione non è fondata.

Va al riguardo osservato, da un lato, che dalla lettura dell’ordinanza di remissione risultano chiari i termini della questione sollevata come individuati nel punto 9.1. e, dall’altro, che l’attualità della lesione lamentata dalla parte ricorrente nel giudizio principale esclude, per ciò solo, che l’efficacia della norma possa ritenersi soltanto pro futuro.

10.— Nel merito, la questione è fondata.

L’art. 67, comma 8, della legge provinciale di Trento n. 19 del 2009 prevede che «in deroga all’articolo 92, comma 2, lettera e), della legge provinciale sulla scuola, ai fini dell’aggiornamento straordinario delle graduatorie provinciali per titoli del personale docente per gli anni scolastici 2009-2013, previsto dall’articolo 66 della legge provinciale 28 marzo 2009, n. 2, sono attribuiti quaranta punti per il servizio effettivamente prestato per tre anni scolastici continuativi nelle scuole provinciali a carattere statale, paritarie, legalmente riconosciute, pareggiate o parificate del Trentino; tale punteggio è riconosciuto per un massimo di quattro volte e purché il servizio sia stato prestato per almeno sei mesi per anno».

Per effetto di tale disposizione, quindi, in occasione dell’aggiornamento straordinario delle graduatorie provinciali da effettuarsi, secondo quanto previsto dall’art. 66 richiamato, dopo un anno dalla loro formazione, i docenti in esse iscritti, che hanno prestato servizio nella Provincia per tre anni consecutivi, usufruiranno di quaranta punti che potranno essere riconosciuti fino ad un massimo di quattro volte.

Tale previsione non è conforme al canone della ragionevolezza in quanto introduce, con effetto temporale rigidamente circoscritto ad un anno, una disciplina eccentrica e derogatoria rispetto a quella vigente non solo nel periodo anteriore, ma persino in quello posteriore all’esaurimento dell’anno stesso.

Ed invero, i criteri di attribuzione del punteggio previsti dall’art. 67, comma 8, della legge provinciale in esame non trovano alcuna obiettiva ragione giustificatrice, ponendosi in rapporto di assoluta discontinuità con quelli oggetto di deroga in virtù dei quali ai docenti iscritti nelle graduatorie trentine sono riconosciuti, per un massimo di due volte, quindici punti per il servizio prestato continuativamente per cinque anni nelle scuole provinciali.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 92, comma 2-bis, della legge della Provincia autonoma di Trento 7 agosto 2006, n. 5 (Sistema educativo di istruzione e formazione del Trentino), come introdotto dall’articolo 53, comma 4, della legge provinciale 12 settembre 2008, n. 16 (Disposizioni per la formazione dell’assestamento del bilancio annuale 2008 e pluriennale 2008-2010 e per la formazione del bilancio annuale 2009 e pluriennale 2009-2011 della Provincia autonoma di Trento. Legge finanziaria provinciale 2009);

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 67, comma 8, della legge della Provincia autonoma di Trento 28 dicembre 2009, n. 19 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 2010 e pluriennale 2010-2012 della Provincia autonoma di Trento. Legge finanziaria provinciale 2010).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 luglio 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente e Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI

 

 

Sentenza Consiglio di Stato 14 luglio 2011, n. 4286

N. 04286/2011 REG.PROV.COLL.
N. 05501/2010 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5501 del 2010, proposto da:
[omissis], rappresentati e difesi dall’avv. Fabio Rossi, con domicilio eletto presso [omissis];

contro
Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, Ufficio scolastico regionale per la Sicilia, Ufficio scolastico provinciale di Catania, Ufficio scolastico provinciale di Enna, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliati per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per la riforma della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE III BIS n. 03299/2010, resa tra le parti, concernente DISTRIBUZIONE PER PROVINCIA, REGIONE E ORDINE DI SCUOLA CONTINGENTE A.S. 2008/09 PERSONALE DOCENTE ED EDUCATIVO

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, dell’Ufficio scolastico regionale per la Sicilia, dell’Ufficio scolastico provinciale di Catania e dell’Ufficio scolastico provinciale di Enna;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 14 giugno 2011 il Cons. Roberto Garofoli e uditi per le parti l’avvocato Rossi e l’avvocato dello Stato Marchini, quest’ultimo nelle preliminari;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Con sentenza n. 3299 del 2010, il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha respinto il ricorso degli odierni appellanti – tutti docenti supplenti inseriti nelle graduatorie ad esaurimento delle provincie di Enna e Catania- avverso i decreti con cui il Ministero dell’istruzione ha in più momenti atteso alla determinazione del contingente nazionale di immissione in ruolo del personale docente e alla successiva distribuzione dello stesso per province e regioni.
Nel dettaglio, i ricorrenti hanno fondamentalmente dedotto due gruppi di censure, rispettivamente relative alla determinazione del contingente nazionale di immissione in ruolo e alla successiva ripartizione regionale e provinciale.
Sul primo versante, hanno lamentato l’assunta illegittimità del sottodimensionamento delle assunzioni disposto a livello nazionale rispetto alla programmazione del 2007, come risultante in specie dall’art. 1, comma 605, lett. c), l. 27 dicembre 2006, n. 296 (laddove stabiliva che il Ministero dell’istruzione si dotasse di un piano triennale per l’assunzione a tempo indeterminato di personale docente per gli anni 2007 – 2009 di 150.000 unità) e dal decreto interministeriale del 17 luglio 2007 che aveva disposto di programmare per l’a.s. 2007/2008 l’assunzione di 50.000 unità di personale docente ed educativo e per gli anni scolastici successivi (2008/2009 e 2009/2010) delle restanti 100.000 unità di personale.
Con diverso ordine di censure dedotte in primo grado e riformulate con l’atto di gravame, i ricorrenti hanno sostenuto l’assenza di un’adeguata motivazione (e, a monte, di una congrua istruttoria) a sostegno della disposta ripartizione del contingente fissato di assunzioni tra le province di Catania ed Enna e tra le province meridionali e quelle del centro nord.
Hanno, al riguardo, esemplificato che nel caso di Brescia, pur essendovi una minore popolazione scolastica e quasi tutte le graduatorie dei precari già esaurite, la provincia ha ottenuto un contingente di immissioni in ruolo (564) sensibilmente superiore a quello di Catania (497), provincia più affollata di studenti e ad alto tasso di precariato; hanno anche soggiunto che la provincia di Enna è stata destinataria di sole 72 immissioni in ruolo.
Con due distinte ordinanze istruttorie nn. 413 del 2010 e 1309 del 2011, il Collegio ha disposto l’acquisizione di documentata relazione ministeriale volta ad indicare tra l’altro:
– i criteri applicati in sede di ripartizione tra le regioni e le province del prefissato contingente di personale docente da assumere,
– la situazione registrata, in sede di applicazione dei parametri prestabiliti, nelle singole regioni e province italiane,
– le conseguenti operazioni, logiche o aritmetiche, compiute e sottese alla determinazione, regione per regione e provincia per provincia, del numero di personale da assumere.
All’udienza del 14 giugno 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
1. L’appello va accolto nei limiti di seguito illustrati.
2. Come indicato, in primo grado sono stati impugnati i decreti con cui il Ministero dell’istruzione ha in più momenti atteso alla determinazione del contingente nazionale di immissione in ruolo del personale docente e alla successiva distribuzione dello stesso per province e regioni.
I ricorrenti hanno in specie dedotto due gruppi di censure, rispettivamente relative alla determinazione del contingente nazionale di immissione in ruolo e alla successiva ripartizione regionale e provinciale.
3. Ritiene il Collegio di condividere quanto dal primo giudice sostenuto nel disattendere le censure con cui è stata dedotta l’illegittimità del sottodimensionamento delle assunzioni disposto a livello nazionale rispetto alla programmazione del 2007, come risultante in specie dall’art. 1, comma 605, lett. c), l. 27 dicembre 2006, n. 296 –in forza del quale il Ministero dell’istruzione avrebbe dovuto dotarsi di un piano triennale per l’assunzione a tempo indeterminato di personale docente per gli anni 2007 – 2009 di 150.000 unità- e dal decreto interministeriale del 17 luglio 2007 che aveva disposto di programmare per l’a.s. 2007/2008 l’assunzione di 50.000 unità di personale docente ed educativo e per gli anni scolastici successivi (2008/2009 e 2009/2010) delle restanti 100.000 unità di personale.
Invero, ai sensi del citato art. 1, comma 605, lett. c), l. 27 dicembre 2006, n. 296, “per meglio qualificare il ruolo e l’attività dell’amministrazione scolastica attraverso misure e investimenti, anche di carattere strutturale, che consentano il razionale utilizzo della spesa e diano maggiore efficacia ed efficienza al sistema dell’istruzione, con uno o più decreti del Ministro della pubblica istruzione sono adottati interventi concernenti: ….. c) la definizione di un piano triennale per l’assunzione a tempo indeterminato di personale docente per gli anni 2007-2009, da verificare annualmente, d’intesa con il Ministero dell’economia e delle finanze e con la Presidenza del Consiglio dei ministri Dipartimento della funzione pubblica, circa la concreta fattibilità dello stesso, per complessive 150.000 unità, al fine di dare adeguata soluzione al fenomeno del precariato storico e di evitarne la ricostituzione, di stabilizzare e rendere più funzionali gli assetti scolastici, di attivare azioni tese ad abbassare l’età media del personale docente”.
Orbene, questa disposizione subordina l’adozione del piano e la sua concreta consistenza alla condizione della “concreta fattibilità” in specie finanziaria, come è agevolmente desumibile dal previsto coinvolgimento del Ministero dell’economia e delle finanze nella prevista verifica annuale.
Come condivisibilmente sostenuto dal giudice di primo grado, il riassorbimento dei 150.000 precari cd. “storici” della scuola a partire dall’a.s. 2007/2008 è stato normativamente subordinato ai necessari riscontri di bilancio, oltre che alla necessità della sussistenza dei posti vuoti in organico, tali da consentire la stabilizzazione annuale di un certo contingente di precari.
Si tratta del resto di esigenze cui l’Amministrazione ha fatto riferimento nelle premesse del decreto impugnato in primo grado, sicché pare soddisfatto ancorché succintamente il dovere motivazione di cui si assume la violazione nell’atto di gravame.
4. Ritiene invece il Collegio di condividere il diverso ordine di censure dedotte in primo grado e riformulate con l’atto di appello, riguardanti la lamentata assenza di un’adeguata motivazione e, a monte, di una congrua istruttoria a sostegno della disposta ripartizione del contingente fissato di assunzioni tra le province di Catania ed Enna e tra le province meridionali e quelle del centro nord.
Più nel dettaglio, i ricorrenti hanno dedotto in primo grado –e ribadito in appello- l’assunto dello sviamento di potere in cui sarebbe incorsa l’amministrazione nell’attendere alla ripartizione dei 25.000 posti per l’a.s. 2008/2009 tra le varie regioni e province italiane; secondo la tesi dei ricorrenti, in specie, le province del centro nord sarebbero state favorite rispetto a quelle meridionali, penalizzate da una irragionevole ripartizione dei posti per le assunzioni.
I ricorrenti hanno, al riguardo, esemplificato che nel caso di Brescia, pur essendovi una minore popolazione scolastica e quasi tutte le graduatorie dei precari già esaurite, la provincia ha ottenuto un contingente di immissioni in ruolo (564) sensibilmente superiore a quello di Catania (497), provincia più affollata di studenti e ad alto tasso di precariato; hanno anche soggiunto che la provincia di Enna è stata destinataria di sole 72 immissioni in ruolo.
Ciò posto, ritiene il Collegio –in ciò non condividendo quanto sostenuto sul punto dal giudice di primo grado- che nel processo amministrativo la distribuzione dell’onus probandi è tendenzialmente retta dal principio dispositivo con metodo acquisitivo, volto a neutralizzare la disuguaglianza di posizioni fra Amministrazione e privato; principio che consente al giudice di disporre d’ufficio le acquisizioni istruttorie quando la parte ricorrente si sia trovava nell’impossibilità di fornire una prova piena del fatto posto a base della sua azione, non essendo gli atti e documenti idonei a supportare le sue allegazioni nella sua esclusiva disponibilità.
Attesa la sicura applicabilità dell’enunciato principio al caso di specie, nel quale evidente è la difficoltà di ricostruire, sulla scorta della documentazione disponibile, il concreto iter logico seguito dall’Amministrazione nell’attendere alla suddivisione del personale da stabilizzare tra le diverse province e regioni italiane, con ordinanza istruttoria n. 413 del 2010, il Collegio ha disposto l’acquisizione di documentata relazione ministeriale volta ad indicare:
• i criteri applicati in sede di ripartizione tra le regioni e le province del prefissato contingente di personale docente da assumere;
• la situazione registrata, in sede di applicazione dei parametri prestabiliti, nelle singole regioni e province italiane;
• le conseguenti operazioni, logiche o aritmetiche, compiute e sottese alla determinazione, regione per regione e provincia per provincia, del numero di personale da assumere.
Con nota del 17 gennaio 2011 l’Amministrazione, in esecuzione della indicata ordinanza istruttoria, ha chiarito che “il criterio preso a fondamento dal d.m. 61 del 10 luglio 2008, con il quale è stato ripartito il contingente autorizzato di 25.000 assunzioni a tempo indeterminato di personale docente ed educativo per l’a. s. 2008/09, è stato prevalentemente quello proporzionale al numero dei posti disponibili (51.672), dopo l’espletamento delle operazioni di mobilità del personale della scuola, tenendo conto dell’esigenza di non creare soprannumero nel corso del triennio scolastico 2007/09.
Con successiva ordinanza del 2 marzo 2011, n. 1309, il Collegio, preso atto delle informazioni rese dall’Amministrazione, ha ritenuto necessario disporre un supplemento di istruttoria disponendo l’acquisizione di ulteriore e più dettagliata documentazione ministeriale “volta a dare atto, puntualmente ed in modo argomentato, delle concrete modalità con cui l’indicato criterio della proporzionalità è stato in concreto applicato nell’attendere alla ripartizione del personale da assumere tra le diverse regioni e province”.
In particolare, con la seconda ordinanza istruttoria il Collegio – con l’avvertenza che avrebbe apprezzato gli esiti dell’istruttoria applicando l’art. 64, comma 4, Cod. proc. amm.- ha ritenuto necessario acquisire “informazioni relative:
• alle disponibilità di posti sussistenti, da un lato, nelle Province di Enna e Catania, dall’altro, nelle altre province italiane;
• alle modalità aritmetiche o logiche con cui l’Amministrazione ha provveduto alla conseguente applicazione dell’indicato canone della proporzionalità;
• ai conseguenti risultati”.
All’ordinanza istruttoria n. 1309 del 2011, comunicata per raccomandata all’Amministrazione oltre che ritirata in copia conforme in data 7 marzo 2011, l’Amministrazione non ha tuttavia dato seguito.
Ebbene, a fronte delle censure dedotte dai ricorrenti, ritiene il Collegio di dover assegnare il dovuto rilievo probatorio al comportamento processuale serbato dall’Amministrazione a fronte della ripetuta sollecitazione istruttoria.
Non vi è dubbio invero che -ad onta degli incombenti istruttori disposti dal Collegio- non siano emerse le modalità aritmetiche o logiche con cui si è provveduto alla concreta applicazione del criterio della “proporzionalità al numero dei posti disponibili”, dall’Amministrazione indicato quale canone seguito nella ripartizione del personale da assumere tra le diverse regioni e province.
Ciò è quanto induce il Collegio ad apprezzare favorevolmente le censure di difetto di istruttoria e motivazione dedotte dai ricorrenti riguardo alla disposta ripartizione del contingente fissato di assunzioni tra le province di Catania ed Enna e tra le province meridionali e quelle del centro-nord.
5. Alla stregua delle esposte ragioni va pertanto accolto l’appello nei limiti illustrati con conseguente riforma della sentenza impugnata e annullamento degli atti impugnati in primo grado, limitatamente alla ripartizione del contingente fissato di assunzioni tra le varie regioni e province italiane.
6. Alla soccombenza segue la condanna alle spese processuali come liquidate in dispositivo..

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione.
Condanna l’Amministrazione al pagamento delle spese processuali liquidate in complessive 5000,00 (cinquemila) euro.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 giugno 2011 con l’intervento dei magistrati:
Giuseppe Severini, Presidente
Roberto Garofoli, Consigliere, Estensore
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Roberto Giovagnoli, Consigliere
Roberta Vigotti, Consigliere

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 14/07/2011
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Sentenza Corte Costituzionale 21 marzo 2011, n. 92

SENTENZA N. 92

 

ANNO 2011

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori: (…)

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi per conflitti di attribuzione tra enti sorti a seguito degli articoli 2, commi 4 e 6, 3, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 2009, n. 89 (Revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico della scuola dell’infanzia e del Primo ciclo di istruzione ai sensi dell’articolo 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), promossi con ricorsi delle Regioni Toscana e Piemonte, notificati il 10 e il 16 settembre 2009, depositati in cancelleria il 16 ed il 24 settembre 2009 ed iscritti ai nn. 6 e 8 del registro conflitti tra enti 2009.

 

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri, di cui uno fuori termine;

 

udito nell’udienza pubblica del 22 febbraio 2011 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;

 

uditi gli avvocati Nicoletta Gervasi per la Regione Toscana e l’avvocato dello Stato Michele Dipace per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1.— Con ricorso notificato il 10 settembre 2009 e depositato presso la cancelleria della Corte il successivo 16 settembre, la Regione Toscana ha promosso conflitto di attribuzione tra enti nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, avente ad oggetto il decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 2009, n. 89 (Revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico della scuola dell’infanzia e del Primo ciclo di istruzione ai sensi dell’articolo 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), con riguardo agli articoli 2, commi 4 e 6, 3, comma 1, per contrasto con gli articoli 117 e 118 della Costituzione e con i principi di leale collaborazione e di sussidiarietà.

 

2.— La Regione Toscana, preliminarmente, richiama il contenuto delle disposizioni oggetto del conflitto.

 

L’art. 2, comma 4, stabilisce «l’istituzione di nuove scuole e di nuove sezioni avviene in collaborazione con gli enti territoriali, assicurando la coordinata partecipazione delle scuole statali e delle scuole paritarie al sistema scolastico nel suo complesso».

 

L’art. 2, comma 6, prevede che «le sezioni della scuola dell’infanzia con un numero di iscritti inferiore a quello previsto in via ordinaria, situate in comuni montani, in piccole isole e in piccoli comuni, appartenenti a comunità privi di strutture educative per la prima infanzia, possono accogliere piccoli gruppi di bambini di età compresa tra i due e i tre anni, la cui consistenza è determinata nell’annuale decreto interministeriale sulla formazione dell’organico. L’inserimento di tali bambini avviene sulla base di progetti attivati, d’intesa e in collaborazione tra istituzioni scolastiche e i comuni interessati, e non può dar luogo a sdoppiamenti di sezioni».

 

L’art. 3, comma 1, infine, dispone che «l’istituzione e il funzionamento di scuole statali del I ciclo devono rispondere a criteri di qualità ed efficienza del servizio, nel quadro della qualificazione dell’offerta formativa e nell’ambito di proficue collaborazioni tra l’amministrazione scolastica e i comuni interessati anche tra di loro consorziati».

 

3.— La ricorrente sottolinea che il d.P.R. in questione è stato adottato in attuazione dell’art. 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008 n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. Tale comma è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, nelle lettere f-bis) ed f-ter), con la sentenza di questa Corte n. 200 del 2009.

 

In particolare, le suddette lettere f-bis) ed f-ter) prevedevano, rispettivamente, che i regolamenti di attuazione avrebbero dovuto attenersi ai seguenti criteri:

 

definizione di criteri, tempi e modalità per la determinazione e articolazione dell’azione di ridimensionamento della rete scolastica prevedendo, nell’ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente, l’attivazione di servizi qualificati per la migliore fruizione dell’offerta formativa (lettera f-bis);

 

nel caso di chiusura o accorpamento degli istituti scolastici aventi sede nei piccoli comuni, lo Stato, le Regioni e gli enti locali possono prevedere specifiche misure finalizzate alla riduzione del disagio degli utenti (lettera f-ter).

 

4.— La ricorrente Regione Toscana ritiene che le norme del citato d.P.R., in ordine alle quali ha promosso conflitto, intervengano illegittimamente in ambiti di competenza regionale (programmazione scolastica e iniziative per ridurre il disagio degli utenti di zone svantaggiate) e diano attuazione alle disposizioni sopra richiamate, di cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale, ponendosi, dunque, in contrasto con la citata sentenza n. 200 del 2009.

 

5.— In particolare, la difesa regionale assume che l’art. 2, comma 4, e l’art. 3, comma 1, del d.P.R. n. 89 del 2009, violerebbero gli artt. 117 e 118 Cost., nonché il principio di leale collaborazione.

 

Tali disposizioni, infatti, interverrebbero su profili organizzativi della rete scolastica, rientranti nella potestà legislativa delle Regioni ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.

 

Le stesse norme, per un verso, esulerebbero dall’ambito delle norme generali sull’istruzione o dei principi fondamentali della materia, per altro verso, non esprimerebbero esigenze di carattere unitario che potrebbero legittimare l’intervento statale.

 

Con le disposizioni censurate, le Regioni verrebbero, di fatto, private del ruolo primario nell’istituzione di nuove scuole – dell’infanzia e del Primo ciclo − che rappresenta senz’altro l’aspetto più rilevante nell’ambito della programmazione e dell’organizzazione della rete scolastica.

 

Ciò anche in considerazione del fatto che la sussistenza di competenze in capo alle Regioni sull’organizzazione scolastica e sul dimensionamento degli istituti andrebbe ricondotta agli artt. 138, comma 1, lettere a), b), c), e 143, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59).

 

Sarebbe palese, quindi, la violazione dell’art. 117 Cost., poiché le norme impugnate disciplinano aspetti organizzativi, con riferimento alla determinazione ed articolazione dell’azione di ridimensionamento della rete scolastica, senza prevedere un adeguato coinvolgimento delle Regioni.

 

Né potrebbe essere invocato l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., dal momento che le disposizioni in esame non fissano standard minimi di prestazioni scolastiche.

 

Afferma, quindi, la ricorrente che le suddette disposizioni del d.P.R. n. 89 del 2009 sarebbero da ricondurre alle previsioni delle lettere f-bis) ed f-ter) del comma 4 dell’art. 64 del d.l. n. 112 del 2008, oggetto di pronuncia di incostituzionalità con la già citata sentenza n. 200 del 2009.

 

In ragione di quanto sopra, le disposizioni del d.P.R. medesimo, intervenendo in materia di organizzazione e di dimensionamento della rete scolastica, sarebbero in contrasto con l’art. 117 Cost. sotto due profili: il primo, perché lo Stato disciplina funzioni regionali (in violazione, quindi, dell’art. 117, terzo comma, Cost.); il secondo, perché tale disciplina è dettata con regolamento (in violazione dell’art. 117, sesto comma, Cost.).

 

Le norme sarebbero ulteriormente lesive delle attribuzioni regionali poiché, attenendo ad ambiti di competenza regionale, il regolamento nel quale sono state inserite avrebbe dovuto contenere, con riferimento all’istituzione di nuove scuole, la previsione dell’intesa con le Regioni interessate, mentre, nell’un caso (art. 2, comma 4), si richiamano genericamente forme di collaborazione con gli enti territoriali per l’istituzione delle scuole dell’infanzia; nell’altro (art. 3, comma 1), addirittura, non si prevede alcun ruolo delle Regioni nella istituzione e nel funzionamento delle scuole del Primo ciclo.

 

Le norme in questione, quindi, invaderebbero le competenze delle Regioni anche per violazione dell’art. 118 Cost. e del principio della leale collaborazione e non si giustificherebbero neppure alla luce del principio di sussidiarietà.

 

6.— Anche in merito all’art. 2, comma 6, del d.P.R. n. 89 del 2009 la ricorrente ravvisa la violazione degli artt. 117 e 118 Cost., e del principio di leale collaborazione.

 

Tale disposizione, in quanto avrebbe la finalità di prevenire e/o ridurre il disagio per quell’utenza che si trova in zone più svantaggiate del territorio, riguarderebbe un profilo di competenza concorrente regionale, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, che non può formare oggetto di normativa regolamentare statale.

 

Anche in ordine a detta questione, la Regione richiama, a sostegno delle proprie argomentazioni, la sentenza n. 200 del 2009.

 

Mancherebbe, anche in questa ipotesi, la previsione di idonee forme di concertazione con le Regioni, violandosi, in tal modo, gli artt. 117 e 118 Cost., nonché il principio di leale collaborazione.

 

7.— In data 21 ottobre 2010 si è costituito, fuori termine, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

 

8.— Con ricorso notificato il 16 settembre 2009 e depositato presso la cancelleria della Corte il successivo 24 settembre, anche la Regione Piemonte ha impugnato l’art. 2, commi 4 e 6, e l’art. 3, comma 1, del d.P.R. n. 89 del 2009, assumendone il contrasto con gli artt. 117 (commi terzo e sesto) e 118 Cost., e con i principi di sussidiarietà, di adeguatezza e di leale collaborazione.

 

8.1.— Ad avviso della ricorrente, che prospetta censure analoghe a quelle formulate dalla Regione Toscana, le disposizioni in esame interverrebbero su profili organizzativi della rete scolastica di competenza delle Regioni ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., come affermato dalla Corte con la sentenza n. 200 del 2009.

 

8.2.— In particolare, con riguardo all’art. 2, comma 4, e all’art. 3, comma 1, è dedotta la violazione degli artt. 117 e 118 Cost., nonché del principio di leale collaborazione.

 

Nelle disposizioni citate manca ogni riferimento ai compiti delle Regioni. Queste vengono, di fatto, private del ruolo primario nell’istituzione di nuove scuole – dell’infanzia e del Primo ciclo − che rappresenta senz’altro l’aspetto più rilevante nell’ambito della programmazione e dell’organizzazione della rete scolastica.

 

Le norme del d.P.R n. 89 del 2009 disciplinerebbero aspetti organizzativi, con riferimento alla determinazione ed articolazione dell’azione di ridimensionamento della rete scolastica, senza prevedere un adeguato coinvolgimento delle Regioni.

 

L’assetto organizzativo del sistema scolastico non potrebbe essere ricondotto alle norme generali sull’istruzione e, pertanto, non potrebbe essere oggetto di regolamento statale, poiché, ai sensi dell’art. 117, sesto comma, Cost., il potere regolamentare dello Stato esiste solo nelle materie di sua potestà legislativa esclusiva.

 

Le norme impugnate sarebbero da ricondurre, sostanzialmente, alle previsioni dell’art. 64, comma 4, dichiarate incostituzionali con la sentenza n. 200 del 2009.

 

In particolare, con riguardo a tale norma, la Corte ha affermato principi riferibili anche alle disposizioni del regolamento ora censurate.

 

Infatti, le norme in esame, dettate con regolamento e pertanto in violazione dell’art. 117, sesto comma, Cost., intervengono in materia di dimensionamento e di organizzazione della rete scolastica, in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost.

 

Le norme sarebbero ulteriormente lesive delle attribuzioni regionali, poiché non prevedono alcun ruolo delle Regioni, ledendo così l’art. 118 Cost. ed il principio della leale collaborazione.

 

9.— In data 22 ottobre 2010 si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo la inammissibilità e la non fondatezza del ricorso.

 

9.1.— Le disposizioni regolamentari impugnate costituirebbero diretta attuazione di norme generali in materia di istruzione, di competenza esclusiva dello Stato (artt. 33, 34 e 117, secondo comma, Cost.), contenute nella legge 28 marzo 2003, n. 53 (Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale), la cui attuazione è avvenuta con i relativi decreti legislativi delegati e con l’art. 64 del decreto-legge n. 112 del 2008.

 

Peraltro, tale ultima norma è stata ritenuta, quanto alle disposizioni di principio in essa contenute, costituzionalmente legittima (citata sentenza n. 200 del 2009), poiché esse costituiscono norme generali sull’istruzione.

 

Sempre nella sentenza sopra richiamata, precisa l’Avvocatura dello Stato, un distinto titolo di legittimazione dello Stato a disciplinare la materia, è ravvisato nella competenza legislativa esclusiva relativa alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.).

 

Quindi, alla luce dei principi enunciati nella citata sentenza, non vi sarebbe alcun dubbio che le disposizioni del d.P.R. n. 89 del 2009, impugnate dalla Regione, rientrino tra le norme generali sull’istruzione scolastica e tra i livelli essenziali delle prestazioni in materia di organizzazione scolastica e di utilizzazione del personale dirigente e docente della scuola; norme rientranti, dunque, nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, per l’attuazione delle quali sussiste la potestà statale di emanare i relativi regolamenti (art. 117, secondo comma, lettere n ed m, e sesto comma).

 

9.2.— Per quanto concerne, in particolare, l’articolo 2, relativo alla scuola dell’infanzia, il testo dello stesso confermerebbe, quale riferimento di base, la disciplina che regola il settore della scuola dell’infanzia, richiamando integralmente il decreto legislativo 19 febbraio 2004, n. 59 (Definizione delle norme generali relative alla scuola dell’infanzia e al primo ciclo dell’istruzione, a norma dell’articolo 1 della legge 28 marzo 2003, n. 53), attuativo della riforma introdotta dalla citata legge n. 53 del 2003. Tale riferimento di base viene integrato dalle nuove disposizioni, conformi alle indicazioni fissate dall’articolo 64 del decreto-legge n. 112 del 2008.

 

La disposizione contenuta nel comma 4, della cui legittimità costituzionale la Regione Toscana dubita, riguarda la generalizzazione del servizio reso dalle scuole dell’infanzia e prevede che l’amministrazione scolastica periferica metta in atto intese con gli enti locali, secondo una logica collaborativa e programmatoria che include anche il sistema delle scuole paritarie.

 

La disposizione contestata, di cui al comma 6, prevede poi che le sezioni della scuola dell’infanzia con un numero di iscritti inferiore a quello previsto in via ordinaria, site in comuni prive di strutture educative per la prima infanzia, possono accogliere piccoli gruppi di bambini di età compresa tra i due e i tre anni e che l’inserimento di tali bambini avviene sulla base di progetti attivati d’intesa e in collaborazione tra le istituzioni scolastiche e i comuni interessati e non può dar luogo a sdoppiamenti di sezioni.

 

L’articolo 3, anch’esso oggetto di impugnativa, concernente il Primo ciclo di istruzione, si limiterebbe a riprendere, senza modifiche sostanziali, quanto previsto, in materia, dal decreto legislativo n. 59 del 2004, contenente norme generali sull’istruzione, specificandone le finalità generali e la durata complessiva, e confermando la necessità di proficue collaborazioni tra l’amministrazione scolastica e gli enti locali.

 

Pertanto, quest’ultima deve essere considerata una norma programmatica, che riguarda il sistema scolastico complessivo del Primo ciclo; essa, dunque, non attiene alla determinazione della rete scolastica o alla programmazione della stessa. Tenuto conto del riparto delle competenze tra Stato e Regioni delineato dalla Corte con la sentenza n. 200 del 2009, risulterebbe evidente che la disposizione dell’art. 2, comma 4, stabilisce alcuni principi generali, nel prevedere l’istituzione di nuove scuole dell’infanzia, di indirizzo alla programmazione della rete scolastica regionale, la cui disciplina compete alle singole Regioni per il rispettivo territorio.

 

9.3.— La difesa dello Stato aggiunge che la riprova che non sono state toccate competenze regionali sarebbe data dal decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 2009, n. 81 (Norme per la riorganizzazione della rete scolastica e il razionale ed efficace utilizzo delle risorse umane della scuola, ai sensi dell’articolo 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), con il quale è stata data attuazione all’articolo 64, comma 4-quinquies, del citato d.l. n. 112 del 2008.

 

Sarebbe, pertanto, da escludere che, mediante le norme regolamentari contestate dalla ricorrente, sia stata data attuazione all’articolo 64, comma 4, lettera f-bis), del d.l. n. 112 del 2008, dichiarato incostituzionale. Tale norma, comunque, ancor prima della declaratoria di incostituzionalità, era da ritenersi implicitamente abrogata per effetto di quanto previsto dall’articolo 64, comma 4-quinquies, già citato.

 

9.4.— Anche la previsione del comma 6 del medesimo articolo 2, in ordine alla possibilità di accoglienza di bambini di età compresa tra i due e i tre anni nelle sezioni di scuola dell’infanzia in specifiche realtà territoriali, non potrebbe considerarsi lesiva delle attribuzioni regionali e del principio di leale collaborazione.

 

Tale disposizione non appare, infatti, preordinata ad ovviare a disagi derivanti dalla chiusura di istituzioni scolastiche e, quindi, il richiamo all’articolo 64, comma 4, lettera f-ter), sarebbe inconferente.

 

La norma si riferisce ad un servizio aggiuntivo che si vuole garantire e per la cui erogazione è necessario disporre del relativo organico sulla base del quale, poi, esso potrà essere dimensionato.

 

9.5.— Le disposizioni in questione sarebbero, altresì, rivolte ad assicurare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali su tutto il territorio nazionale, di esclusiva potestà legislativa dello Stato, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), Cost.

 

Non sembra, infatti, dubbio che la normativa in esame sia intesa a prevedere che agli utenti del servizio scolastico venga garantito un adeguato livello di fruizione delle prestazioni formative sulla base di standard uniformi valevoli per l’intero territorio nazionale. La stessa normativa non esclude la possibilità che le singole Regioni, nell’ambito della loro competenza concorrente in materia, possano migliorare i livelli delle prestazioni adeguandoli alle esigenze peculiari del territorio.

 

9.6.— Analoghe considerazioni sono prospettate dalla difesa dello Stato in ordine all’articolo 3, comma 1, del d.P.R. n. 89 del 2009, che non comporterebbe lesioni alle attribuzioni proprie delle Regioni, posto che non introduce alcuna nuova disciplina in un ambito ad esse riservato e non mette in alcun modo in discussione la spettanza alle medesime delle funzioni inerenti al dimensionamento della rete scolastica, ma si limita a riprendere, senza modifiche sostanziali, quanto previsto dal decreto legislativo n. 59 del 2004, relativo al Primo ciclo di istruzione, confermando la necessità di proficue collaborazioni tra l’amministrazione scolastica e gli enti locali per l’istituzione e il funzionamento di scuole che devono rispondere a criteri di qualità e di efficienza.

 

Invero, il riferimento a tali criteri non costituirebbe altro che una esplicitazione del principio fondamentale di buon andamento dell’amministrazione, di cui all’art. 97 Cost.

 

Considerato in diritto

 

1.— Con distinti ricorsi la Regione Toscana e la Regione Piemonte hanno promosso conflitto di attribuzione tra enti nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in ordine all’articolo 2, commi 4 e 6, e all’articolo 3, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 2009, n. 89 (Revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico della scuola dell’infanzia e del Primo ciclo di istruzione ai sensi dell’articolo 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), deducendo la lesione delle attribuzioni costituzionalmente garantite alle Regioni, in ragione della violazione dagli articoli 117 e 118 della Costituzione, nonché dei principi di leale collaborazione e di sussidiarietà.

 

2.— Le ricorrenti, prospettando censure sostanzialmente identiche, deducono, nel complesso, che le disposizioni del d.P.R. in questione invaderebbero ambiti di esclusiva competenza regionale (programmazione scolastica e iniziative per ridurre il disagio degli utenti delle zone svantaggiate), dando attuazione a disposizioni legislative dichiarate costituzionalmente illegittime con la sentenza di questa Corte n. 200 del 2009.

 

In particolare, l’art. 2, comma 4, e l’art. 3, comma 1, del d.P.R. n. 89 del 2009, interverrebbero in materia di dimensionamento e di organizzazione della rete scolastica, così ledendo l’art. 117 Cost. sotto un duplice profilo: da un lato, lo Stato disciplinerebbe funzioni regionali, in contrasto con il citato art. 117, terzo comma, Cost.; dall’altro, tale disciplina sarebbe introdotta con regolamento, in violazione del sesto comma dell’art. 117 Cost. Le disposizioni in questione contrasterebbero, altresì, con l’art. 118 Cost. e con il principio di leale collaborazione, attesa la mancata previsione della necessaria intesa con le Regioni interessate, nonché con il principio di sussidiarietà.

 

A sua volta, l’art. 2, comma 6, del citato d.P.R. n. 89 del 2009, in quanto avrebbe la finalità di prevenire e/o ridurre il disagio per quell’utenza che si trova nelle zone più svantaggiate del territorio, riguarderebbe un profilo di competenza concorrente regionale, così ledendo l’art. 117, commi terzo e sesto, nonché l’art. 118 Cost. ed il principio di leale collaborazione, mancando la previsione di idonee forme di concertazione con le Regioni.

 

3.— In ragione dell’oggetto comune, i due ricorsi devono essere riuniti ai fini di una trattazione congiunta.

 

4.— La questione promossa con i suddetti ricorsi per conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni deve essere risolta alla luce della pronuncia resa da questa Corte (citata sentenza n. 200 del 2009) sulla legittimità costituzionale delle disposizioni contenute nell’art. 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008 n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133; pronuncia di cui, all’evidenza, non si è tenuto conto nell’adozione del regolamento governativo di delegificazione emanato, ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), con il d.P.R. n. 89 del 2009, recante − tra le altre − le censurate disposizioni di cui all’art. 2, commi 4 e 6, e all’art. 3, comma 1, e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 15 luglio 2009, n. 162.

 

5.— Questa Corte, con la citata sentenza, nel pronunciarsi sulla questione di fondo concernente la distinzione tra le norme generali sull’istruzione, riservate in via esclusiva allo Stato dall’art. 117, comma secondo, lettera n), Cost., e i principi fondamentali della materia istruzione, rientrante questa nella competenza legislativa concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., ha affermato, testualmente, che rientrano tra le norme generali sull’istruzione «quelle disposizioni statali che definiscono la struttura portante del sistema nazionale di istruzione e che richiedono di essere applicate in modo necessariamente unitario ed uniforme in tutto il territorio nazionale, assicurando, mediante una offerta formativa omogenea, la sostanziale parità di trattamento tra gli utenti che fruiscono del servizio dell’istruzione (interesse primario di rilievo costituzionale), nonché la libertà di istituire scuole e la parità tra le scuole statali e non statali».

 

Sono, invece, espressione di principi fondamentali della materia dell’istruzione «quelle norme che, nel fissare criteri, obiettivi, direttive o discipline, pur tese ad assicurare la esistenza di elementi di base comuni sul territorio nazionale in ordine alle modalità di fruizione del servizio dell’istruzione, da un lato, non sono riconducibili a quella struttura essenziale del sistema d’istruzione che caratterizza le norme generali sull’istruzione, dall’altra, necessitano, per la loro attuazione (e non già per la loro semplice esecuzione) dell’intervento del legislatore regionale».

 

6.— Per stabilire, dunque, se, con le impugnate norme regolamentari, lo Stato abbia effettivamente invaso una sfera di competenza legislativa regionale, occorre partire dalle suindicate affermazioni di fondo, fatte da questa Corte, osservando, in particolare, che, nella stessa sentenza, si è precisata la non spettanza allo Stato dell’adozione di disposizioni regolamentari, ancorché contenute in un regolamento di delegificazione, che fossero esorbitanti dall’ambito della competenza legislativa esclusiva in tema di determinazione delle norme generali sull’istruzione; ciò in applicazione, in particolare, di quanto previsto dall’art. 117, sesto comma, Cost.

 

Sulla base delle indicate premesse, la Corte, con la citata pronuncia, ha, in particolare, dichiarato l’illegittimità costituzionale, proprio con riferimento a quanto previsto dall’art. 117, commi secondo, lettera n), terzo e sesto, Cost., delle disposizioni contenute nelle lettere f-bis) ed f-ter) del citato art. 64, comma 4, del d.l. n. 112 del 2008, aggiunte dalla relativa legge di conversione. Le disposizioni recate dalle lettere f-bis) ed f-ter) sono state ritenute estranee all’area della materia rientrante nella locuzione norme generali sull’istruzione.

 

Da quanto innanzi, deriva che devono essere ritenute esorbitanti dall’ambito della competenza esclusiva statale in tema di norme generali sull’istruzione e lesive della potestà legislativa concorrente della Regione in materia di istruzione pubblica, le disposizioni del regolamento governativo che, in qualche modo, possono essere considerate dipendenti, derivanti o comunque connesse a quelle dichiarate incostituzionali con la citata sentenza n. 200 del 2009.

 

7.— Passando all’esame delle singole disposizioni oggetto dei conflitti, viene, innanzitutto, in rilievo quella contenuta nell’art. 2, comma 4, del citato regolamento governativo, di cui le ricorrenti assumono la illegittimità.

 

La censura è fondata.

 

Il suddetto comma, con riferimento alla “Scuola dell’infanzia”, dispone che «l’istituzione di nuove scuole e di nuove sezioni avviene in collaborazione con gli enti territoriali, assicurando la coordinata partecipazione delle scuole statali e delle scuole paritarie al sistema scolastico nel suo complesso».

 

7.1.— Orbene, la istituzione di nuove scuole e di nuove sezioni nelle scuole dell’infanzia già esistenti, attiene, in maniera diretta, al dimensionamento della rete scolastica sul territorio; attribuzione che la sentenza n. 200 del 2009 ha riconosciuto spettare al legislatore regionale, in quanto non riconducibile, nel contesto generale del citato art. 64, comma 4, del d.l. n. 112 del 2008, all’ambito delle norme generali sull’istruzione. Ciò comporta che, con la disposizione inserita nel predetto comma 4 dell’art. 2 del regolamento governativo, lo Stato ha invaso la competenza delle ricorrenti sul punto specifico di adattamento della rete scolastica alle esigenze socio-economiche di ciascun territorio regionale, «che ben possono e devono essere apprezzate» in ciascuna Regione, con la precisazione che non possono, al riguardo, «venire in rilievo aspetti che ridondino sulla qualità dell’offerta formativa e, dunque, sulla didattica» (citata sentenza n. 200 del 2009). In tale contesto, anche la finalità di assicurare la coordinata partecipazione delle scuole statali e delle scuole paritarie al sistema scolastico complessivo, cui il medesimo comma 4 fa espresso riferimento, è funzionale al dimensionamento della rete.

