Archivi categoria: Psicologia

Infanzia e adolescenza: le linee guida AICS

Infanzia e adolescenza: le linee guida AICS

di Margherita Marzario

Abstract: Nel contributo si tracciano alcuni spunti per guidare adulti e istituzioni nelle loro responsabilità verso bambini e ragazzi

Nel giugno 2021 l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS, agenzia che ha iniziato ad operare nel gennaio del 2016 per allineare l’Italia ai principali partner europei e internazionali nell’impegno per lo sviluppo) ha emanato le nuove “Linee guida sull’infanzia e l’adolescenza”. Le Linee guida – rivolte ai cooperatori per l’adozione di adeguate politiche -, per quanto non siano un testo prescrittivo danno nuova linfa alla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e al diritto minorile in generale e offrono indicazioni ai genitori e a tutti coloro che si rapportano con l’infanzia e l’adolescenza (ovvero a tutto il sistema “child safeguarding”) affinché possano fare da guida a bambini e ragazzi. È interessante leggere e commentare alcuni passaggi.

Una delle previsioni più significative delle Linee guida è la seguente: “Inserire nell’ambito dell’educazione formale e non formale percorsi di educazione all’espressività emotiva e alla life skills allo scopo di stimolare nei minori lo sviluppo di competenze per la risoluzione non violenta dei conflitti interpersonali e sociali” (dal punto 4.1.3 delle Linee guida). Educare è pure educare alle emozioni, al dolore, alle crisi, perché attraversando (e non evitando) le emozioni, il dolore, le crisi, ci si conosce, si cresce, si diventa la persona che si è, si raggiunge il proprio benessere e si sviluppa la propria personalità, come spiegato dalla formatrice Silvia Iaccarino: “Il bambino vivrà continue separazioni nel corso della sua vita ed ha bisogno di imparare a gestirle, sapendo di poter contare sul supporto empatico degli adulti: “Sei triste, ti capisco…Anche io vorrei giocare con te invece che andare al lavoro…Ci vedremo più tardi e faremo un bel giro al parchetto“. Come dice la seguente citazione a cura del Gottman Institute: “Spesso aiuta di più ascoltare la tristezza piuttosto che cercare di alleviarla”. Accogliere il pianto del bambino, o qualsiasi altro modo attraverso cui egli comunica il suo stato emotivo, è importante affinché egli possa “digerire” le sue emozioni. Come dice C. Pavese: «Non ci si libera di una cosa evitandola, ma solo attraversandola». È solo esprimendo ed attraversando la propria emozione che il bambinopuò andare oltre. Per fare ciò in modo equilibrato e sano, c’è bisogno di adulti che ascoltino e contengano il vissuto del bambino, facendogli sentire di essere riconosciuto e compreso e che non è da solo a maneggiare le sue emozioni. In questo modo lo si rassicura sul fatto che c’è qualcuno di affidabile il quale può farsi contenitore e che sa reggere il carico di tale vissuto, comunicando al piccolo che è normale ciò che prova e che, un po’ per volta, andrà meglio”.

I bambini hanno bisogno e fanno richiesta di storie, racconti, narrazioni: “Le storie sono per gli esseri umani ciò che l’acqua è per i pesci, cioè vi sono immersi ma è un fatto impalpabile. Mentre il nostro corpo rimane ancorato a un punto specifico dello spazio-tempo, la nostra mente è sempre libera di vagare in mondi immaginari. E lo fa in continuazione!” (da “L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani” dello statunitense Jonathan Gottschall). E per questo occorre “Favorire lo sviluppo della personalità del minore, il pieno sviluppo delle sue facoltà e delle sue capacità psico-sociali, emozionali, attitudinali e in generale delle sue potenzialità, sostenendolo in base ai suoi bisogni individuali e assicurando che possa imparare insieme agli altri” (dal punto 4.3 delle Linee guida). In queste parole il bambino è considerato nella sua interezza, quale complesso di facoltà, capacità, potenzialità, bisogni e insieme agli altri, considerazione spesso inesistente in famiglia e nella scuola, come si è verificato pure durante la pandemia da Covid-19.

“Come l’albero, l’uomo cresce. Come l’uomo, anche l’albero è sradicato […]. Come l’albero, l’uomo aspira verso l’alto” (il poeta israeliano Natan Zach). Ogni uomo è un albero con radici, un albatro con ali, un’alba con aspettative, un album con pagine. Ancor di più un bambino. “L’“Early Childhood” si può considerare – adottando la definizione dell’UNESCO – come il periodo della vita che si estende dal concepimento fino all’età di circa 8 anni, una fase cruciale di crescita durante la quale lo sviluppo del cervello raggiunge il suo apice (l’80% si sviluppa entro i primi 3 anni), secondo un processo integrato e influenzato da un’ampia varietà di determinanti (individuali, ambientali e relazionali) che intervengono in tempi e contesti diversi. L’“Early Childhood Development” fa riferimento pertanto allo sviluppo fisico, cognitivo, linguistico e socio-emozionale di un bambino dallo stadio prenatale all’età di circa otto anni” (dal punto 4.4.1 delle Linee guida).

I bambini hanno bisogno di autenticità. “La rappresentazione mediatica dei minori e dei loro bisogni specifici nell’ambito dei progetti di cooperazione allo sviluppo richiede pertanto una particolare attenzione: se da un lato è evidente che le immagini, ferme e in movimento, rivestono un’enorme importanza nel comunicare, in quanto possono creare empatia, suscitare o modificare la comprensione e motivare l’azione, dall’altro occorre sviluppare una profonda consapevolezza e il massimo senso di responsabilità sia verso i protagonisti che verso il pubblico destinatario. Per questo motivo è fondamentale fornire immagini e storie che siano, sì, autentiche, ma che allo stesso tempo rispettino e proteggano i minori, le famiglie e le comunità coinvolte” (dal punto n. 4.9 “Comunicazione” delle Linee guida). Quando dicono che i bambini “tanto non capiscono, non ricordano” o altro, bisogna ricordare o rispondere che sono gli unici che colgono l’autenticità e ne sono attratti fin quando qualcuno li distoglie e propone loro gli specchietti per allodole, quindi gli adulti dovrebbero rivelare più coraggio, consapevolezza e coerenza, ovvero adultità e responsabilità.

I genitori tengono a cuore la salute dei figli ma dimenticano che possono traumatizzarli, consapevolmente o meno, con quello che fanno o non fanno: scelte, traslochi, mancanza di ascolto e di attenzione. I figli serbano memoria di tutto, sin dalla vita uterina, per cui possono