 

Né, d’altra parte, in senso contrario può essere addotta la circostanza – prospettata dalla difesa dello Stato − che analoghe disposizioni sono contenute nel d.P.R. 20 marzo 2009, n. 81 (Norme per la riorganizzazione della rete scolastica e il razionale ed efficace utilizzo delle risorse umane della scuola, ai sensi dell’art. 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133).

 

Da un sommario esame di tale regolamento governativo può evincersi che la disciplina in esso prevista è, in larga misura, estranea al dimensionamento della rete scolastica sul territorio, come conferma la circostanza che la maggior parte delle sue disposizioni è finalizzata ad un razionale ed efficace utilizzo delle risorse umane della scuola, investendo, in sostanza, il tema della didattica, piuttosto che quello sopra indicato relativo al dimensionamento della rete scolastica. Comunque, il suddetto regolamento non ha formato oggetto di impugnazione, né può essere invocato in questa sede perché sia ritenuta immune dai vizi denunciati la disposizione oggetto di censura con i ricorsi in esame.

 

7.2.— Infine, la norma regolamentare ora impugnata non può essere ascritta all’area dei principi fondamentali della materia concorrente della istruzione, in quanto la fonte regolamentare, anche in forza di quanto previsto dall’art. 117, sesto comma, Cost., sarebbe comunque inidonea a porre detti principi. Ed inoltre (ma ciò si osserva solo ad abundantiam) risulterebbe violato, in modo palese, il principio di leale collaborazione per la mancata previsione di ogni forma di coinvolgimento regionale nella adozione delle relative misure di riordinamento della rete.

 

8.— Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi per quanto attiene alla disposizione contenuta nel comma 6 del medesimo art. 2 del regolamento governativo.

 

La relativa censura, pertanto, è fondata.

 

Detto comma prevede che «le sezioni della scuola dell’infanzia con un numero di iscritti inferiore a quello previsto in via ordinaria, situate in comuni montani, in piccole isole e in piccoli comuni, appartenenti a comunità privi di strutture educative per la prima infanzia, possono accogliere piccoli gruppi di bambini di età compresa tra i due e i tre anni, la cui consistenza è determinata nell’annuale decreto interministeriale sulla formazione dell’organico». Il suddetto comma prosegue disponendo che «l’inserimento di tali bambini avviene sulla base di progetti attivati, d’intesa e in collaborazione tra istituzioni scolastiche e i comuni interessati, e non può dar luogo a sdoppiamento di sezioni».

 

8.1.— Al riguardo, deve essere rilevato che, come si è già innanzi precisato, questa Corte, con la sentenza n. 200 del 2009, ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 64, comma 4, lettera f-ter), del d.l. n. 112 del 2008, in quanto demandava all’allora emanando regolamento governativo di prevedere, «nel caso di chiusura o di accorpamento degli istituti scolastici nei piccoli comuni», «specifiche misure finalizzate alla riduzione del disagio degli utenti».

 

A fondamento della suindicata declaratoria di illegittimità costituzionale questa Corte ha affermato che «la disposizione contenuta in tale lettera opera una estensione allo Stato di una facoltà di esclusiva pertinenza delle Regioni, mediante l’attribuzione allo stesso di un compito che non gli compete, in quanto quello della chiusura o dell’accorpamento degli istituti scolastici nei piccoli Comuni costituisce un ambito di sicura competenza regionale proprio perché strettamente legato alle singole realtà locali, il cui apprezzamento è demandato agli organi regionali».

 

A ciò la Corte ha significatamente aggiunto che è in facoltà delle Regioni e degli enti locali «prevedere misure volte a ridurre, nei casi in questione, il disagio degli utenti del servizio scolastico, proprio per l’impatto che tali eventi hanno sulle comunità insediate nel territorio e con riguardo alle necessità dell’utenza delle singole realtà locali».

 

8.2.— Orbene, l’impugnata disposizione del regolamento governativo, approvato con il d.P.R. n. 89 del 2009, non può essere considerata attuazione delle norme generali sull’istruzione, di specifica competenza legislativa esclusiva dello Stato, contenute nel citato art. 64, comma 4, del d.l. n. 112 del 2008. Le misure previste dal comma in questione del suddetto regolamento sono chiaramente volte ad eliminare o ridurre il disagio dell’utenza del servizio scolastico nei piccoli comuni, con una valutazione che non può prescindere dalle particolari condizioni in cui versano le comunità locali di ridotte dimensioni, perché insediate in territori montani o in piccole isole ovvero comunque in comuni di dimensioni tali da essere privi di strutture educative per la prima infanzia. Si tratta, dunque, di misure specificamente volte a ridurre il disagio degli utenti del servizio scolastico in un settore, quale quello delle scuole per l’infanzia, in cui esso può assumere una notevole importanza proprio con riferimento alle peculiari esigenze di «bambini di età compresa tra i due e i tre anni».

 

È, dunque, del tutto ovvio che spetta alle Regioni, nell’esercizio della loro competenza legislativa concorrente in materia di istruzione pubblica, non disgiunta (è bene aggiungere) da rilevanti aspetti di competenza regionale, di carattere esclusivo, in tema di servizi sociali, l’adozione di misure volte alla riduzione del disagio di tali particolari utenti del servizio scolastico.

 

8.3.— Né è senza significato, d’altronde, che, come già rilevato dalla sentenza n. 200 del 2009, le Regioni, anche prima del d.l. n. 112 del 2008 e della stessa riformulazione dell’art. 117 Cost. ad opera della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), erano titolari di competenze attinenti alla programmazione della rete scolastica e alla attribuzione di contributi alle scuole non statali. Ciò in base, fondamentalmente, a quanto, a suo tempo, previsto dall’art. 138 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59) e delle altre disposizioni legislative richiamate dalla stessa citata sentenza n. 200 del 2009.

 

8.4.— Anche con riferimento alla contestata disposizione regolamentare deve essere ribadito quanto prima osservato con riguardo al precedente comma 4, e cioè che le prescrizioni contenute nel riportato comma 6 non possono essere considerate espressione di principi fondamentali della materia concorrente della istruzione, per la inidoneità della fonte regolamentare a fissare detti principi e, in ipotesi, per la violazione, comunque, dell’art. 117, comma sesto, Cost., oltre che per la radicale mancanza di ogni forma di coinvolgimento regionale, in violazione del canone della leale collaborazione tra istituzioni.

 

9.— La difesa dello Stato, con riferimento ad entrambe le questioni relative ai commi 4 e 6 dell’art. 2 del regolamento, ha richiamato, da un lato, l’art. 118, primo comma, Cost., osservando che i suddetti commi, oggetto dell’impugnazione regionale, troverebbero fondamento anche nella attrazione in sussidiarietà, da parte dello Stato, della competenza a provvedere in materia, e, dall’altro, l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., osservando che le misure previste dai medesimi commi sarebbero ascrivibili alla materia della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.

 

Entrambe le deduzioni, da esaminare congiuntamente con riferimento ai due commi oggetto di contestazione da parte delle ricorrenti, non possono essere condivise.

 

Sotto il primo profilo, quello relativo cioè alla chiamata in sussidiarietà, è sufficiente osservare che, a prescindere da ogni altra e diversa considerazione ostativa e comunque dalla questione concernente la utilizzabilità a tale fine della fonte regolamentare, la allocazione al superiore livello statale di attribuzioni spettanti alle Regioni, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, presuppone che siano previste adeguate forme di coinvolgimento delle Regioni al fine di tutelare le istanze regionali costituzionalmente garantite in un ambito che involge indubbiamente profili di competenza concorrente (sentenza n. 303 del 2003, alla quale ha fatto seguito una giurisprudenza costante; da ultimo sentenza n. 16 del 2010).

 

Sotto il secondo profilo, è sufficiente osservare che per la giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 282 del 2002) si è in presenza di una normazione attinente ai livelli essenziali delle prestazioni, quando la normativa al riguardo fissi, appunto, livelli di prestazioni da assicurare ai fruitori dei vari servizi; fattispecie questa che certamente esula dallo spettro di applicazione delle norme regolamentari in ordine alle quali sono stati proposti i ricorsi, ora in esame, per conflitto di attribuzioni.

 

10.— Infine, quanto alla impugnazione dell’art. 3, comma 1, del regolamento governativo de quo, la cui rubrica è “Primo ciclo di istruzione”, occorre rilevare che, secondo detto comma, l’istituzione e il funzionamento di scuole statali del Primo ciclo «devono rispondere a criteri di qualità ed efficienza del servizio, nel quadro della qualificazione dell’offerta formativa e nell’ambito di proficue collaborazioni tra l’amministrazione scolastica e i comuni interessati anche tra di loro consorziati».

 

Le ricorrenti denunciano l’illegittimità costituzionale della suddetta disposizione sulla base dei medesimi parametri sopra richiamati.

 

10.1.— La censura non è fondata.

 

Deve essere, innanzitutto, rilevato che la citata disposizione regolamentare, nella sua prima parte, si limita, in realtà, ad una mera affermazione di principio relativamente ad una generale ed ineludibile esigenza, qual è quella relativa alla fondamentale necessità che anche l’istituzione e il funzionamento delle scuole statali del Primo ciclo (come, del resto, per tutti gli ordini di scuole) rispondano a criteri di qualità ed efficienza del servizio scolastico.

 

Sotto questo aspetto, la disposizione censurata, essendo priva di un reale contenuto precettivo, non sarebbe idonea, per sé sola considerata, a recare alcun vulnus alle competenze regionali in materia di istruzione.

 

Nella sua seconda parte, però, la disposizione di cui al comma 1 dell’art. 3 contiene una prescrizione, la quale ha, invece, un suo specifico contenuto precettivo.

 

Essa precisa che l’obiettivo della qualità ed efficienza del servizio scolastico nel Primo ciclo deve essere perseguito «nel quadro della qualificazione dell’offerta formativa e nell’ambito di proficue collaborazioni tra l’amministrazione scolastica e i comuni interessati anche tra di loro consorziati».

 

Considerata nel suo complesso, la disposizione impugnata, inserita nel citato comma 1 dell’art. 3 del regolamento governativo di delegificazione, può essere ricondotta, per il suo contenuto sostanziale, all’attuazione di disposizioni che questa Corte ha riconosciuto come ascrivibili alla materia delle norme generali sull’istruzione, riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lettera n, Cost.). Ciò in quanto essa tende concretamente a dare attuazione a disposizioni, d’ordine appunto generale, e come tali operanti in tutto il territorio nazionale, contenute nell’art. 64, comma 4, del d.l. n. 112 del 2008 e qualificate, con la citata sentenza n. 200 del 2009, come norme generali sull’istruzione.

 

Infatti, proprio per l’espresso riferimento alle esigenze specifiche della «qualificazione dell’offerta formativa», la disposizione impugnata concorre − per quanto attiene particolarmente al Primo ciclo dell’istruzione, che per sua natura riveste un fondamentale rilievo nella formazione delle nuove generazioni di scolari al loro primo contatto con il mondo della scuola − a delineare quel sistema nazionale dell’istruzione, il quale necessariamente deve essere caratterizzato da elementi di unitarietà ed uniformità su tutto il territorio nazionale.

 

A ciò va aggiunto che la disposizione del comma 1 in questione, specificamente per il suo riferimento ai «criteri di qualità ed efficienza del servizio» scolastico del Primo ciclo dell’istruzione, ai fini del miglioramento dell’offerta formativa, non è in contrasto, ma anzi ne rappresenta il necessario presupposto, con quanto previsto dal d.lgs. 19 febbraio 2004, n. 59, recante la «Definizione delle misure generali relative alla scuola dell’infanzia e al Primo ciclo dell’istruzione, a norma dell’articolo 1 della legge 28 marzo 2003, n. 53».

 

Quanto, infine, ai profili attinenti alla leale collaborazione, con riguardo alle deduzione delle ricorrenti circa la illegittimità della mancata previsione nella norma censurata di un coinvolgimento regionale, deve osservarsi che, vertendosi in materia di competenza statale esclusiva, non sussisteva per lo Stato alcun obbligo a tale riguardo. Nondimeno, la norma regolamentare in esame si è data carico del coinvolgimento delle istituzioni locali e ha corrispondentemente previsto che la qualificazione dell’offerta formativa deve svolgersi comunque «nell’ambito di proficue collaborazioni tra l’amministrazione scolastica e i comuni interessati», eventualmente tra loro consorziati; con ciò prevedendo, appunto, un meccanismo di leale collaborazione con le istituzioni locali rappresentative degli interessi delle comunità territoriali e soddisfacendo la relativa esigenza di coordinamento interistituzionale.

 

11.— Alla luce, pertanto, delle considerazioni innanzi svolte, in parziale accoglimento dei due ricorsi regionali indicati in epigrafe, deve essere dichiarato che non spettava allo Stato emanare le disposizioni regolamentari contenute nell’art. 2, commi 4 e 6, del d.P.R. n. 89 del 2009. Di tali disposizioni deve essere disposto l’annullamento.

 

12.— I due ricorsi devono essere, invece, respinti nella parte in cui censurano l’art. 3, comma 1, del medesimo regolamento governativo con la conseguenza che deve essere dichiarato che spettava allo Stato l’adozione della citata disposizione contenuta nel medesimo d.P.R. n. 89 del 2009.

 

per questi motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

 

a) dichiara che non spettava allo Stato disciplinare l’istituzione di nuove scuole dell’infanzia e di nuove sezioni della scuola dell’infanzia, nonché la composizione di queste ultime, nei termini stabiliti dall’art. 2, commi 4 e 6, del decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 2009, n. 89 (Revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico della scuola dell’infanzia e del Primo ciclo di istruzione ai sensi dell’articolo 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), e per l’effetto annulla l’articolo 2, commi 4 e 6, del suddetto d.P.R. n. 89 del 2009;

 

b) dichiara che spettava allo Stato stabilire i criteri ai quali devono rispondere l’istituzione e il funzionamento di scuole statali del Primo ciclo, nei termini stabiliti dall’art. 3, comma 1, del suddetto d.P.R. n. 89 del 2009.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 marzo 2011.

 

Presidente

 

Redattore

 

Cancelliere

 

Depositata in Cancelleria il 21 marzo 2011.

 

Il Cancelliere

 

 

Sentenza CEDU 18 marzo 2011

 

 

GRANDE CHAMBRE

AFFAIRE LAUTSI ET AUTRES c. ITALIE

(Requête no 30814/06)

ARRÊT

 

 

 

STRASBOURG

 

18 mars 2011

 

 

Cet arrêt est définitif. Il peut subir des retouches de forme.


En l’affaire Lautsi et autres c. Italie,

La Cour européenne des droits de l’homme, siégeant en une Grande Chambre composée de :

Jean-Paul Costa, président,
Christos Rozakis,
Nicolas Bratza,
Peer Lorenzen,
Josep Casadevall,
Giovanni Bonello,

Nina Vajić,
Rait Maruste,
Anatoly Kovler,
Sverre Erik Jebens,
Päivi Hirvelä,
Giorgio Malinverni,
George Nicolaou,
Ann Power,
Zdravka Kalaydjieva,

Mihai Poalelungi,
Guido Raimondi, juges,
et d’Erik Fribergh, greffier,

Après en avoir délibéré en chambre du conseil les 30 juin 2010 et 16 février 2011,

Rend l’arrêt que voici, adopté à cette dernière date :

PROCÉDURE

1.  A l’origine de l’affaire se trouve une requête (no 30814/06) dirigée contre la République italienne et dont une ressortissante de cet Etat, Mme Soile Lautsi (« la requérante »), a saisi la Cour le 27 juillet 2006 en vertu de l’article 34 de la Convention de sauvegarde des droits de l’homme et des libertés fondamentales (« la Convention »). Dans sa requête, elle indique agir en son nom ainsi qu’au nom de ses enfants alors mineurs, Dataico et Sami Albertin. Devenus entre-temps majeurs, ces derniers ont confirmé vouloir demeurer requérants (« les deuxième et troisième requérants »).

2.  Les requérants sont représentés par Me N. Paoletti, avocat à Rome. Le gouvernement italien (« le Gouvernement ») est représenté par son agent, Mme E. Spatafora, et par ses coagents adjoints, M. N. Lettieri et Mme P. Accardo.

3.  La requête a été attribuée à la deuxième section de la Cour (article 52 § 1 du règlement). Le 1er juillet 2008, une chambre de ladite section, composée des juges dont le nom suit : Françoise Tulkens, Antonella Mularoni, Vladimiro Zagrebelsky, Danutė Jočienė, Dragoljub Popović, András Sajó et Işıl Karakaş, a décidé de communiquer la requête au Gouvernement ; se prévalant des dispositions de l’article 29 § 3 de la Convention, elle a également décidé que seraient examinés en même temps la recevabilité et le bien-fondé de l’affaire.

4.  Le 3 novembre 2009, une chambre de cette même section, composée des juges dont le nom suit : Françoise Tulkens, présidente, Ireneu Cabral Barreto, Vladimiro Zagrebelsky, Danutė Jočienė, Dragoljub Popović, András Sajó et Işıl Karakaş, a déclaré la requête recevable et a conclu à l’unanimité à la violation de l’article 2 du Protocole no 1 examiné conjointement avec l’article 9 de la Convention, et au non-lieu à examen du grief tiré de l’article 14 de la Convention.

5.  Le 28 janvier 2010, le Gouvernement a demandé le renvoi de l’affaire devant la Grande chambre en vertu des articles 43 de la Convention et 73 du règlement de la Cour. Le 1er mars 2010, un collège de la Grande Chambre a fait droit à cette demande.

6.  La composition de la Grande Chambre a été arrêtée conformément aux articles 26 §§ 4 et 5 de la Convention et 24 du règlement.

7.  Tant les requérants que le Gouvernement ont déposé des observations écrites complémentaires sur le fond de l’affaire.

8.  Se sont vus accorder l’autorisation d’intervenir dans la procédure écrite (article 36 § 2 de la Convention et article 44 § 2 du règlement), trente-trois membres du Parlement européen agissant collectivement, l’organisation non-gouvernementale Greek Helsinki Monitor, déjà intervenante devant la chambre, l’organisation non gouvernementale Associazione nazionale del libero Pensiero, l’organisation non gouvernementale European Centre for Law and Justice, l’organisation non gouvernementale Eurojuris, les organisations non gouvernementales commission internationale de juristes, Interights et Human Rights Watch, agissant collectivement, les organisations non-gouvernementales Zentralkomitee der deutschen Katholiken, Semaines sociales de France, Associazioni cristiane Lavoratori italiani, agissant collectivement, ainsi que les gouvernements de l’Arménie, de la Bulgarie, de Chypre, de la Fédération de Russie, de la Grèce, de la Lituanie, de Malte, de Monaco, de la Roumanie et de la République de Saint-Marin. Les gouvernements de l’Arménie, de la Bulgarie, de Chypre, de la Fédération de Russie, de la Grèce, de la Lituanie, de Malte, et de la République de Saint-Marin ont en outre été autorisés à intervenir collectivement dans la procédure orale.

9.  Une audience s’est déroulée en public au Palais des droits de l’Homme, à Strasbourg, le 30 juin 2010 (article 59 § 3 du règlement).
Ont comparu :

 

–        pour le gouvernement défendeur

MM.  Nicola LETTIERI,                                                           co-agent,

Giuseppe ALBENZIO,                                                 conseiller ;

 

–        pour les requérants

Me Nicolò PAOLETTI,                                                            conseil,

Me Natalia PAOLETTI,

Mme Claudia SARTORI,                                                     conseillers ;

 

–        pour les gouvernements de l’Arménie, de la Bulgarie, de Chypre, de la Fédération de Russie, de la Grèce, de la Lituanie, de Malte, et de la République de Saint-Marin, tiers intervenants :

 

MM. Joseph WEILER, professeur à la faculté de droit de

l’université de New York,                                                   conseil,

Stepan KARTASHYAN, représentant permanent adjoint de

l’Arménie auprès de Conseil de l’Europe ;

Andrey TEHOV, ambassadeur, représentant permanent de la

Bulgarie auprès du Conseil de l’Europe ;

Yannis MICHILIDES, représentant permanent adjoint de

Chypre auprès du Conseil de l’Europe ;

Mme Vasileia PELEKOU, adjointe au représentant permanent de

la Grèce auprès du Conseil de l’Europe ;

MM. Darius ŠIMAITIS, représentant permanent adjoint de la Lituanie                               auprès du Conseil de l’Europe ;

Joseph LICARI, ambassadeur, représentant permanent de Malte

auprès du Conseil de l’Europe ;

Georgy MATYUSHKIN, agent du gouvernement de la Fédération de Russie ;

Me Guido BELLATTI CECCIOLI, co-agent du gouvernement de

la République de Saint-Marin,                                      conseillers.

 

La Cour a entendu Mes Nicolò Paoletti et Natalia Paoletti, ainsi que MM. Lettieri, Albenzio et Weiler.

EN FAIT

I.  LES CIRCONSTANCES DE L’ESPÈCE

10.  Nés respectivement en 1957, 1988 et 1990, la requérante et ses deux fils, Dataico et Sami Albertin, également requérants, résident en Italie. Ces derniers étaient scolarisés en 2001-2002 dans l’école publique Istituto comprensivo statale Vittorino da Feltre, à Abano Terme. Un crucifix était accroché dans les salles de classe de l’établissement

11.  Le 22 avril 2002, au cours d’une réunion du conseil d’école, le mari de la requérante souleva le problème de la présence de symboles religieux dans les salles de classe, de crucifix en particulier, et posa la question de leur retrait. Le 27 mai 2002, par dix voix contre deux, avec une abstention, le conseil d’école décida de maintenir les symboles religieux dans les salles de classe.

12.  Le 23 juillet 2002, la requérante saisit le tribunal administratif de Vénétie de cette décision, dénonçant une violation du principe de laïcité – elle se fondait à cet égard sur les articles 3 (principe d’égalité) et 19 (liberté religieuse) de la Constitution italienne et sur l’article 9 de la Convention – ainsi que du principe d’impartialité de l’administration publique (article 97 de la Constitution).

13.  Le 3 octobre 2002, le ministre de l’Instruction, de l’Université et de la Recherche prit une directive (no 2666) aux termes de laquelle les services compétents de son ministère devaient prendre les dispositions nécessaires afin, notamment, que les responsables scolaires assurent la présence de crucifix dans les salles de classe (paragraphe 24 ci-dessous).

Le 30 octobre 2003, ledit ministre se constitua partie dans la procédure initiée par la requérante. Il concluait au défaut de fondement de la requête, arguant de ce que la présence de crucifix dans les salles de classe des écoles publiques se fondait sur l’article 118 du décret royal no 965 du 30 avril 1924 (règlement intérieur des établissements d’instruction moyenne) et l’article 119 du décret royal no 1297 du 26 avril 1928 (approbation du règlement général des services d’enseignement primaire ; paragraphe 19 ci-dessous).

14.  Par une ordonnance du 14 janvier 2004, le tribunal administratif saisit la Cour constitutionnelle de la question de la constitutionnalité, au regard du principe de laïcité de l’Etat et des articles 2, 3, 7, 8, 19 et 20 de la Constitution, des articles 159 et 190 du décret-loi no 297 du 16 avril 1994 (portant approbation du texte unique des dispositions législatives en vigueur en matière d’instruction et relatives aux écoles), dans leurs « spécifications » résultant des articles 118 et 119 des décrets royaux susmentionnés, ainsi que de l’article 676 dudit décret-loi.

Les articles 159 et 190 du décret-loi mettent la fourniture et le financement du mobilier scolaire des écoles primaires et moyennes à la charge des communes, tandis que l’article 119 du décret de 1928 inclut le crucifix sur la liste des meubles devant équiper les salles de classe, et l’article 118 du décret de 1924 spécifie que chaque classe doit être pourvue du portrait du roi et d’un crucifix. Quant à l’article 676 du décret-loi, il précise que les dispositions non comprises dans le texte unique restent en vigueur, « à l’exception des dispositions contraires ou incompatibles avec le texte unique, qui sont abrogées ».

Par une ordonnance du 15 décembre 2004 (no 389), la Cour constitutionnelle déclara la question de constitutionnalité manifestement irrecevable, au motif qu’elle visait en réalité des textes qui, n’ayant pas rang de loi mais rang réglementaire (les articles 118 et 119 susmentionnés), ne pouvaient être l’objet d’un contrôle de constitutionnalité.

15.  Le 17 mars 2005, le tribunal administratif rejeta le recours. Après avoir conclu que l’article 118 du décret royal du 30 avril 1924 et l’article 119 du décret royal du 26 avril 1928 étaient encore en vigueur et souligné que « le principe de laïcité de l’Etat fait désormais partie du patrimoine juridique européen et des démocraties occidentales », il jugea que la présence de crucifix dans les salles de classe des écoles publiques, eu égard à la signification qu’il convenait de lui donner, ne se heurtait pas audit principe. Il estima notamment que, si le crucifix était indéniablement un symbole religieux, il s’agissait d’un symbole du christianisme en général, plutôt que du seul catholicisme, de sorte qu’il renvoyait à d’autres confessions. Il considéra ensuite qu’il s’agissait de surcroît d’un symbole historico-culturel, pourvu à ce titre d’une « valeur identitaire » pour le peuple italien en ce qu’il « représente d’une certaine manière le parcours historique et culturel caractéristique de [l’Italie] et en général de l’Europe toute entière, et qu’il en constitue une bonne synthèse ». Il retint en outre que le crucifix devait aussi être considéré comme un symbole d’un système de valeurs qui innervent la charte constitutionnelle italienne. Son jugement est ainsi motivé :

« (…) 11.1. A ce stade, force est de constater, même en étant conscient de s’engager sur un chemin impraticable et parfois glissant, que le christianisme, ainsi que le judaïsme son grand-frère – du moins depuis Moïse et certainement dans l’interprétation talmudique –, ont placé au centre de leur foi la tolérance vis-à-vis d’autrui et la protection de la dignité humaine.

Singulièrement, le christianisme – par référence également au bien connu et souvent incompris « Donnez à César ce qui est à César, et à … » –, avec sa forte accentuation du précepte de l’amour pour le prochain, et plus encore par l’explicite prédominance donnée à la charité sur la foi elle-même, contient en substance ces idées de tolérance, d’égalité et de liberté qui sont à la base de l’Etat laïque moderne, et de l’Etat italien en particulier.

11.2. Regarder au-delà des apparences permet de discerner un fil qui relie entre eux la révolution chrétienne d’il y a deux mille ans, l’affirmation en Europe de l’habeas corpus, les éléments charnière du mouvement des Lumières (qui pourtant, historiquement, s’est vivement opposé à la religion), c’est-à-dire la liberté et la dignité de tout homme, la déclaration des droits de l’homme, et enfin l’Etat laïque moderne. Tous les phénomènes historiques mentionnés reposent de manière significative – quoique certainement non exclusive – sur la conception chrétienne du monde. Il a été observé avec finesse que la devise bien connue de « liberté, égalité, fraternité » peut aisément être partagée par un chrétien, fût-ce avec une claire accentuation du troisième terme.

En conclusion, il ne semble pas hasardeux d’affirmer que, à travers les parcours tortueux et accidentés de l’histoire européenne, la laïcité de l’Etat moderne a été durement conquise, et ce aussi – bien sûr pas uniquement – avec la référence plus ou moins consciente aux valeurs fondatrices du christianisme. Cela explique qu’en Europe et en Italie de nombreux juristes de foi chrétienne aient figuré parmi les plus ardents défenseurs de l’Etat laïque. (…)

11.5. Le lien entre christianisme et liberté implique une cohérence historique logique non immédiatement perceptible – à l’image d’un fleuve karstique qui n’aurait été exploré qu’à une époque récente, précisément parce qu’en grande partie souterrain –, et ce aussi parce que dans le parcours tourmenté des rapports entre les Etats et les Eglises d’Europe on voit bien plus facilement les nombreuses tentatives de ces dernières pour interférer dans les questions d’Etat, et vice-versa, tout comme ont été assez fréquents l’abandon des idéaux chrétiens pourtant proclamés, pour des raisons de pouvoir, et les oppositions quelquefois violentes entre gouvernements et autorités religieuses.

11.6. Par ailleurs, si l’on adopte une optique prospective, dans le noyau central et constant de la foi chrétienne, malgré l’inquisition, l’antisémitisme et les croisades, on peut aisément identifier les principes de dignité humaine, de tolérance, de liberté y compris religieuse, et donc, en dernière analyse, le fondement de l’Etat laïque.

11.7. En regardant bien l’histoire, donc en prenant de la hauteur et non en restant au fond de la vallée, on discerne une perceptible affinité (mais non une identité) entre le « noyau dur » du christianisme qui, faisant primer la charité par rapport à tout autre aspect, y compris la foi, met l’accent sur l’acceptation de la différence, et le « noyau dur » de la Constitution républicaine, qui consiste en la valorisation solidaire de la liberté de chacun et donc en la garantie juridique du respect d’autrui. L’harmonie demeure même si, autour de ces noyaux – tous deux centrés sur la dignité humaine –, se sont avec le temps incrustés de nombreux éléments, quelques-uns si épais qu’ils dissimulent les noyaux, en particulier celui du christianisme. (…)

11.9. On peut donc soutenir que, dans la réalité sociale actuelle, le crucifix est à considérer non seulement comme un symbole d’une évolution historique et culturelle, et donc de l’identité de notre peuple, mais aussi en tant que symbole d’un système de valeurs – liberté, égalité, dignité humaine et tolérance religieuse, et donc également laïcité de l’Etat –, principes qui innervent notre charte constitutionnelle.

En d’autres termes, les principes constitutionnels de liberté possèdent de nombreuses racines, parmi lesquelles figure indéniablement le christianisme, dans son essence même. Il serait donc légèrement paradoxal d’exclure un signe chrétien d’une structure publique au nom de la laïcité, dont l’une des sources lointaines est précisément la religion chrétienne.

12.1. Ce tribunal n’ignore certes pas que l’on a par le passé attribué au symbole du crucifix d’autres valeurs comme, à l’époque du Statut Albertin, celle du signe du catholicisme entendu comme religion de l’Etat, utilisé donc pour christianiser un pouvoir et consolider une autorité.

Ce tribunal sait bien, par ailleurs, qu’aujourd’hui encore on peut donner différentes interprétations au symbole de la croix, et avant tout une interprétation strictement religieuse renvoyant au christianisme en général et au catholicisme en particulier. Il est également conscient que certains élèves fréquentant l’école publique pourraient librement et légitimement attribuer à la croix des valeurs encore différentes, comme le signe d’une inacceptable préférence pour une religion par rapport à d’autres, ou d’une atteinte à la liberté individuelle et donc à la laïcité de l’Etat, à la limite d’une référence au césaropapisme ou à l’inquisition, voire d’un bon gratuit de catéchisme tacitement distribué même aux non-croyants en un lieu qui ne s’y prête pas, ou enfin d’une propagande subliminale en faveur des confessions chrétiennes. Si ces points de vue sont tous respectables, ils sont au fond dénués de pertinence en l’espèce. (…)

12.6. Il faut souligner que le symbole du crucifix ainsi entendu revêt aujourd’hui, par ses références aux valeurs de tolérance, une portée particulière dans la considération que l’école publique italienne est actuellement fréquentée par de nombreux élèves extracommunautaires, auxquels il est relativement important de transmettre les principes d’ouverture à la diversité et de refus de tout intégrisme – religieux ou laïque – qui imprègnent notre système. Notre époque est marquée par une rencontre bouillonnante avec d’autres cultures, et pour éviter que cette rencontre ne se transforme en heurt, il est indispensable de réaffirmer même symboliquement notre identité, d’autant plus que celle-ci se caractérise précisément par les valeurs de respect de la dignité de tout être humain et d’universalisme solidaire. (…)

13.2. En fait, les symboles religieux en général impliquent un mécanisme logique d’exclusion ; en effet, le point de départ de toute foi religieuse est précisément la croyance en une entité supérieure, raison pour laquelle les adhérents, ou les fidèles, se trouvent par définition et conviction dans le vrai. En conséquence et de manière inévitable, l’attitude de celui qui croit face à celui qui ne croit pas, et qui donc s’oppose implicitement à l’être suprême, est une attitude d’exclusion. (…)

13.3. Le mécanisme logique d’exclusion de l’infidèle est inhérent à toute conviction religieuse, même si les intéressés n’en sont pas conscients, la seule exception étant le christianisme – là où il est bien compris, ce qui bien sûr n’a pas toujours été et n’est pas toujours le cas, pas même grâce à celui qui se proclame chrétien –, pour lequel la foi même en l’omniscient est secondaire par rapport à la charité, c’est-à-dire au respect du prochain. Il s’ensuit que le rejet d’un non-croyant par un chrétien implique la négation radicale du christianisme lui-même, une abjuration substantielle ; mais cela ne vaut pas pour les autres fois religieuses, pour lesquelles pareille attitude reviendra, au pire, à violer un important précepte.

13.4. La croix, symbole du christianisme, ne peut donc exclure quiconque sans se nier elle-même ; elle constitue même en un certain sens le signe universel de l’acceptation et du respect de tout être humain en tant que tel, indépendamment de toute croyance, religieuse ou non, pouvant être la sienne.

14.1. Il n’est guère besoin d’ajouter que la croix en classe, correctement comprise, fait abstraction des libres convictions de chacun, n’exclut personne et bien sûr n’impose et ne prescrit rien à quiconque, mais implique simplement, au cœur des finalités de l’éducation et de l’enseignement de l’école publique, une réflexion – nécessairement guidée par les enseignants – sur l’histoire italienne et sur les valeurs communes de notre société juridiquement retranscrites dans la Constitution, parmi lesquelles, en premier lieu, la laïcité de l’Etat. (…) »

16.  Saisi par la requérante, le Conseil d’Etat confirma que la présence de crucifix dans les salles de classe des écoles publiques trouvait son fondement légal dans l’article 118 du décret royal du 30 avril 1924 et l’article 119 du décret royal du 26 avril 1928 et, eu égard à la signification qu’il fallait lui donner, était compatible avec le principe de laïcité. Sur ce point, il jugea en particulier qu’en Italie, le crucifix symbolisait l’origine religieuse des valeurs (la tolérance, le respect mutuel, la valorisation de la personne, l’affirmation de ses droits, la considération pour sa liberté, l’autonomie de la conscience morale face à l’autorité, la solidarité humaine, le refus de toute discrimination) qui caractérisent la civilisation italienne. En ce sens, exposé dans les salles de classes, le crucifix pouvait remplir – même dans une perspective « laïque » distincte de la perspective religieuse qui lui est propre – une fonction symbolique hautement éducative, indépendamment de la religion professée par les élèves. Selon le Conseil d’Etat,  il faut y voir un symbole capable de refléter les sources remarquables des valeurs civiles susmentionnées, valeurs qui définissent la laïcité dans l’ordre juridique actuel de l’Etat.

Daté du 13 avril 2006, l’arrêt (no 556) est ainsi motivé :

« (…) la Cour constitutionnelle a plusieurs fois reconnu dans la laïcité un principe suprême de notre ordre constitutionnel, capable de résoudre certaines questions de légitimité constitutionnelle (parmi de nombreux arrêts, voir ceux qui portent sur les normes relatives au caractère obligatoire de l’enseignement religieux à l’école ou à la compétence juridictionnelle quant aux affaires concernant la validité du lien matrimonial contracté selon le droit canonique et consigné dans les registres de l’état civil).

Il s’agit d’un principe qui n’est pas proclamé en termes exprès dans notre charte fondamentale, d’un principe qui, empli de résonances idéologiques et d’une histoire controversée, revêt néanmoins une importance juridique qui peut se déduire des normes fondamentales de notre système. En réalité, la Cour tire ce principe spécifiquement des articles 2, 3, 7, 8, 19 et 20 de la Constitution.

Ce principe utilise un symbole linguistique (« laïcité ») qui indique de manière abrégée certains aspects significatifs des dispositions susmentionnées, dont les contenus établissent les conditions d’usage selon lesquelles ce symbole doit s’entendre et fonctionne. Si ces conditions spécifiques d’usage n’étaient pas établies, le principe de « laïcité » demeurerait confiné aux conflits idéologiques et pourrait difficilement être utilisé dans le cadre juridique.

De ce cadre, les conditions d’usage sont bien sûr déterminées par référence aux traditions culturelles et aux coutumes de chaque peuple, pour autant que ces traditions et coutumes se reflètent dans l’ordre juridique. Or celui-ci diffère d’une nation à l’autre. (…)

Dans le cadre de cette instance juridictionnelle et du problème dont elle est saisie, à savoir la légitimité de l’exposition du crucifix dans les salles de classe, prévue par les autorités compétentes en application de normes réglementaires, il s’agit concrètement et plus simplement de vérifier si cette prescription porte ou non atteinte au contenu des normes fondamentales de notre ordre constitutionnel, qui donnent une forme et une substance au principe de « laïcité » qui caractérise aujourd’hui l’Etat italien et auquel le juge suprême des lois s’est plusieurs fois référé.

De toute évidence, le crucifix est en lui-même un symbole qui peut revêtir diverses significations et servir à des fins diverses, avant tout pour le lieu où il a été placé.

Dans un lieu de culte, le crucifix est justement et exclusivement un « symbole religieux », puisqu’il vise à susciter une adhésion respectueuse envers le fondateur de la religion chrétienne.

Dans un cadre non religieux comme l’école, laquelle est destinée à l’éducation des jeunes, le crucifix peut encore revêtir pour les croyants les valeurs religieuses susmentionnées, mais, pour les croyants comme pour les non-croyants, son exposition se trouve justifiée et possède une signification non discriminatoire du point de vue religieux s’il est capable de représenter et d’évoquer de manière synthétique et immédiatement perceptible et prévisible (comme tout symbole) des valeurs civilement importantes, en particulier les valeurs qui sous-tendent et inspirent notre ordre constitutionnel, fondement de notre vie civile. En ce sens, le crucifix peut remplir – même dans une perspective « laïque » distincte de la perspective religieuse qui lui est propre – une fonction symbolique hautement éducative, indépendamment de la religion professée par les élèves.

Or il est évident qu’en Italie le crucifix est capable d’exprimer, du point de vue symbolique justement mais de manière adéquate, l’origine religieuse des valeurs que sont la tolérance, le respect mutuel, la valorisation de la personne, l’affirmation de ses droits, la considération pour sa liberté, l’autonomie de la conscience morale face à l’autorité, la solidarité humaine, le refus de toute discrimination, qui caractérisent la civilisation italienne.

Ces valeurs, qui ont imprégné des traditions, un mode de vie, la culture du peuple italien, sont à la base et ressortent des normes fondamentales de notre charte fondamentale – contenues dans les « Principes fondamentaux » et la première partie – et singulièrement de celles qui ont été rappelées par la Cour constitutionnelle et qui délimitent la laïcité propre à l’Etat italien.

La référence, au travers du crucifix, à l’origine religieuse de ces valeurs et à leur pleine et entière correspondance avec les enseignements chrétiens met donc en évidence les sources transcendantes desdites valeurs, ce sans remettre en cause, voire en confirmant, l’autonomie (mais non l’opposition, implicite dans une interprétation idéologique de la laïcité qui ne trouve aucun pendant dans notre charte fondamentale) de l’ordre temporel face à l’ordre spirituel, et sans rien enlever à leur « laïcité » particulière, adaptée au contexte culturel propre à l’ordre fondamental de l’Etat italien et manifesté par lui. Ces valeurs sont donc vécues dans la société civile de manière autonome (de fait non contradictoire) à l’égard de la société religieuse, de sorte qu’elles peuvent être consacrées « laïquement » par tous, indépendamment de l’adhésion à la confession qui les a inspirées et défendues.

Comme à tout symbole, on peut imposer ou attribuer au crucifix des significations diverses et contrastées ; on peut même en nier la valeur symbolique pour en faire un simple bibelot qui aura tout au plus une valeur artistique. On ne saurait toutefois concevoir un crucifix exposé dans une salle de classe comme un bibelot, un objet de décoration, ni davantage comme un objet du culte. Il faut plutôt le concevoir comme un symbole capable de refléter les sources remarquables des valeurs civiles rappelées ci-dessus, des valeurs qui définissent la laïcité dans l’ordre juridique actuel de l’Etat. (…) »

II.  L’EVOLUTION DU DROIT ET DE LA PRATIQUE INTERNES PERTINENTS

17.  L’obligation d’accrocher un crucifix dans les salles de classe des écoles primaires était prévue par l’article 140 du décret royal no 4336 du 15 septembre 1860 du royaume de Piémont-Sardaigne, pris en application de la loi no 3725 du 13 novembre 1859 aux termes de laquelle « chaque école devra[it] sans faute être pourvue (…) d’un crucifix » (article 140).

En 1861, année de naissance de l’Etat italien, le Statut du Royaume de Piémont-Sardaigne de 1848 devint la Charte constitutionnelle du royaume d’Italie ; il énonçait notamment que « la religion catholique apostolique et romaine [était] la seule religion de l’Etat [et que] les autres cultes existants [étaient] tolérés en conformité avec la loi ».

18.  La prise de Rome par l’armée italienne, le 20 septembre 1870, à la suite de laquelle Rome fut annexée et proclamée capitale du nouveau Royaume d’Italie, provoqua une crise des relations entre l’Etat et l’Eglise catholique. Par la loi no 214 du 13 mai 1871, l’Etat italien réglementa unilatéralement les relations avec l’Eglise et accorda au pape un certain nombre de privilèges pour le déroulement régulier de l’activité religieuse. Selon les requérants, l’exposition de crucifix dans les établissements scolaires tomba petit à petit en désuétude.

19.  Lors de la période fasciste, l’Etat prit une série de mesures visant à faire respecter l’obligation d’exposer le crucifix dans les salles de classe.

Ainsi, notamment, le ministère de l’Instruction publique prit, le 22 novembre 1922, une circulaire (no 68) ainsi libellée : « (…) ces dernières années, dans beaucoup d’écoles primaires du Royaume l’image du Christ et le portrait du Roi ont été enlevés. Cela constitue une violation manifeste et non tolérable d’une disposition réglementaire et surtout une atteinte à la religion dominante de l’Etat ainsi qu’à l’unité de la Nation. Nous intimons alors à toutes les administrations municipales du Royaume l’ordre de rétablir dans les écoles qui en sont dépourvues les deux symboles sacrés de la foi et du sentiment national. »

Le 30 avril 1924 fut adopté le décret royal no 965 du 30 avril 1924 portant règlement intérieur des établissements d’instruction moyenne (ordinamento interno delle giunte e dei regi istituti di istruzione media), dont l’article 118 est ainsi libellé :

« Chaque établissement scolaire doit avoir le drapeau national, chaque salle de classe l’image du crucifix et le portrait du roi. »

Quant au décret royal no 1297 du 26 avril 1928, portant approbation du règlement général des services d’enseignement primaire (approvazione del regolamento generale sui servizi dell’istruzione elementare), il précise en son article 119 que le crucifix figure parmi les « équipements et matériels nécessaires aux salles de classe des écoles ».

20.  Les Pactes du Latran, signés le 11 février 1929, marquèrent la « Conciliation » de l’Etat italien et de l’Eglise catholique. Le catholicisme fut confirmé comme la religion officielle de l’Etat italien, l’article 1er du traité étant ainsi libellé :

« L’Italie reconnaît et réaffirme le principe consacré par l’article 1er du Statut Albertin du Royaume du 4 mars 1848, selon lequel la religion catholique, apostolique et romaine est la seule religion de l’Etat. »

21.  En 1948, l’Etat italien adopta sa Constitution républicaine, dont l’article 7 établit que « l’Etat et l’Église catholique sont, chacun dans son ordre, indépendants et souverains[, que] leurs rapports sont réglementés par les pactes du Latran[, et que] les modifications des pactes, acceptées par les deux parties, n’exigent pas de procédure de révision constitutionnelle ». Par ailleurs, l’article 8 énonce que « toutes les confessions religieuses sont également libres devant la loi[, que] les confessions religieuses autres que la confession catholique ont le droit de s’organiser selon leurs propres statuts, en tant qu’ils ne s’opposent pas à l’ordre juridique italien[, et que] leurs rapports avec l’Etat sont fixés par la loi sur la base d’ententes avec leurs représentants respectifs ».

22.  Le protocole additionnel au nouveau concordat, du 18 février 1984, ratifié par la loi no 121 du 25 mars 1985, énonce que le principe posé par les pactes du Latran selon lequel la religion catholique est la seule religion de l’Etat n’est plus en vigueur.

23.  Dans un arrêt du 12 avril 1989 (no 203), rendu dans le contexte de l’examen de la question du caractère non obligatoire de l’enseignement de la religion catholique dans les écoles publiques, la Cour constitutionnelle a conclu que le principe de laïcité a valeur constitutionnelle, précisant qu’il implique non que l’Etat soit indifférent face aux religions mais qu’il garantisse la sauvegarde de la liberté de religion dans le pluralisme confessionnel et culturel.

Saisie en la présente espèce de la question de la conformité à ce principe de la présence de crucifix dans les salles de classe des écoles publiques, la Cour constitutionnelle s’est déclarée incompétente eu égard à la nature réglementaire des textes prescrivant cette présence (ordonnance du 15 décembre 2004, no 389 ; paragraphe 14 ci-dessus). Conduit à examiner cette question, le Conseil d’Etat a jugé que, vu la signification qu’il y avait lieu de lui donner, la présence de crucifix dans les salles de classe des écoles publiques était compatible avec le principe de laïcité (arrêt du 13 février 2006, no 556 ; paragraphe 16 ci-dessus).

Dans une affaire distincte, la Cour de cassation avait conclu à l’inverse du Conseil d’Etat dans le contexte d’une procédure pénale dirigée contre une personne poursuivie pour avoir refusé d’assumer la charge de scrutateur dans un bureau de vote au motif qu’un crucifix s’y trouvait. Dans son arrêt du 1er mars 2000 (no 439), elle a en effet jugé que cette présence portait atteinte aux principes de laïcité et d’impartialité de l’Etat ainsi qu’au principe de liberté de conscience de ceux qui ne se reconnaissent pas dans ce symbole. Elle a rejeté expressément la thèse selon laquelle l’exposition du crucifix trouverait sa justification dans ce qu’il serait le symbole d’une « civilisation entière ou de la conscience éthique collective » et – la Cour de cassation citait là les termes utilisés par le Conseil d’Etat dans un avis du 27 avril 1988 (no 63) – symboliserait ainsi une « valeur universelle, indépendante d’une confession religieuse spécifique ».

24.  Le 3 octobre 2002, le ministre de l’Instruction, de l’Université et de la Recherche a adopté la directive (no 2666) suivante :

« (…) Le ministre

(…) Considérant que la présence de crucifix dans les salles de classe trouve son fondement dans les normes en vigueur, qu’elle ne viole ni le pluralisme religieux ni les objectifs de formation pluriculturelle de l’École italienne et qu’elle ne saurait être considérée comme une limitation de la liberté de conscience garantie par la Constitution puisqu’elle n’évoque pas une confession spécifique mais constitue uniquement une expression de la civilisation et de la culture chrétienne et qu’elle fait donc partie du patrimoine universel de l’humanité ;

Ayant évalué l’opportunité, dans le respect des différentes appartenances, convictions et croyances, que tout établissement scolaire, dans le cadre de sa propre autonomie et sur décision de ses organes collégiaux compétents, rende disponible un local spécial réservé, hors de toute obligation et horaires de service, au recueillement et à la méditation des membres de la communauté scolaire qui le désirent ;

Prend la directive suivante :

Le service compétent du ministère (…) prendra les dispositions nécessaires pour que :

1) les responsables scolaires assurent la présence de crucifix dans les salles de classe ;

2) Tous les établissements scolaires, dans le cadre de leur propre autonomie et sur décision des membres de leurs organes collégiaux, mettent à disposition un local spécial à réserver, hors de toute obligation et horaires de service, au recueillement et à la méditation des membres de la communauté scolaire qui le désirent (…) »
25.  Les articles 19, 33 et 34 de la Constitution sont ainsi libellés :

Article 19

« Tout individu a le droit de professer librement sa foi religieuse sous quelque forme que ce soit, individuelle ou collective, d’en faire propagande et d’en exercer le culte en privé ou en public, à condition qu’il ne s’agisse pas de rites contraires aux bonnes mœurs. »

Article 33

« L’art et la science sont libres ainsi que leur enseignement.

La République fixe les règles générales concernant l’instruction et crée des écoles publiques pour tous les ordres et tous les degrés. (…) »

Article 34

« L’enseignement est ouvert à tous.

L’instruction de base, dispensée durant au moins huit ans, est obligatoire et gratuite. (…) »

III.  APERÇU DU DROIT ET DE LA PRATIQUE AU SEIN DES ETATS MEMBRES DU CONSEIL DE L’EUROPE S’AGISSANT DE LA PRESENCE DE SYMBOLES RELIGIEUX DANS LES ECOLES PUBLIQUES

26.  Dans une très nette majorité des Etats membres du Conseil de l’Europe, la question de la présence de symboles religieux dans les écoles publiques ne fait pas l’objet d’une réglementation spécifique.

27.  La présence de symboles religieux dans les écoles publiques n’est expressément interdite que dans un petit nombre d’Etats membres : en ex-République yougoslave de Macédoine, en France (sauf en Alsace et en Moselle) et en Géorgie.

Elle n’est expressément prévue – outre en Italie – que dans quelques Etats membres : en Autriche, dans certains Länder d’Allemagne et communes suisses, et en Pologne. Il y a lieu néanmoins de relever que l’on trouve de tels symboles dans les écoles publiques de certains des Etats membres où la question n’est pas spécifiquement réglementée tels que l’Espagne, la Grèce, l’Irlande, Malte, Saint-Marin et la Roumanie.

28.  Les hautes juridictions d’un certain nombre d’Etats membres ont été amenées à examiner la question.

En Suisse, le Tribunal fédéral a jugé une ordonnance communale prévoyant la présence d’un crucifix dans les salles de classes des écoles primaires incompatible avec les exigences de la neutralité confessionnelle consacrée par la Constitution fédérale, sans toutefois condamner cette présence en d’autres lieux dans les établissements scolaires (26 septembre 1990 ; ATF 116 1a 252).

En Allemagne, la Cour constitutionnelle fédérale a jugé une ordonnance bavaroise similaire contraire au principe de neutralité de l’Etat et difficilement compatible avec la liberté de religion des enfants ne se reconnaissant pas dans la religion catholique (16 mai 1995 ; BVerfGE 93,1). Le Parlement bavarois a pris ensuite une nouvelle ordonnance maintenant cette mesure mais prévoyant la possibilité pour les parents d’invoquer leurs convictions religieuses ou laïques pour contester la présence de crucifix dans les salles de classes fréquentées par leurs enfants, et mettant en place un mécanisme destiné le cas échéant à trouver un compromis ou une solution individualisée.

En Pologne, saisie par l’Ombudsman de l’ordonnance du ministre de l’Éducation du 14 avril 1992 prévoyant notamment la possibilité d’exposer des crucifix dans les salles de classe des écoles publiques, la Cour constitutionnelle a conclu que cette mesure était compatible avec la liberté de conscience et de religion et le principe de la séparation de l’Eglise et de l’Etat garantis par l’article 82 de la Constitution dès lors qu’elle ne faisait pas une obligation de cette exposition (20 avril 1993 ; no U 12/32).

En Roumanie, la Cour suprême a annulé une décision du Conseil national pour la lutte contre la discrimination du 21 novembre 2006 qui recommandait au ministère de l’Education de réglementer la question de la présence de symboles religieux dans les établissements publics d’enseignement et, en particulier, de n’autoriser l’exposition de tels symboles que durant les cours de religion ou dans les salles destinées à l’enseignement religieux. La haute juridiction a notamment considéré que la décision d’afficher de tels symboles dans les établissements d’enseignement devait appartenir à la communauté formée par les professeurs, les élèves et les parents de ces derniers (11 juin 2008 ; no 2393).

En Espagne, statuant dans le cadre d’une procédure initiée par une association militant pour une école laïque qui avait vainement requis le retrait des symboles religieux des établissements scolaires, le tribunal supérieur de justice de Castille-et-León a jugé que lesdits établissements devaient procéder à ce retrait en cas de demande explicite des parents d’un élève (14 décembre 2009 ; no 3250).

EN DROIT

I.  SUR LA VIOLATION ALLÉGUÉE DE L’ARTICLE 2 DU PROTOCOLE No 1 ET DE L’ARTICLE 9 DE LA CONVENTION

29.  Les requérants se plaignent du fait que des crucifix étaient accrochés dans les salles de classe de l’école publique où étaient scolarisés les deuxième et troisième requérants. Ils y voient une violation du droit à l’instruction, que l’article 2 du Protocole no 2 garantit en ces termes :

« Nul ne peut se voir refuser le droit à l’instruction. L’Etat, dans l’exercice des fonctions qu’il assumera dans le domaine de l’éducation et de l’enseignement, respectera le droit des parents d’assurer cette éducation et cet enseignement conformément à leurs convictions religieuses et philosophiques. »

Ils déduisent également de ces faits une méconnaissance de leur droit à la liberté de pensée, de conscience et de religion consacré par l’article 9 de la Convention, lequel est ainsi libellé :

« 1.  Toute personne a droit à la liberté de pensée, de conscience et de religion ; ce droit implique la liberté de changer de religion ou de conviction, ainsi que la liberté de manifester sa religion ou sa conviction individuellement ou collectivement, en public ou en privé, par le culte, l’enseignement, les pratiques et l’accomplissement des rites.

2.  La liberté de manifester sa religion ou ses convictions ne peut faire l’objet d’autres restrictions que celles qui, prévues par la loi, constituent des mesures nécessaires, dans une société démocratique, à la sécurité publique, à la protection de l’ordre, de la santé ou de la morale publiques, ou à la protection des droits et libertés d’autrui. »

A.  L’arrêt de la chambre

30.  Dans son arrêt du 3 novembre 2009, la chambre conclut à une violation de l’article 2 du Protocole no 1 examiné conjointement avec l’article 9 de la Convention.

31.  Tout d’abord, la chambre déduit des principes relatifs à l’interprétation de l’article 2 du Protocole no 1 qui se dégagent de la jurisprudence de la Cour, une obligation pour l’Etat de s’abstenir d’imposer, même indirectement, des croyances, dans les lieux où les personnes sont dépendantes de lui ou dans les endroits où elles sont particulièrement vulnérables, soulignant que la scolarisation des enfants représente un secteur particulièrement sensible à cet égard.

Ensuite, elle retient que, parmi la pluralité de significations que le crucifix peut avoir, la signification religieuse est prédominante. Elle considère en conséquence que la présence obligatoire et ostentatoire du crucifix dans les salles de classes était de nature non seulement à heurter les convictions laïques de la requérante dont les enfants étaient alors scolarisés dans une école publique, mais aussi à perturber émotionnellement les élèves professant une autre religion que la religion chrétienne ou ne professant aucune religion. Sur ce tout dernier point, la chambre souligne que la liberté de religion « négative » n’est pas limitée à l’absence de services religieux ou d’enseignement religieux : elle s’étend aux pratiques et aux symboles exprimant, en particulier ou en général, une croyance, une religion ou l’athéisme. Elle ajoute que ce « droit négatif » mérite une protection particulière si c’est l’Etat qui exprime une croyance et si la personne est placée dans une situation dont elle ne peut se dégager ou seulement au prix d’efforts et d’un sacrifice disproportionnés.

Selon la chambre, l’Etat est tenu à la neutralité confessionnelle dans le cadre de l’éducation publique, où la présence aux cours est requise sans considération de religion et qui doit chercher à inculquer aux élèves une pensée critique. Elle ajoute ne pas voir comment l’exposition, dans des salles de classe des écoles publiques, d’un symbole qu’il est raisonnable d’associer à la religion majoritaire en Italie, pourrait servir le pluralisme éducatif qui est essentiel à la préservation d’une « société démocratique » telle que la conçoit la Convention.

32.  La chambre conclut que « l’exposition obligatoire d’un symbole d’une confession donnée dans l’exercice de la fonction publique relativement à des situations spécifiques relevant du contrôle gouvernemental, en particulier dans les salles de classe, restreint le droit des parents d’éduquer leurs enfants selon leurs convictions ainsi que le droit des enfants scolarisés de croire ou de ne pas croire ». D’après elle, cette mesure emporte violation de ces droits car « les restrictions sont incompatibles avec le devoir incombant à l’Etat de respecter la neutralité dans l’exercice de la fonction publique, en particulier dans le domaine de l’éducation » (§ 57 de l’arrêt).

B.  Les thèses des parties

1.  Le Gouvernement

33.  Le Gouvernement ne soulève aucune exception d’irrecevabilité.

34. Il regrette que la chambre n’ait pas disposé d’une étude de droit comparé portant sur les relations entre l’Etat et les religions et sur la question de l’exposition de symboles religieux dans les écoles publiques. Selon lui, elle s’est de la sorte privée d’un élément essentiel, dès lors qu’une telle étude aurait démontré qu’il n’y a pas d’approche commune en Europe en ces domaines, et aurait conduit en conséquence au constat que les Etats membres disposent d’une marge d’appréciation particulièrement importante ; ainsi, l’arrêt de chambre omet de prendre cette marge d’appréciation en considération, éludant de la sorte un aspect fondamental de la problématique.

35.  Il reproche aussi à l’arrêt de la chambre de déduire du concept de «  neutralité » confessionnelle un principe d’exclusion de toute relation entre l’Etat et une religion donnée, alors que la neutralité suppose une prise en compte de toutes les religions par l’autorité publique. L’arrêt reposerait ainsi sur une confusion entre « neutralité » (un « concept inclusif ») et « laïcité » (un « concept exclusif »). De plus, selon le Gouvernement, la neutralité implique que les Etats s’abstiennent de promouvoir non seulement une religion donnée mais aussi l’athéisme, le « laïcisme » étatique n’étant pas moins problématique que le prosélytisme étatique. L’arrêt de la chambre reposerait ainsi sur un malentendu, et aboutirait à favoriser une approche areligieuse ou antireligieuse dont la requérante, membre de l’union des athées et agnostiques rationalistes, serait militante.

36.  Le Gouvernement poursuit en soulignant qu’il faut tenir compte du fait qu’un même symbole peut être interprété différemment d’une personne à l’autre. Il en irait ainsi en particulier de la « croix », qui pourrait être perçue non seulement comme un symbole religieux, mais aussi comme un symbole culturel et identitaire, celui des principes et valeurs qui fondent la démocratie et la civilisation occidentale ; ainsi figure-t-elle sur les drapeaux de plusieurs pays européens. Le Gouvernement ajoute que, quelle que soit sa force évocatrice, une « image » est un symbole « passif », dont l’impact sur les individus n’est pas comparable à celui d’un « comportement actif » ; or nul ne prétend en l’espèce que le contenu de l’enseignement dispensé en Italie est influencé par la présence de crucifix dans les salles de classes.

Il précise que cette présence est l’expression d’une « particularité nationale », caractérisée notamment par des rapports étroits entre l’Etat, le peuple et le catholicisme, qui s’expliquent par l’évolution historique, culturelle et territoriale de l’Italie ainsi que par un enracinement profond et ancien des valeurs du catholicisme. Maintenir les crucifix en ces lieux revient donc à préserver une tradition séculaire. Selon lui, le droit des parents au respect de leur « culture familiale » ne doit porter atteinte ni à celui de la communauté de transmettre sa culture ni à celui des enfants de la découvrir. De plus, en se contentant d’un « risque potentiel » de perturbation émotionnelle pour conclure à une violation des droits à l’instruction et à la liberté de pensée, de conscience et religion, la chambre aurait considérablement élargi le champ d’application de ceux-ci.

37.  Renvoyant notamment à l’arrêt Otto-Preminger-Institut c. Autriche du 20 septembre 1994 (série A no 295-A), le Gouvernement souligne que, s’il y a lieu de prendre en compte le fait que la religion catholique est celle d’une très grande majorité d’Italiens, ce n’est pas pour en tirer une circonstance aggravante comme l’a fait la chambre. La Cour se devrait au contraire de reconnaître et protéger les traditions nationales ainsi que le sentiment populaire dominant, et de laisser à chaque Etat le soin d’équilibrer les intérêts qui s’opposent. Il résulterait d’ailleurs de la jurisprudence de la Cour que des programmes scolaires ou des dispositions qui consacrent une prépondérance de la religion majoritaire ne caractérisent pas en eux-mêmes une influence indue de l’Etat ou une tentative d’endoctrinement, et que la Cour doit respecter les traditions et principes constitutionnels relatifs aux rapports entre l’Etat et les religions – dont en l’espèce l’approche particulière de la laïcité qui prévaut en Italie – et prendre en compte le contexte de chaque Etat.

38.  Estimant par ailleurs que la seconde phrase de l’article 2 du Protocole no 1 ne vaut que pour les programmes scolaires, il critique l’arrêt de la chambre en ce qu’il conclut à une violation sans indiquer en quoi la seule présence d’un crucifix dans les salles de classe fréquentées par les enfants de la requérante était de nature à réduire substantiellement ses possibilités de les éduquer selon ses convictions, indiquant pour seul motif que les élèves se sentiraient éduqués dans un environnement scolaire marqué par une religion donnée. Il ajoute que ce motif est erroné à l’aune de la jurisprudence de la Cour, dont il ressort notamment, d’une part que la Convention ne fait obstacle ni à ce que les Etats membres aient une religion d’Etat, ni à ce qu’ils montrent une préférence pour une religion donnée, ni à ce qu’ils fournissent aux élèves un enseignement religieux plus poussé s’agissant de la religion dominante et, d’autre part, qu’il faut prendre en compte le fait que l’influence éducative des parents est autrement plus grande que celle de l’école.

39.  D’après le Gouvernement, la présence du crucifix dans les salles de classe contribue légitimement à faire comprendre aux enfants la communauté nationale dans laquelle ils ont vocation à s’intégrer. Une « influence environnementale » serait d’autant plus improbable que les enfants bénéficient en Italie d’un enseignement permettant le développement d’un sens critique à l’égard de la question religieuse, dans une atmosphère sereine et préservée de toute forme de prosélytisme. De plus, ajoute-t-il, l’Italie opte pour une approche bienveillante à l’égard des religions minoritaires dans le milieu scolaire : le droit positif admet le port du voile islamique et d’autres tenues ou symboles à connotation religieuse ; le début et la fin du ramadan sont souvent fêtés dans les écoles ; l’enseignement religieux est admis pour toutes les confessions reconnues ; les besoins des élèves appartenant à des confessions minoritaires sont pris en compte, les enfants juifs ayant par exemple le droit de ne pas passer d’examens le samedi.

40.  Enfin, le Gouvernement met l’accent sur la nécessité de prendre en compte le droit des parents qui souhaitent que les crucifix soient maintenus dans les salles de classe. Telle serait la volonté de la majorité en Italie ; telle serait aussi celle démocratiquement exprimée en l’espèce par presque tous les membres du conseil d’école. Procéder au retrait des crucifix des salles de classe dans de telles circonstances caractériserait un « abus de position minoritaire ». Cela serait en outre en contradiction avec le devoir de l’Etat d’aider les individus à satisfaire leurs besoins religieux.

2.   Les requérants

41.  Les requérants soutiennent que l’exposition de crucifix dans les salles de classe de l’école publique que les deuxième et troisième d’entre eux fréquentaient constitue une ingérence illégitime dans leur droit à la liberté de pensée et de conscience, et viole le principe de pluralisme éducatif dans la mesure où elle est l’expression d’une préférence de l’Etat pour une religion donnée dans un lieu où se forment les consciences. Ce faisant, l’Etat méconnaîtrait en outre son obligation de protéger tout particulièrement les mineurs contre toute forme de propagande ou d’endoctrinement. De plus, selon les requérants, l’environnement éducatif étant marqué de la sorte par un symbole de la religion dominante, l’exposition de crucifix dénoncée méconnaît le droit des deuxième et troisième requérants à recevoir une éducation ouverte et pluraliste visant au développement d’une capacité de jugement critique. Enfin, la requérante étant favorable à la laïcité, cela violerait son droit à ce que ses enfants soient éduqués conformément à ses propres convictions philosophiques.

42.  Selon les requérants, le crucifix est sans l’ombre d’un doute un symbole religieux, et vouloir lui attribuer une valeur culturelle tient d’une tentative de défense ultime et inutile. Rien dans le système juridique italien ne permettrait d’avantage d’affirmer qu’il s’agit d’un symbole d’identité nationale : d’après la Constitution, c’est le drapeau qui symbolise cette identité.

De plus, comme l’a souligné la Cour constitutionnelle fédérale allemande dans son arrêt du 16 mai 1995 (paragraphe 28 ci-dessus), en donnant au crucifix une signification profane, on s’éloignerait de sa signification d’origine et on contribuerait à sa désacralisation. Quant à n’y voir qu’un simple « symbole passif », ce serait nier le fait que comme tous les symboles – et plus que tous les autres –, il matérialise une réalité cognitive, intuitive et émotionnelle qui dépasse ce qui est immédiatement perceptible. La Cour constitutionnelle fédérale allemande en aurait d’ailleurs fait le constat, en retenant dans l’arrêt précité que la présence de crucifix dans les salles de classe a un caractère évocateur en ce qu’elle représente le contenu de la foi qu’elle symbolise et sert à lui faire de la « publicité ». Enfin, les requérants rappellent que, dans la décision Dahlab c. Suisse du 15 février 2001 (no 42393/98, CEDH 2001-V), la Cour a noté la force particulière que les symboles religieux prennent en milieu scolaire.

43.  Les requérants soulignent que tout Etat démocratique se doit de garantir la liberté de conscience, le pluralisme, une égalité de traitement des croyances, et la laïcité des institutions. Ils précisent que le principe de laïcité implique avant tout la neutralité de l’Etat, lequel doit se distancier de la sphère religieuse et adopter une attitude identique à l’égard de toutes les orientations religieuses. Autrement dit, la neutralité oblige l’Etat à mettre en place un espace neutre, dans le cadre duquel chacun peut librement vivre ses convictions. En imposant les symboles religieux que sont les crucifix dans les salles de classe, l’Etat italien ferait le contraire.

44.  L’approche que défendent les requérants se distinguerait donc clairement de l’athéisme d’Etat, qui revient à nier la liberté de religion en imposant autoritairement une vision laïque. Vue en termes d’impartialité et de neutralité de l’Etat, la laïcité est à l’inverse un instrument permettant d’affirmer la liberté de conscience religieuse et philosophique de tous.

45.  Les requérants ajoutent qu’il est indispensable de protéger plus particulièrement les croyances et convictions minoritaires, afin de préserver leurs tenants d’un « despotisme de la majorité ». Cela aussi plaiderait en faveur du retrait des crucifix des salles de classes.

46.  En conclusion, les requérants soulignent que si, comme le prétend le Gouvernement, retirer les crucifix des salles de classe des écoles publiques porterait atteinte à l’identité culturelle italienne, les y maintenir est incompatible avec les fondements de la pensée politique occidentale, les principes de l’Etat libéral et d’une démocratie pluraliste et ouverte, et le respect des droits et libertés individuels consacrés par la Constitution italienne comme par la Convention.

C.  Les observations des tiers intervenants

1. Les gouvernements de l’Arménie, de la Bulgarie, de Chypre, de la Fédération de Russie, de la Grèce, de la Lituanie, de Malte, et de la République de Saint-Marin

47.  Dans les observations communes qu’ils ont présentées à l’audience, les gouvernements de l’Arménie, de la Bulgarie, de Chypre, de la Fédération de Russie, de la Grèce, de la Lituanie, de Malte, et de la République de Saint-Marin ont indiqué que, selon eux, le raisonnement de la chambre repose sur une compréhension erronée du concept de « neutralité », qu’elle aurait confondu avec celui de « laïcité ». Ils ont souligné à cet égard que les rapports entre l’Etat et l’Eglise sont réglés de manière variable d’un pays européen à l’autre, et que plus de la moitié de la population européenne vit dans un pays non laïque. Ils ont ajouté qu’inévitablement, des symboles de l’Etat sont présents dans les lieux où l’éducation publique est dispensée, et que nombre de ces symboles ont une origine religieuse, la croix – qui serait autant un symbole national que religieux – n’en étant que l’exemple le plus visible. Selon eux, dans les Etats européens non laïques, la présence de symboles religieux dans l’espace public est largement tolérée par les adeptes de la laïcité, comme faisant partie de l’identité nationale ; il ne faudrait pas que des Etats aient à renoncer à un élément de leur identité culturelle simplement parce qu’il a une origine religieuse. Le raisonnement suivi par la chambre ne serait pas l’expression du pluralisme qui innerve le système de la Convention, mais celle des valeurs de l’Etat laïque ; l’appliquer à l’ensemble de l’Europe reviendrait à « américaniser » celle-ci dans la mesure où s’imposeraient à tous une seule et même règle et une rigide séparation de l’Eglise et de l’Etat.

D’après eux, opter pour la laïcité est un point de vue politique, respectable certes, mais pas neutre ; ainsi, dans la sphère de l’éducation, un Etat qui soutient le laïc par opposition au religieux n’est pas neutre. Pareillement, retirer des crucifix de salles de classes où ils ont toujours été ne serait pas sans conséquences éducatives. En réalité, que l’option retenue par les Etats soit d’admettre ou non la présence de crucifix dans les salles de classe, ce qui importerait serait la place que les programmes et l’enseignement scolaires font à la tolérance et au pluralisme.

Les gouvernements intervenants n’excluent pas qu’il puisse se trouver des situations où les choix d’un Etat dans ce domaine seraient inacceptables. Il appartiendrait toutefois aux individus d’en faire la démonstration, et la Cour ne devrait intervenir que dans les cas extrêmes.

2. Le gouvernement de la Principauté de Monaco

48.  Le gouvernement intervenant déclare partager le point de vue du gouvernement défendeur selon lequel, placé dans les écoles, le crucifix est un « symbole passif », que l’on trouve sur les armoiries ou drapeaux de nombreux Etats et qui en l’espèce témoigne d’une identité nationale enracinée dans l’histoire. De plus, indivisible, le principe de neutralité de l’Etat obligerait les autorités à s’abstenir d’imposer un symbole religieux là où il n’y en a jamais eu comme de le retirer là où il y en a toujours eu.

3. Le gouvernement de la Roumanie

49.  Le gouvernement intervenant estime que la chambre n’a pas suffisamment tenu compte de la large marge d’appréciation dont les Etats contractants disposent lorsque des questions sensibles sont en jeu et qu’il n’y a pas de consensus à l’échelle européenne. Il rappelle que la jurisprudence de la Cour reconnaît en particulier auxdits Etats une importante marge d’appréciation dans le domaine du port de symboles religieux dans les établissements publics d’enseignement ; il considère qu’il doit en aller de même pour l’exposition de symboles religieux dans de tels lieux. Il souligne en outre que l’arrêt de la chambre repose sur le postulat que l’exposition de symboles religieux dans les écoles publiques enfreint les articles 9 de la Convention et 2 du Protocole no 1, ce qui contredit le principe de neutralité dès lors que cela oblige, le cas échéant, les Etats contractants à intervenir pour retirer lesdits symboles. Selon lui, ce principe est mieux servi lorsque les décisions de ce type sont prises par la communauté formée par les professeurs, les élèves et les parents. En tout état de cause, dès lors qu’elle n’est pas associée à des obligations particulières relatives à la religion, la présence de crucifix dans les salles de classe ne toucherait pas suffisamment les sentiments religieux des uns ou des autres pour qu’il y ait violation des dispositions évoquées ci-dessus.

4.  L’organisation non gouvernementale Greek Helsinki Monitor

50.  Selon l’organisation intervenante, on ne peut voir dans le crucifix autre chose qu’un symbole religieux, de sorte que son exposition dans les salles de classe des écoles publiques peut être perçue comme un message institutionnel en faveur d’une religion donnée. Elle rappelle en particulier que la Cour a retenu dans l’affaire Folgerø que la participation des élèves à des activités religieuses peut avoir une influence sur eux, et considère qu’il en va de même lorsqu’ils suivent leur scolarité dans des salles où sont exposés des symboles religieux. Elle attire en outre l’attention de la Cour sur le fait que des enfants ou parents à qui cela pose problème pourraient renoncer à protester par peur de représailles.

5. L’organisation non gouvernementale Associazione nazionale del libero Pensiero

51.  L’organisation intervenante, qui estime que la présence de symboles religieux dans les salles de classe des écoles publiques n’est pas compatible avec les articles 9 de la Convention et 2 du Protocole no 1, soutient que les restrictions imposées aux droits des requérants n’étaient pas « prévues par la loi » au sens de la jurisprudence de la Cour. Elle souligne à cet égard que l’exposition de crucifix dans les salles de classe des écoles publiques est prescrite non par la loi mais par des textes règlementaires adoptés durant la période fasciste. Elle ajoute que ces textes ont en tout état de causé été implicitement abrogés par la Constitution de 1947 et la loi de 1985 ratifiant les accords de modification des pactes du Latran de 1929. Elle précise que la chambre criminelle de la Cour de cassation en a ainsi jugé dans un arrêt du 1er mars 2000 (no 4273) relatif au cas similaire de l’exposition de crucifix dans les bureaux de vote, approche qu’elle a réitérée dans un arrêt du 17 février 2009 relatif à l’exposition de crucifix dans les salles d’audience des tribunaux (sans toutefois se prononcer au fond). Il y a donc une divergence de jurisprudence entre le Conseil d’Etat – qui, à l’inverse, juge les textes réglementaires dont il est question applicables – et la Cour de cassation, ce qui affecte le principe de la sécurité juridique, pilier de l’Etat de droit. Or, la Cour constitutionnelle s’étant jugée incompétente, il n’y a pas en Italie de mécanisme permettant de régler ce problème.

6. L’organisation non gouvernementale European Centre for Law and Justice

52.  L’organisation intervenante estime que la chambre a mal répondu à la question que pose l’affaire, qui est celle de savoir si les droits que tire la requérante de la Convention ont en l’espèce été violés du seul fait de la présence de crucifix dans les salles de classe. Selon elle, une réponse négative s’impose. D’une part parce que le « for externe » des enfants de la requérante n’a pas été forcé puisqu’ils n’ont été ni contraints d’agir contre leur conscience ni empêchés d’agir selon leur conscience. D’autre part, parce que leur « for interne » ainsi que le droit de la requérante d’assurer leur éducation conformément à ses convictions philosophiques n’ont pas été violés dès lors que les premiers n’ont été ni contraints de croire ni empêchés de ne pas croire ; ils n’ont pas été endoctrinés ni n’ont subi de prosélytisme intempestif. Elle considère que la chambre a commis une erreur en jugeant que la volonté d’un Etat d’apposer des crucifix dans les salles de classe est contraire à la Convention (alors que telle n’était pas la question qui lui était soumise) : ce faisant, la chambre a créé « une nouvelle obligation, relative non pas aux droits de la requérante, mais à la nature de « l’environnement éducatif » ». D’après l’organisation intervenante, c’est parce qu’elle a été incapable d’établir que les « fors interne ou externe » des enfants de la requérante ont été violés du fait de la présence de crucifix dans les salles de classe que la chambre a créé cette obligation nouvelle de sécularisation complète de l’environnement éducatif, outrepassant ainsi le champ de la requête et les limites de ses compétences.

7.  L’organisation non gouvernementale Eurojuris

53.  L’organisation intervenante marque son accord avec les conclusions de la chambre. Après avoir rappelé le droit positif italien pertinent – et notamment souligné la valeur constitutionnelle du principe de laïcité –, elle renvoie à la jurisprudence de la Cour en ce qu’il en ressort en particulier que l’école ne doit pas être le théâtre du prosélytisme ou de la prédication ; elle se réfère également aux affaires dans lesquelles la Cour a examiné la question du port du voile islamique en des lieux destinés à l’éducation. Elle souligne ensuite que la présence de crucifix dans les salles de classe des écoles publiques italiennes est prescrite non par la loi, mais par des règlements hérités de la période fasciste qui reflètent une conception confessionnelle de l’Etat aujourd’hui incompatible avec le principe de laïcité consacré par le droit constitutionnel positif. Elle s’inscrit en faux contre le raisonnement suivi en l’espèce par le juge administratif italien, selon lequel la prescription de la présence du crucifix dans les salles de classe des écoles publiques est néanmoins compatible avec ce principe dès lors qu’il symbolise des valeurs laïques. Selon elle, d’une part, il s’agit d’un symbole religieux, dans lequel ceux qui ne s’identifient pas au christianisme ne se reconnaissent pas. D’autre part, en prescrivant son exposition dans les salles de classe des écoles publiques, l’Etat confère une dimension particulière à une religion donnée, au détriment du pluralisme.

8.  Les organisations non gouvernementales Commission internationale de juristes, Interights et Human Rights Watch

54. Les organisations intervenantes estiment que la prescription de l’exposition dans les salles de classe des écoles publiques de symboles religieux tels que le crucifix est incompatible avec le principe de neutralité et les droits que les article 9 de la Convention et 2 du Protocole no 1 garantissent aux élèves et à leurs parents. Selon elles, d’une part, le pluralisme éducatif est un principe consacré, mis en exergue non seulement par la jurisprudence de la Cour mais aussi par la jurisprudence de plusieurs juridictions suprêmes et par divers textes internationaux. D’autre part, l’on doit déduire de la jurisprudence de la Cour un devoir de neutralité et d’impartialité de l’Etat à l’égard des croyances religieuses lorsqu’il fournit des services publics, dont l’éducation. Elles précisent que ce principe d’impartialité est reconnu non seulement par les Cours constitutionnelles italienne, espagnole et allemande mais aussi, notamment, par le Conseil d’Etat français et le Tribunal fédéral suisse. Elles ajoutent que, comme en ont jugé plusieurs hautes juridictions, la neutralité de l’Etat à l’égard des religions s’impose d’autant plus en milieu scolaire que, tenus d’assister aux cours, les enfants sont sans défense face à l’endoctrinement lorsque l’école en est le théâtre. Elles rappellent ensuite que la Cour a jugé que, si la Convention n’empêche pas les Etats de répandre par l’enseignement ou l’éducation des informations ou connaissances ayant un caractère religieux ou philosophique, ils doivent s’assurer que cela se fait d’une manière objective, critique et pluraliste, exempte d’endoctrinement ; elles soulignent que cela vaut pour toutes les fonctions qu’ils assument dans le domaine de l’éducation et de l’enseignement, y compris lorsqu’il s’agit de l’organisation de l’environnement scolaire.

9. Les organisations non gouvernementales Zentralkomitee der deutschen Katholiken, Semaines sociales de France et Associazioni cristiane Lavoratori italiani

55.  Les organisations intervenantes déclarent partager le point de vue de la chambre selon lequel, si le crucifix a plusieurs significations, il est avant tout le symbole central de la chrétienté. Elles ajoutent toutefois être en désaccord avec sa conclusion, et ne pas voir en quoi la présence de crucifix dans les salles de classe pourrait être « perturbant émotionnellement » pour les élèves ou affecter le développement de leur esprit critique. Selon elles, cette présence ne peut à elle seule être assimilée à un message religieux ou philosophique : il s’agit plutôt d’une manière passive de transmettre des valeurs morales de base. Il faudrait dès lors considérer que la question se rattache aux compétences des Etats en matière de définition des programmes scolaires ; or les parents doivent accepter que certains aspects de l’enseignement public puissent ne pas être complètement en phase avec leurs convictions. Elles ajoutent que l’on ne peut déduire de la seule décision d’un Etat d’exposer des crucifix dans les salles de classe des écoles publiques qu’il poursuit un but d’endoctrinement prohibé par l’article 2 du Protocole no 1. Elles soulignent qu’il faut faire en l’espèce la balance entre les droits et intérêts des croyants et non-croyants, entre les droits fondamentaux des individus et les intérêts légitimes de la société, et entre l’édiction de normes en matière de droits fondamentaux et la préservation de la diversité européenne. D’après elles, la Cour doit dans ce contexte reconnaître une large marge d’appréciation aux Etats dès lors que l’organisation des rapports entre l’Etat et la religion varie d’un pays à l’autre et que cette organisation – en particulier s’agissant de la place de la religion dans les écoles publiques – a ses racines dans l’histoire, la tradition et la culture de chacun.

10.           Trente-trois membres du Parlement européen agissant collectivement

56.  Les intervenants soulignent que la Cour n’est pas une Cour constitutionnelle et qu’elle doit respecter le principe de subsidiarité et reconnaître une marge d’appréciation particulièrement importante aux Etats contractants non seulement lorsqu’il s’agit de définir les relations entre l’Etat et la religion mais aussi lorsqu’ils exercent leurs fonctions dans le domaine de l’instruction et de l’éducation. D’après eux, en prenant une décision dont l’effet serait d’obliger le retrait des symboles religieux des écoles publiques, la Grande Chambre enverrait un message idéologique radical. Ils ajoutent qu’il ressort de la jurisprudence de la Cour qu’un Etat qui, pour des raisons liées à son histoire ou à sa tradition, montre une préférence pour une religion donnée, n’outrepasse pas cette marge. Ainsi, selon eux, l’exposition de crucifix dans des édifices publics ne se heurte pas à la Convention, et il ne faut pas voir dans la présence de symboles religieux dans l’espace public une forme d’endoctrinement mais l’expression d’une unité et d’une identité culturelles. Ils ajoutent que dans ce contexte spécifique, les symboles religieux ont une dimension laïque et ne doivent donc pas être supprimés.

D.  L’appréciation de la Cour

57.  En premier lieu, la Cour précise que la seule question dont elle se trouve saisie est celle de la compatibilité, eu égard aux circonstances de la cause, de la présence de crucifix dans les salles de classe des écoles publiques italiennes avec les exigences des articles 2 du Protocole no 1 et 9 de la Convention.

Ainsi, en l’espèce, d’une part, elle n’est pas appelée à examiner la question de la présence de crucifix dans d’autres lieux que les écoles publiques. D’autre part, il ne lui appartient pas de se prononcer sur la compatibilité de la présence de crucifix dans les salles de classe des écoles publiques avec le principe de laïcité tel qu’il se trouve consacré en droit italien.

58.  En second lieu, la Cour souligne que les partisans de la laïcité sont en mesure de se prévaloir de vues atteignant le « degré de force, de sérieux, de cohérence et d’importance » requis pour qu’il s’agisse de « convictions » au sens des articles 9 de la Convention et 2 du Protocole no 1 (arrêt Campbell et Cosans c. Royaume-Uni, du 25 février 1982, série A no 48, § 36). Plus précisément, il faut voir là des « convictions philosophiques » au sens de la seconde phrase de l’article 2 du Protocole no 1, dès lors qu’elles méritent « respect « dans une société démocratique » », ne sont pas incompatibles avec la dignité de la personne et ne vont pas à l’encontre du droit fondamental de l’enfant à l’instruction (ibidem).

1.  Le cas de la requérante

a)  Principes généraux

59.  La Cour rappelle qu’en matière d’éducation et d’enseignement, l’article 2 du Protocole no 1 est en principe lex specialis par rapport à l’article 9 de la Convention. Il en va du moins ainsi lorsque, comme en l’espèce, est en jeu l’obligation des Etats contractants – que pose la seconde phrase dudit article 2 – de respecter, dans le cadre de l’exercice des fonctions qu’ils assument dans ce domaine, le droit des parents d’assurer cette éducation et cet enseignement conformément à leurs convictions religieuses et philosophiques (arrêt Folgerø et autres c. Norvège [GC] du 29 juin 2007, no 15472/02, CEDH 2007-VIII, § 84).

Il convient donc d’examiner le grief dont il est question principalement sous l’angle de la seconde phrase de l’article 2 du Protocole no 1 (voir aussi Appel-Irrgang et autres c. Allemagne (déc.), no 45216/07, 6 octobre 2009, CEDH 2009-..).

60.  Il faut néanmoins lire cette disposition à la lumière non seulement de la première phrase du même article, mais aussi, notamment, de l’article 9 de la Convention (voir, par exemple, l’arrêt Folgerø précité, § 84), qui garantit la liberté de pensée, de conscience et de religion, dont celle de ne pas adhérer à une religion, et qui met à la charge des Etats contractants un « devoir de neutralité et d’impartialité ».

A cet égard, il convient de rappeler que les Etats ont pour mission de garantir, en restant neutres et impartiaux, l’exercice des diverses religions, cultes et croyances. Leur rôle est de contribuer à assurer l’ordre public, la paix religieuse et la tolérance dans une société démocratique, notamment entre groupes opposés (voir, par exemple, l’arrêt Leyla Şahin c. Turquie [GC] du 10 novembre 2005, no 44774/98, CEDH 2005-XI, § 107). Cela concerne les relations entre croyants et non-croyants comme les relations entre les adeptes des diverses religions, cultes et croyances.

61.   Le mot « respecter », auquel renvoie l’article 2 du Protocole no 1, signifie plus que reconnaître ou prendre en considération ; en sus d’un engagement plutôt négatif, ce verbe implique à la charge de l’Etat une certaine obligation positive (arrêt Campbell et Cosans précité, § 37).

Cela étant, les exigences de la notion de « respect », que l’on retrouve aussi dans l’article 8 de la Convention varient beaucoup d’un cas à l’autre, vu la diversité des pratiques suivies et des conditions existant dans les Etats contractants. Elle implique ainsi que lesdits Etats jouissent d’une large marge d’appréciation pour déterminer, en fonction des besoins et ressources de la communauté et des individus, les mesures à prendre afin d’assurer l’observation de la Convention. Dans le contexte de l’article 2 du Protocole no 1, cette notion signifie en particulier que cette disposition ne saurait s’interpréter comme permettant aux parents d’exiger de l’Etat qu’il organise un enseignement donné (voir Bulski c. Pologne (déc.), nos 46254/99 et 31888/02).

62.  Il convient également de rappeler la jurisprudence de la Cour relative à la place de la religion dans les programmes scolaires (voir essentiellement les arrêts Kjeldsen, Busk Madsen et Pedersen c. Danemark, du 7 décembre 1976, série A no 23, §§ 50-53, Folgerø, précité, § 84, et Hasan et Eylem Zengin c. Turquie, du 9 octobre 2007, no 1448/04, CEDH 2007-XI, §§ 51-52).

Selon cette jurisprudence, la définition et l’aménagement du programme des études relèvent de la compétence des Etats contractants. Il n’appartient pas, en principe, à la Cour de se prononcer sur ces questions, dès lors que la solution à leur donner peut légitimement varier selon les pays et les époques.

En particulier, la seconde phrase de l’article 2 du Protocole no 1 n’empêche pas les Etats de répandre par l’enseignement ou l’éducation des informations ou connaissances ayant, directement ou non, un caractère religieux ou philosophique ; elle n’autorise même pas les parents à s’opposer à l’intégration de pareil enseignement ou éducation dans le programme scolaire.

En revanche, dès lors qu’elle vise à sauvegarder la possibilité d’un pluralisme éducatif, elle implique que l’Etat, en s’acquittant de ses fonctions en matière d’éducation et d’enseignement, veille à ce que les informations ou connaissances figurant au programme soient diffusées de manière objective, critique et pluraliste, permettant aux élèves de développer un sens critique à l’égard notamment du fait religieux dans une atmosphère sereine, préservée de tout prosélytisme. Elle lui interdit de poursuivre un but d’endoctrinement qui pourrait être considéré comme ne respectant pas les convictions religieuses et philosophiques des parents. Là se situe pour les Etats la limite à ne pas dépasser (arrêts précités dans ce même paragraphe, §§ 53, 84h) et 52 respectivement).

b)  Appréciation des faits de la cause à la lumière de ces principes

63.  La Cour ne partage pas la thèse du Gouvernement selon laquelle l’obligation pesant sur les Etats contractants en vertu de la seconde phrase de l’article 2 du Protocole no 1 porte uniquement sur le contenu des programmes scolaires, de sorte que la question de la présence de crucifix dans les salles de classe des écoles publiques sort de son champ d’application.

Il est vrai que nombre d’affaires dans le contexte desquelles la Cour s’est penchée sur cette disposition concernaient le contenu ou la mise en œuvre de programmes scolaires. Il n’en reste pas moins que, comme la Cour l’a d’ailleurs déjà mis en exergue, l’obligation des Etats contractants de respecter les convictions religieuses et philosophiques des parents ne vaut pas seulement pour le contenu de l’instruction et la manière de la dispenser : elle s’impose à eux « dans l’ exercice » de l’ensemble des « fonctions » – selon les termes de la seconde phrase de l’article 2 du Protocole no 1 – qu’ils assument en matière d’éducation et d’enseignement (voir essentiellement les arrêts Kjeldsen, Busk Madsen et Pedersen, précité, § 50, Valsamis c. Grèce, du 18 décembre 1996, Recueil des arrêts et décisions 1996-VI, § 27, et Hasan et Eylem Zengin, précité, § 49, et Folgerø, précité, § 84). Cela inclut sans nul doute l’aménagement de l’environnement scolaire lorsque le droit interne prévoit que cette fonction incombe aux autorités publiques.

Or c’est dans un tel cadre que s’inscrit la présence de crucifix dans les salles de classe des écoles publiques italiennes (voir les articles 118 du décret royal no 965 du 30 avril 1924, 119 du décret royal no 1297 du 26 avril 1928, et 159 et 190 du décret-loi no 297 du 16 avril 1994 ; paragraphes 14 et 19 ci-dessus).

64.  D’un point de vue général, la Cour estime que lorsque l’aménagement de l’environnement scolaire relève de la compétence d’autorités publiques, il faut voir là une fonction assumée par l’Etat dans le domaine de l’éducation et de l’enseignement, au sens de la seconde phrase de l’article 2 du Protocole no 1.

65.  Il en résulte que la décision relative à la présence de crucifix dans les salles de classe des écoles publiques relève des fonctions assumées par l’Etat défendeur dans le domaine de l’éducation et de l’enseignement et tombe de ce fait sous l’empire de la seconde phrase de l’article 2 du Protocole no 1. On se trouve dès lors dans un domaine où entre en jeu l’obligation de l’Etat de respecter le droit des parents d’assurer l’éducation et l’enseignement de leurs enfants conformément à leurs convictions religieuses et philosophiques.

66.  Ensuite, la Cour considère que le crucifix est avant tout un symbole religieux. Les juridictions internes l’ont pareillement relevé et, du reste, le Gouvernement ne le conteste pas. Que la symbolique religieuse épuise, ou non, la signification du crucifix n’est pas décisif à ce stade du raisonnement.

Il n’y a pas devant la Cour d’éléments attestant l’éventuelle influence que l’exposition sur des murs de salles de classe d’un symbole religieux pourrait avoir sur les élèves ; on ne saurait donc raisonnablement affirmer qu’elle a ou non un effet sur de jeunes personnes, dont les convictions ne sont pas encore fixées.

On peut néanmoins comprendre que la requérante puisse voir dans l’exposition d’un crucifix dans les salles de classe de l’école publique où ses enfants étaient scolarisés un manque de respect par l’Etat de son droit d’assurer l’éducation et l’enseignement de ceux-ci conformément à ses convictions philosophiques. Cependant, la perception subjective de la requérante ne saurait à elle seule suffire à caractériser une violation de l’article 2 du Protocole no 1.

67.  Le Gouvernement explique quant à lui que la présence de crucifix dans les salles de classe des écoles publiques, qui est le fruit de l’évolution historique de l’Italie, ce qui lui donne une connotation non seulement culturelle mais aussi identitaire, correspond aujourd’hui à une tradition qu’il juge important de perpétuer. Il ajoute qu’au-delà de sa signification religieuse, le crucifix symbolise les principes et valeurs qui fondent la démocratie et la civilisation occidentale, sa présence dans les salles de classe étant justifiable à ce titre.

68.  Selon la Cour, la décision de perpétuer ou non une tradition relève en principe de la marge d’appréciation de l’Etat défendeur. La Cour se doit d’ailleurs de prendre en compte le fait que l’Europe est caractérisée par une grande diversité entre les Etats qui la composent, notamment sur le plan de l’évolution culturelle et historique. Elle souligne toutefois que l’évocation d’une tradition ne saurait exonérer un Etat contractant de son obligation de respecter les droits et libertés consacrés par la Convention et ses Protocoles.

Quant au point de vue du Gouvernement relatif à la signification du crucifix, la Cour constate que le Conseil d’Etat et la Cour de cassation ont à cet égard des positions divergentes et que la Cour constitutionnelle ne s’est pas prononcée (paragraphes 16 et 23 ci-dessus). Or il n’appartient pas à la Cour de prendre position sur un débat entre les juridictions internes.

69.  Il reste que les Etats contractants jouissent d’une marge d’appréciation lorsqu’il s’agit de concilier l’exercice des fonctions qu’ils assument dans le domaine de l’éducation et de l’enseignement et le respect du droit des parents d’assurer cette éducation et cet enseignement conformément à leurs convictions religieuses et philosophiques (paragraphes 61-62 ci-dessus).

Cela vaut pour l’aménagement de l’environnement scolaire comme pour la définition et l’aménagement des programmes (ce que la Cour a déjà souligné : voir essentiellement, précités, les arrêts Kjeldsen, Busk Madsen et Pedersen, §§ 50-53, Folgerø, § 84, et Zengin, §§ 51-52 ; paragraphe 62 ci-dessus). La Cour se doit donc en principe de respecter les choix des Etats contractants dans ces domaines, y compris quant à la place qu’ils donnent à la religion, dans la mesure toutefois où ces choix ne conduisent pas à une forme d’endoctrinement (ibidem).

70.  La Cour en déduit en l’espèce que le choix de la présence de crucifix dans les salles de classe des écoles publiques relève en principe de la marge d’appréciation de l’Etat défendeur. La circonstance qu’il n’y a pas de consensus européen sur la question de la présence de symboles religieux dans les écoles publiques (paragraphes 26-28 ci-dessus) conforte au demeurant cette approche.

Cette marge d’appréciation va toutefois de pair avec un contrôle européen (voir, par exemple, mutatis mutandis, l’arrêt Leyla Şahin précité, § 110), la tâche de la Cour consistant en l’occurrence à s’assurer que la limite mentionnée au paragraphe 69 ci-dessus n’a pas été transgressée.

71.  A cet égard, il est vrai qu’en prescrivant la présence du crucifix dans les salles de classe des écoles publiques – lequel, qu’on lui reconnaisse ou non en sus une valeur symbolique laïque, renvoie indubitablement au christianisme –, la réglementation donne à la religion majoritaire du pays une visibilité prépondérante dans l’environnement scolaire.

Cela ne suffit toutefois pas en soi pour caractériser une démarche d’endoctrinement de la part de l’Etat défendeur et pour établir un manquement aux prescriptions de l’article 2 du Protocole no 1.

La Cour renvoie sur ce point, mutatis mutandis, à ses arrêts Folgerø et Zengin précités. Dans l’affaire Folgerø, dans laquelle elle a été amenée à examiner le contenu du programme d’un cours de « christianisme, religion et philosophie » (« KRL »), elle a en effet retenu que le fait que ce programme accorde une plus large part à la connaissance du christianisme qu’à celle des autres religions et philosophies ne saurait passer en soi pour une entorse aux principes de pluralisme et d’objectivité susceptible de s’analyser en un endoctrinement. Elle a précisé que, vu la place qu’occupe le christianisme dans l’histoire et la tradition de l’Etat défendeur – la Norvège –, cette question relevait de la marge d’appréciation dont jouissait celui-ci pour définir et aménager le programme des études (arrêt précité, § 89). Elle est parvenue à une conclusion similaire dans le contexte du cours de « culture religieuse et connaissance morale » dispensé dans les écoles de Turquie dont le programme accordait une plus large part à la connaissance de l’Islam, au motif que la religion musulmane est majoritairement pratiquée en Turquie, nonobstant le caractère laïc de cet Etat (arrêt Zengin précité, § 63).

72.  De plus, le crucifix apposé sur un mur est un symbole essentiellement passif, et cet aspect a de l’importance aux yeux de la Cour, eu égard en particulier au principe de neutralité (paragraphe 60 ci-dessus). On ne saurait notamment lui attribuer une influence sur les élèves comparable à celle que peut avoir un discours didactique ou la participation à des activités religieuses (voir sur ces points les arrêts Folgerø et Zengin précités, § 94 et § 64, respectivement).

73.  La Cour observe que, dans son arrêt du 3 novembre 2009, la chambre a, à l’inverse, retenu la thèse selon laquelle l’exposition de crucifix dans les salles de classe aurait un impact notable sur les deuxième et troisième requérants, âgés de onze et treize ans à l’époque des faits. Selon la chambre, dans le contexte de l’éducation publique, le crucifix, qu’il est impossible de ne pas remarquer dans les salles de classe, est nécessairement perçu comme partie intégrante du milieu scolaire et peut dès lors être considéré comme un « signe extérieur fort » au sens de la décision Dahlab précitée (voir les paragraphes 54 et 55 de l’arrêt).

La Grande Chambre ne partage pas cette approche. Elle estime en effet que l’on ne peut se fonder sur cette décision en l’espèce, les circonstances des deux affaires étant tout à fait différentes.

Elle rappelle en effet que l’affaire Dahlab concernait l’interdiction faite à une institutrice de porter le foulard islamique dans le cadre de son activité d’enseignement, laquelle interdiction était motivée par la nécessité de préserver les sentiments religieux des élèves et de leurs parents et d’appliquer le principe de neutralité confessionnelle de l’école consacré en droit interne. Après avoir relevé que les autorités avaient dûment mis en balance les intérêts en présence, la Cour a jugé, au vu en particulier du bas âge des enfants dont la requérante avait la charge, que lesdites autorités n’avaient pas outrepassé leur marge d’appréciation.

74.  En outre, les effets de la visibilité accrue que la présence de crucifix donne au christianisme dans l’espace scolaire méritent d’être encore relativisés au vu des éléments suivants. D’une part, cette présence n’est pas associée à un enseignement obligatoire du christianisme (voir les éléments de droit comparé exposés dans l’arrêt Zengin précité, § 33). D’autre part, selon les indications du Gouvernement, l’Italie ouvre parallèlement l’espace scolaire à d’autres religions. Le Gouvernement indique ainsi notamment que le port par les élèves du voile islamique et d’autres symboles et tenues vestimentaires à connotation religieuse n’est pas prohibé, des aménagements sont prévus pour faciliter la conciliation de la scolarisation et des pratiques religieuses non majoritaires, le début et la fin du Ramadan sont « souvent fêtés » dans les écoles et un enseignement religieux facultatif peut être mis en place dans les établissement pour « toutes confessions religieuses reconnues » (paragraphe 39 ci-dessus). Par ailleurs, rien n’indique que les autorités se montrent intolérantes à l’égard des élèves adeptes d’autres religions, non croyants ou tenants de convictions philosophiques qui ne se rattachent pas à une religion.

De plus, les requérants ne prétendent pas que la présence du crucifix dans les salles de classe a incité au développement de pratiques d’enseignement présentant une connotation prosélyte, ni ne soutiennent que les deuxième et troisième d’entre eux se sont trouvés confrontés à un enseignant qui, dans l’exercice de ses fonctions, se serait appuyé tendancieusement sur cette présence.

75.  Enfin, la Cour observe que la requérante a conservé entier son droit, en sa qualité de parent, d’éclairer et conseiller ses enfants, d’exercer envers eux ses fonctions naturelles d’éducateur, et de les orienter dans une direction conforme à ses propres convictions philosophiques (voir, notamment, précités, les arrêts Kjeldsen, Busk Madsen et Pedersen et Valsamis, §§ 54 et 31 respectivement).

76.  Il résulte de ce qui précède qu’en décidant de maintenir les crucifix dans les salles de classe de l’école publique fréquentées par les enfants de la requérante, les autorités ont agi dans les limites de la marge d’appréciation dont dispose l’Etat défendeur dans le cadre de son obligation de respecter, dans l’exercice des fonctions qu’il assume dans le domaine de l’éducation et de l’enseignement, le droit des parents d’assurer cette éducation et cet enseignement conformément à leurs convictions religieuses et philosophiques.

77.  La Cour en déduit qu’il n’y pas eu violation de l’article 2 du Protocole no 1 dans le chef de la requérante. Elle considère par ailleurs qu’aucune question distincte ne se pose en l’espèce sur le terrain de l’article 9 de la Convention.

2.  Le cas des deuxième et troisième requérants

78.  La Cour considère que, lue comme il se doit à la lumière de l’article 9 de la Convention et de la seconde phrase de l’article 2 du Protocole no 1, la première phrase de cette disposition garantit aux élèves un droit à l’instruction dans le respect de leur droit de croire ou de ne pas croire. Elle conçoit en conséquence que des élèves tenants de la laïcité voient dans la présence de crucifix dans les salles de classe de l’école publique où ils sont scolarisés un manquement aux droits qu’ils tirent de ces dispositions.

Elle estime cependant que, pour les raisons indiquées dans le cadre de l’examen du cas de la requérante, il n’y a pas eu violation de l’article 2 du Protocole no 1 dans le chef des deuxième et troisième requérants. Elle considère par ailleurs qu’aucune question distincte ne se pose en l’espèce sur le terrain de l’article 9 de la Convention.

II.  SUR LA VIOLATION ALLÉGUÉE DE L’ARTICLE 14 DE LA CONVENTION

79.  Les requérants estiment que, les deuxième et troisième d’entre eux ayant été exposés aux crucifix qui se trouvaient dans les salles de classes de l’école publique dans laquelle ils étaient scolarisés, ils ont tous trois, dès lors qu’ils ne sont pas catholiques, subi une différence de traitement discriminatoire par rapport aux parents catholiques et à leurs enfants. Soulignant que « les principes consacrés par les articles 9 de la Convention et 2 du Protocole no 1 sont renforcés par les dispositions de l’article 14 de la Convention », ils dénoncent une violation de ce dernier article, aux termes duquel :

« La jouissance des droits et libertés reconnus dans la (…) Convention doit être assurée, sans distinction aucune, fondée notamment sur le sexe, la race, la couleur, la langue, la religion, les opinions politiques ou toutes autres opinions, l’origine nationale ou sociale, l’appartenance à une minorité nationale, la fortune, la naissance ou toute autre situation. »

80.  La chambre a jugé qu’eu égard aux circonstances de l’affaire et au raisonnement qui l’avait conduite à constater une violation de l’article 2 du Protocole no 1 combiné avec l’article 9 de la Convention, il n’y avait pas lieu d’examiner l’affaire de surcroît sous l’angle de l’article 14, pris isolément ou combiné avec ces dispositions.

81.  La Cour, qui relève que ce grief est fort peu étayé, rappelle que l’article 14 de la Convention n’a pas d’existence indépendante puisqu’il vaut uniquement pour la jouissance des droits et libertés garantis par les autres clauses normatives de la Convention et des Protocoles.

A supposer que les requérants entendent dénoncer une discrimination dans la jouissance des droits garantis par les articles 9 de la Convention et 2 du Protocole no 1 résultant du fait qu’ils ne se reconnaissent pas dans la religion catholique et que les deuxième et troisième d’entre eux ont été exposés aux crucifix qui se trouvaient dans les salles de classes de l’école publique dans laquelle ils étaient scolarisés, la Cour ne voit là aucune question distincte de celles qu’elle a déjà tranchées sur le terrain de l’article 2 du Protocole no 1. Il n’y a donc pas lieu d’examiner cette partie de la requête.

PAR CES MOTIFS, LA COUR,

1.  Dit, par quinze voix contre deux, qu’il n’y a pas eu violation de l’article 2 du Protocole no 1 et qu’aucune question distincte ne se pose sur le terrain de l’article 9 de la Convention ;

 

2.  Dit, à l’unanimité, qu’il n’y a pas lieu d’examiner le grief tiré de l’article 14 de la Convention.
Fait en français et en anglais, puis prononcé en audience publique au Palais des droits de l’homme, à Strasbourg, le 18 mars 2011.

Erik Fribergh                                                                     Jean-Paul Costa
Greffier                                                                               Président

Au présent arrêt se trouve joint, conformément aux articles 45 § 2 de la Convention et 74 § 2 du règlement, l’exposé des opinions suivantes :

a)      Opinion concordante du juge Rozakis à laquelle se joint la juge Vajić ;

b)      Opinion concordante du juge Bonello ;

c)      Opinion concordante de la juge Power ;

d)     Opinion dissidente du juge Malinverni à laquelle se joint la juge Kalaydjieva.

J.-P.C.
E.F.

 

OPINION CONCORDANTE DU JUGE ROZAKIS, À LAQUELLE SE RALLIE LA JUGE VAJIĆ

(Traduction)

La principale question à résoudre en l’espèce est l’effet de l’application du critère de proportionnalité aux faits de l’espèce. La proportionnalité entre, d’un côté, le droit des parents d’assurer l’éducation et l’enseignement de leurs enfants conformément à leurs convictions religieuses et philosophiques et, de l’autre, le droit ou l’intérêt d’une très large part – à tout le moins – de la société à exposer des symboles religieux manifestant une religion ou une conviction. Les deux valeurs concurrentes qui se trouvent en jeu dans cette affaire sont donc simultanément protégées par la Convention : par le biais de l’article 2 du Protocole no 1 (lex specialis), lu à la lumière de l’article 9 de la Convention, pour ce qui concerne les parents ; par le biais de l’article 9 s’agissant des droits de la société.

Pour ce qui est tout d’abord du droit des parents, l’arrêt de la Cour souligne que le mot « respecter » figurant dans la seconde phrase de l’article 2 du Protocole no 1 « signifie plus que reconnaître ou prendre en considération ; en sus d’un engagement plutôt négatif, ce verbe implique à la charge de l’Etat une certaine obligation positive » (paragraphe 61 de l’arrêt). Toutefois, le respect dû aux parents, même sous la forme d’une obligation positive « n’empêche pas les Etats de répandre par l’enseignement ou l’éducation des informations ou connaissances ayant, directement ou non, un caractère religieux ou philosophique ; [il] n’autorise même pas les parents à s’opposer à l’intégration de pareil enseignement ou éducation dans le programme scolaire » (paragraphe 62 de l’arrêt).

Cette dernière référence à la jurisprudence fondée sur la Convention mérite je crois d’être analysée plus avant. Incontestablement, l’article 2 du Protocole no 1 consacre le droit fondamental à l’éducation, un droit individuel sacro-saint – pouvant sans doute aussi être considéré comme un droit social – qui semble progresser constamment dans nos sociétés européennes. Cependant, si le droit à l’éducation est l’une des pierres angulaires de la protection de l’individu par la Convention, on ne peut à mon avis en dire autant et avec la même vigueur du droit subordonné des parents d’assurer l’éducation de leurs enfants conformément à leurs convictions religieuses et philosophiques. Les choses sont ici bien différentes, et ce pour un certain nombre de raisons :

i)  Ce droit, bien que lié au droit à l’éducation, ne revient pas directement au destinataire essentiel du droit, c’est-à-dire au destinataire de l’éducation, celui qui a le droit d’être éduqué. Il concerne les parents – dont le droit direct à l’éducation n’est pas en jeu dans les circonstances de l’espèce – et se limite à un seul aspect de l’éducation, à savoir leurs convictions religieuses et philosophiques.

ii)  Il existe certes un lien évident entre l’éducation que reçoivent les enfants au sein de l’école et les idées et opinions religieuses et philosophiques – découlant des convictions – qui prévalent dans le cercle familial, un lien qui requiert une certaine harmonisation de ces questions entre le milieu scolaire et le cercle domestique ; cependant, l’Europe a évolué de façon spectaculaire, dans ce domaine comme dans d’autres, depuis l’adoption du Protocole no 1. De nos jours, la plupart d’entre nous vivent dans des sociétés multiculturelles et multiethniques au sein des Etats nationaux – caractéristique aujourd’hui commune à ces sociétés –, et les enfants qui évoluent dans cet environnement sont chaque jour au contact d’idées et d’opinions allant au-delà de celles qui proviennent de l’école et de leurs parents. Les relations humaines hors du foyer parental et les moyens modernes de communication contribuent sans nul doute à ce phénomène. En conséquence, les enfants prennent l’habitude d’accueillir toute une variété d’idées et d’opinions, souvent conflictuelles, et l’influence de l’école tout comme celle des parents en la matière est aujourd’hui relativement réduite.

iii)  La composition de nos sociétés ayant changé, l’Etat a de plus en plus de mal à pourvoir aux besoins individuels des parents dans le domaine de l’éducation. J’irai jusqu’à dire que sa principale préoccupation – et il s’agit d’une préoccupation fondée – devrait être d’offrir aux enfants une éducation garantissant leur pleine et entière intégration au sein de la société où ils vivent, et de les préparer le mieux possible à répondre de manière effective aux attentes de cette société vis-à-vis de ses membres. Si cette caractéristique de l’éducation n’a rien de nouveau – elle est immémoriale –, elle a récemment pris une importance plus marquée en raison des particularités de notre époque et de la composition des sociétés actuelles. Là encore, les fonctions de l’Etat se sont largement déplacées, glissant des préoccupations des parents aux préoccupations de l’ensemble de la société, et restreignant ainsi la capacité des parents à déterminer, en dehors du foyer familial, le type d’éducation à dispenser à leurs enfants.

En conclusion, il me semble que, contrairement à d’autres garanties consacrées par la Convention pour lesquelles la jurisprudence fondée sur celle-ci a étendu le champ de la protection – il en est ainsi du droit à l’éducation –, le droit des parents au regard de la seconde phrase de l’article 2 du Protocole no 1 ne paraît pas de façon réaliste gagner en poids dans la mise en balance aux fins de l’examen de la proportionnalité.

A l’autre extrémité, représentant l’autre membre de l’équation de proportionnalité, se trouve le droit de la société, illustré par les mesures des autorités pour le maintien des crucifix sur les murs des écoles publiques, de manifester ses convictions religieuses (majoritaires). Ce droit, dans les circonstances de l’espèce, l’emporte-t-il sur le droit des parents d’éduquer leurs enfants conformément à leur religion et – plus spécifiquement, dans cette affaire – à leurs convictions philosophiques ?

Pour répondre, il faut interpréter la jurisprudence fondée sur la Convention et l’appliquer aux circonstances particulières de l’espèce. La première question à résoudre est celle d’un consensus européen. Existe-t-il en la matière un quelconque consensus européen – permettant, imposant ou interdisant l’exposition de symboles religieux chrétiens dans les écoles publiques – qui devrait déterminer la position de la Cour dans ce domaine ?

La réponse ressort clairement de l’arrêt même de la Cour, en sa partie qui donne un aperçu du droit et de la pratique au sein des Etats membres du Conseil de l’Europe s’agissant de la présence de symboles religieux dans les écoles publiques (paragraphes 26 et suivants) : parmi les Etats européens, il n’existe pas de consensus interdisant la présence de tels symboles religieux, que peu d’Etats interdisent expressément. Bien sûr, on observe une tendance croissante à proscrire – surtout par le biais de décisions de hautes juridictions nationales – la possibilité d’exposer des crucifix dans les écoles publiques ; cependant, le nombre d’Etats ayant adopté des mesures interdisant l’exposition de crucifix dans les lieux publics et l’étendue de l’activité judiciaire interne en la matière ne permettent pas à la Cour de présumer qu’il existe un consensus contre pareille exposition. Cela vaut tout particulièrement si l’on tient compte du fait qu’il y a en Europe un certain nombre d’Etats où la religion chrétienne demeure la religion officielle ou prédominante, et également, comme je viens de le souligner, du fait que certains Etats autorisent clairement, par leur droit ou leur pratique, l’exposition de crucifix dans les lieux publics.

Pendant que nous parlons de consensus, il convient de rappeler que la Cour est une juridiction, et non un organe parlementaire. Chaque fois qu’elle entreprend d’apprécier les limites de la protection accordée par la Convention, la Cour prend soigneusement en compte le degré de protection existant au niveau des Etats européens ; elle a bien sûr la possibilité d’élever cette protection à un niveau supérieur à celui accordé par tel ou tel Etat défendeur, mais à condition toutefois que de solides indications attestent qu’un grand nombre d’autres Etats européens ont déjà adopté ce degré de protection, ou qu’il y ait une tendance manifeste à élever le niveau de protection. Ce principe ne saurait s’appliquer de manière positive en l’espèce, même si, c’est vrai, une tendance s’est amorcée en faveur de l’interdiction de l’exposition de symboles religieux dans les institutions publiques.

Puisqu’en la matière la pratique demeure hétérogène parmi les Etats européens, les seules orientations qui puissent aider la Cour à ménager un juste équilibre entre les droits en jeu émanent de sa jurisprudence antérieure. Les mots clés qui ressortent de celle-ci sont « neutralité et impartialité ». Comme la Cour le relève dans le présent arrêt, « les Etats ont pour mission de garantir, en restant neutres et impartiaux, l’exercice des diverses religions, cultes et croyances. Leur rôle est de contribuer à assurer l’ordre public, la paix religieuse et la tolérance dans une société démocratique, notamment entre groupes opposés » (paragraphe 60, in fine, de l’arrêt).

Il est indéniable, je crois, que l’exposition de crucifix dans les écoles publiques italiennes relève d’un symbolisme religieux qui a un impact sur l’obligation de neutralité et d’impartialité de l’Etat, même si dans une société européenne moderne les symboles semblent peu à peu perdre le poids très important qu’ils avaient autrefois et si des approches plus pragmatiques et rationalistes définissent aujourd’hui, pour de larges pans de la population, les vraies valeurs sociales et idéologiques.

La question qui se pose donc à ce stade est de savoir non seulement si l’exposition du crucifix porte atteinte à la neutralité et à l’impartialité, ce qui est manifestement le cas, mais aussi si la portée de la transgression justifie un constat de violation de la Convention dans les circonstances de l’espèce. Je conclus ici – non sans quelque hésitation – par la négative, souscrivant ainsi au raisonnement principal de la Cour, et plus particulièrement à son approche concernant le rôle de la religion majoritaire de la société italienne (paragraphe 71 de l’arrêt), le caractère essentiellement passif du symbole, qui ne saurait s’analyser en une forme d’endoctrinement (paragraphe 72 de l’arrêt), et également le contexte éducatif dans lequel s’inscrit la présence de crucifix sur les murs des écoles publiques. Comme le souligne l’arrêt, « [d]’une part, cette présence n’est pas associée à un enseignement obligatoire du christianisme (…). D’autre part, (…) l’Italie ouvre parallèlement l’espace scolaire à d’autres religions. Le Gouvernement indique ainsi notamment que le port par les élèves du voile islamique et d’autres symboles et tenues vestimentaires à connotation religieuse n’est pas prohibé, des aménagements sont prévus pour faciliter la conciliation de la scolarisation et des pratiques religieuses non majoritaires, (…) et un enseignement religieux facultatif peut être mis en place dans les établissements pour « toutes confessions religieuses reconnues » » (paragraphe 74 de l’arrêt). Attestant une tolérance religieuse qui s’exprime par une approche libérale permettant à toutes les confessions de manifester librement leurs convictions religieuses dans les écoles publiques, ces éléments constituent à mes yeux un facteur crucial de « neutralisation » de la portée symbolique de la présence du crucifix dans les écoles publiques.

Je dirai également que cette approche libérale sert le concept même de « neutralité » ; elle est l’autre versant, par exemple, d’une politique interdisant l’exposition de tout symbole religieux dans un lieu public.
OPINION CONCORDANTE DU JUGE BONELLO

(Traduction)

1.1  Une cour des droits de l’homme ne saurait se laisser gagner par un Alzheimer historique. Elle n’a pas le droit de faire fi de la continuité culturelle du parcours d’une nation à travers le temps, ni de négliger ce qui au fil des siècles a contribué à modeler et définir le profil d’un peuple. Aucun tribunal supranational n’a à substituer ses propres modèles éthiques aux qualités que l’histoire a imprimées à l’identité nationale. Une cour des droits de l’homme a pour rôle de protéger les droits fondamentaux, mais sans jamais perdre de vue ceci : « les coutumes ne sont pas des caprices qui passent. Elles évoluent avec le temps, se solidifient à travers l’histoire pour former un ciment culturel. Elles deviennent des symboles extrêmement importants qui définissent l’identité des nations, des tribus, des religions, des individus »[1].

 

1.2  Une cour européenne ne doit pas être invitée à ruiner des siècles de tradition européenne. Aucun tribunal, et certainement pas cette Cour, ne doit voler aux Italiens une partie de leur personnalité culturelle.

 

1.3  Avant de nous rallier à toute croisade tendant à diaboliser le crucifix, je crois qu’il nous faut replacer dans son juste contexte historique la présence de ce symbole au sein des écoles italiennes. Pendant des siècles, pratiquement toute éducation dispensée en Italie a été le fait de l’Eglise, de ses ordres et organisations religieux, et de très peu d’autres entités. Un grand nombre ­– voire la plupart ­– des écoles, collèges, universités et autres instituts d’enseignement d’Italie ont été fondés, financés ou gérés par l’Eglise, ses membres ou ses ramifications. Les grandes étapes de l’histoire ont fait de l’éducation et du christianisme des notions quasiment interchangeables ; dès lors, la présence séculaire du crucifix dans les écoles italiennes n’a pas de quoi choquer ou surprendre. En fait, c’est plutôt son absence qui serait choquante ou surprenante.

 

1.4  Jusqu’à une époque assez récente, l’Etat « laïque » ne s’occupait guère d’éducation, mission essentielle qu’il déléguait, par défaut, aux institutions chrétiennes. Ce n’est que peu à peu que l’Etat a commencé à assumer ses responsabilités s’agissant d’éduquer la population et de lui proposer autre chose que le quasi-monopole religieux sur l’éducation. La présence du crucifix dans les écoles italiennes ne fait que témoigner de cette réalité historique irréfutable et millénaire ; on pourrait presque dire que le crucifix est là depuis que les écoles existent. Et voilà que l’on saisit une juridiction qui se trouve sous une cloche de verre, à mille kilomètres de là, afin que du jour au lendemain elle mette son véto à ce qui a survécu à d’innombrables générations. On invite la Cour à se rendre complice d’un acte majeur de vandalisme culturel. A mon avis, William Faulkner a touché le cœur du problème : le passé n’est jamais mort. En fait, il n’est même pas passé.[2] Que cela nous plaise ou non, les parfums et la puanteur de l’histoire nous accompagnent toujours.

 

1.5  C’est une aberration et un manque d’information que d’affirmer que la présence du crucifix dans les écoles italiennes témoigne d’une mesure fasciste réactionnaire imposée, entre les gorgées d’huile de ricin, par Signor Mussolini. Les circulaires de Mussolini n’ont fait que prendre acte formellement d’une réalité historique antérieure de plusieurs siècles à sa naissance et qui, nonobstant le vitriol anti-crucifix lancé par Mme Lautsi, pourrait lui survivre encore longtemps. La Cour devrait toujours faire preuve de circonspection lorsqu’il s’agit de prendre des libertés avec les libertés des autres peuples, y compris celle de chérir leur propre empreinte culturelle. Quelle qu’elle soit, celle-ci est unique. Les nations ne façonnent pas leur histoire sous l’impulsion du moment.

 

1.6  Le rythme du calendrier scolaire italien témoigne des liens historiques inextricables qui existent en Italie entre l’éducation et la religion, des liens persistants qui ont survécu des siècles durant. Aujourd’hui encore, les écoliers travaillent dur les jours consacrés aux dieux païens (Diane/Lune, Mars, Hercule, Jupiter, Vénus, Saturne) et se reposent le dimanche (domenica, le jour du Seigneur). Le calendrier scolaire imite le calendrier religieux, les jours fériés se calquant sur les fêtes chrétiennes. Pâques, Noël, le carême, carnaval (carnevale, période où la discipline religieuse permettait la consommation de viande), l’Epiphanie, la Pentecôte, l’Assomption, la Fête-Dieu, l’Avent, la Toussaint, le jour des Morts : un cycle annuel qui – c’est flagrant ­– est bien plus dénué de laïcité que n’importe quel crucifix sur n’importe quel mur. Puisse Mme Lautsi s’abstenir de solliciter les services de la Cour, en son propre nom et au nom de la laïcité, aux fins de la suppression du calendrier scolaire italien, cet autre élément du patrimoine culturel chrétien qui a survécu au passage des siècles sans que rien ne prouve qu’il y ait eu atteinte irréparable au progrès de la liberté, de l’émancipation, de la démocratie et de la civilisation.

 

Quels droits ? Liberté de religion et de conscience ?

 

2.1  Les questions soulevées par cette affaire ont été éludées en raison d’un déplorable manque de clarté et de définition. La Convention consacre la protection de la liberté de religion et de conscience (article 9). Rien de moins que cela, évidemment, mais guère plus.

 

2.2  Parallèlement à la liberté de religion, on a vu se constituer dans les sociétés civilisées un catalogue de valeurs remarquables (souvent louables) qui sont apparentées à la liberté de religion tout en étant distinctes de celle-ci : la laïcité, le pluralisme, la séparation de l’Eglise et de l’Etat, la neutralité confessionnelle ou la tolérance religieuse. Toutes ces valeurs représentent des matières premières démocratiques supérieures dans lesquels les Etats contractants sont libres d’investir ou non, ce que beaucoup ont fait. Il ne s’agit toutefois pas de valeurs protégées par la Convention, et c’est une erreur fondamentale que de jongler avec ses concepts dissemblables comme s’ils étaient interchangeables avec la liberté de religion. Hélas, la jurisprudence de la Cour comporte elle aussi des traces de ce débordement qui est tout sauf rigoureux.

 

2.3  La Convention a confié à la Cour la tâche de faire respecter la liberté de religion et de conscience, mais elle ne lui a pas donné le pouvoir de contraindre les Etats à la laïcité ou de les forcer à adopter un régime de neutralité confessionnelle. C’est à chaque Etat d’opter ou non pour la laïcité et de décider si – et, le cas échéant, dans quelle mesure – il entend séparer l’Eglise et la conduite des affaires publiques. Ce que l’Etat ne doit pas faire, c’est priver quiconque de sa liberté de religion et de conscience. Un abîme axiomatique sépare un concept prescriptif des autres concepts, non prescriptifs.

 

2.4  La plupart des arguments formulés par la requérante invitent la Cour à garantir la séparation de l’Eglise et de l’Etat et à assurer le respect d’un régime de laïcité aseptique au sein des écoles italiennes. Or cela, pour dire les choses sans ambages, ne regarde pas la Cour. Celle-ci doit veiller à ce que Mme Lautsi et ses enfants jouissent pleinement de leur droit fondamental à la liberté de religion et de conscience, un point c’est tout.

 

2.5  La Convention s’avère très utile, avec son inventaire détaillé et exhaustif de ce que signifie réellement la liberté de religion et de conscience, et nous ferions bien de garder à l’esprit ces contraintes institutionnelles. Liberté de religion ne veut pas dire laïcité. Liberté de religion ne veut pas dire séparation de l’Eglise et de l’Etat. Liberté de religion ne veut pas dire équidistance en matière religieuse. Toutes ces notions sont certes séduisantes, mais nul n’a à ce jour désigné la Cour afin qu’elle en soit la gardienne. En Europe, la laïcité est facultative ; la liberté de religion ne l’est pas.

 

2.6  La liberté de religion et la liberté de ne pas avoir de religion consistent en fait dans le droit de professer librement toute religion choisie par l’individu, le droit de changer librement de religion, le droit de n’embrasser aucune religion, et le droit de manifester sa religion par les croyances, le culte, l’enseignement et l’observance. Le catalogue de la Convention s’arrête ici, bien en deçà de la défense de l’Etat laïque.

 

2.7  Le rôle plutôt modeste de la Cour reste de déterminer si l’exposition dans les écoles publiques italiennes de ce que certains voient comme un symbole chrétien et d’autres comme un gadget culturel a, de quelque façon que ce soit, porté atteinte au droit fondamental de Mme Lautsi et de ses enfants à la liberté de religion, telle que définie par la Convention elle-même.

 

2.8  Je crois que n’importe qui pourrait, de manière convaincante, s’employer à soutenir que la présence du crucifix dans les écoles publiques italiennes est susceptible de heurter la doctrine de la laïcité et celle de la séparation de l’Eglise et de l’Etat. En même temps, je pense que nul ne pourrait plaider de façon probante que la présence d’un crucifix a, de quelque manière que ce soit, porté atteinte au droit des membres de la famille Lautsi de professer toute religion de leur choix, de changer de religion, de n’avoir aucune religion ou de manifester leurs croyances, le cas échéant, par le culte, l’enseignement et l’observance, ou à leur droit de rejeter carrément tout ce qu’ils pourraient considérer comme un fade objet de superstition.

 

2.9  Avec ou sans crucifix sur le mur d’une salle de classe, les Lautsi ont joui de la liberté de conscience et de religion la plus absolue et la plus illimitée, telle que définie par la Convention. Il est concevable que la présence d’un crucifix dans une salle de classe puisse être perçue comme une trahison de la laïcité et une défaillance injustifiable du régime de séparation de l’Eglise et de l’Etat ; ces doctrines, toutefois, aussi attrayantes et séduisantes soient-elles, ne sont nulle part prescrites par la Convention, et elles ne sont pas non plus des éléments constitutifs nécessaires à la liberté de conscience et à la liberté de religion. C’est aux autorités italiennes, et non à la Cour, qu’il revient de garantir la laïcité si elles estiment que celle-ci fait ou doit faire partie de l’architecture constitutionnelle italienne.

 

2.10  Eu égard aux racines historiques de la présence du crucifix dans les écoles italiennes, retirer celui-ci de là où il se trouve, discrètement et passivement, depuis des siècles n’aurait guère été un signe de neutralité de l’Etat. Le retirer aurait constitué une adhésion positive et agressive à l’agnosticisme ou à la laïcité, et aurait donc été tout sauf un acte neutre. Maintenir un symbole là où il a toujours été n’est pas un acte d’intolérance des croyants ou des traditionalistes culturels. Le déloger serait un acte d’intolérance des agnostiques et des laïcs.

 

2.11  Au fil des siècles, des millions d’enfants Italiens ont été exposés au crucifix dans les écoles. Cela n’a pas fait de l’Italie un Etat confessionnel, ni des Italiens les citoyens d’une théocratie. Les requérants n’ont présenté à la Cour aucun élément montrant que les personnes exposées au crucifix auraient, de quelque manière que ce soit, perdu leur liberté totale de manifester leurs croyances religieuses individuelles et personnelles, ou leur droit de renier toute religion. La présence d’un crucifix dans une salle de classe ne semble avoir entravé aucun Italien dans sa liberté de croire ou de ne pas croire, d’embrasser l’athéisme, l’agnosticisme, l’anticléricalisme, la laïcité, le matérialisme, le relativisme ou l’irréligion doctrinaire, d’abjurer, d’apostasier, ou d’embrasser le crédo ou l’« hérésie » de son choix qui lui paraisse suffisamment attrayant, ce avec la même vigueur et la même verve que d’autres mettent à embrasser librement une confession chrétienne. Si de tels éléments avaient été présentés, j’aurais avec véhémence voté en faveur de la violation de la Convention.

Quels droits ? Le droit à l’instruction ?

 

3.1  L’article 2 du Protocole no 1 garantit le droit des parents à ce que l’enseignement dispensé à leurs enfants soit conforme à leurs propres convictions religieuses et philosophiques. La tâche de la Cour est de contrôler et de garantir le respect de ce droit.

 

3.2  La simple présence silencieuse et passive d’un symbole dans une salle de classe d’une école italienne correspond-elle à un « enseignement » ? Fait-elle obstacle à l’exercice du droit garanti ? J’ai beau chercher, je ne vois pas comment. La Convention interdit spécifiquement et exclusivement tout enseignement scolaire qui ne conviendrait pas aux parents pour des motifs religieux, éthiques ou philosophiques. Le mot clé de cette norme est bien évidemment « enseignement », et je me demande dans quelle mesure la présence muette d’un symbole de la continuité culturelle européenne pourrait s’analyser en un enseignement, au sens de ce mot plutôt dénué d’équivoque.

 

3.3  A mon avis, ce que la Convention interdit, c’est tout endoctrinement, éhonté ou sournois, la confiscation agressive de jeunes esprits, le prosélytisme envahissant, la mise en place par le système éducatif public de tout obstacle à l’aveu de l’athéisme, de l’agnosticisme ou du choix en faveur d’une autre foi. La simple exposition du témoignage silencieux d’un symbole historique, qui fait si incontestablement partie du patrimoine européen, ne constitue nullement un « enseignement », et elle ne porte pas non plus une atteinte sérieuse au droit fondamental des parents à déterminer quelle orientation religieuse, le cas échéant, leurs enfants doivent suivre.

 

3.4  Même en admettant que la simple présence d’un objet muet doive être interprétée comme un « enseignement », les requérants n’ont pas répondu à la question bien plus capitale de la proportionnalité – étroitement liée à l’exercice de droits fondamentaux lorsque ceux-ci sont en conflit avec les droits d’autrui –, autrement dit de la mise en balance qu’il convient de faire entre les différents intérêts concurrents.

 

3.5  L’ensemble des parents des trente élèves qui se trouvent dans une salle de classe italienne jouissent à égalité du droit fondamental, garanti par la Convention, à ce que leurs enfants reçoivent un enseignement conforme à leurs propres convictions religieuses et philosophiques, droit au moins équivalent à celui dont jouissent les enfants Lautsi. Les parents d’un seul élève veulent une instruction « sans crucifix », et les parents des vingt-neuf autres élèves, exerçant leur non moins fondamentale liberté de décision, veulent une instruction « avec crucifix ». Jusqu’à présent, nul n’a avancé aucune raison pour laquelle la volonté des parents d’un seul élève devrait l’emporter et celle des parents des vingt-neuf autres élèves capituler. Les parents de ces vingt-neuf enfants ont un droit fondamental, équivalent par la force et l’intensité, à ce que leurs enfants reçoivent un enseignement conforme à leurs propres convictions religieuses et philosophiques, qu’ils soient favorables au crucifix ou simplement indifférents à celui-ci. Mme Lautsi ne saurait s’arroger l’autorisation d’anéantir le droit de l’ensemble des parents des autres élèves de la classe, qui souhaitent exercer ce droit dont elle demande précisément à la Cour d’empêcher l’exercice par autrui.

 

3.6  La chasse au crucifix encouragée par Mme Lautsi ne peut en aucune façon constituer une mesure permettant d’assurer la neutralité dans une salle de classe. Ce serait faire prévaloir la philosophie « hostile au crucifix » des parents d’un seul élève par rapport à la philosophie « réceptive au crucifix » des parents des vingt-neuf autres élèves. Si les parents d’un seul élève revendiquent le droit de voir éduquer leur enfant en l’absence de crucifix, les parents des vingt-neuf autres élèves doivent bien avoir la possibilité de revendiquer un droit équivalent à la présence du crucifix, que ce soit comme symbole chrétien traditionnel ou simplement comme souvenir culturel.

 

Petit aparté

 

4.1  Tout récemment, la Cour a été appelé à déterminer si une interdiction prononcée par les autorités turques à l’égard de la diffusion du roman Les onze mille verges, de Guillaume Apollinaire, pouvait se justifier dans une société démocratique. Pour estimer que ce roman ne relève pas de la pornographie violente, il faut avoir un souverain mépris pour les principes moraux contemporains[3]. Pourtant, la Cour a vaillamment volé au secours de ce ramassis d’obscénités transcendantales, sous prétexte qu’il faisait partie du patrimoine culturel européen[4].

 

4.2  Il eût été bien étrange, à mon avis, que la Cour défendît et rachetât ce monceau assez médiocre d’obscénités nauséeuses qui circule sous le manteau, en se fondant sur une vague appartenance au « patrimoine européen », et que dans le même temps elle niât la valeur de patrimoine européen à un emblème que des millions d’Européens ont reconnu au fil des siècles comme un symbole intemporel de rédemption par l’amour universel.

 

 

 

 

OPINION CONCORDANTE DU JUGE POWER

(Traduction)

Cette affaire soulève des questions concernant la portée de certaines dispositions de la Convention, et la rectification par la Grande Chambre d’un certain nombre d’erreurs contenues dans l’arrêt de la chambre était à la fois nécessaire et judicieuse. La correction essentielle réside dans le constat que le choix de la présence de crucifix dans les salles de classe des écoles publiques relève en principe de la marge d’appréciation d’un Etat défendeur (paragraphe 70 de l’arrêt). Dans l’exercice de sa fonction de contrôle, la Cour confirme sa jurisprudence antérieure[5] selon laquelle la « visibilité prépondérante » dans l’environnement scolaire qu’un Etat peut conférer à la religion majoritaire du pays ne suffit pas en soi pour indiquer une démarche d’endoctrinement de nature à établir un manquement aux prescriptions de l’article 2 du Protocole no 1 (paragraphe 71 de l’arrêt).

La Grande Chambre rectifie également la conclusion plutôt spéculative de l’arrêt de la chambre (paragraphe 55 de l’arrêt de la chambre) relative au risque « particulièrement présent » que l’exposition d’un crucifix puisse être perturbante émotionnellement pour des élèves de religions minoritaires ou des élèves qui ne professent aucune religion. Eu égard au rôle crucial de la « preuve » dans toute procédure judiciaire, la Grande Chambre relève à juste titre que la Cour ne dispose pas d’éléments attestant une quelconque influence de la présence d’un symbole religieux sur les élèves (paragraphe 66 de l’arrêt). Tout en reconnaissant que l’« on peut (…) comprendre » l’impression qu’a la requérante d’un manque de respect de ses droits, la Grande Chambre confirme que la perception subjective de l’intéressée ne saurait suffire à caractériser une violation de l’article 2 du Protocole no 1. La requérante a peut-être été offensée par la présence de crucifix dans les salles de classe, mais l’existence d’un droit « à ne pas être offensé » n’a jamais été reconnue dans le cadre de la Convention. En infirmant l’arrêt de la chambre, la Grande Chambre ne fait rien d’autre que confirmer une jurisprudence constante (relative notamment à l’article 10) qui reconnaît que la simple « offense » n’est pas une chose contre laquelle un individu peut être immunisé par le droit.

Cependant, l’arrêt de la chambre contenait une autre conclusion fondamentale, et à mon sens erronée, au sujet de laquelle la Grande Chambre ne fait pas de commentaire alors qu’elle méritait selon moi quelques clarifications. La chambre a à juste titre indiqué que l’Etat est tenu à la neutralité confessionnelle dans le cadre de l’éducation publique (paragraphe 56 de l’arrêt de la chambre). Toutefois, elle a ensuite conclu, de façon incorrecte, que ce devoir exige en fait que l’on préfère ou que l’on place une idéologie (ou un ensemble d’idées) au-dessus de tout autre point de vue religieux et/ou philosophique ou de toute autre vision du monde. La neutralité appelle une approche pluraliste, et non laïque, de la part de l’Etat. Elle encourage le respect de toutes les visions du monde et non la préférence pour une seule. A mes yeux, l’arrêt de la chambre était frappant dans son manquement à reconnaître que la laïcité (conviction ou vision du monde préférée par la requérante) est, en soi, une idéologie parmi d’autres. Préférer la laïcité aux autres visions du monde – qu’elles soient religieuses, philosophiques ou autres – n’est pas une option neutre. La Convention exige que l’on respecte les convictions de la requérante pour autant que l’éducation et l’enseignement dispensés à ses enfants sont en jeu. Elle n’exige pas que ces convictions soient l’option préférée et approuvée par rapport à toutes les autres.

Dans son opinion séparée, le juge Bonello souligne que, dans la tradition européenne, l’éducation (et, à mon avis, les valeurs que sont la dignité humaine, la tolérance et le respect de l’individu, sans lesquelles il ne peut à mon sens y avoir aucune base durable à la protection des droits de l’homme) a ses racines, historiquement, notamment dans la tradition chrétienne. Interdire dans les écoles publiques, sans considération des souhaits de la nation, l’exposition d’un symbole représentatif de cette tradition – ou en fait de toute autre tradition religieuse – et exiger que l’Etat poursuive un programme non pas pluraliste mais laïc, risque de nous faire glisser vers le terrain de l’intolérance, notion qui est contraire aux valeurs de la Convention.

Les requérants allèguent la violation de leur droit à la liberté de pensée, de conscience et de religion. Or je ne vois aucune atteinte à leur liberté de manifester leurs convictions personnelles. Le critère, pour déterminer s’il y a eu violation au regard de l’article 9, n’est pas l’existence d’une « offense » mais celle d’une « coercition »[6]. Cet article ne crée pas un droit à ne pas être offensé par la manifestation des convictions religieuses d’autrui, même lorsque l’Etat confère une « visibilité prépondérante » à ces convictions. L’exposition d’un symbole religieux n’oblige ni ne contraint quiconque à faire ou à s’abstenir de faire une chose. Elle n’exige pas un engagement dans une activité quelconque, même s’il est concevable qu’elle puisse appeler ou stimuler la discussion et l’échange ouvert des points de vue. Elle n’empêche pas un individu de suivre ce que lui dicte sa conscience et n’écarte pas toute possibilité pour lui de manifester ses propres convictions et idées religieuses.

La Grande Chambre estime que la présence du crucifix est pour l’essentiel un symbole passif, et elle considère cet aspect comme revêtant une grande importance compte tenu du principe de neutralité. Je souscris à cet égard à l’avis de la Cour, dès lors que le symbole, par son caractère passif, n’a rien de coercitif. Je dois toutefois admettre qu’en principe les symboles (qu’ils soient religieux, culturels ou autres) sont porteurs de sens. Ils peuvent être silencieux tout en étant parlants, sans nullement impliquer coercition ou endoctrinement. Les éléments non contestés dont dispose la Cour montrent que l’Italie ouvre l’espace scolaire à tout un éventail de religions, et rien n’indique qu’il y ait une intolérance quelconque à l’égard des élèves non croyants ou tenants de convictions philosophiques qui ne se rattachent pas à une religion. Le port du voile islamique est autorisé. Le début et la fin du Ramadan sont « souvent fêtés ». Dans ce contexte de pluralisme et de tolérance religieuse, un symbole chrétien apposé sur le mur d’une salle de classe ne fait que représenter une vision autre et différente du monde. La présentation et prise en compte de différents points de vue fait partie intégrante du processus éducatif. Elle stimule le dialogue. Une éducation réellement pluraliste implique la mise en contact des élèves avec toute une gamme d’idées différentes, y compris des idées qui ne sont pas les leurs propres. Le dialogue devient possible et prend peut-être tout son sens lorsqu’il y a une véritable différence dans les opinions et un échange francs d’idées. Si elle s’accomplit dans un esprit d’ouverture, de curiosité, de tolérance et de respect, cette rencontre peut mener à une meilleure clarté et représentation, car elle favorise le développement de la pensée critique. L’éducation serait amoindrie si les enfants n’étaient pas confrontés à des points de vue différents sur la vie et n’avaient pas, par ce processus, la possibilité d’apprendre l’importance du respect de la diversité.

 

 

 

OPINION DISSIDENTE DU JUGE MALINVERNI, À LAQUELLE SE RALLIE LA JUGE KALAYDJIEVA

1. La Grande Chambre est parvenue à la conclusion qu’il n’y a pas eu violation de l’article 2 du Protocole no 1 au motif que « le choix de la présence de crucifix dans les salles de classe des écoles publiques relève en principe de la marge d’appréciation de l’Etat défendeur » (paragraphe 70 ; voir aussi le paragraphe 69).

J’ai de la peine à suivre cette argumentation. Utile, voire commode, la théorie de la marge d’appréciation est une technique d’un maniement délicat, car l’ampleur de la marge dépend d’un grand nombre de paramètres : droit en cause, gravité de l’atteinte, existence d’un consensus européen, etc. La Cour a ainsi affirmé que « l’ampleur de la marge d’appréciation n’est pas la même pour toutes les affaires mais varie en fonction du contexte (…). Parmi les éléments pertinents figurent la nature du droit conventionnel en jeu, son importance pour l’individu et le genre des activités en cause».[7] La juste application de cette théorie est donc fonction de l’importance respective que l’on attribue à ces différents facteurs. La Cour décrète-t-elle que la marge d’appréciation est étroite, l’arrêt conduira le plus souvent à une violation de la Convention ; considère-t-elle en revanche qu’elle est large, l’Etat défendeur sera le plus souvent « acquitté ».

Dans la présente affaire, c’est en se fondant principalement sur l’absence de consensus européen que la Grande Chambre s’est autorisée à invoquer la théorie de la marge d’appréciation (paragraphe 70). A cet égard, je relève que la présence de symboles religieux dans les écoles publiques n’est expressément prévue, outre l’Italie, que dans un nombre très restreint d’Etats membres du Conseil de l’Europe (Autriche, Pologne, quelques Länder allemands ; paragraphe 27). En revanche, dans la très grande majorité de ces Etats cette question ne fait pas l’objet d’une réglementation spécifique. Il me paraît difficile, dans ces conditions, de tirer de cet état de fait des conclusions sûres quant au consensus européen.

S’agissant de la réglementation relative à cette question, je relève en passant que la présence du crucifix dans les écoles publiques italiennes repose sur une base légale extrêmement faible : un décret royal fort ancien, puisqu’il date de 1860, puis une circulaire fasciste de 1922, et encore des décrets royaux de 1924 et de 1928. Il s’agit donc de textes fort anciens et qui, n’émanant pas du Parlement, sont dépourvus de toute légitimité démocratique.

Ce qui me paraît en revanche plus important c’est que, là où elles ont été appelées à se prononcer sur cette question, les cours suprêmes ou constitutionnelles européennes ont chaque fois et sans exception fait prévaloir le principe de la neutralité confessionnelle de l’Etat : la Cour constitutionnelle allemande, le Tribunal fédéral suisse, la Cour constitutionnelle polonaise et, dans un contexte légèrement différent, la Cour de cassation italienne (paragraphes 28 et 23).

Quoi qu’il en soit, une chose est certaine : la théorie de la marge d’appréciation ne saurait en aucun cas dispenser la Cour d’exercer les fonctions qui lui incombent en vertu de l’article 19 de la Convention, qui est celle d’assurer le respect des engagements résultant pour les Etats de la Convention et de ses Protocoles. Or la seconde phrase de l’article 2 du Protocole no 1 crée à la charge des Etats une obligation positive de respecter le droit des parents d’assurer l’éducation de leurs enfants conformément à leurs convictions religieuses et philosophiques.

Pareille obligation positive découle du verbe « respecter », qui figure à l’article 2 du Protocole no 1. Comme le relève à juste titre la Grande Chambre, « en sus d’un engagement plutôt négatif, ce verbe implique à la charge de l’Etat une certaine obligation positive » (paragraphe 61). Une telle obligation positive peut d’ailleurs se déduire également de l’article 9 de la Convention. Cette disposition peut en effet s’interpréter comme créant à la charge des Etats une obligation positive de créer un climat de tolérance et de respect mutuel au sein de leur population.

Peut-on alors affirmer que les Etats s’acquittent véritablement de cette obligation positive lorsqu’ils prennent principalement en considération les croyances de la majorité ? Par ailleurs, la marge d’appréciation revêt-elle la même ampleur lorsque les autorités nationales sont requises de s’acquitter d’une obligation positive que lorsqu’elles sont simplement tenues par une obligation d’abstention ? Je ne le pense pas. Je suis au contraire d’avis que lorsque les Etats sont tenus par des obligations positives, leur marge d’appréciation s’amenuise.

De toute façon, selon la jurisprudence, la marge d’appréciation va de pair avec un contrôle européen. La tâche de la Cour consiste alors à s’assurer que la limite de la marge d’appréciation n’a pas été dépassée. Dans la présente affaire, tout en reconnaissant qu’en prescrivant la présence du crucifix dans les salles de classe des écoles publiques la réglementation en cause donne à la religion majoritaire une visibilité prépondérante dans l’environnement scolaire, la Grande Chambre a été d’avis que « cela ne suffit toutefois pas en soi pour … établir un manquement aux prescriptions de l’article 2 du Protocole no 1 ». Je ne saurais partager ce point de vue.

 

2. Nous vivons désormais dans une société multiculturelle, dans laquelle la protection effective de la liberté religieuse et du droit à l’éducation requiert une stricte neutralité de l’Etat dans l’enseignement public, lequel doit s’efforcer de favoriser le pluralisme éducatif comme un élément fondamental d’une société démocratique telle que la conçoit la Convention.[8] Le principe de la neutralité de l’Etat a d’ailleurs été expressément reconnu par la Cour constitutionnelle italienne elle-même, pour laquelle il découle du principe fondamental de l’égalité de tous les citoyens et de l’interdiction de toute discrimination que l’Etat doit adopter une attitude d’impartialité à l’égard des croyances religieuses. [9]

La seconde phrase de l’article 2 du Protocole no 1 implique qu’en s’acquittant des fonctions qu’il assume en matière d’éducation et d’enseignement, l’Etat veille à ce que les connaissances soient diffusées de manière objective, critique et pluraliste. L’école doit être un lieu de rencontre de différentes religions et convictions philosophiques, où les élèves peuvent acquérir des connaissances sur leurs pensées et traditions respectives.

 

3. Ces principes sont valables non seulement pour l’élaboration et l’aménagement des programmes scolaires, qui ne sont pas en cause dans la présente affaire, mais également pour l’environnement scolaire. L’article 2 du Protocole no 1 précise bien que l’Etat respectera le droit des parents d’assurer l’éducation et l’enseignement conformément à leurs convictions religieuses et philosophiques dans l’exercice des fonctions (en anglais : any functions) qu’il assumera dans le domaine de l’éducation et de l’enseignement. C’est dire que le principe de la neutralité confessionnelle de l’Etat vaut non seulement pour le contenu de l’enseignement, mais pour l’ensemble du système éducatif. Dans l’affaire Folgerø, la Cour a relevé à juste titre que le devoir qui incombe aux Etats en vertu de cette disposition « est d’application large car il vaut pour le contenu de l’instruction et la manière de la dispenser mais aussi dans l’exercice de l’ensemble des « fonctions » assumées par l’Etat ».[10]

Ce point de vue est également partagé par d’autres instances, tant internes qu’internationales. Ainsi, dans son Observation générale No 1, le Comité des droits de l’enfant a-t-il affirmé que le droit à l’éducation se réfère « non seulement au contenu des programmes scolaires, mais également au processus d’éducation, aux méthodes pédagogiques et au milieu dans lequel l’éducation est dispensée, qu’il s’agisse de la maison, de l’école ou d’un autre cadre ».[11] Et le Comité onusien d’ajouter que « le milieu scolaire lui-même doit (…) être le lieu où s’expriment la liberté et l’esprit de compréhension, de paix, de tolérance, d’égalité entre les sexes et d’amitié entre tous les peuples et groupes ethniques, nationaux et religieux ».[12]

La Cour suprême du Canada a elle aussi relevé que l’environnement dans lequel l’enseignement est dispensé fait partie intégrante d’une éducation libre de toute discrimination : « In order to ensure a discrimination-free educational environment, the school environment must be one where all are treated equally and all are encouraged to fully participate. »[13]

 

4. Les symboles religieux font incontestablement partie de l’environnement scolaire. Comme tels, ils sont donc de nature à contrevenir au devoir de neutralité de l’Etat et à avoir un impact sur la liberté religieuse et le droit à l’éducation. Cela est d’autant plus vrai lorsque le symbole religieux s’impose aux élèves, même contre leur volonté. Comme l’a relevé la Cour constitutionnelle allemande dans son célèbre arrêt : « Certainly, in a society that allows room for differing religious convictions, the individual has no right to be spared from other manifestations of faith, acts of worship or religious symbols. This is however to be distinguished from a situation created by the State where the individual is exposed without possibility of escape to the influence of a particular faith, to the acts through which it is manifested and to the symbols in which it is presented »[14]. Ce point de vue est partagé par d’autres cours suprêmes ou constitutionnelles.

Ainsi, le Tribunal fédéral suisse a-t-il relevé que le devoir de neutralité confessionnelle à laquelle est tenu l’Etat revêt une importance particulière dans les écoles publiques, dès lors que l’enseignement y est obligatoire. Il a ajouté que, garant de la neutralité confessionnelle de l’école, l’Etat ne peut pas manifester, dans le cadre de l’enseignement, son propre attachement à une religion déterminée, qu’elle soit majoritaire ou minoritaire, car il n’est pas exclu que certaines personnes se sentent lésées dans leurs convictions religieuses par la présence constante dans l’école d’un symbole d’une religion à laquelle elles n’appartiennent pas.[15]

 

5. Le crucifix est sans conteste un symbole religieux. Selon le gouvernement défendeur, lorsqu’il se trouve dans l’environnement scolaire, le crucifix serait un symbole de l’origine religieuse de valeurs devenues désormais laïques, telles que la tolérance et le respect mutuel. Il y remplirait ainsi une fonction symbolique hautement éducative, indépendamment de la religion professée par les élèves, car il serait l’expression d’une civilisation entière et de valeurs universelles.

A mon avis, la présence du crucifix dans les salles de classe va bien au-delà de l’usage de symboles dans un contexte historique spécifique. La Cour a d’ailleurs déjà jugé que le caractère traditionnel d’un texte utilisé par des parlementaires pour prêter serment ne privait pas ce dernier de sa nature religieuse.[16] Comme l’a relevé la chambre, la liberté négative de religion n’est pas limitée à l’absence de services religieux ou d’enseignement religieux. Elle s’étend également aux symboles exprimant une croyance ou une religion. Cette liberté négative mérite une protection particulière lorsque c’est l’Etat qui expose un symbole religieux et que les individus sont placés dans une situation dont ils ne peuvent se dégager.[17] Même à admettre que le crucifix puisse avoir une pluralité de significations, la signification religieuse demeure malgré tout prédominante. Dans le contexte de l’éducation publique, il est nécessairement perçu comme une partie intégrante du milieu scolaire et peut même être considéré comme un signe extérieur fort. Je constate d’ailleurs que même la Cour de cassation italienne a rejeté la thèse selon laquelle le crucifix symboliserait une valeur indépendante d’une confession religieuse spécifique (paragraphe 67).

 

6. La présence du crucifix dans les écoles est même de nature à porter plus gravement atteinte à la liberté religieuse et au droit à l’éducation des élèves que les signes vestimentaires religieux que peut porter, par exemple, une enseignante, comme le voile islamique. Dans cette dernière hypothèse, l’enseignante en question peut en effet se prévaloir de sa propre liberté de religion, qui doit également être prise en compte, et que l’Etat doit aussi respecter. Les pouvoirs publics ne sauraient en revanche invoquer un tel droit. Du point de vue de la gravité de l’atteinte au principe de la neutralité confessionnelle de l’Etat, celle-ci est donc moindre lorsque les pouvoirs publics tolèrent le voile à l’école que lorsqu’ils y imposent la présence du crucifix.

 

7. L’impact que peut avoir la présence du crucifix dans les écoles est aussi sans commune mesure avec celui que peut exercer son exposition dans d’autres établissements publics, comme un bureau de vote ou un tribunal. En effet, comme l’a pertinemment relevé la chambre, dans les écoles « le pouvoir contraignant de l’Etat est imposé à des esprits qui manquent encore de la capacité critique leur permettant de prendre de la distance par rapport au message découlant d’un choix préférentiel manifesté par l’Etat » (paragraphe 48 de l’arrêt de la chambre).

 

8. En conclusion, une protection effective des droits garantis par l’article 2 du Protocole no 1 et par l’article 9 de la Convention exige de la part de l’Etat qu’il fasse preuve de la plus stricte neutralité confessionnelle. Celle-ci ne se limite pas aux programmes scolaires, mais s’étend également à « l’environnement scolaire ». L’instruction primaire et secondaire étant obligatoire, l’Etat ne saurait imposer à des élèves, contre leur volonté et sans qu’ils puissent s’y soustraire, le symbole d’une religion dans laquelle ils ne se reconnaissent pas. L’ayant fait, le Gouvernement défendeur a violé l’article 2 du Protocole no 1 et l’article 9 de la Convention.

 


[1] Justin Marozzi, The Man Who Invented History, John Murray, 2009, p. 97.

[2] Requiem pour une nonne, 1951.

[3] Wikipedia qualifie cette œuvre de « roman érotique » dans lequel l’auteur « explore toutes les facettes de la sexualité (…) : sadisme alterne avec masochisme, ondinisme/scatophilie avec vampirisme, pédophilie avec gérontophilie, onanisme avec sexualité de groupe, saphisme avec pédérastie, etc. (…) [Le] roman dégage une impression de « joie infernale » (…) »

[4] Akdaş c. Turquie, no 41056/04, 16 février 2010.

[5] Folgerø et autres c. Norvège [GC], no 15472/02, § 89, CEDH 2007-VIII ; voir également Hasan et Eylem Zengin c. Turquie, no 1448/04, § 63, CEDH 2007-XI.

[6].  Buscarini et autres c. Saint-Marin [GC], no 24645/94, CEDH 1999-I ; voir également Haut Conseil spirituel de la communauté musulmane c. Bulgarie, no 39023/97, 16 décembre 2004.

[7]Buckley c. Royaume-Uni, 25 septembre 1996, § 74, Recueil des arrêts et décisions 1996‑IV.

[8] Manoussakis et autres c. Grèce, 26 septembre 1996, § 47, Recueil des arrêts et décisions 1996‑IV ; Kokkinakis c. Grèce, 25 mai 1993, § 31, série A no 260‑A.

[9] Cour constitutionnelle italienne, arrêt n° 508/2000.

[10] Folgerø et autres c. Norvège [GC], no 15472/02, § 84, CEDH 2007‑VIII. Les italiques sont de nous.

[11] Comité des droits de l’enfant, Observation générale N° 1, du 4 avril 2001, « Les buts de l’éducation », § 8. Les italiques sont de nous.

[12] Idem, § 19. Les italiques sont de nous.

[13] Cour suprême du Canada, Ross v. New Brunswick School District n° 15, § 100.

[14] Cour constitutionnelle allemande, BVerfGE 93, I I BvR 1097/91, arrêt du 16 mai 1995, § C (II) (1), traduction non officielle.

[15] Tribunal fédéral suisse, ATF 116 Ia 252, Comune di Cadro, arrêt du 26 septembre 1990, cons. 7.

[16] Buscarini et autres c. Saint-Marin [GC], no 24645/94, CEDH 1999‑I

[17] Lautsi c. Italie, no 30814/06, § 55, 3 novembre 2009.

Ordinanza TAR Lazio 14 marzo 2011, n. 2227

N. 02227/2011 REG.PROV.COLL.

N. 08398/2010 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Terza Bis)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 8398 del 2010, proposto da:

 

Snals-Confsal, (…);

 

contro

Ministero dell’Istruzione dell’Universita’ e della Ricerca, Ministero dell’Economia e delle Finanze, rappresentati e difesi dall’Avvocatura, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per l’annullamento

DEL DPR N. 119/09 RECANTE DISPOSIZIONI PER LA DEFINIZIONE DEI CRITERI E DEI PARAMETRI PER LA DETERMINAZIONE DELLA CONSISTENZA COMPLESSIVA DEGLI ORGANICI DEL PERSONALE AMMINISTRATIVO TECNICO ED AUSILIARIO (ATA) DELLE ISTITUZIONI SCOLASTICHE ED EDUCATIVE

 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell’Istruzione dell’Universita’ e della Ricerca e del Ministero dell’Economia e delle Finanze;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 3 febbraio 2011 il dott. Salvatore Gatto Costantino e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

 

Ricorrono il sindacato autonomo SNALS-CONFSAL e vari collaboratori scolastici (dipendenti del comparto scuola con contratto a tempo indeterminato), per avversare gli atti ed i provvedimenti con i quali l’Amministrazione intimata ha disposto la riduzione degli organici del personale ATA del 17% su scala nazionale, ripartendo poi la riduzione complessiva sugli organici regionali, in attuazione del DPR 22 giugno 2009 nr. 119, a sua volta emanato in attuazione dell’art. 64, comma 4 lett. e) del DL 25 giugno 2008, n. 112, conv. in l. 6 agosto 2008, nr. 133.

In fatto, i ricorrenti espongono che la rideterminazione dell’organico del personale ATA, operata sulla scorta del piano programmatico degli interventi di razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse umane e strumentali adottato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, a mente del terzo comma del citato art. 64 della l. 133/2008, ha comportato la soppressione di 44.500 posti a far data dall’anno scolastico 2010/2011, dei quali, 10.452 posti di Assistente amministrativo, 3.965 posti di assistente tecnico, 29.076 posti di collaboratore scolastico e 307 posti relativi ad altri profili del personale ATA.

Avverso gli atti ed i provvedimenti impugnati, i ricorrenti deducono articolate censure in diritto, facendone valere l’illegittimità derivata dall’illegittimità costituzionale dell’art. 64 del DL 112/2008, conv. in l. 133/2008 per avere con esso conferito il legislatore una delega in bianco all’Amministrazione, per l’esercizio del potere regolamentare senza i necessari parametri e condizioni per il suo esercizio (I censura); eccesso di potere legislativo delle norme in esame per violazione dell’art. 117 Cost. per avere perseguito il legislatore finalità diverse da quelle di effettiva organizzazione del servizio di istruzione, avendo invece mere finalità di risparmio di spesa (II censura); violazione dell’art. 97 della Cost. in relazione al principio secondo cui i pubblici uffici sono organizzati in forza di legge (III censura); violazione dell’art. 117 Cost. per avere il legislatore nazionale posto una disciplina eccedente, o comunque non riconducibile, il limite delle norme generali sull’istruzione (IV censura); violazione delle norme di riferimento e difetto di motivazione e di istruttoria per essere stata operata la determinazione degli organici nazionali in difetto della previa revisione dei parametri e dei criteri per la determinazione degli organici complessivi (V censura).

Si è costituito il Ministero per l’Istruzione, Università e Ricerca, che resiste al ricorso di cui chiede il rigetto per inammissibilità ed infondatezza.

Alla pubblica udienza del 3 febbraio 2011 la causa è stata trattenuta in decisione.

Nell’odierno giudizio, le parti ricorrenti fanno valere un preciso interesse legittimo oppositivo, contestando l’avvenuta riduzione degli organici del personale ATA nel comparto (facendo valere il sindacato l’interesse di categoria alla tutela dei livelli occupazionali cui prospetta essere dipendente anche la qualità dell’offerta del servizio e gli altri ricorrenti facendo valere il proprio interesse e alla conservazione del posto di lavoro, e alla conservazione della qualità del lavoro che assumono minacciata dall’aggravamento dei compiti derivante dalla riduzione dell’organico), con articolate censure, sia in diritto che in fatto.

Lamentano, in particolare, l’indebita incidenza sui livelli occupazionali del personale ATA e sui livelli qualitativi dell’offerta scolastica.

In fatto, i ricorrenti espongono che, ai sensi dell’art. 64 del DL nr. 112/2008, conv. In l. n. 133/2008 sono stati adottati: a) il piano programmatico degli interventi di cui al comma 3 dell’art. 64, nel quale sono state fissate in 44.500 le unità di personale ATA da ridurre complessivamente nel triennio 2009/2012 (di cui 15.167 per l’anno scolastico 2010/2011) e sono state ripartite le riduzioni di organico per ogni singola dotazione regionale; b) il DPR 119/2009 con il quale è stata disciplinata la revisione dei criteri e dei parametri per la definizione degli organici ATA (finalizzandola al raggiungimento degli obiettivi di razionalizzazione stabiliti nell’art. 64 del DL 112/2008 e nel piano programmatico di cui al precedente punto a); il Decreto interministeriale impugnato, recante disposizioni concernenti la definizione degli organici del personale ATA per l’anno scolastico 2010/2011 ha confermato in 15.167 unità la riduzione per l’anno scolastico predetto.

Gli atti impugnati sono censurati sotto due distinti profili, il primo che denuncia l’illegittimità costituzionale della norma di cui al menzionato art. 64 ed il secondo che, in stretto subordine, a ritenere legittima la norma di riferimento ne denuncia comunque una errata o cattiva applicazione.

La questione costituzionale che si pone in relazione alla norma in esame, a giudizio del Collegio, è rilevante e non manifestamente infondata per le seguenti ragioni.

Sulla rilevanza della questione.

Gli atti ed i provvedimenti impugnati sono tutti posti in esecuzione diretta dell’art. 64 del DL 112/2008, conv. in l. 133/2008, con particolare riferimento al comma 2 ed alla lettera “e” del comma 4, che rispettivamente, recitano:

“2. Si procede, altresi’, alla revisione dei criteri e dei parametri previsti per la definizione delle dotazioni organiche del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA), in modo da conseguire, nel triennio 2009-2011 una riduzione complessiva del 17 per cento della consistenza numerica della dotazione organica determinata per l’anno scolastico 2007/2008. Per ciascuno degli anni considerati, detto decremento non deve essere inferiore ad un terzo della riduzione complessiva da conseguire, fermo restando quanto disposto dall’articolo 2, commi 411 e 412, della legge 24 dicembre 2007, n. 244.”;

“e. revisione dei criteri e dei parametri vigenti per la determinazione della consistenza complessiva degli organici del personale docente ed ATA, finalizzata ad una razionalizzazione degli stessi;”

Appare dunque evidente che è pregiudiziale lo scrutinio del primo ordine di censure, con il quale si fa valere l’illegittimità degli atti impugnati per derivazione della illegittimità costituzionale della norma in esame.

Invero, il secondo ordine di censure è pregiudizialmente dipendente dal rigetto del primo, in quanto con esse si fa valere una cattiva esecuzione della programmazione normativa contenuta nell’art. 64 cit.

Qualora il Collegio non dubitasse dell’incostituzionalità della norma di cui al menzionato art. 64 dovrebbe respingere le prime quattro censure di gravame, limitando il giudizio alla contestazione del solo quomodo della decurtazione della percentuale di organico (oggetto dell’ultima censura), che rimarrebbe dunque invariabilmente fissata nell’ammontare definito dal legislatore (asseritamente) “a tavolino”, ossia solo in funzione di ragioni di contenimento della spesa.

II) Sulla non manifesta infondatezza.

Quanto al requisito della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità di cui si discute, ritiene il Tribunale che le distinte censure dedotte da parte ricorrente sono sostenute da ragioni di diritto che meritano il vaglio della Corte Costituzionale e che non possono essere respinte dal giudice a quo in quanto affidate ad argomentazioni non prive di un proprio pregio giuridico.

E’ dunque necessario procedere ad una loro separata ed analitica disamina.

II a) Eccesso di potere legislativo (violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione).

Con il primo motivo di ricorso, parte ricorrente censura la norma in esame in quanto, laddove si propone espressamente di voler coniugare i tagli degli organici del personale ATA con l’obiettivo della qualificazione e della valorizzazione del personale scolastico, ma non reca alcuna specifica disciplina che sia effettivamente riconducibile a tale ultimo contesto.

Pare al Collegio doversi convenire, con i ricorrenti, che, mancando ogni espresso ed esplicito riferimento a parametri normativi atti a tradursi in specifici precetti rivolti a limitare ed orientare in senso attuativo l’esercizio del potere amministrativo, la disposizione si risolve e si riduce in un mero omaggio alle esigenze di cassa, ossia alle finalità di contenimento della spesa che costituiscono, essenzialmente, il vero scopo della norma.

Invero, l’art. 64 in esame contiene solo una regolamentazione del procedimento da utilizzarsi per l’attuazione concreta dei tagli, ma non contiene alcuna prescrizione che colleghi funzionalmente la effettuazione dei tagli all’organico con il fine dichiarato, ossia che consenta, ad esempio, di ritenere disciplinato il metodo per individuare gli eventuali sprechi, le dotazioni superflue, i necessari processi di razionalizzazione, l’analisi della qualità dei servizi e le possibili soluzioni per il mantenimento della qualità con minori organici e così via.

Come condivisibilmente dedotto dalla difesa di parte ricorrente, dunque, da un lato si dichiara di voler migliorare gli standards dei servizi, dall’altro si detta una regolamentazione talmente insufficiente che si rivela idonea inevitabilmente a presiedere solamente aspetti formali del procedimento.

A diversa conclusione non conduce la circostanza che la norma in esame preveda al comma 4 l’adozione di uno o più atti regolamentari per dare attuazione al piano di interventi (nella specie poi adottato con DPR 119/2009): invero, la corretta individuazione di effettivi criteri direttivi, che avrebbe dovuto presiedere sia la stesura del piano che l’adozione dei regolamenti attuativi, avrebbe comunque necessitato di precisare, in sede legislativa, i parametri ed i criteri necessati a dare concreta attuazione in punto di disciplina alle finalità dichiaratamente di riorganizzazione del servizio che sono enunciate.

Né soccorre ad integrare la lacunosa previsione della disposizione in esame il richiamo ai commi 411 e 412 dell’art. 2 della l. 244/97, perché tali previsioni concernono limiti dimensionali della formazione delle classi che operano su piani diversi da quelli sui quali il ridimensionamento del personale ATA è chiamato ad intervenire e quindi il richiamo di tali disposizioni non contiene parametri idonei a determinare i criteri interni e qualitativi del ridimensionamento medesimo.

Da qui la non manifesta infondatezza della prima censura che dunque merita di essere portata all’esame della Corte Costituzionale.

IIb) Violazione della riserva di legge di cui all’art. 97 della Costituzione.

L’art. 97 della Costituzione riserva alla legge l’organizzazione dei pubblici uffici. La riserva, seppure relativa, obbliga il legislatore a determinare preventivamente (almeno) sufficienti criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa (Corte Cost. n. 350/07) che possono comunque essere desunti anche da previdenti disposizioni di settore (Corte Cost. nr. 383/1998).

Già dall’esposizione che precede appare evidente che la disciplina di cui all’art. 64 cit. è del tutto priva di ogni criterio direttivo che serva a regolare l’esercizio del potere amministrativo, cui in sostanza viene delegato l’intero apprezzamento circa la qualificazione del servizio e la determinazione del quomodo dei tagli, fermi restando solamente il risultato finale (abbattimento in percentuale dell’organico) ed i tempi da osservarsi.

Come puntualmente e condivisibilmente dedotto dalla difesa di parte ricorrente, alla discrezionalità amministrativa è attribuita una vera e propria delega in bianco potendo l’Amministrazione determinare a proprio esclusivo piacimento le nuove dotazioni ATA a livello regionale, i rapporti tra alunni e singole qualifiche del personale ATA, nonché su quali qualifiche debbano incidere le riduzioni, ed in quale misura (tanto che la disciplina concretamente osservata – e peraltro asseritamente violata, secondo i ricorrenti, come espongono nell’ultima censura di ricorso – è contenuta solo nel regolamento approvato con il DPR 119/2009).

Né risultano ricavabili da altre norme di legge ulteriori o integrativi parametri cui conformare l’azione amministrativa: peraltro, la peculiarità della questione che la norma in esame introduce, è tale che in fatto non sono emersi in giudizio i parametri concretamente osservati per dimensionare i tagli, avendo sostanzialmente l’Amministrazione operato un generico riferimento ad indicatori o altre risultanze istruttorie basate su elementi solamente “annunciati”, ma non prodotti agli atti di causa, né altrimenti illustrati dalle difese erariali. Ciò che è avvenuto in fatto (e che costituisce peraltro oggetto del secondo ordine di censure) è la riprova evidente, sia pure ex post, della mancanza di criteri direttivi nella norma legislativa della cui legittimità si discute, con la conseguenza che il precetto Costituzionale secondo il quale gli uffici della PA sono disciplinati secondo la legge, è risultato sicuramente violato.

IIc) Violazione del riparto di competenza legislativa tra Stato e Regioni – violazione dell’art. 117 Cost.

Sotto un diverso ed autonomo profilo di censura, parte ricorrente afferma che l’art. 64 DL 112/2008, ha inteso perseguire semplicemente degli obiettivi finanziari e dunque non è, sotto tale profilo, in alcun modo riconducibile alla potestà legislativa esclusiva statale in materia, che è limitata alle norme generali sull’istruzione (comma 2, lett. “n” dell’art. 117 Cost.); né può farsi rientrare nella legislazione concorrente tra Stato e Regioni in ordine alla materia della “istruzione”, nel cui ambito spetta allo Stato di fissare solamente i principi fondamentali. Invero, la scelta di operare tagli agli organici di personale ausiliario in dotazione all’istituzione scolastica nel suo complesso non incide neppure mediatamente sull’istruzione, attenendo esclusivamente agli aspetti ausiliari e di servizio che, sia pure funzionalmente collegati all’attività dell’insegnamento in senso proprio, ne restano tuttavia logicamente, concettualmente ed operativamente distinti, risolvendosi le due sfere, quella dell’insegnamento e quella delle prestazioni ad esso ausiliarie, in altrettante categorie organizzative concorrenti e coordinate, ma ontologicamente diverse, tanto che il relativo personale è strutturato in carriere e graduatorie diverse, con accessi diversi e senza alcuna correlazione di carriera.

Va dunque condivisa la prospettazione di parte ricorrente che, richiamati i precedenti arresti della Corte Costituzionale (sentenza nr. 13/2004 che attribuisce la programmazione della rete scolastica alla competenza concorrente tra Stato e Regioni; sentenza nr. 200/2009 in tema di norme generali sull’istruzione, che sono identificate in quelle che definiscono la struttura portante del sistema nazionale di istruzione), denuncia per violazione dell’art. 117 Cost. la norma in esame con argomento che non è manifestamente infondato.

III) Per le suesposte considerazioni, a norma dell’art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, va disposta l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale per la risoluzione della questione incidentale di costituzionalità di cui trattasi, disponendosi conseguentemente la sospensione del giudizio instaurato col ricorso in epigrafe.

Ogni altra decisione è riservata al definitivo.

P.Q.M.

ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 64, comma 2 e comma 4, lett. “e” del DL n. 112/2008, conv.in l. nr. 133/2008, nelle parti e nel senso esposto in parte motiva, in relazione agli artt. 3, 97 e 117 della Costituzione, SOSPENDE il giudizio in corso ed ORDINA l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale perché si pronunci sulla questione di legittimità costituzionale della norma di legge sopraindicata.

DISPONE che, a cura della Segreteria della Sezione, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Presidente del Senato della Repubblica, ed al Presidente della Camera dei Deputati.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 febbraio 2011 e del 17 febbraio 2011 con l’intervento dei magistrati:

Evasio Speranza, Presidente

Paolo Restaino, Consigliere

Salvatore Gatto Costantino, Referendario, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 14/03/2011

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

Sentenza Corte Costituzionale 7 febbraio 2011, n. 41

SENTENZA N. 41

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4-ter, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 134 (Disposizioni urgenti per garantire la continuità del servizio scolastico ed educativo per l’anno 2009-2010), aggiunto dalla legge 24 novembre 2009, n. 167, promosso dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio nel procedimento vertente tra F. G. A. ed altri e il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ed altri con ordinanza del 5 febbraio 2010, iscritta al n. 186 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 26 gennaio 2011 il Giudice relatore Maria Rita Saulle.

Ritenuto in fatto

1. – Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con ordinanza emessa il 5 febbraio 2010, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4-ter, del decreto legge 25 settembre 2009, n. 134 (Disposizioni urgenti per garantire la continuità del servizio scolastico ed educativo per l’anno 2009-2010), aggiunto dalla legge di conversione del 24 novembre 2009, n. 167, per contrasto con gli artt. 3, 24, primo e secondo comma, 51, primo comma, 97, 113, e 117, primo comma, della Costituzione.

Il remittente è investito del ricorso proposto da alcuni docenti precari volto ad ottenere l’esecuzione da parte del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca della sentenza n. 10809 del 2008, emessa dal medesimo tribunale, con la quale venivano annullati il decreto del 16 marzo 2007 e la relativa nota esplicativa del 19 marzo 2007 n. 5485.

In punto di fatto il giudice a quo riferisce che gli indicati provvedimenti sono stati impugnati dai ricorrenti – docenti precari iscritti nelle ex graduatorie permanenti, ora ad esaurimento per effetto dell’art. 1, comma 605, lett. c), della legge 27 dicembre 2006 n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007) – nella parte in cui stabilivano, per il biennio 2009-2011, che i docenti che chiedevano il trasferimento ad altra provincia sarebbero stati collocati in coda alla relativa graduatoria.

I ricorrenti nel giudizio principale ritenevano, infatti, tale previsione contraria al principio secondo il quale i suddetti trasferimenti devono avvenire con il riconoscimento del punteggio e della posizione occupata dal docente nella graduatoria di provenienza e, pertanto, ottenuto l’annullamento dei provvedimenti impugnati diffidavano gli Uffici Scolastici delle province d’interesse a dare esecuzione alla indicata sentenza e, per l’effetto, a provvedere al loro trasferimento nelle graduatorie provinciali richieste secondo il sistema a “pettine” e non in “coda”.

Non avendo ottenuto l’esecuzione richiesta, i ricorrenti davano avvio al giudizio principale in pendenza del quale, però, interveniva la norma impugnata, che, nell’interpretare l’art. 1, comma 605, lett. c), della legge n. 296 del 2006, stabilisce: da un lato, che in occasione dell’aggiornamento delle graduatorie ad esaurimento per il biennio scolastico 2009-2011, rilevante nel giudizio principale, i docenti che chiedono di cambiare provincia saranno inseriti nella relativa graduatoria in ultima posizione; e dall’altro, che per il biennio successivo tale eventuale mutamento comporta, al contrario, il riconoscimento del punteggio e della conseguente posizione attribuita al docente nella graduatoria di provenienza.

Così ricostruita la fattispecie sottoposta al suo esame, il remittente, in punto di non manifesta infondatezza, premette di dubitare del carattere interpretativo dell’art. 1, comma 4-ter, del decreto legge n. 134 del 2009.

A sostegno di tale convincimento, il TAR rileva che la norma interpretata si limita a trasformare le graduatorie provinciali del personale docente da permanenti ad esaurimento e ciò al fine di non alimentare ulteriormente il precariato scolastico e di non consentire, a decorrere dal 2007, l’inserimento di nuovi aspiranti prima dell’immissione in ruolo dei docenti già iscritti in dette graduatorie.

Rispetto ad essa risulterebbe del tutto estranea la disciplina introdotta dalla norma impugnata, relativa al trasferimento dei docenti nell’ambito delle diverse graduatorie provinciali che, peraltro, non troverebbe alcun appiglio testuale o logico nella norma interpretata che ne giustifichi l’adozione.

Osserva, altresì, il remittente che la norma impugnata è intervenuta successivamente a numerose sentenze di condanna emesse dal giudice amministrativo nei confronti del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca aventi ad oggetto il decreto 8 aprile 2009, n. 42 con il quale sono stati confermati i principi, in tema di trasferimento, indicati dagli atti amministrativi impugnati dai ricorrenti nel giudizio a quo, e per effetto delle quali si era provveduto alla nomina di un commissario ad acta con il compito di disporre il trasferimento a “pettine” di un elevato numero di docenti da una graduatoria ad un’altra.

Sulla base di tali premesse, il remittente ritiene che la norma censurata abbia carattere innovativo in quanto si colloca nell’ambito di un preesistente tessuto legislativo la cui chiarezza lessicale escludeva la necessità di una legge interpretativa, con la conseguenza che l’unico intento perseguito dal legislatore con l’art. 4 impugnato sarebbe quello di tentare di incidere su fattispecie ancora sub iudice così venendo meno al rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario.

In particolare, l’art. 1 comma 4-ter del d.l. n. 134 del 2009, a parere del giudice a quo, violerebbe l’art. 3 Cost. perché, in modo irragionevole e in violazione del principio di uguaglianza, prevede una diversa disciplina a seconda del momento in cui il docente chiede il trasferimento da una graduatoria provinciale ad un’altra.

Se, infatti, il docente manifesta la propria volontà di trasferirsi in occasione dell’aggiornamento delle suddette graduatorie per l’anno scolastico 2009-2010, vale la regola del collocamento in coda alla nuova graduatoria prescelta; mentre per i trasferimenti afferenti il biennio 2011-2012 e 2012-2013, vale la regola del collocamento a “pettine” secondo il quale si tiene conto del pregresso punteggio posseduto dal docente.

La norma censurata violerebbe, altresì, gli artt. 24 e 113 Cost., in quanto dietro la parvenza di una norma avente carattere interpretativo, per le ragioni sopra indicate, si celerebbe una disposizione con portata precettiva retroattiva non ragionevole che limiterebbe il diritto di difesa dei ricorrenti ai quali sarebbe preclusa, per effetto dello jus superveniens, la possibilità di proseguire nell’invocata tutela giurisdizionale inizialmente loro accordata.

L’art. 1, comma 4-ter, del d.l. n. 134 del 2009 contrasterebbe, poi, con l’art. 51 Cost., poiché, in modo irragionevole, introduce una disciplina sui trasferimenti nelle diverse graduatorie provinciali dei docenti che penalizza i ricorrenti nel giudizio a quo, con ciò violando il principio secondo il quale tutti i cittadini possono accedere ai pubblici uffici in condizioni di uguaglianza.

Risulterebbero in tal modo lesi anche i principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, i quali «non possono essere assicurati da una norma che presenta profili arbitrari e manifestamente irragionevoli».

Infine, il remittente ritiene che la norma censurata violi, altresì, l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e, in particolare, il diritto riconosciuto a tutti ad un giusto processo dinnanzi ad un giudice indipendente e imparziale che impone al potere legislativo di non interferire nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influire su determinate controversie.

In punto di rilevanza, il TAR remittente rileva che, stante la natura interpretativa della suddetta norma, sarebbe obbligato a dichiarare l’improcedibilità del ricorso in executivis, salvo l’eventuale accoglimento della sollevata questione di legittimità.

2. – Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la Corte dichiari la questione inammissibile o infondata.

2.1. – In via preliminare, l’Avvocatura solleva tre eccezioni.

In primo luogo, a parere del Presidente del Consiglio dei ministri, la questione difetterebbe del requisito della rilevanza, in quanto il remittente non avrebbe tenuto conto del fatto che la sentenza di cui è chiamato a dare esecuzione non ha ad oggetto l’impugnativa delle graduatorie ad esaurimento in cui i ricorrenti hanno chiesto il trasferimento, nonché dell’ulteriore circostanza che essa è intervenuta nei confronti del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e non anche degli Uffici Scolastici provinciali e regionali, competenti ad adottare i provvedimenti di integrazione e aggiornamento delle suddette graduatorie.

Conseguirebbe da ciò che l’eventuale accoglimento del ricorso oggetto del giudizio principale è precluso, prima ancora che dalla soluzione del sollevato dubbio di costituzionalità, dalle suddette ragioni di ordine processuale, difettando in tal modo la questione del requisito della rilevanza.

In secondo luogo, l’Avvocatura rileva che le Sezioni Unite della Corte di cassazione (tra le altre con la sentenza n. 3399 del 2008) hanno affermato la giurisdizione del giudice ordinario in materia di controversie relative alle operazioni di formazione delle graduatorie ad esaurimento dei docenti, con la conseguenza che il remittente non sarebbe competente a proporre la indicata questione di legittimità costituzionale.

In terzo luogo, sempre a parere dell’Avvocatura, l’ordinanza di remissione muove da un errato presupposto di fatto, in quanto il remittente ritiene che le graduatorie che è chiamato a modificare sono quelle predisposte per il biennio 2009-2011, laddove la sentenza di cui si è chiesta l’esecuzione ha annullato un decreto dirigenziale concernente l’aggiornamento delle graduatorie relative al biennio 2007-2009 e, pertanto, diverse.

2.2. – Nel merito, l’Avvocatura osserva che l’art. 1, comma 605, lett. c), della legge n. 296 del 2006, oggetto di interpretazione da parte dell’art. 1 comma 4-ter del d.l. n. 134 del 2009, nel trasformare le graduatorie permanenti dei docenti in graduatorie ad esaurimento, non ha previsto i criteri per la gestione di queste ultime e, in particolare, non ha preso in considerazione la possibilità per i docenti di spostarsi sul territorio nazionale.

La norma censurata sarebbe, dunque, intervenuta a colmare questo vuoto di disciplina e nel fare ciò, tenuto conto che le dotazioni organiche nel periodo temporale del biennio 2009-2011 hanno subito la più alta percentuale di riduzione al fine del contenimento della spesa pubblica, ha contemperato l’esigenza di ampliare le opportunità lavorative (mediante l’opzione concessa di inserimento in ulteriori graduatorie provinciali con la permanenza in quella di provenienza), con quella di non pregiudicare la posizione dei docenti già iscritti nella graduatoria in cui entrano a far parte i colleghi che ne hanno chiesto l’inserimento.

Sulla base di tali premesse, l’Avvocatura ritiene che la norma censurata, quanto all’art. 3 Cost., non pone in essere alcuna disparità di trattamento tra docenti che chiedono il trasferimento di graduatoria provinciale nel biennio 2009-2011 e quelli che lo chiedono nel biennio 2011-2013. Sul punto assumerebbe, infatti, rilevanza la circostanza che le situazioni giuridiche poste a raffronto sono tra loro differenti, poiché, per il primo biennio, all’inserimento anche in graduatorie di altre province si accompagna la conservazione della posizione nella graduatoria della provincia di appartenenza; per il secondo biennio è solo previsto il trasferimento da una graduatoria provinciale all’altra. In sostanza la norma impugnata sarebbe il risultato dell’esercizio legittimo della discrezionalità del legislatore il quale ha voluto contemperare gli interessi sopra indicati.

Quanto agli artt. 24 e 113 Cost., l’Avvocatura ritiene che il legislatore non è intervenuto su procedimenti conclusi con sentenze passate in giudicato, ma si è limitato ad attribuire ad una norma il suo corretto significato, risultando pertanto improprio il richiamo agli indicati parametri costituzionali che si riferiscono alla tutela processuale e non alla disciplina sostanziale dei rapporti.

Per gli stessi motivi non vi sarebbe alcuna violazione dei principi dell’equo processo e della parità delle parti, in quanto la norma impugnata non è frutto di un’ingerenza illecita del potere legislativo nella sfera di operatività del potere giudiziario.

Infine, quanto agli artt. 51 e 97 Cost., le relative censure sarebbero inammissibili in quanto sfornite di qualsiasi motivazione.

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio dubita, in riferimento agli artt. 3, 24, primo e secondo comma, 51, primo comma, 97, 113, e 117, primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4-ter, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 134 (Disposizioni urgenti per garantire la continuità del servizio scolastico ed educativo per l’anno 2009-2010), aggiunto dalla legge di conversione 24 novembre 2009, n. 167.

Il remittente ritiene che la norma censurata si ponga in contrasto con gli indicati parametri costituzionali nella parte in cui prevede che, in sede di aggiornamento per il biennio 2009-2011 delle graduatorie ad esaurimento, i docenti che chiedono il trasferimento in una diversa provincia rispetto a quella in cui risultano iscritti, sono collocati in coda alla relativa graduatoria senza, dunque, il riconoscimento del punteggio e della posizione occupata in quella della provincia di originaria iscrizione.

Il dubbio di costituzionalità oggetto di scrutinio da parte della Corte è sollevato nel corso di un giudizio di ottemperanza promosso da alcuni docenti precari iscritti nelle graduatorie ad esaurimento – ex art. 1, comma 605, lett. c), della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007) – volto ad ottenere l’esecuzione di una sentenza (n. 10809 del 5 novembre 2008) con la quale il TAR del Lazio aveva annullato il decreto del 16 marzo 2007 e la relativa nota esplicativa del 19 marzo 2007, n. 5485, emessi dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, nella parte in cui disponevano che, a partire dall’anno scolastico 2009-2010, i docenti che chiedevano di essere trasferiti da una provincia ad un’altra erano posti in coda nella relativa graduatoria.

Nel corso del giudizio principale il suddetto principio veniva ribadito, dapprima, dal D.M. n. 42 del 2009, avente ad oggetto i criteri per l’aggiornamento delle graduatorie ad esaurimento per il personale docente ed educativo relativo agli anni scolastici 2009-2010 e 2010-2011 e, successivamente, dalla disposizione censurata che, qualificandosi quale norma di interpretazione autentica dell’art. 1, comma 605, lett. c), della legge n. 269 del 2006, impediva al remittente di dare esecuzione alla sentenza oggetto dell’ottemperanza.

In ragione di quanto sopra, il TAR solleva la questione di legittimità sul presupposto che l’art. 1, comma 4-ter, del d.l. n. 134 del 2009 è, in realtà, una norma innovativa con effetto retroattivo che si pone in contrasto con i principi di uguaglianza e ragionevolezza, in quanto prevede una diversa disciplina a seconda del momento in cui il docente chiede il trasferimento da una graduatoria provinciale ad un’altra.

Ed invero, se tale mutamento avviene in occasione dell’aggiornamento delle graduatorie ad esaurimento relativo al biennio 2009-2010, vale la regola del collocamento in coda alla nuova graduatoria prescelta, mentre se avviene in occasione dell’aggiornamento per il biennio 2011-2012 e 2012-2013, vale la regola del collocamento a “pettine” e cioè con il riconoscimento del pregresso punteggio e della relativa posizione posseduti dal docente.

Il fatto che la norma censurata introduca una disciplina irragionevole con effetto retroattivo sarebbe, poi, in contrasto con gli artt. 24 e 113 della Costituzione, in quanto essa avrebbe l’unico scopo di limitare il diritto di difesa dei ricorrenti, ai quali sarebbe preclusa, per effetto dello jus superveniens, la possibilità di conseguire l’esecuzione della sentenza di primo grado già pronunciata in loro favore dal TAR.

Il remittente ritiene, poi, che l’art. 1, comma 4-ter, del d.l. n. 134 del 2009, nell’introdurre una diversa disciplina sui trasferimenti dei docenti, viola il principio secondo il quale tutti i cittadini possono accedere ai pubblici uffici in condizioni di uguaglianza e, di conseguenza, anche quelli di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione.

Infine, la norma censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 117, primo comma, della Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, il quale, nel prescrivere il diritto ad un giusto processo dinnanzi ad un giudice indipendente e imparziale, impone al potere legislativo di non interferire nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla soluzione di determinate controversie.

2. – In via preliminare, devono essere esaminati i profili di inammissibilità prospettati dall’Avvocatura generale dello Stato.

2.1. – Una prima eccezione attiene al difetto di rilevanza della questione, sul presupposto che la giurisdizione sulla controversia in esame non spetterebbe al giudice amministrativo, ma a quello ordinario.

L’eccezione non è fondata.

La difesa dello Stato rileva che con due ordinanze (Cass. SS.UU. n. 3398 e n. 3399 del 2008) la Cassazione ha riconosciuto la giurisdizione del giudice ordinario a conoscere delle controversie relative all’impugnativa delle graduatorie permanenti del personale docente.

A fronte di tale orientamento va osservato anzitutto che il remittente giudica della legittimità degli atti amministrativi che fissano i criteri di formazione delle graduatorie e che, comunque, lo stesso ha ritenuto sussistere nei casi in questione la giurisdizione del giudice amministrativo, sul presupposto che le vicende inerenti la formazione delle graduatorie degli insegnanti sono fasi di una procedura selettiva finalizzata all’instaurarsi del rapporto di lavoro, con conseguente applicabilità dell’art. 63, comma 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze della amministrazioni pubbliche) (C. Stato, sez. VI, 4 dicembre 2009 n. 7617, e C. Stato ad. Plen. 24 maggio 2007, n. 8).

Tale contrasto di giurisprudenza preclude una pronuncia di inammissibilità della questione perché sollevata da un giudice privo di giurisdizione, avendo questa Corte affermato che il relativo difetto per essere rilevabile deve emergere in modo macroscopico e manifesto, cioè ictu oculi (sentenze n. 81 del 2010 e n. 34 del 2010).

2.2. – L’Avvocatura generale dello Stato ritiene, poi, che la questione sarebbe priva del requisito della rilevanza, in quanto il remittente non avrebbe tenuto conto, da un lato, che la sentenza di cui è chiamato a dare esecuzione non ha ad oggetto l’impugnativa delle graduatorie ad esaurimento in cui i ricorrenti hanno chiesto il trasferimento; dall’altro, che essa è intervenuta nei confronti del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e non anche degli Uffici Scolastici provinciali e regionali competenti ad adottare i provvedimenti di integrazione e aggiornamento delle suddette graduatorie.

Tali fatti precluderebbero al remittente di accogliere il ricorso, quand’anche la questione di costituzionalità fosse ritenuta fondata, incidendo, perciò, sulla rilevanza di quest’ultima.

Anche tale eccezione non è fondata.

Sul punto è sufficiente osservare che, per come definita dalla stessa difesa dello Stato, la questione preliminare sopra indicata attiene ad aspetti meramente processuali del giudizio principale, la cui soluzione è rimessa al giudice a quo, salvo il limite estremo della manifesta implausibilità della motivazione offerta da quest’ultimo sui punti controversi.

Nel giudizio di costituzionalità, infatti, ai fini dell’apprezzamento della rilevanza, ciò che conta è la valutazione che il remittente deve fare in ordine alla possibilità che il procedimento pendente possa o meno essere definito indipendentemente dalla soluzione della questione sollevata, potendo la Corte interferire su tale valutazione solo se essa, a prima vista, appare assolutamente priva di fondamento, presupposto che non si verifica nel caso di specie.

2.3. – L’Avvocatura generale dello Stato solleva un’ulteriore eccezione di inammissibilità sul presupposto che la questione si fonderebbe su di un errato presupposto di fatto, in quanto il remittente ritiene di dover modificare le graduatorie relative al biennio scolastico 2009-2011; mentre la sentenza di cui viene chiesta l’esecuzione avrebbe ad oggetto dei provvedimenti afferenti i criteri per l’aggiornamento e l’integrazione delle suddette graduatorie per il biennio 2007-2009 e, dunque, diverse da quelle indicate dal giudice a quo.

L’eccezione non è fondata, anzitutto in fatto.

Sul punto rileva la circostanza che, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa dello Stato, la sentenza sopra indicata ha disposto l’annullamento del decreto del 16 marzo 2007 e della relativa nota esplicativa del 19 marzo 2007, n. 5485 emessi dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, proprio nella parte in cui stabilivano, per il biennio 2009-2011, che i docenti che chiedevano il trasferimento ad altra provincia sarebbero stati collocati in coda alla relativa graduatoria.

3. – Nel merito, la questione è fondata.

3.1. – Occorre premettere che questa Corte, nell’esaminare norme analoghe a quella oggetto del presente scrutinio, ha affermato che in tali casi ciò che rileva non è, in quanto fattore fondante di distinzione, il carattere interpretativo della norma impugnata, ovvero quello innovativo con efficacia retroattiva, non sussistendo a livello costituzionale, salvo che ai sensi dell’art. 25, secondo comma, Cost. in materia penale, un divieto assoluto di retroattività della legge. Il legislatore può, dunque, approvare sia disposizioni di interpretazione autentica, che chiariscono la portata precettiva della norma interpretata fissandola in un contenuto plausibilmente già espresso dalla stessa, sia norme innovative con efficacia retroattiva.

Quello che rileva è, in entrambi i casi, che la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza, in una prospettiva di stretto controllo, da parte della Corte, di tale requisito, e non contrasti con valori ed interessi costituzionalmente protetti.

In particolare, per quanto attiene alle norme che pretendono di avere natura meramente interpretativa, la palese erroneità di tale auto-qualificazione (ove queste non si limitino ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto e riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario), potrà costituire un indice di manifesta irragionevolezza (ex plurimis, sentenze n. 234 del 2007, n. 274 del 2006).

3.2. – Nel caso in esame l’art. 1, comma 4-ter, del d.l. n. 134 del 2009 si espone, anzitutto, a questo rilievo.

L’art. 1, comma 605, lett. c), della legge n. 296 del 2006, oggetto di interpretazione da parte della disposizione impugnata, prevede «la definizione di un piano triennale per l’assunzione a tempo indeterminato di personale docente per gli anni 2007-2009, […], per complessive 150.000 unità, al fine di dare adeguata soluzione al fenomeno del precariato storico e di evitarne la ricostituzione, di stabilizzare e rendere più funzionali gli assetti scolastici, di attivare azioni tese ad abbassare l’età media del personale docente. […]. Con effetto dalla data di entrata in vigore della presente legge le graduatorie permanenti di cui all’articolo 1 del decreto-legge 7 aprile 2004, n. 97, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 giugno 2004, n. 143, sono trasformate in graduatorie ad esaurimento».

La stessa norma prevede, poi, in presenza di determinati requisiti, l’inserimento dei docenti nelle suddette graduatorie per il biennio 2007-2008.

A fronte di ciò l’art. 1, comma 4-ter, del d.l. n. 134 del 2009 stabilisce che «la lett. c) del comma 605 dell’articolo 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e successive modificazioni, si interpreta nel senso che nelle operazioni di integrazione e di aggiornamento delle graduatorie permanenti di cui all’articolo 1 del decreto-legge 7 aprile 2004, n. 97, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 giugno 2004, n. 143, è consentito ai docenti che ne fanno esplicita richiesta, oltre che la permanenza nella provincia prescelta in occasione dell’aggiornamento delle suddette graduatorie per il biennio scolastico 2007-2008 e 2008-2009, di essere inseriti anche nelle graduatorie di altre province dopo l’ultima posizione di III fascia nelle graduatorie medesime. Il decreto con il quale il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca dispone l’integrazione e l’aggiornamento delle predette graduatorie per il biennio scolastico 2011-2012 e 2012-2013, in ottemperanza a quanto previsto dall’articolo 1, comma 4, del citato decreto-legge n. 97 del 2004, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 143 del 2004, è improntato al principio del riconoscimento del diritto di ciascun candidato al trasferimento dalla provincia prescelta in occasione dell’integrazione e dell’aggiornamento per il biennio scolastico 2007-2008 e 2008-2009 ad un’altra provincia di sua scelta, con il riconoscimento del punteggio e della conseguente posizione nella graduatoria».

Dal raffronto dei due testi normativi deve escludersi il carattere interpretativo dell’art. 1, comma 4-ter, del d.l. n. 134 del 2009, in quanto esso non individua alcuno dei contenuti normativi plausibilmente ricavabili dalla disposizione oggetto dell’asserita interpretazione.

L’art. 1, comma 605, lett. c), della legge n. 296 del 2006, infatti, in un’ottica di contenimento della spesa pubblica e di assorbimento del precariato dei docenti, prevede la trasformazione delle graduatorie permanenti in altre ad esaurimento e a tale fine non permette, a partire dal 2007, l’inserimento in esse di nuovi aspiranti candidati prima dell’immissione in ruolo dei docenti che già vi fanno parte.

Rispetto a tale finalità risulta del tutto estranea la disciplina introdotta dalla norma censurata, avente ad oggetto i movimenti interni alle graduatorie che per loro natura non incidono sull’obiettivo dell’assorbimento dei docenti che ne fanno parte, per il quale assumono rilevanza solo i possibili nuovi ingressi.

La norma impugnata ha, dunque, una portata innovativa con carattere retroattivo, benché si proponga quale strumento di interpretazione autentica.

Essa introduce, con effetto temporale rigidamente circoscritto ad un biennio, una disciplina eccentrica, rispetto alla regola dell’inserimento “a pettine” dei docenti nelle graduatorie, vigente non solo nel periodo anteriore, ma persino in quello posteriore all’esaurimento del biennio in questione. Tale ultimo assetto normativo costituisce, dunque, la regola ordinamentale prescelta dal legislatore, anche nella prospettiva di non ostacolare indirettamente la libera circolazione delle persone sul territorio nazionale (art. 120, primo comma, Cost.), rispetto alla quale la norma impugnata ha veste derogatoria.

In tale prospettiva, una siffatta deroga, per la quale non emerge alcuna obiettiva ragione giustificatrice valevole per il solo biennio in questione, e per di più imposta con efficacia retroattiva, non può superare il vaglio di costituzionalità che spetta a questa Corte, con riguardo al carattere non irragionevole che le disposizioni primarie debbono rivestire.

L’art. 1, comma 4-ter, infatti, prevede che, se il docente chiede, in occasione dell’aggiornamento per il biennio scolastico 2011-2013 l’iscrizione in una graduatoria provinciale diversa rispetto a quella in cui era inserito nel biennio 2007-2009, vedrà riconosciuto il punteggio e la conseguente posizione occupata nella graduatoria di provenienza.

Diversamente, se il docente chiede il suddetto trasferimento in occasione delle operazioni di integrazione e di aggiornamento per il biennio 2009-2011 viene inserito nelle graduatorie delle provincie scelte dopo l’ultima posizione di III fascia.

L’effetto di tale previsione è, quindi, quello della sospensione per il biennio 2009-2011 della regola secondo la quale i suddetti mutamenti di graduatoria devono avvenire nel rispetto del principio del merito e, quindi, con il riconoscimento del punteggio e della posizione attribuiti al singolo docente nella graduatoria di provenienza.

In proposito, per quanto attiene alla disciplina relativa al reclutamento del personale docente, il decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado), agli artt. 399, 400 e 401 stabiliva che l’accesso ai ruoli del personale docente dovesse avvenire mediante concorsi per titoli ed esami e mediante concorsi per soli titoli, riservando ad ognuno di essi annualmente il 50 per cento dei posti destinati alle procedure concorsuali.

Successivamente, con l’art. 1 della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico), il legislatore ha modificato il suddetto reclutamento mediante la soppressione del concorso per soli titoli (art. 399) e la trasformazione delle relative graduatorie in permanenti, periodicamente integrabili (art. 401).

Per effetto della intervenuta modifica l’accesso ai ruoli oggi avviene per il 50 per cento dei posti mediante concorsi per titoli ed esami (ex art. 399) e, per il restante 50 per cento, attingendo dalle graduatorie permanenti (ex art. 401).

A tali fini l’amministrazione, dopo aver determinato per ogni triennio la effettiva disponibilità di cattedre, indice i relativi concorsi su base regionale per un numero pari alla metà di esse (art. 400).

Gli idonei non vincitori di tali concorsi vengono fatti confluire nelle graduatorie provinciali permanenti che vengono utilizzate dall’amministrazione scolastica per l’attribuzione, da un lato, dell’ulteriore metà delle cattedre individuate nel senso sopra indicato e, dall’altro, per conferire supplenze annuali e temporanee per mezzo delle quali i docenti acquisiscono ulteriore professionalità.

Le graduatorie permanenti, ora ad esaurimento, sono, poi, periodicamente integrate mediante l’inserimento dei docenti che hanno superato le prove dell’ultimo concorso regionale per titoli ed esami e di quelli che hanno chiesto il trasferimento da una provincia ad un’altra. Contemporaneamente all’integrazione, ossia all’introduzione di nuovi candidati, viene naturalmente aggiornata la posizione di coloro i quali sono già presenti in graduatoria e che, nelle more, hanno maturato ulteriori titoli (art. 401).

Dal quadro normativo sopra riportato si evince che la scelta operata dal legislatore con la legge n. 124 del 1999, istitutiva delle graduatorie permanenti, è quella di individuare i docenti cui attribuire le cattedre e le supplenze secondo il criterio del merito.

Ed invero, l’aggiornamento, per mezzo dell’integrazione, delle suddette graduatorie con cadenza biennale, ex art. 1, comma 4, del decreto legge 7 aprile 2004, n. 97 (Disposizioni urgenti per assicurare l’ordinato avvio dell’anno scolastico 2004-2005, nonché in materia di esami di Stato e di Università), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 giugno 2004, n. 143, è finalizzato a consentire ai docenti in esse iscritti di far valere gli eventuali titoli precedentemente non valutati, ovvero quelli conseguiti successivamente all’ultimo aggiornamento, così da migliorare la loro posizione ai fini di un possibile futuro conferimento di un incarico.

La disposizione impugnata deroga a tali principi e, utilizzando il mero dato formale della maggiore anzianità di iscrizione nella singola graduatoria provinciale per attribuire al suo interno la relativa posizione, introduce una disciplina irragionevole che – limitata all’aggiornamento delle graduatorie per il biennio 2009-2011 – comporta il totale sacrificio del principio del merito posto a fondamento della procedura di reclutamento dei docenti e con la correlata esigenza di assicurare, per quanto più possibile, la migliore formazione scolastica.

4. – L’art. 1, comma 4-ter, del d.l. n. 134 del 2009 si pone, quindi, in contrasto con l’art. 3 della Cost., risultando di conseguenza assorbite le ulteriori censure.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4-ter, del decreto legge 25 settembre 2009, n. 134 (Disposizioni urgenti per garantire la continuità del servizio scolastico ed educativo per l’anno 2009-2010), aggiunto dalla legge di conversione 24 novembre 2009, n. 167.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 febbraio 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Maria Rita SAULLE, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 9 febbraio 2011.

Il Cancelliere

F.to: FRUSCELLA

Sentenza Consiglio di Stato 31 gennaio 2011, n. 715

N. 00715/2011REG.PROV.COLL.
N. 04665/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4665 del 2009, proposto dal professor XXX, rappresentato e
difeso dagli avvocati [omissis], con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. [omissis];
contro
il prof. YYY, rappresentato e difeso dagli avvocati [omissis], con domicilio eletto presso lo studio
dell’avvocato [omissis];
e nei confronti
del Ministero dell’Istruzione, dell’Universita’ e della Ricerca e della Scuola Media Statale [omissis],
in persona de rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura
Generale dello Stato, domiciliataria per legge presso la sede di Roma, via dei Portoghesi, 12;
dei signori R.E. e P. M., non costituitisi nel secondo grado del giudizio;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LIGURIA – GENOVA, SEZIONE II, n. 00282/2009, resa tra le parti,
concernente CANCELLAZIONE DI ANNOTAZIONE AUTOGRAFA DAL REGISTRO DI
CLASSE.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 16 novembre 2010 il Cons. Gabriella De Michele e uditi
per le parti l’avvocato [omissis], per delega dell’avvocato [omissis], e l’avvocato [omissis], nonché
l’avvocato dello Stato [omissis];
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Con sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria, sez. II, n. 282/09 del 5.3.2009
(che non risulta notificata) veniva accolto il ricorso proposto dal prof. YYY, avverso un
provvedimento del dirigente scolastico della scuola media statale “[omissis]”, con cui si disponeva
la cancellazione di un’annotazione autografa, apposta dal medesimo prof. YYY sul registro di
classe della sezione I G della predetta scuola, nel corso dell’anno scolastico 2008/2009. Nella citata
sentenza, emessa in forma semplificata ai sensi dell’art. 26, comma 5 della legge n. 1034/1971, si
recepivano le ragioni difensive riferite ad immodificabilità in via autoritativa di un atto pubblico,
quale deve ritenersi il registro di classe, ad opera del dirigente dell’Istituto scolastico interessato.
Avverso la predetta sentenza veniva proposto dal dirigente scolastico in questione – prof. XXX, già
intervenuto ad opponendum in primo grado di giudizio – l’atto di appello in esame, notificato il
18.5.2009 e depositato il 3.6.2009; in tale atto si rappresentava come la nota in questione, con la
quale si definiva un allievo di dodici anni “reo confesso di molestie sessuali riguardo ad una sua
compagna di scuola” avesse suscitato turbamento e reazioni, tali da compromettere il rapporto di
fiducia tra famiglie e docenti, fino alla riformulazione della nota stessa nei seguenti termini, ritenuti
più consoni alle circostanze: “M.P. importuna pesantemente una compagna”. Premesso quanto
sopra, avverso la sentenza appellata venivano prospettate le seguenti ragioni difensive:
1) erroneità della decisione per travisamento dei fatti, contraddittorietà e carenza di motivazione;
mancata individuazione dell’inammissibilità del ricorso, in quanto il citato prof. YYY non avrebbe
avuto alcun interesse alla proposizione dell’impugnativa, non essendo insegnante del ragazzo
coinvolto e non potendo quindi avere accesso al registro della classe di appartenenza del medesimo;
2) travisamento dei fatti, contraddittorietà e carenza di motivazione; violazione e mancata
applicazione dell’art. 468 del D.Lgs. 16.4.1994, n. 297, avendo il Capo dell’Istituto il potere di
intervenire con piena discrezionalità, in presenza di comportamenti lesivi della dignità della persona
degli studenti e del decoro dell’istituzione scolastica, nonché di compromissione del rapporto di
fiducia tra le famiglie degli alunni e la scuola; il medesimo Capo dell’Istituto, inoltre, sarebbe stato
leso dall’atto in questione anche sul piano personale, essendo stato ipotizzato un abuso della
posizione dirigenziale rivestita.
Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene che l’appello, benché ammissibile, non possa trovare
accoglimento.
Va in primo luogo riconosciuta, infatti, la legittimazione attiva del dirigente scolastico, già
intervenuto in primo grado di giudizio, ad agire in secondo grado avverso l’annullamento in sede
giurisdizionale di un proprio atto: quanto sopra a tutela dell’interesse, anche di natura morale, a
preservare le modalità di gestione adottate per la conduzione dell’Istituto scolastico di cui trattasi,
sotto il profilo del corretto esercizio della disciplina interna e dei rapporti tra famiglie e docenti (cfr.
in tal senso per il principio, in rapporto a situazioni soggettive fatte valere processualmente nella
forma dell’intervento, Cons. St., sez. V, 13.4.1989, n. 215).
Nel merito, tuttavia, il doppio ordine di censure prospettato non appare condivisibile, pur ponendo
in evidenza principi di per sé corretti, circa l’ambito dei poteri di cui è titolare il dirigente
scolastico, ai sensi del decreto legislativo n. 297 del 1994.
Per quanto riguarda il difetto di interesse del ricorrente in primo grado (professor YYY), non
possono che trarsi conclusioni analoghe a quelle, giustificative della legittimazione dello stesso
attuale appellante, nei termini in precedenza indicati, dovendo riconoscersi – oltre all’interesse del
dirigente scolastico ad affermare il proprio indirizzo organizzativo e gestionale – l’interesse del
singolo docente a tutelare la propria autonomia e la dignità delle proprie decisioni nei confronti
degli studenti, anche ove per alcune iniziative il docente stesso avesse agito come vicario di un
insegnante della classe, non presente al momento dei fatti segnalati.
Nella situazione in esame il professor YYY – pur non insegnando nella classe di appartenenza dello
studente, investito dalla nota in discussione – si era trovato ad effettuare un accertamento di fatti di
rilevanza disciplinare, in quanto sollecitato dalla studentessa importunata ed aveva apposto
un’annotazione sul registro di classe, in ordine a quanto accertato: tale annotazione veniva
senz’altro ad integrare il contenuto del registro stesso, senza che si ponessero problemi circa la
competenza specifica del docente in questione ad operare in tal senso personalmente – senza previa
consultazione con il collega coordinatore della classe e con il dirigente scolastico – , potendo il
rapporto organico instaurarsi anche in via di mero fatto, per il corrispondente noto principio
pubblicistico, finalizzato ad assicurare la certezza delle situazioni giuridiche nei confronti dei
cittadini, che vengano a contatto con una pubblica amministrazione. Quanto sopra, a prescindere
dalla considerazione secondo cui il docente in questione, in effetti titolare di un incarico di
insegnamento presso la scuola di cui trattasi – sia pure per un corso di lingua straniera non seguito
dallo studente, al quale si riferisce la nota disciplinare – ben poteva ritenersi investito di una
funzione vicaria degli altri appartenenti al corpo insegnante di quest’ultimo, per un fatto posto alla
sua diretta attenzione ed avvenuto all’interno della scuola, ma al di fuori dell’aula in cui si
svolgevano le lezioni.
Ugualmente non condivisibili appaiono le argomentazioni difensive, volte ad escludere
l’intangibilità della nota disciplinare di cui trattasi, per estraneità della medesima al contenuto
proprio dell’atto pubblico, avendo il professor YYY riportato sul registro “fatti non accaduti in sua
presenza e nemmeno dallo stesso percepiti direttamente”.
Fermo restando, infatti, che rientra fra i contenuti propri del registro di classe la registrazione di
eventuali mancanze commesse dagli allievi (cfr. anche Cass. Pen., sez. V, 21.9.1999, n. 12862,
citata dallo stesso appellante) e che appare innegabile natura di atto pubblico del documento in
questione (come verbalizzazione, effettuata dall’insegnante in quanto pubblico ufficiale, in ordine
all’andamento ed al rendimento di ciascun allievo nel corso dell’anno scolastico: cfr. in termini
TAR Sardegna 17.6.2002, n. 705), non può ritenersi, ad avviso del Collegio, che l’annotazione di
cui si discute fosse estranea ai contenuti, la cui efficacia è sancita dall’art. 2700 cod. civ. (“piena
prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha
formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta
avvenuti in sua presenza o da lui compiuti”).
La fede privilegiata dell’atto pubblico riguarda, in effetti, non solo fatti compiuti dal pubblico
ufficiale o avvenuti in sua presenza, ma anche dichiarazioni ricevute, quando di queste ultime si dia
attestazione, nell’esercizio del potere di documentazione e nella contestualità della formazione
dell’atto, a prescindere dall’intrinseca veridicità delle dichiarazioni stesse (giurisprudenza pacifica;
cfr., fra le tante, Cass. Civ., sez. I, 17.12.1990, n. 11964; Cass. Civ., sez. II, 30.7.1998, n. 7500 e
30.5.1996, n. 5013). L’ambito attestativo sopra precisato non può, peraltro, essere circoscritto alla
mera formulazione espressa, quando vi siano presupposti necessari (cosiddette attestazioni
implicite), inerenti attività del pubblico ufficiale non menzionate nell’atto, ma costituenti necessario
presupposto di fatto dell’attestazione (cfr. in termini Cass. Pen., sez. V, 12.4.2005, n. 34333, riferita
alla registrazione della presenza o assenza degli studenti sul registro di classe, previa opportuna
verifica). E’ dato di comune esperienza, inoltre, che la peculiare natura del registro di classe implica
che siano nel medesimo registrate, come fatto storico e indipendentemente dalla relativa congruità,
delle valutazioni, espresse con voto numerico o in forma descrittiva di una condotta, ritenuta
disciplinarmente rilevante. Di quest’ultima natura era l’annotazione, di cui si discute nel caso di
specie, avendo il professor YYY riferito, nei termini dal medesimo percepiti, la circostanza
segnalata da un’allieva – quale comportamento offensivo nei suoi confronti, posto in essere da un
compagno di scuola – nonché la successiva ammissione del fatto da parte di quest’ultimo.
Le espressioni nella fattispecie utilizzate, in effetti, potrebbero apparire inadeguate, sia per la
giovanissima età degli studenti coinvolti, sia per l’utilizzo di un linguaggio giuridico
(dall’espressione “reo confesso” a quella di “molestie sessuali”) non consono ad una situazione, in
cui il dirigente scolastico ed il consiglio di classe dovevano essere chiamati a formulare le proprie
valutazioni, in una dimensione pedagogicamente e disciplinarmente valida, affinchè il responsabile
potesse ben comprendere il significato del proprio gesto, con pieno e non traumatico ripristino di
rapporti più corretti fra gli allievi.
L’annotazione di cui si discute, tuttavia, non era modificabile in via autoritativa ad opera di un
soggetto terzo – ivi compreso il dirigente scolastico – non presente al momento del fatto stesso e
all’atto della relativa registrazione. Quanto sopra induce a respingere il primo ordine di censure, ma
non esclude che il citato dirigente scolastico avesse il potere-dovere di intervenire in una vicenda,
ritenuta tale da mettere in discussione la serenità dell’ambiente scolastico ed i rapporti con la
famiglia del giovanissimo interessato: tale intervento, tuttavia, avrebbe potuto estrinsecarsi
nell’avvio di un procedimento di verifica e riesame, al termine del quale fosse possibile evidenziare,
con ulteriori annotazioni decise dal consiglio di classe, una diversa valutazione dell’episodio
contestato (ove riconducibile ad un intendimento scherzoso e non di molestia vera e propria), con
soluzioni conclusive da adottare, auspicabilmente, anche nel pieno rispetto della sensibilità della
persona offesa e dell’autorevolezza del corpo insegnante.
Le medesime ragioni di rasserenamento dell’ambiente scolastico avrebbero giustificato, come
prospettato dall’appellante, anche un intervento d’urgenza del medesimo nei confronti del più volte
citato professor YYY, a norma dell’art. 468, comma 2 del D.Lgs. 16.4.1994, n. 297; in base al
principio di legalità, tuttavia, tale intervento non avrebbe potuto assumere carattere atipico, e
dunque estrinsecarsi in misure diverse da quelle previste dalla norma: sospensione dell’insegnante,
sempre che il comportamento di quest’ultimo potesse ritenersi incompatibile con la funzione
educativa (circostanza tutt’altro che pacifica, in presenza di una misura dallo stesso adottata con
severità, ma non senza ragione, pur potendosi poi pervenire a valutazioni più indulgenti).
In nessun caso, tuttavia, poteva ipotizzarsi un diretto intervento correttivo del dirigente scolastico
sul registro di classe, né ai sensi del citato art. 468 D.Lgs. n. 297/1994, né in base alle altre norme,
dettate in materia di competenza del dirigente stesso (artt. 163 e 396 D.Lgs 297/94 cit.).
Per le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che l’appello debba essere respinto, mentre
ravvisa giusti motivi per la compensazione delle spese giudiziali, tenuto conto della delicatezza
degli interessi coinvolti e dei comportamenti rilevati.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) respinge l’appello n. 4665 del 2009.
Compensa tra le parti le spese e gli onorari del secondo grado del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 novembre 2010 con l’intervento dei
magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Paolo Buonvino, Consigliere
Maurizio Meschino, Consigliere
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Gabriella De Michele, Consigliere, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 31/01/2011

Sentenza TAR Lazio 15 novembre 2010, n. 33433

N. 33433/2010 REG.SEN.

N. 10681/2009 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Terza Bis)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10681 del 2009, proposto da:
Consulta Romana per la Laicità delle Istituzioni; CIDI – Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti; Comitato Insegnanti Evangelici Italiani (CIEI); Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia; Comitato Torinese per la Laicità della Scuola; Tavola Valdese, CRIDES – Centro Romano Iniziative Difesa Diritti nella Scuola; Associazione XXXI ottobre per una scuola laica e pluralista (promossa dagli evangelici italiani); Associazione Nazionale del Libero Pensiero “Giordano Bruno”; UAAR – Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti; Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni; Unione Italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° Giorno; Federazione delle Chiese Pentecostali; Associazione per la Scuola della Repubblica; Comitato Bolognese Scuola e Costituzione; Associazione Italialaica; UCEI – Unione delle Comunità Ebraiche Italiane; Associazione Gruppo Martin Buber Ebrei per la Pace; Fnism -Federazione Nazionale Insegnanti;
nonché per i sigg. XXXX, nella qualità di studente rappresentato dai genitori XXXX; XXXX, nella qualità di genitore esercente la potestà sulla figlia minore XXXX; XXXX, in qualità di genitori esercenti la potestà sulla figlia minore XXXX; XXXX, nella qualità di genitori esercenti la potestà sulla figlia minore XXXX;
tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti Fausto Buccellato e Massimo Luciani, ed elettivamente domiciliati presso lo studio del primo in Roma, al viale Angelico, 45;

contro

Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero della Pubblica Istruzione, Ministero della Economia e delle Finanze, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la cui sede – in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12 – domiciliano per legge;

nei confronti di

Conferenza Episcopale Italiana, in persona del Presidente pro tempore, non costituita in giudizio;

e con l’intervento di

ad opponendum:
SNADIR – Sindacato Nazionale Autonomo degli Insegnanti di Religione, XXXX, rappresentati e difesi dall’avv. Giuseppe Nastasi, ed elettivamente domiciliati in Roma, alla via Gavorrano, n. 12, presso lo studio dell’avv. Mario Giannarini;

per l’annullamento, in parte qua, previa sospensione,

del d.p.r. 22 giugno 2009, n. 122, pubblicato in G.U. n. 191 del 19 agosto 2009, avente ad oggetto ” Regolamento recante coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni e ulteriori modalità applicative in materia, ai sensi degli articoli 2 e 3 del decreto legge 1 settembre 2008, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 30 ottobre 2008, n. 169”, limitatamente agli artt. 2, commi 1, 4 e 6; 3, commi 1 e 2; 4, commi 1 e 3; 6, commi 2 e 3, nonché di ogni atto presupposto, consequenziale o comunque connesso ancorché allo stato incognito.

 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio delle amministrazioni intimate e del Sindacato opponente;

Viste le memorie difensive presentate dalle parti;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del 14 ottobre 2010 il cons. Massimo L. Calveri e uditi i difensori delle parti come specificato nel relativo verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO e DIRITTO

1.- Nel premettere che la questione della partecipazione degli insegnanti di religione alle procedure valutative degli studenti della scuola pubblica è stata al centro di un notevole contenzioso, rammentano i ricorrenti che, da ultimo, con sentenza n. 7076 in data 17 luglio 2009, la Sezione III-quater di questo Tribunale ha annullato le ordinanze ministeriali un. 26/07 prot. n. 2578 e 30/08 prot. 2724, recanti “Istruzioni e Modalità per lo svolgimento degli Esami di Stato”, rispettivamente, per gli anni scolastici 2005/2006 e 2006/2007, nella parte in cui esse prevedevano che l’impegno e il profitto degli studenti che si avvalessero dell’insegnamento della religione cattolica o di insegnamenti alternativi fossero oggetto di valutazione ai fini dell’attribuzione del credito scolastico.

L’annullamento giudiziale delle predette ordinanze è stato disposto nella considerazione che esse “si pongono … in radicale contrasto con la lettera c) dell’articolo 9 della legge 21 del 1985, in quanto l’attribuzione di un credito formativo ad una scelta di carattere religioso degli studenti o dei loro genitori, quale quella di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, dà luogo ad una precisa forma di discriminazione” e che “Il sistema complessivo, in essere in concreto, ha dunque l’effetto di indurre gli studenti a rinunciare alle scelte dettate dalla propria coscienza, garantita dalla Carta Costituzionale e dell’articolo 9 del Concordato, in vista di un punteggio più vantaggioso nel credito scolastico”.

1.1.- Riportando la testuale disciplina delle norme regolamentari, qui impugnate con atto notificato in data 14 dicembre 2009, rilevano i ricorrenti come il Governo interviene nuovamente in questa delicata materia, aggravando i vizi già stigmatizzati dalla sentenza n. 7076 del 2009.

Tanto in ragione del fatto che il nuovo testo regolamentare non contiene la previsione, un tempo usuale (e, a loro avviso, doverosa) nei provvedimenti ministeriali annualmente regolativi delle valutazioni degli studenti, che la “nota” relativa alla frequenza del corso di religione, di cui all’art. 309, comma 4, del d. d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, “diventa un giudizio motivato” (non, comunque, un voto), nel caso in cui il parere dell’insegnante di religione cattolica sia determinante.

Inoltre, essi soggiungono, il regolamento, in violazione della normativa vigente, procederebbe alla piena equiparazione degli insegnanti di religione a tutti gli altri docenti.

Con la conseguenza che da tali statuizioni discenderebbe un effetto gravemente discriminatorio nei confronti degli studenti che abbiano deciso di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica, i quali rischierebbero di essere penalizzati nella valutazione complessiva e nell’attribuzione del credito scolastico rispetto ai colleghi che abbiano diversamente optato.

1.2.- Nell’esplicitare le ragioni della propria legittimazione alla presente impugnativa, i ricorrenti formulano tre motivi di ricorso, sollevando in subordine la questione di legittimità costituzionale della normativa di riferimento (artt. 9 legge n. 121/1985; art. unico d.p.r. n. 202/1990; art. 309 d.lgs. n. 297/1994; art. 6, 7 e 11 d.p.r. n. 323/1998) ove interpretata nel senso del provvedimento impugnato.

1.3.- Si costituivano in giudizio le amministrazioni intimate, eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso.

1.4.- Dispiegava intervento ad opponendum la SNADIR, Sindacato Autonomo degli Insegnanti di Religione, svolgendo argomentate considerazioni in favore della legittimità dell’impugnato testo regolamentare.

1.5.- Su accordo delle parti, l’istanza cautelare non è stata esaminata in vista della sollecita definizione nel merito del ricorso, che viene trattenuto in decisione alla udienza pubblica del 14 ottobre 2010.

2.- In via preliminare vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate dalle amministrazioni resistenti.

Si sostiene che il ricorso è stato proposto nei confronti di un atto regolamentare non suscettibile in via autonoma di arrecare una qualche lesione attuale e concreta degli interessi dei soggetti che hanno attivato l’impugnativa, soggiungendosi che comunque con il provvedimento impugnato non sono state attribuite misure di favore all’insegnamento della religione cattolica discriminando altre opzioni religiose ovvero sia stato pregiudicato il valore della laicità della scuola statale.

Il ricorso sarebbe poi inammissibile perché non notificato ad almeno uno degli alunni che hanno optato per l’insegnamento della religione cattolica, in violazione dell’art. 21 della legge n. 1034/1971 (ora art. 41, comma 2, c.p.a.).

2.1.- Le eccezioni non hanno pregio.

2.1.1.- Tutte le prospettazioni formulate con il ricorso sono dirette a censurare alcune norme del regolamento del d.p.r. n. 122/2009 nell’assunto che esse, contenendo disposizioni di favore per l’insegnamento della religione cattolica, introdurrebbe una discriminazione nei riguardi degli studenti che, come uno dei ricorrenti, non si sono avvalsi di detto insegnamento.

Trattasi quindi di normativa idonea, in ipotesi, a vulnerare autonomamente, e a prescindere dall’interposizione di atti amministrativi, il principio di laicità e di non discriminazione della scuola statale.

La riprova di quanto precede è offerta dalle stesse amministrazioni opponenti che, nell’argomentare il profilo di inammissibilità dell’impugnativa, escludono che comunque la censurata normativa contenga una disciplina discriminatoria nei riguardi degli studenti che non si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica, compromettendo il principio del pluralismo religioso.

Tale argomentazione attiene però non già al piano della ritualità ma alla fondatezza del ricorso, che va pertanto esaminato nel merito.

2.1.2.- Quanto all’ulteriore eccezione di inammissibilità per omessa notifica del ricorso ad almeno uno dei controinteressati, individuabile in uno degli studenti che ha scelto di seguire l’insegnamento della religione cattolica, è del tutto pacifico che i ricorsi avverso atti normativi a contenuto generale, quale è quello impugnato, vanno notificati solo all’amministrazione che ha adottato l’atto, perché nei confronti di detti atti non sono configurabili controinteressati (tra le molte, CdS, VI, 13 aprile 2006, n. 2037).

3.- Con il primo motivo di ricorso è dedotto, con riferimento all’intero regolamento: Violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 5, del d. 1. n. 137 del 2008. Difetto di fondamento legislativo.

Si afferma che il regolamento impugnato è stato adottato in pretesa attuazione dell’art. 3, comma 5, del decreto legge n. 137 del 2008, a tenore del quale “Con regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro dell‘istruzione, dell‘università e della ricerca, si provvede al coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli studenti, tenendo conto anche dei disturbi specifici di apprendimento e della disabilità degli alunni, e sono stabilite eventuali ulteriori modalità applicative del presente articolo”.

Poiché, come emergerà dallo svolgimento dei successivi motivi di ricorso, il regolamento non si sarebbe limitato al semplice coordinamento, ma avrebbe innovato la normativa vigente, esso avrebbe operato in carenza assoluta di fondamento legislativo.

3.1.- Stante il tenore del motivo, il suo esame non potrà che avvenire nel contesto dell’esame dei motivi successivi, perché – come puntualizzato dagli stessi ricorrenti – è con tali motivi che sarebbero state profilate censure secondo cui la potestà regolamentare governativa sarebbe stata esercitata debordando dalle finalità e dai limiti posti dalla norma primaria, confinati nel mero “coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli studenti”.

In realtà, come si vedrà nell’esposizione puntuale dei motivi dedotti, questi ultimi sono diretti, più che a censurare il difetto di fondamento legislativo delle norme regolamentari impugnate, ad evidenziare che dette norme, violando la normativa pattizia intervenuta tra Repubblica Italiana e Santa Sede, attribuiscano al docente di religione cattolica la possibilità di avere un peso determinante, in sede di scrutinio finale degli studenti, nelle decisioni collegiali adottate a maggioranza dal consiglio di classe, riconoscendo al docente di concorrere anche nell’attribuzione del punteggio per il credito scolastico, così determinando una disparità di trattamento tra gli studenti che si avvalgono dell’insegnamento della religione e tra quelli che decidano di non avvalersene.

3.2.- Con il secondo motivo di ricorso è dedotta: con particolare riferimento agli artt. 2, commi 1, 4 e 6; 3, commi 1 e 2; 4, commi 1 e 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 9 legge n. 121/1985; art. unico d.p.r. n. 202/1990; art. 309 del d.lgs. n. 297/1994; punto 2.7 dell’Intesa di cui al d.p.r. n. 751/1985.

Nel riportare la normativa primaria e pattizia in ordine all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali e la correlativa posizione di status dei docenti di detto insegnamento, riferiscono i ricorrenti che le norme regolamentari censurate con il ricorso prevedono che: l’insegnante di religione partecipi al consiglio di classe; il consiglio di classe esprima le sue valutazioni sugli studenti, anche in riferimento alle ammissioni, con voto a maggioranza; conseguentemente, il docente di religione può avere un peso determinante nella decisione collegiale; in questo caso, però, contrariamente a quanto disposto dalle norme primarie o pattizie, quelle impugnate non stabiliscono che, se determinante, il voto dell’insegnante di religione divenga un semplice “giudizio motivato iscritto a verbale”.

Si produce, conseguentemente, la diretta violazione delle norme in epigrafe, in quanto non si fa salva la previsione dell’intesa del 1985 modificata nel 1990 (e, anzi, si fanno salve delle ipotetiche “intese future”, che non si comprende bene perché siano richiamate), consentendo – dunque – all’insegnante di religione di partecipare al giudizio in modo determinante; determinante in modo radicale, atteso che, ai sensi dell’art. 6, comma 2, la valutazione del comportamento dello studente (essenziale per la stessa ammissione) è collegiale, e che ad essa partecipa l’insegnante di religione, senza che il regolamento impugnato escluda che, sul punto, questi possa avere un peso decisivo.

Solo l’assenza di un voto determinante degli insegnanti di religione, invece, assicura il rispetto della libertà di scelta (in ordine all’avvalimento o meno dell’insegnamento della religione) sancito dalla Costituzione, dalla legge e dai patti con la Santa Sede, facendo in modo che la scelta se avvalersi o meno dell’insegnamento della religione cattolica sia davvero rimessa alla libera valutazione di ciascuno studente, poiché non possono in alcun modo derivarne incentivi, né penalizzazioni, a carico di alcuno.

L’inderogabilità del principio di libertà della scelta è fondamentale e inderogabile, come ribadito anche da questo Tribunale con la precitata sentenza n. 7076 del 2009, con la quale si è affermato che “in una società democratica, al cui interno convivono differenti credenze religiose, certamente può essere considerata una violazione del principio del pluralismo il collegamento dell’insegnamento della religione con consistenti vantaggi sul piano del profitto scolastico e quindi con un‘implicita promessa di vantaggi didattici, professionali ed in definitiva materiali”.

3.2.1.- Il motivo non è fondato.

Giova brevemente richiamare il quadro normativo e pattizio nel quale si iscrive la vicenda dell’insegnamento della religione cattolica in Italia.

E’ noto che con il Concordato tra la Santa Sede e la Repubblica italiana del 1984 è venuta meno l’obbligatorietà dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola statale, già sancita con il Concordato del 1929.

Con la l. 25 marzo 1985, n. 121 (“Ratifica ed esecuzione dell’accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede”, lo Stato italiano, “riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano”, si è impegnato “ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado” (art. 9, comma 2).

Con la medesima norma si è stabilito quanto segue: “Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento. All’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione”.

La legge ha poi trovato applicazione mediante Intese tra lo Stato Italiano e le diverse confessioni religiose, e, per quel che specificamente attiene alle modalità di organizzazione dell’insegnamento della religione cattolica, da Intesa intercorsa tra il Ministero della Pubblica Istruzione e la Conferenza Episcopale Italiana formalizzata con d.p.r. 16 dicembre 1985, n. 751 (“Esecuzione dell’intesa tra l’autorità scolastica italiana e la Conferenza episcopale italiana per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche”), successivamente modificata e integrata con d.p.r. 23 giugno 1990, n. 202.

Di tale Intesa merita di essere richiamato, ai fini dell’impugnativa all’esame, il punto 2.7 dell’art. 2 del d.p.r. n. 751/1985, il cui ultimo periodo è stato aggiunto dall’Intesa allegata al d.p.r. n. 202/1990, che così recita: “Gli insegnanti incaricati di religione cattolica fanno parte della componente docente negli organi scolastici con gli stessi diritti e doveri degli altri insegnanti ma partecipano alle valutazioni periodiche e finali solo per gli alunni che si sono avvalsi dell’insegnamento della religione cattolica, fermo quanto previsto dalla normativa statale in ordine al profitto e alla valutazione per tale insegnamento. Nello scrutinio finale, nel caso in cui la normativa statale richieda una deliberazione da adottarsi a maggioranza, il voto espresso dall’insegnante di religione cattolica, se determinante, diviene un giudizio motivato iscritto a verbale”.

L’ora menzionata norma pattizia è stata in sostanza recepita dall’art. 309 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, con il quale è stato approvato il testo unico delle disposizioni vigenti in materia di istruzione; di tale articolo vanno menzionati i commi 3 e 4 del seguente tenore: “I docenti incaricati dell’insegnamento della religione cattolica fanno parte della componente docente negli organi scolastici con gli stessi diritti e doveri degli altri docenti, ma partecipano alle valutazioni periodiche e finali solo per gli alunni che si sono avvalsi dell’insegnamento della religione cattolica.

Per l’insegnamento della religione cattolica, in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae”.

Con d.l. 1 settembre 2008, n. 137, convertito in legge con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della l. 30 ottobre 2008, n. 169, contenente “Disposizioni urgenti in materia di istruzione e università”, sono state dettate, in particolare con gli artt. 1, 2 e 3, norme in materia di acquisizione delle conoscenze e delle competenze relative a “Cittadinanza e Costituzione” di valutazione del comportamento e degli apprendimenti degli alunni.; in applicazione degli artt. 2 e 3 dell’anzidetto decreto legge, è stato emanato il d.p.r. 22 giugno 2009, n. 122 (“Regolamento recante coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni”), i cui artt. 2, 3, 4 e 6 costituiscono, in parte, oggetto dell’impugnativa all’esame.

Ritiene il Collegio che, nel delineato quadro normativo, non sono suscettibili di favorevole apprezzamento le censure dedotte con il motivo.

Non è anzitutto rispondente che le norme regolamentari impugnate consentano al docente di religione di partecipare a pieno titolo, assieme agli altri docenti, alla valutazione collegiale e periodica degli studenti della scuola primaria e secondaria.

Invero, sia nell’art. 2, comma 4, che nell’art. 4, comma 3, del testo regolamentare in questione, concernenti la valutazione degli alunni rispettivamente nel primo ciclo di istruzione e nella scuola secondaria di secondo grado, si rinviene la seguente medesima proposizione normativa : “La valutazione dell’insegnamento della religione cattolica resta disciplinata dall’articolo 309 del decreto legislativo 16 aprile L 1994, n. 297, ed è comunque espressa senza attribuzione di voto numerico, fatte salve eventuali modifiche all’intesa di cui al punto 5 del Protocollo addizionale alla legge 25 marzo 1985, n. 121”.

Orbene, stante il riferimento normativo alla disciplina contenuta nel precitato art. 309 per la valutazione dell’insegnamento della religione cattolica, con la puntualizzazione quivi espressa che il docente di religione non esprime un voto, curando solo e soltanto la redazione di “una speciale nota” riguardante l’interesse e il profitto relativo a detto insegnamento, ai sensi del quarto comma del medesimo art. 309, è evidente come non sia predicabile che il docente in questione partecipi “a pieno titolo” assieme agli altri docenti alla valutazione degli studenti.

Tale partecipazione si modula infatti nei termini prefigurati dall’Intesa di cui al punto 5 del Protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, di cui all’accordo concordatario ratificato con la legge n. 121/1985 (peraltro opportunamente richiamato dalle norme regolamentari censurate), e quindi – per quel che qui interessa considerare – dal p. 2.7 dell’art. 2 del d.p.r. n. 751/1985, come integrato dal d.p.r. n. 202/1990, con il quale è stata data esecuzione dell’Intesa tra l’autorità scolastica italiana e la conferenza episcopale italiana per l’insegnamento della religione cattolica.

E’ il caso di ricordare, e di ribadire, in proposito che la modifica (recte: l’integrazione) del p. 2.7 dell’esecuzione dell’Intesa del 1985, ad opera dell’Intesa intervenuta nel 1990, è nel senso che “nello scrutinio finale, nel caso in cui la normativa statale richieda una deliberazione da adottarsi a maggioranza, il voto espresso dall’insegnante di religione cattolica, se determinante, diviene un giudizio iscritto a verbale”.

Dalle esposte considerazioni emergono i punti salienti che disciplinano la subiecta materia, sulla quale l’impugnata normativa regolamentare non ha in alcun modo inciso, limitandosi solo a richiamare, e a ribadire la vigenza, della disciplina pattizia cui fa sostanziale riferimento l’art. 309 del t.u. sull’istruzione.

Tali punti salienti possono riassumersi in quanto segue:

a.- il docente incaricato dell’insegnamento della religione cattolica fa parte della componente docente negli organi scolastici e possiede pertanto lo status degli altri insegnanti;

b.- egli partecipa alle valutazioni periodiche e finali, ma soltanto per gli alunni che si sono avvalsi dell’insegnamento della religione cattolica (c.d. avvalentisi); non esprime un voto numerico, limitandosi a compilare una speciale nota, da consegnare assieme alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse manifestato e il profitto conseguito in detto insegnamento;

c.- nello scrutinio finale, per il solo caso in cui la normativa statale richieda una deliberazione da adottarsi a maggioranza, il voto espresso dall’insegnante di religione, se determinante, diviene un giudizio motivato da iscriversi a verbale.

Tanto premesso, e ribadito che il d.p.r. n. 122/2009 non è in alcun modo idoneo a immutare la riferita disciplina pattizia, consegue che la partecipazione del docente di religione alle valutazioni collegiali degli allievi è confinata – ovviamente per gli allievi avvalentisi – nei limiti circoscritti da detta normativa; d’altro canto, i ricorrenti affermano in modo apodittico la partecipazione dei docenti in questione alla stregua degli altri insegnanti, non menzionando una qualche situazione in cui ciò si sia verificato. Del resto, e concludendo sul punto, una volta chiarito che tali docenti non esprimono un voto numerico e che, nella particolare situazione descritta dall’ultimo periodo del p. 2.7 del d.p.r. n. 751/1985, formulano solo un giudizio motivato, non vi è ragione di asserire la prospettata assimilazione, non potendosi dubitare che il docente della religione cattolica, sotto lo specifico profilo dell’attività valutativa, non è assimilabile ai docenti delle materie curriculari.

Tanto vale anche con riferimento al profilo di censura che involge l’applicazione della proposizione normativa di cui al precitato p. 2.7 dell’Intesa (fattispecie rappresentata alla lettera c.- dei punti salienti di cui sopra), nei riguardi della quale si deduce che una sua non corretta interpretazione, in ordine al “voto espresso dall’insegnante di religione cattolica”, potrebbe condurre ad un’arbitraria equiparazione dei docenti di religione agli altri docenti.

E’ da osservare in proposito che la censura si sostiene sull’inesistente presupposto che il predetto voto si sostanzi in un voto di profitto; diversamente, il voto in questione è quello che concorre alla determinazione della maggioranza dell’organo scolastico chiamato a deliberare a maggioranza nello scrutinio finale, disponendosi in proposito che, ove tale voto sia determinante, esso deve diventare un giudizio motivato.

In definitiva, coerentemente alle previsioni della normativa concordataria, il docente di religione non esprime mai un voto numerico (circostanza questa ribadita proprio dall’impugnato comma 2 del d.p.r. n. 122, che, nel prefigurare le condizioni di ammissibilità agli esami di Stato degli studenti della penultima classe del secondo ciclo di istruzione, chiarisce che “le votazioni suddette [cioè quelle assegnate dai docenti negli scrutini finali dei due anni precedenti il penultimo] non si riferiscono all’insegnamento della religione cattolica”), ma sempre e comunque un giudizio.

Quanto poi alla doglianza secondo cui le norme regolamentari impugnate non farebbero salva la previsione dell’intesa del 1985 e la modifica intervenuta nel 1990, e che rinviino senza motivo a “intese future”, può osservarsi, come già anticipato, che proprio le norme impugnate fanno contestuale riferimento sia all’art. 309 del d.lgs. n. 297/1994, che in parte recepisce l’Intesa del 1985, sia al punto 5 del Protocollo addizionale alla legge n. 121/1985, e che la salvezza di “eventuali modifiche all’intesa di cui al (predetto) punto 5 del Protocollo addizionale è indubbiamente una superfetazione normativa cui non può però attribuirsi il significato adombrato in ricorso, e cioè di un elemento di voluta vaghezza temporale idoneo a favorire la possibile disapplicazione e/o diversa interpretazione dell’attuale normativa pattizia vigente.

D’altra parte, non può non osservarsi che la rappresentata necessità di inserire nel corpo del regolamento di cui al d.p.r. n. 122/2009 il testo della modifica dell’Intesa intervenuta nel 1990 involge un profilo di tecnica redazionale dei testi normativi e non può certamente assurgere a dignità di censura apprezzabile nella sede giurisdizionale.

In proposito può solo auspicarsi (nei limiti della valenza di un auspicio formulato da un giudice di legittimità) che, in una materia così sensibilmente significativa involgente la libertà religiosa e il principio di laicità dello Stato, il Ministero della Pubblica Istruzione dia mano ad una nota informativa, chiara e puntuale, sull’insegnamento della religione cattolica, diretta agli organi scolastici e alle famiglie degli studenti, sugli aspetti organizzativi e sui riflessi didattici di detto insegnamento, con un necessario riferimento ovviamente anche alle previste opzioni alternative all’insegnamento della religione cattolica.

Quanto poi all’ordine di considerazioni formulate da questo Tribunale nella richiamata sentenza n. 7076/2009 (avente ad oggetto un ricorso diretto a censurare l’O.M. 30/2008 prot. 2724 recante “Istruzioni e Modalità per lo svolgimento degli Esami di Stato”), il Collegio non ritiene di poter condividere la conclusione quivi rinvenibile, e cioè che, alla luce della normativa regolamentare apprestata in subiecta materia dall’impugnato d.p.r. n. 122/2009, si dia luogo ad una violazione del principio del pluralismo in ragione del “collegamento dell’insegnamento della religione con consistenti vantaggi sul piano del profitto scolastico”.

Le ragioni di tale scostamento risulteranno meglio percepibili dalle considerazioni che si svolgeranno nell’esame del terzo motivo.

2.3.- Il quale è mirato a dedurre l’illegittimità dell’art. 6, comma 3, del d.p.r. n. 122/2009, in ordine alla modalità quivi prevista di attribuzione del credito scolastico in sede di scrutinio finale nel secondo ciclo di istruzione, perché violativo degli artt. 6, 7 e 11 del d.p.r. n. 323/1998, dell’art. 309 del d.lgs. n. 297/1994, nonché viziato di illogicità e di disparità di trattamento.

Si argomenta nel modo che segue.

La precitata disposizione regolamentare testualmente prescrive: “In sede di scrutinio finale il consiglio di classe, cui partecipano tutti i docenti della classe, compresi gli insegnanti di educazione fisica, gli insegnanti tecnico-pratici nelle modalità previste dall’art. 5, commi 1- bis e 4, del testo unico di cui al decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, e successive modificazioni, i docenti di sostegno, nonché gli insegnanti di religione cattolica limitatamente agli alunni che si avvalgono di quest’ultimo insegnamento, attribuisce il punteggio per il credito scolastico di cui all’art. 11 del decreto del Presidente della Repubblica 23 luglio 1998, n. 223 e successive modificazioni.

Ove detta previsione normativa fosse interpretata in modo da intendere la “partecipazione” degli insegnanti di religione al consiglio di classe in sede di attribuzione del punteggio per il credito scolastico come partecipazione decisoria, essa sarebbe palesemente illegittima, potendo detti insegnanti partecipare al consiglio di classe solo con funzioni eventualmente consultive.

Diversamente, ove a tale docenti si attribuissero funzioni decisorie, sarebbe violata la libertà di scelta relativa all’avvalimento, perché gli studenti avrebbero interesse a vedersi attribuire crediti anche grazie alla decisione dell’insegnante di una materia ch’essi hanno scelto di frequentare e altri (legittimamente) no.

Oltretutto – si soggiunge – si determinerebbe in tal modo una disparità di trattamento fra studenti avvalentisi e no, atteso che la norma impugnata non fa alcun riferimento ai “docenti incaricati delle attività alternative all’insegnamento della religione cattolica”, i quali, ai sensi degli artt. 2, comma 5, e 4, comma 1, semplicemente “forniscono preventivamente ai docenti della classe elementi conoscitivi sull’interesse manifestato e il profitto raggiunto da ciascun alunno”, trovandosi così esclusi da un procedimento decisionale che vede, invece, protagonisti anche gli insegnanti di religione.

3.1.- Il motivo si compone di due distinte doglianze, involgendo l’una l’illegittimità della funzione decisoria attribuita ai docenti di religione nel consiglio di classe chiamato ad attribuire il punteggio per il credito scolastico; l’altra, la conseguente illegittimità per il diverso trattamento riservato a detta categoria di docenti rispetto a quella dei docenti di attività alternative all’insegnamento della religione cattolica, non essendo prevista la partecipazione di questi ultimi nel consiglio di classe.

3.1.1.- – La prima delle enunciate doglianze non merita adesione.

Il nucleo dell’assunto che sta alla base del motivo dedotto è sintetizzabile nel fatto che il docente di religione, con la sua partecipazione a pieno titolo al consiglio di classe per l’attribuzione del credito scolastico, introdurrebbe un elemento discriminatorio nei riguardi degli studenti non avvalentisi.

Al fine di esaminare compiutamente la censura dedotta, ravvisa il Collegio l’opportunità di illustrare il meccanismo del credito scolastico, disciplinato dall’art. 11 del d. p.r. n. 323 del 23 luglio 1998, n. 223 e successive modificazioni (contenente il “Regolamento recante disciplina degli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore, a norma dell’articolo 1 della L. 10 dicembre 1997, n. 425”).

Della citata disposizione regolamentare vanno richiamati i primi due commi:

Il consiglio di classe attribuisce ad ogni alunno che ne sia meritevole, nello scrutinio finale di ciascuno degli ultimi tre anni della scuola secondaria superiore, un apposito punteggio per l’andamento degli studi, denominato credito scolastico. La somma dei punteggi ottenuti nei tre anni costituisce il credito scolastico che, ai sensi dell’articolo 4, comma 6, si aggiunge ai punteggi riportati dai candidati nelle prove d’esame scritte e orali. Per gli istituti professionali e gli istituti d’arte si provvede all’attribuzione del credito scolastico, per il primo dei tre anni, in sede, rispettivamente, di esame di qualifica e di licenza.

Il punteggio di cui al comma 1 esprime la valutazione del grado di preparazione complessiva raggiunta da ciascun alunno nell’anno scolastico in corso, con riguardo al profitto e tenendo in considerazione anche l’assiduità della frequenza scolastica, ivi compresa, per gli istituti ove è previsto, la frequenza dell’area di progetto, l’interesse e l’impegno nella partecipazione al dialogo educativo, alle attività complementari ed integrative ed eventuali crediti formativi. Esso è attribuito sulla base dell’allegata tabella A e della nota in calce alla medesima”.

L’ora citata tabella A, in relazione a un valore indicato come M, che rappresenta la media dei voti conseguiti nello scrutinio finale di ciascun anno scolastico, fa corrispondere un punteggio che costituisce il credito scolastico. Tale punteggio non è fisso, ma oscilla tra il minimo e il massimo di una banda di oscillazione che varia di un punto. Esemplificando: chi al terzo anno ha la media di 6 può conseguire un credito scolastico tra 4 e 5 punti; se la media è compresa tra 6 e 7 il credito può variare da 5 a 6, e così di seguito.

La banda di oscillazione, e la conseguente possibilità per lo studente di cumulare un punto aggiuntivo, è influenzata da alcune variabili individuate (cfr. NOTA alla precitata Tabella A allegata al d.p.r n. 323 cit.) oltre che dalla media dei voti, anche dall’assiduità della frequenza scolastica, dall’interesse e dall’impegno nella partecipazione al dialogo educativo e alle attività complementari ed integrative, e da eventuali crediti formativi.

Quanto precede porta a formulare alcune significative considerazioni con riferimento al tema che ne occupa.

Il credito scolastico tiene conto della media dei voti in ciascun anno scolastico e degli altri elementi valutativi enumerati alla NOTA della Tabella A.

Per quanto attiene alla presenza dell’insegnante di religione cattolica nello scrutinio finale dove è attribuito il punteggio per il credito scolastico, è ovvio che la valutazione di detto insegnante non può discendere da un voto di profitto, che egli non esprime, ma dagli ulteriori elementi presi in considerazione (assiduità della frequenza scolastica, interesse e impegno nella partecipazione al dialogo educativo); elementi che, a ben vedere, corrispondono in parte a quelli che figurano nella “speciale nota”, prevista dall’art. 309 t.u. istruzione, da consegnare assieme alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse manifestato e il profitto conseguito dallo studente nell’insegnamento in questione.

Tanto premesso, non può aderirsi alla prospettazione contenuta in ricorso secondo cui la presenza del docente di religione nello scrutinio finale, in quanto incidente sul credito scolastico, sia idonea a determinare una situazione di discriminazione nei riguardi degli studenti che decidono di non avvalersi di detto insegnamento, e in particolare di quelli che decidono di non partecipare ad attività alternative e di assentarsi dalla scuola.

Invero, atteso che, in forza dell’accordo con la Santa Sede, la Repubblica italiana si è obbligata ad assicurare l’insegnamento di religione cattolica, e che, in omaggio al principio di laicità dello Stato, detto insegnamento è facoltativo, con la conseguenza che “solo l’esercizio del diritto di avvalersene crea l’obbligo scolastico di frequentarlo” (Corte cost., sent. n. 203 del 12 aprile 1989), non è irragionevole che il titolare di quell’insegnamento, divenuto obbligatorio in seguito ad un’opzione liberamente espressa, partecipi alla valutazione sull’adempimento dell’obbligo scolastico.

In buona sostanza, e come condivisibilmente sul punto ritenuto di recente dal giudice d’appello, “se si parte dal presupposto (non seriamente dubitabile alla luce…delle sentenze costituzionali [intervenute sulla materia]) secondo cui l’insegnamento della religione (o di altro corso alternativo) diviene obbligatorio dopo che è stata effettuata la scelta, allora non si vede la ragione per la quale la valutazione dell’interesse e del profitto con il quale l’alunno ha seguito l’insegnamento della religione non debba essere valutato” (CdS, VI, 7 maggio 2010, n. 2749).

In altre parole, una volta che per scelta concordataria, gli insegnanti incaricati di religione cattolica fanno parte della componente docente negli organi scolastici con gli stessi diritti e doveri degli altri insegnanti (partecipando alle valutazioni periodiche e finali per gli alunni che si sono avvalsi di detto insegnamento), non si vede perché tali insegnanti, cui è attribuito lo status di docenti, non possano esprimere una valutazione su quegli elementi, immanenti ad ogni funzione docente, quali assiduità della frequenza scolastica, interesse e impegno nella partecipazione al dialogo educativo, dalla norma ritenuti incidenti sul credito scolastico.

E’ diffusa l’opinione che lo statuto didattico dei docenti di religione soffra di alcune ambiguità derivanti dalla formulazione della normativa pattizia di riferimento (il precitato punto 2.7 dell’art. 2 del d.p.r. n. 751/1985, trasfuso nell’art. 297 t.u. istruzione) che configura i docenti di religione cattolica come componenti del consiglio di classe. Tanto per la ragione, alla luce dei distinti profili sopra esaminati, che tali docenti, pur non esprimendo un voto numerico di profitto nella disciplina che insegnano, possono però risultare decisivi in sede di scrutinio finale, potendo anche incidere sull’assegnazione del credito scolastico.

Il Collegio non condivide un siffatto punto di vista ove si ponga mente che le intese concordatarie sono la risultante di concessioni reciproche tra i soggetti contraenti che danno luogo ad una disciplina dagli indubbi profili di singolarità. Tale è il caso dei docenti della religione cattolica che presentano uno status particolare, non assimilabile a quello del docente di materie curriculari. Ancorché essi procedano alla valutazione dell’insegnamento della religione cattolica senza attribuzione di voto numerico – non essendo tale insegnamento considerabile alla stregua di un’ordinaria disciplina soggetta, quanto al profitto, a valutazione di merito – essi non lasciano comunque di essere docenti al pari di quelli che compongono il consiglio di classe.

Consegue, come si è sopra argomentato, e per quel che più specificamente attiene alla previsione di un loro ruolo efficiente nella determinazione del credito scolastico, che tale previsione risponde ad un’evidente esigenza di ragionevolezza, non essendo ipotizzabile che a un docente sia impedito di poter valutare il comportamento degli allievi quanto meno sotto il profilo dell’interesse, dell’impegno e dell’assiduità con cui essi seguono un insegnamento da loro scelto.

E’ sulla base delle considerazioni che precedono che non si ritiene di poter aderire agli assunti svolti dalla Sezione-quater nella decisione n. 7076/2009, ampiamente richiamata in ricorso, che, sul tema del credito scolastico quale configurato dall’art. 3, comma 6, della legge n. 425/1997, assumendo “una radicale svalutazione del valore complessivo delle prove scritte ed orali rispetto al valore del voto finale”, ha ritenuto giustificabili “le preoccupazioni di chi non abbraccia tale culto, circa la rilevanza e l’incidenza dei crediti in questione sull’esito dell’esame”.

Intanto, va precisato – altrimenti divenendo fuorviante il riferimento all’incidenza del giudizio valutativo del docente di religione cattolica sul credito scolastico – che il punteggio che concorre a formare il credito trova la sua consistente (e preponderante) base nella media dei voti di profitto riportati dallo studente nei distinti anni scolastici, rispetto alla quale media il docente di religione cattolica è del tutto estraneo non esprimendo egli, come è pacifico, alcun voto. Il docente di religione, nella sua qualità di componente il consiglio di classe, è invece chiamato, al pari degli altri docenti, a fornire un giudizio sugli ulteriori parametri valutativi (assiduità della frequenza scolastica, interesse e impegno nella partecipazione al dialogo educativo) cui fa riferimento la precitata tabella A in ordine ai criteri determinativi del credito scolastico. Consegue che il giudizio del docente di religione si risolve in uno dei molteplici elementi da prendere in considerazione, nell’ambito di un giudizio complessivo della carriera scolastica e sul comportamento dello studente, al fine della possibile attribuzione di un punto aggiuntivo rispetto alla media dei voti conseguiti nello scrutinio finale.

Non è quindi rispondente una configurazione del credito scolastico sul quale può incidere in maniera significativa il giudizio del docente di religione cattolica; a parte l’obiettiva circostanza – non tenuta in considerazione – che, come ogni giudizio, esso non conduce necessariamente ad un esito di segno positivo.

Quanto poi al profilo di censura che deduce l’illegittimità del testo regolamentare in quanto la partecipazione agli scrutini degli insegnanti di religione sarebbe discriminatorio rispetto agli studenti che decidono di non seguire alcuna attività alternativa, non presentandosi a scuola o da questa allontanandosi, valgano le conclusioni contenute nella precitata sentenza del Consiglio di Stato n. 2749/2010, che ha annullato la decisione n. 7076/2009, le cui considerazioni confutative, qui di seguito enunciate, trovano l’apprezzamento del Collegio.

Ritiene il Giudice d’appello che la partecipazione agli scrutini degli insegnanti di religione cattolica non interferisca con lo “stato di non obbligo” degli studenti non avvalentisi, non condizionandone né la libertà di scelta di non seguire alcuna attività alternativa, né discriminandoli in sede di giudizio scolastico.

A tale approdo interpretativo l’autorevole Consesso perviene valorizzando significativi contenuti della giurisprudenza della Corte costituzionale che, con le sentenze nn. 230/1989 e 13/1991, si è occupata dell’insegnamento della religione cattolica.

Questi gli assunti argomentativi svolti per escludere che rispetto agli studenti non avvalentisi possa esistere condizionamento o discriminazione:

a.- non esiste condizionamento, perché, come ha ritenuto la Corte costituzionale con la storica sentenza n. 203/1989, in tema di esame della questione se il minor impegno dei non avvalentisi possa condizionare la scelta degli avvalentisi, “si può certamente affermare che le famiglie e gli studenti che scelgono di non avvalersi dell’ora di religione e di non seguire alcuna attività formativa hanno motivazioni di tale serietà da non essere scalfite dal fatto che l’insegnante di religione (o l’insegnante di corsi alternativi) partecipi alle deliberazioni del consiglio di classe concernenti l’attribuzione del credito scolastico. Una scelta legata a valori così profondi, come quelli che vengono qui in esame, non può essere condizionata da valutazioni di stampo più marcatamente utilitaristico, legate al fatto che optando per l’insegnamento della religione si potrebbe avere un vantaggio (peraltro eventuale e di minima portata) in termini di valutazione del rendimento scolastico)”;

b.- non vi è peraltro alcuna forma di discriminazione a carico dei non avvalentisi che non optano per insegnamenti alternativi, in quanto questi hanno le stesse possibilità di raggiungere il massimo punteggio in sede di attribuzione del credito scolastico rispetto agli studenti che seguono l’ora di religione o gli insegnamenti alternativi;

c.- è infine da escludere che una valutazione così importante e profonda di seguire o meno l’insegnamento della religione cattolica, che scaturisce da un esercizio di coscienza qual è quello della scelta di libertà di religione o dalla religione, “possa dipendere dalla mera possibilità di avere un vantaggio in sede di attribuzione del credito scolastico”. Con l’importante annotazione, quanto al supposto “vantaggio”, che esso “è del tutto eventuale, sia perché, lo studente non avvalentesi che sia comunque meritevole in tutte le altre materie può raggiungere il massimo punteggio in sede di credito scolastico, sia perché il giudizio dell’insegnante di religione (o del corso complementare) potrebbe essere anche negativo (e quindi incidere negativamente sul credito scolastico)”.

In definitiva, e per concludere sul punto in contestazione, chi decide di seguire la religione (o l’insegnamento alternativo) non è avvantaggiato, ma sarà giudicato sulla base dei parametri valutativi previsti per l’attribuzione del credito scolastico, nei minimali limiti – ripetesi – della banda di oscillazione. Chi diversamente ritiene liberamente di non avvalersi né dell’insegnamento della religione, né dell’insegnamento alternativo non è discriminato: “semplicemente non viene valutato nei suoi confronti un momento della vita scolastica cui non ha partecipato, ferma rimanendo la possibilità di beneficiare del punto ulteriore nell’ambito della banda di oscillazione alla stregua degli altri elementi valutabili a suo favore” (sent. CdS, n. 2749 cit.).

3.1. 2.- A diversa conclusione deve pervenirsi per la seconda delle doglianze svolte.

Invero, non può non aderirsi all’affermato punto di vista che l’omessa previsione degli insegnanti di materie alternative all’insegnamento di religione nel consiglio di classe che decide in ordine all’attribuzione del credito scolastico introduca, essa sì, un’evidente situazione discriminatoria nei riguardi degli studenti non avvalentesi che optino per l’insegnamento alternativo.

In proposito, si premette che con riferimento al tema dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali sono ipotizzabili quattro distinte situazioni: 1.- alunni che seguono l’insegnamento della religione cattolica; 2.- alunni che seguono attività alternativa; 3.- alunni che optano per lo studio individuale; 4.- alunni che scelgono di assentarsi dalla scuola (arg.: art. 8 O.M. n. 44 in data 5 maggio 2010 avente ad oggetto “Istruzioni e modalità organizzative ed operative per lo svolgimento degli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria di secondo grado nelle scuole statali e non statali. Anno scolastico 2009/2010”).

Orbene, con riferimento alle fattispecie di cui ai pp. 1 e 2 non trova giustificazione il fatto, come peraltro statuito dall’art. 8 della precitata O.M. n. 44/2010, mutuando la disciplina contenuta negli impugnati artt. 4, comma 1, e 6, comma 3, che i docenti di religione cattolica “partecipano a pieno titolo alle deliberazioni del consiglio di classe concernenti l’attribuzione, nell’ambito della banda di oscillazione, del credito scolastico agli alunni che si avvalgono di tale insegnamento, esprimendosi in relazione all’interesse con il quale l’alunno ha seguito l’insegnamento e il profitto che ne ha tratto”, mentre i docenti incaricati delle attività alternative all’insegnamento della religione cattolica “forniscono preventivamente ai docenti della classe elementi conoscitivi sull’interesse manifestato e sul profitto raggiunto da ciascun alunno”.

Invero, se, come affermato dalla Corte costituzionale, richiamando la terza proposizione dell’art. 9, numero 2, dell’Accordo ratificato con le legge n. 121/1985, il principio di laicità dello Stato “è in ogni sua implicazione rispettato grazie alla convenuta garanzia che la scelta non dia luogo a forma alcuna di discriminazione” (cit. sent. n. 203(1989), è evidente che il diverso trattamento, riservato nel procedimento decisionale alle due distinte categorie dei docenti in considerazione, introduca un vulnus alla posizione degli studenti non avvalentisi che decidano di seguire attività di insegnamenti alternativo. Non può di certo dubitarsi della disparità di trattamento introdotta dalla fonte regolamentare impugnata, atteso che un conto è sedere “a pieno titolo” nel consiglio di classe e concorrere alle sue deliberazioni in ordine all’attribuzione del punteggio per il credito scolastico, un conto è fornire preventivamente al consiglio di classe “elementi conoscitivi” sull’interesse e il profitto dimostrati da ciascuno studente; insomma, un conto è presenziare, e porsi in posizione dialettica nell’ambito dell’organo consiliare, un conto è rassegnare dei “meri elementi conoscitivi” che dovranno essere apprezzati “dai docenti della classe”.

Non può infine non osservarsi, ad ulteriore riprova della marginalizzazione dei docenti di attività alternative rispetto ai docenti di religione cattolica, che la disciplina introdotta in parte qua dall’impugnato d.p.r. n. 122/2009 (artt. 4, comma 1, e 6, comma 3) determina un irragionevole trattamento deteriore dei docenti di attività alternative rispetto alla previgente disciplina dettata con l’O.M. n. 44 in data 8 aprile 2009, concernente le modalità di svolgimento degli esami di Stato dell’a.s. 2008/09. L’art. 8, comma 13, di detta ordinanza così infatti statuiva”: “I docenti che svolgono l’insegnamento della religione cattolica partecipano a pieno titolo alle deliberazioni del consiglio di classe concernenti l’attribuzione del credito scolastico agli alunni che si avvalgono di tale insegnamento. Analoga posizione compete, in sede di attribuzione del credito scolastico, ai docenti delle attività didattiche e formative alternative all’insegnamento della religione cattolica, limitatamente agli alunni che abbiano seguito le attività medesime”.

3.4.- Nei limiti di cui in motivazione, e quindi solo in parte, il ricorso merita accoglimento, dovendosi dichiarare l’illegittimità degli artt. 4, comma 1, e 6, comma 3, del d.p.r. n. 122/2009, nella parte in cui è stata apprestata, in sede di credito scolastico, una disciplina discriminatoria per i docenti delle attività alternative all’insegnamento della religione cattolica.

Al di fuori di tale specifico ed unico aspetto, va invece escluso, alla stregua delle svolte considerazioni, che la normativa regolamentare impugnata sia afflitta dagli ulteriori dedotti profili di discriminazione in danno degli studenti non avvalentisi dell’insegnamento della religione cattolica.

Tali considerazioni conclusive portano a disattendere la questione di legittimità costituzionale, posta in via eventuale con il terzo motivo di ricorso, e sollevata nell’asserito contrasto dell’impugnata fonte regolamentare con gli artt. 2, 3, 7, 8 e 21 della Costituzione per irragionevolezza e disparità di trattamento, nonché per la compressione del principio di parità fra le confessioni religiose, della libertà religiosa e del diritto di manifestazione del pensiero.

In proposito va puntualizzato che, ancorché la rubrica del motivo rechi l’intestazione “Illegittimità derivata per l’illegittimità costituzionale degli artt. 9 l. n. 121 del 1985; art. unico d.P.R. n. 202 del 1990; 309 d.lgs. n. 297 del 1994; 6, 7 e 11 d.P.R. n. 232 del 1998 ove interpretati nel senso del provvedimento impugnato”, la questione di legittimità costituzionale viene sostanzialmente svolta nei riguardi delle norme già impugnate del testo regolamentare di cui al d.p.r. n. 122/2009.

Tanto premesso deve però osservarsi che, nel caso all’esame, si verte in tema di disposizioni normative di un regolamento, ancorché delegato in quanto emesso ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge n. 400/1988; donde l’inammissibilità della proposta questione di legittimità costituzionale.

Tanto alla luce del costante orientamento del Giudice delle leggi, secondo cui “nell’attuale configurazione monistica di forma di Governo con potere legislativo riservato al Parlamento, il controllo della Corte deve essere limitato alle sole fonti primarie” (sent. 24 gennaio 1989, n. 23).

Invero, il regolamento delegato, nel quale l’autorizzazione delle camere al governo non trasferisce a questo la funzione legislativa ma ampia soltanto la facoltà regolamentare del medesimo, conserva pur sempre natura di atto amministrativo, impugnabile solo davanti al giudice amministrativo (tra le molte: Tar Latina, 17 aprile 2000, n. 189); la conferma di quanto precede è del resto offerta dagli stessi ricorrenti che, in presenza di un atto formalmente amministrativo, hanno ritualmente avviato l’iniziativa giurisdizionale davanti al giudice amministrativo.

4.- Il ricorso va in parte accolto, nei limiti e ai sensi di cui in motivazione.

La complessità e la novità delle questioni spingono a compensare tra le parti le spese di giudizio e gli onorari di causa.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, così dispone:

a.- accoglie il ricorso limitatamente all’impugnativa degli artt. 4, comma 2, e 6, comma 3, per i motivi enunciati in motivazione e, per l’effetto, ne dispone l’annullamento;

b.- lo respinge per la rimanente parte;

c.- compensa tra le parti costituite le spese di lite;

d.- ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 ottobre 2010 con l’intervento dei magistrati:

Evasio Speranza, Presidente

Paolo Restaino, Consigliere

Massimo Luciano Calveri, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 15/11/2010

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Sentenza Tribunale di Trieste 21 ottobre 2010

TRIBUNALE DI TRIESTE
Sezione Civile
Ordinanza 21 ottobre 2010

(Omissis)

Il giudice designato, sciogliendo la riserva che precede osserva quanto segue.
S.G. e S.B., quali genitori esercenti la patria potestà del minore A.G. di anni 10, allievo della scuola elementare (omissis), facente parte dell’Istituto comprensivo di (omissis), hanno chiesto al Tribunale di Trieste di disporre, in via cautelare, “I provvedimenti necessari e urgenti affinché il minore A.G. possa rincasare da solo all’uscita di scuola”.
La domanda è priva di qualsiasi fondamento.
È principio acquisito nella giurisprudenza della Suprema Corte che “L’accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente immissione dell’allievo a scuola, determina l’instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell’istituto la obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni, anche al fine di evitare che l’allievo procuri danno a sé stesso” (Cass. Sez. Un. 27-VI-2002 n° 9346; Cass. 11-XI-2003 n° 16947; Cass. 18-XI-2005 n° 24456).
La Suprema Corte (Cass. Sez. Un. 11-XI-2008 n° 26973) qualifica quello che intercorre tra istituto scolastico ed allievo come contratto di protezione avente ad oggetto, tra l’altro, – come già detto – la salvaguardia dell’incolumità degli alunni.
Con riguardo al contenuto dell’obbligo di vigilanza la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che esso permane a carico dell’istituto scolastico per tutto il tempo in cui gli alunni minorenni gli sono affidati “E quindi fino al subentro dei genitori o di persone da questi incaricate” (Cass. 30-3-1999 n° 3074).
Il rango costituzionale del diritto all’integrità fisica dell’alunno suscettivo di lesione dall’inadempimento dell’obbligo di vigilanza rende nulli i patti di esonero o limitazione di responsabilità, ai sensi dell’art. 1229, 2° co. c.c. (v. Cass. Sez. Un. 11-XI-2008 n° 26973; ad analoga conclusione, anche se con motivazione diversa, in precedenza, Cass. 5-XI-1986 n° 5424 secondo la quale “Non possono costituire esimente della responsabilità dell’istituto, e del suo incaricato, le eventuali disposizioni date dai genitori di lasciare il minore senza sorveglianza in luogo che possa trovarsi in situazione di pericolo: l’istituto o il suo incaricato, ha il dovere di sorveglianza al fine di tutelare l’incolumità del minore, perciò, non può essere esentato da questo dovere di disposizioni impartite dai genitori che siano potenzialmente pregiudizievoli per quella incolumità (…) non potendo i genitori disporre dell’incolumità, eventualmente pregiudicabile, del figlio minore”.
Orbene, anche se il dovere di vigilanza in esame va qualificato non assoluto, ma relativo, dovendosi commisurare all’età e perciò al grado di maturazione del soggetto sorvegliato, deve ritenersi dettato sicuramente da necessaria e ragionevole prudenza atta a tutelare l’integrità fisica del minore, il rifiuto dell’istituto scolastico di consentire al minore A. di rincasare da solo all’uscita da scuola ove si consideri che non ha ancora compiuto dieci anni, che la casa dista circa 550 metri e la strada è priva di marciapiedi.
In definitiva, la domanda di giustizia avanzata a questo Tribunale dai ricorrenti genitori non è volta ad ottenere una tutela dell’integrità fisica del figlio minore, sebbene a veder riconosciuta e garantita la pretesa a non esser distolti da quelle occupazioni ritenute prioritarie rispetto all’incolumità fisica del figlio.
La madre S.B., all’udienza del 12-X-2010, a domanda di questo giudice che si attivava per trovare una soluzione condivisa che salvaguardasse l’interesse del minore e le esigenze dei genitori e i profili di responsabilità dell’istituto, ha dichiarato che “Il lavoro (presso l’azienda del marito di cui tiene la contabilità) non le consente di disporre del tempo necessario per accompagnare A. dalla scuola a casa (…) in quanto il tempo richiesto di circa trenta minuti comporterebbe e sarebbe fonte di disagio (…) non essendo più conveniente ritornare al lavoro” mentre il fratello maggiore “studente alla scuola superiore ha i suoi impegni sportivi e di studio e non gli consentono né gli lasciano alcuno spazio di tempo per andare a ritirare a scuola ed accompagnare a casa il fratello minore A.”.
Le spese seguono la soccombenza.
PQM
Il giudice designato, rigetta il ricorso proposto da S.B. quale genitore esercente la patria potestà del minore A.G. contro l’Istituto Comprensivo (omissis) e il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca; condanna i ricorrenti alla rifusione a favore dei resistenti delle spese di lite che liquida d’Ufficio in complessivi € 5.000,00 di cui € 1.500,00 per diritti ed € 3.500,00 per onorari.

Trieste, 21/10/2010.

Sentenza TAR Sardegna 6 ottobre 2010, n. 2590

N. 02590/2010 REG.SEN.

N. 00691/2010 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna

(Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 691 del 2010, proposto, ex articolo 25 L. n. 241/90 e ss.mm., da:
XXXX, rappresentata e difesa dagli avv.ti Giuseppe Martelli e Alessio Locci, con elezione di domicilio come da procura speciale in atti;

contro

Il Ministero della Pubblica Istruzione, in persona del Ministro in carica e la Direzione Didattica Statale 1° Circolo Quartu Sant’Elena, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Cagliari, presso i cui Uffici in Cagliari sono per legge domiciliati;

per l’annullamento

del diniego opposto dalla Dirigente scolastica del XXXXX, con nota del 7 luglio 2010, nei confronti dell’istanza d’accesso agli atti presentata dalla ricorrente con nota del 9 giugno 2010

e per l’accertamento

del diritto della ricorrente ad ottenere l’esibizione integrale di tutti gli atti richiesti, con particolare riferimento all’esposto del 21 dicembre 2009, prot. riservato n. 18, senza omissione dei nominativi degli autori del medesimo esposto

e per la condanna

delle amministrazioni intimate all’esibizione del predetto documento.

 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Pubblica Istruzione e della Direzione Didattica Statale 1° Circolo Quartu Sant’Elena;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 6 ottobre 2010 il dott. Marco Lensi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

Col ricorso in esame si avanzano le richieste indicate in epigrafe, rappresentando quanto segue.

In data 21 dicembre 2009 veniva presentato un esposto nei confronti della ricorrente, insegnante della classe 4 B della scuola primaria XXXX, presumibilmente da parte di alcuni genitori degli alunni della predetta classe.

In conseguenza di tale esposto in data 7 gennaio 2010, la Direzione didattica avviava un procedimento disciplinare nei confronti della ricorrente.

In data 9 gennaio 2010, la ricorrente presentava domanda di accesso agli atti per potere conoscere il contenuto dell’esposto e contestare quanto addebitatole.

Nella medesima data, le veniva consegnata copia del documento, con omissione dei nominativi degli autori dell’esposto medesimo.

Con nota in data 5 marzo 2010, la Direzione didattica disponeva l’archiviazione del procedimento disciplinare.

In data 3 giugno 2010 la ricorrente formulava richiesta di accesso agli atti, nella quale precisava che, nonostante l’archiviazione del procedimento disciplinare, la medesima avesse comunque un “interesse diretto concreto ed attuale in relazione alla violazione di una situazione giuridica rilevante, cui seguirà la tutela in ogni sede dei responsabili di tale violazione”.

La ricorrente, quindi, a prescindere dall’archiviazione del procedimento disciplinare, evidenziava l’interesse a conoscere i nominativi degli autori dell’esposto, avendo intenzione di procedere nei loro confronti e tutelare i suoi diritti presso le sedi competenti.

Con nota del 7 luglio 2010, oggi impugnata, l’amministrazione scolastica rigettava l’istanza, sostenendo che, essendo decaduta ogni esigenza di difesa della richiedente, non si palesava un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata, collegata alla richiedente stessa.

Col ricorso in esame l’istante chiede l’annullamento del diniego opposto dalla Dirigente scolastica del XXX, con nota del 7 luglio 2010, nei confronti dell’istanza d’accesso agli atti presentata dalla ricorrente con nota del 9 giugno 2010.

Chiede altresì l’accertamento del proprio diritto ad ottenere l’esibizione integrale di tutti gli atti richiesti, con particolare riferimento all’esposto del 21 dicembre 2009, prot. riservato n. 18, senza omissione dei nominativi degli autori del medesimo esposto, con condanna delle amministrazioni intimate all’esibizione del predetto documento.

Conclude per l’accoglimento del ricorso.

Si è costituita in giudizio l’Amministrazione intimata, sostenendo l’inammissibilità e l’infondatezza nel merito del ricorso, di cui si chiede il rigetto.

Alla camera di consiglio del 6 ottobre 2010 , su richiesta delle parti, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

Col ricorso in esame si chiede l’annullamento del diniego opposto dalla Dirigente scolastica del XXX, con nota del 7 luglio 2010, nei confronti dell’istanza d’accesso agli atti presentata dalla ricorrente con nota del 9 giugno 2010.

Si chiede altresì l’accertamento del diritto della ricorrente ad ottenere l’esibizione integrale di tutti gli atti richiesti, con particolare riferimento all’esposto del 21 dicembre 2009, prot. riservato n. 18, senza omissione dei nominativi degli autori del medesimo esposto, con condanna delle amministrazioni intimate all’esibizione del predetto documento.

Nessuna preclusione può ritenersi sussistente, nel caso di specie, in ragione del fatto che l’odierna ricorrente aveva già proposto analoga istanza di accesso, respinta con nota dell’8 marzo 2010, non impugnata, posto che con quest’ultima nota si oppone il diniego “per carenza di motivazione” della richiesta di accesso, successivamente reiterata dall’istante con motivazioni ulteriori e più circostanziate.

Nel merito, si osserva che la questione in esame investe il problema del bilanciamento e contemperamento tra il diritto di accesso ai documenti amministrativi e la tutela dei terzi i cui dati personali siano contenuti nella documentazione richiesta, con particolare riferimento all’esigenza di tutela della riservatezza dei firmatari di un esposto.

Pur considerato che la giurisprudenza prevalente riconosce, in via generale, la necessità che venga comunque tutelato il diritto di accesso, deve prendersi atto dell’esistenza di casi particolari nei quali l’esigenza della tutela della riservatezza assume connotati speciali, come, ad esempio, nell’ipotesi di lavoratori firmatari di un esposto nei confronti del datore di lavoro che ha dato luogo ad ispezioni del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, nella quale rileva in modo speciale l’esigenza della tutela dei lavoratori medesimi da eventuali ritorsioni del datore di lavoro (cfr. TAR Abruzzo – Pescara n. 198/01 del 23/2/2001, in cui si evidenzia la particolare rilevanza dell’esigenza di tutelare quei soggetti, che svolgendo un’attività di lavoro subordinato, si pongono in una posizione particolarmente debole nei confronti del datore di lavoro, in quanto possono subire eventuali ritorsioni in relazione a quanto hanno avuto modo di esporre in eventuali denunce presentate alla Direzione provinciale del lavoro).

In materia la giurisprudenza amministrativa ha precisato che non sussiste il diritto di accesso, da parte di un’impresa che abbia subito un’ispezione degli ispettori del lavoro, alla documentazione allegata al verbale ispettivo ed in particolare alle dichiarazioni rese dai dipendenti dell’impresa stessa, in relazione all’esigenza di salvaguardare la vita privata e la riservatezza dei dipendenti stessi (così Cons. St., VI, 19 novembre 1996, n. 1604, e T.A.R. Toscana, II, 17 dicembre 1997, n. 822).

Ciò stante, ritiene il collegio che risulti ancor più evidente e rilevante l’esigenza della tutela della riservatezza nell’ipotesi in cui siano coinvolti nella fattispecie soggetti minori, come appunto nel caso di specie.

La sola mera possibilità teorica ed ipotetica di una possibile eventuale ritorsione di un insegnante su un bambino alunno della scuola primaria, comporta la necessità – ad avviso del collegio – della rivalutazione della questione controversa nel senso di assicurare, in primo luogo, la tutela del minore, con conseguente rigetto delle richieste della ricorrente volta a conoscere i nominativi degli autori dell’esposto, che, alla luce del contenuto dell’esposto medesimo, e delle precisazioni offerte dall’amministrazione resistente, sono genitori di minori “che continuavano e continuano ad essere alunni dell’ins. XXX”.

A sostegno della propria decisione, il collegio richiama, in primo luogo, il precedente giurisprudenziale del T.A.R. Lombardia Milano, sez. IV, dell’8 novembre 2004 , n. 5716, nel quale è stato affermato che “In tema di bilanciamento tra il diritto di accesso ai documenti amministrativi e la tutela dei terzi i cui dati personali siano contenuti nella documentazione richiesta, deve ritenersi che le esigenze di tutela della riservatezza dei firmatari di un esposto nei confronti di un professionista, presentato al relativo Ordine professionale, e del quale il primo chieda l’ostensione, possano essere garantite mediante la mascheratura dei nominativi. Il diritto all’accesso potrà quindi essere esercitato, dal professionista interessato, con tale modalità”.

Deve altresì ritenersi, a giudizio del collegio, che, nel caso di specie, non possa configurarsi un effettivo pregiudizio degli interessi giuridicamente rilevanti della Signora XXX, in conseguenza del diniego opposto dall’amministrazione scolastica a fare conoscere i nominativi degli autori dell’esposto.

Deve infatti ritenersi, ad una prima valutazione, che ogni richiesta di risarcimento del danno che la ricorrente possa eventualmente avanzare nei confronti degli autori dell’esposto, necessiti della previa qualificazione della rilevanza penale del contenuto dell’esposto.

Ciò premesso, nulla impedisce alla ricorrente – nel caso – di presentare denuncia o querela contro ignoti sulla base dell’esposto in suo possesso e del suo contenuto, posto che, una volta ritenuta dalla competente autorità penale la possibile rilevanza penale del contenuto dell’esposto, non sussisterebbe ovviamente alcun ostacolo per la procedibilità dell’azione penale, posto che, in tal caso, i nominativi degli autori dell’esposto potrebbero essere acquisiti dal giudice penale.

Per le suesposte considerazioni e disattese le contrarie argomentazioni della ricorrente, il ricorso deve essere respinto.

Stante la particolarità della vicenda, sussistono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Cagliari nella camera di consiglio del giorno 6 ottobre 2010 con l’intervento dei magistrati:

Rosa Maria Pia Panunzio, Presidente

Francesco Scano, Consigliere

Marco Lensi, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 16/11/2010

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Ordinanza Consiglio di Stato 4413/10

N. 04413/2010 REG.ORD.SOSP.

N. 07723/2010 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 7723 del 2010, proposto da:

Ministero dell’Istruzione dell’Universita’ e della Ricerca, Ministero dell’Economia e delle Finanze, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

Snals – Confsal (Sindacato Autonomo Lavoratori della Scuola), …omissis…;

per la riforma

dell’ ordinanza sospensiva del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE III BIS n. 03363/2010, resa tra le parti, concernente della ordinanza sospensiva del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE III BIS n. 03363/2010, resa tra le parti, concernente RIDEFINIZIONE ORARIO COMPLESSIVO ANNUALE DELLE SECONDE, TERZE E QUARTE CLASSI DEGLI ISTITUTI TECNICI PER A.S. 2010/2011 – MCP.

Visto l’art. 62 cod. proc. amm;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Snals – Confsal (Sindacato Autonomo Lavoratori della Scuola) e di …omissis…;

Vista la domanda di sospensione dell’esecuzione dell’ordinanza del Tribunale amministrativo regionale, presentata dalla parte ricorrente;

Viste le memorie difensive;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 28 settembre 2010 il Cons. Giulio Castriota Scanderbeg e udito per le parti l’avv. Mirenghi;

Considerato che l’appello cautelare non appare assistito da fumus boni iuris, tenuto conto anche del fatto che alla luce del sopravvenuto parere emesso dal Consiglio nazionale della pubblica istruzione l’Amministrazione scolastica non potrebbe esimersi dal rideterminarsi sulla definizione dell’orario complessivo annuale delle lezioni delle seconde, terze e quarte classi degli istituti tecnici e delle seconde e terze classi degli istituti professionali;

considerato quanto alle spese della presente fase cautelare che le stesse possono essere compensate, ricorrendo giusti motivi;

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

Respinge l’appello (Ricorso numero: 7723/2010).

Spese compensate.

La presente ordinanza sarà eseguita dall’Amministrazione ed è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 settembre 2010 con l’intervento dei magistrati:

Giuseppe Severini, Presidente

Domenico Cafini, Consigliere

Bruno Rosario Polito, Consigliere

Roberto Giovagnoli, Consigliere

Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 29/09/2010

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Addi’ ……… copia conforme del presente provvedimento e’ trasmessa a: …………

Sentenza TAR Lazio 25 agosto 2010, n. 31634

T.A.R.

Lazio – Roma

Sezione III Bis

Sentenza 25 agosto 2010, n. 31634

N. 31634/2010 REG.SEN.
N. 31634/2010 REG.SEN.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Terza Bis)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso n. reg. gen. 5193/2009 della Sig.ra A. R., nella qualità di esercente la patria potestà sul minore S. S., rappresentata e difesa dagli avv.ti prof. Federico Tedeschini e Michele Damiani ed elettivamente domiciliata presso lo studio Tedeschini, in Roma, Largo Messico n. 7,

contro

l’Istituto Paritario “Villa Flaminia”, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Giuseppe Nerio Carugno (già domiciliatario in Frascati, via Annibal Caro n.4) e dall’avv. Antonio Casella, presso lo studio del quale in Roma viale del Vignola n.3 è elettivamente domiciliato (posta elettronica: studiolegalecasella@tin.it, fax:06 89281656);
il Consiglio di classe IV ginnasio sez. B per l’anno scolastico 2008-2009 presso l’Istituto paritario Villa Flaminia in persona del legale rappresentante pro tempore;

nei confronti di

del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria per legge in Roma via dei Portoghesi n.12;

per l’annullamento

previa sospensione cautelare, del provvedimento di non ammissione alla classe V ginnasio del Liceo classico, comunicato con la nota del Preside dell’Istituto n. 520/09 del 16 giugno 2009;

 

Visto il ricorso ed i motivi aggiunti notificati il 2 ottobre 2009 e l’8 febbraio 2010 con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione resistente ;

Viste le memorie delle parti a sostegno delle rispettive difese;

Udito alla pubblica udienza del 13 maggio 2010 il Consigliere Francesco Brandileone ed uditi, altresì, gli avvocati come da verbale d’udienza.

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

 

FATTO

Con il ricorso in esame parte ricorrente impugna il provvedimento indicato in epigrafe, deducendo i seguenti motivi di gravame:

1) violazione dell’articolo 74, comma 7 bis del Decreto Legislativo 16 aprile 1994, n. 297 come introdotto dal capoverso dell’art. 1 della Legge 8 agosto 1995, n. 352 di conversione del decreto legge 28 giugno 1995, n. 253; eccesso di potere per ingiustizia manifesta, in quanto il numero di assenze dell’alunno, che hanno precluso il normale accertamento del profitto, sarebbe dipeso dall’esigenza di curare una grave “scoliosi idiopatica dell’adolescenza”, da cui sarebbe derivato l’obbligo di sospendere il giudizio, con rinvio a prove suppletive.

2) violazione dell’art. 3 terzo comma del decreto-legge 1º settembre 2008, n.137 conv. con legge 30 ottobre 2008, n. 169 e della circolare n. 10 del 23 gennaio 2009; eccesso di potere per falsità, sviamento, travisamento dei fatti ed alterazione degli appunti e dei verbali di scrutinio, perché sarebbe mancata una valutazione individuale sui singoli alunni, mediante un apposito documento di valutazione, in particolare su quelli di cui non era disposta l’ammissione alla classe successiva, con riferimento al comportamento, all’apprendimento ed alle valutazioni periodiche e finali attribuite.

3) violazione del decreto-legge 1º settembre 2008, n.137 conv. con legge 30 ottobre 2008, n. 169 e della circolare n. 10 del 23 gennaio 2009; eccesso di potere sotto vari profili, per il breve periodo di tempo dedicato alla valutazione dei candidati e le connesse carenze istruttorie.

4) violazione dell’art.10-bis della Legge 7 Agosto 1990, n.241, in quanto i genitori non sono stati convocati per la preventiva comunicazione del provvedimento di non ammissione alla classe successiva, in corso di adozione.

Con appello cautelare notificato in data 7 agosto 2009, l’Istituto “Villa Flaminia” ha ottenuto la riforma della sospensiva 2 luglio 2009 concessa inizialmente da questa sezione, a seguito dell’ordinanza cautelare della VI sez. del Consiglio di Stato del 14 sett. 2009 n. 4498.

In relazione a quanto dichiarato e depositato dal resistente Istituto in occasione dell’appello cautelare, la ricorrente ha proposto il seguente motivo aggiunto notificato il 2 ottobre 2009:

5) violazione del CCNL del Comparto Scuola 2006/2009 e dei principi di solidarietà e buon andamento, dovendosi ritenenere illegittima l’attribuzione ad uno solo dei docenti del ginnasio (quello di latino, greco, storia e geografia) di un totale di ben 28 ore di lezione settimanali, essendo lo stesso assegnato contemporaneamente a due classi di 14 ore ed, in particolare, alle cattedre di latino, greco, storia e geografia sia nella Classe IV, Sezione A, sia nella Classe IV, Sezione B del resistente Istituto, in violazione dei limiti massimi consentiti dal Decreto Legislativo 8 aprile 2003 n.66, di attuazione delle Direttive 93/104/CE e 2000/34/CE.

Questa sezione, con ordinanza istruttoria n. 4883 del 23 ottobre 2009, ha chiesto di acquisire “l’elenco dei professori delle Sezioni A e B, del IV Ginnasio dell’Istituto paritario Villa Flaminia, nonché copia del verbale del Consiglio di Classe della Sezione A, del IV Ginnasio, cui fa riferimento nelle proprie difese il predetto Istituto Paritario resistente”.

A seguito dell’acquisizione di tali documenti, la ricorrente, ha proposto l’ulteriore seguente motivo aggiunto notificato il 5 febbraio 2010:

6) violazione degli articoli 5 e 193, comma 1°, del D.Lgs. 16 aprile 1994, n.297 e s.m.i. , eccesso di potere per carenza di istruttoria,incompetenza, in quanto nella seduta del Consiglio di classe in cui è stato adottato il provvedimento impugnato non erano presenti i professori Santolo (informatica) e Sanchez (spagnolo), nonostante fossero docenti rispettivamente delle materie di informatica e spagnolo e come tali componenti del Consiglio stesso.

Si costituisce in giudizio l’Amministrazione resistente che nel controdedurre alle censure di gravame, chiede la reiezione del ricorso eccependone altresì la nullità in quanto notificato in via del Vignola 56 invece che in via di S.Sebastianello 3 in Roma.

DIRITTO

1. L’eccezione di nullità del ricorso per erroneità nella notifica deve essere disattesa.

La sede indicata dallo stesso Istituto resistente nell’epigrafe dell’appello cautelare per la riforma dell’ordinanza n. 3083/2009 cit. è proprio “Viale del Vignola n. 56”, confermandosi così l’esattezza della sede dove l’atto introduttivo è stato notificato.

Deve in ogni caso rilevarsi che, secondo costante giurisprudenza, anhe amministrativa, “la nullità della notificazione del ricorso è sanata dalla costituzione in giudizio della parte, a nulla valendo che tale costituzione sia stata fatta proprio al fine di eccepire la nullità della notifica, essendo tale fatto – la costituzione – la dimostrazione da parte dell’intimato di essere in grado per fatto volontario, di esercitare il diritto di difesa. Il principio di cui al comma 3 dell’art. 156 c.p.c., per il quale il conseguimento dello scopo cui l’atto è preordinato ne sana la nullità, trova piena applicazione nel processo amministrativo; pertanto non può eccepirsi o sostenersi la inammissibilità del ricorso per difetto di notifica al controinteressato, quando questo si sia spontaneamente costituito in giudizio esercitando il diritto di difesa” (tra le altre, cfr.C. Stato, IV, 10.2.2000, n.721; 30 .11.2007 n. 6096).

2. Nel merito il ricorso è fondato per l’ultimo assorbente, motivo aggiunto, secondo cui nella seduta del Consiglio di classe in cui è stato adottato il provvedimento impugnato non erano presenti i professori Santolo (informatica) e Sanchez (spagnolo), nonostante fossero docenti rispettivamente delle materie di informatica e spagnolo e come tali componenti del Consiglio stesso.

Secondo la vigente normativa sugli organi collegiali della scuola, il Docente ha la competenza per la valutazione in itinere degli apprendimenti dell’alunno in riferimento alla propria materia, mentre l’Organo collegiale competente per la valutazione periodica e finale dell’attività didattica e degli apprendimenti dell’alunno è il Consiglio di classe con la presenza della sola componente docente nella sua interezza.

Dispongono in proposito gli articoli 5, comma 7, e 193, comma 1, del D.Lgs.16.04.1994, n. 297, che (art. 5 c.7) negli istituti e scuole di istruzione secondaria superiore, le competenze relative alla valutazione periodica e finale degli alunni spettano al consiglio di classe con la sola presenza dei docenti, e che (art. 193 c.1) i voti di profitto e di condotta degli alunni, ai fini della promozione alle classi successive alla prima, sono deliberati dal consiglio di classe al termine delle lezioni, con la sola presenza dei docenti. Il Consiglio di classe, costituito da tutti i Docenti della classe, è presieduto dal Dirigente scolastico.Nell’attività valutativa opera come un Collegio perfetto e come tale deve operare con la partecipazione di tutti i suoi componenti, essendo richiesto il quorum integrale nei collegi con funzioni giudicatrici. Nel caso in cui un docente sia impedito a partecipare per motivi giustificati il Dirigente scolastico deve affidare l’incarico di sostituirlo ad un altro docente della stessa materia in servizio presso la stessa scuola. Il Dirigente scolastico può delegare la presidenza del Consiglio ad un Docente che faccia parte dello stesso Organo collegiale. La delega a presiedere il Consiglio deve risultare da provvedimento scritto (è sufficiente l’indicazione anche nell’atto di convocazione dell’Organo) e deve essere inserita a verbale.

Tanto premesso, deve nella specie osservarsi che nell’impugnato provvedimento di non ammissione alla classe V ginnasio successiva, quale comunicato con la nota del Preside dell’Istituto n. 520/09 del 16 giugno 2009, compaiono, oltre al “giudizio espresso all’unanimità dal Consiglio di Classe”, anche i voti finali riportati nelle singole materie, tra le quali sono anche indicate “Spagnolo” ed “Informatica” con le relative votazioni finali. Per quest’ultime due, quindi, risulta attribuito il rispettivo voto finale, senza che il corrispondente docente sia stato presente alla seduta. Nè ne risulta la sostituzione, e la conseguente delega ad altro docente della potestà di esprimere i relativi giudizi.

Non ha pregio infine, l’osservazione della difesa dell’Istituto, secondo cui tali materie sarebbero “extracurricolari”. Va, al contrario, considerato che tali materie sono state inserite nel giudizio finale con le rispettive votazioni, che hanno oltretutto fatto media.

Tanto basta per ritenere illegittimo il provvedimento impugnato, che deve conseguentemente essere annullato ed il il ricorso accolto.

Sussistono, tuttavia, giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese di giudizio, ivi compresi diritti ed onorari.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio – Roma (Sezione 3^ bis), definitivamente pronunciandosi sul ricorso indicato in epigrafe, lo accoglie e per l’effetto annulla l’atto impugnato.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio del giorno 13 maggio 2010 con l’intervento dei Magistrati:

Evasio Speranza, Presidente

Paolo Restaino, Consigliere

Francesco Brandileone, Consigliere, Estensore

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 25/08/2010.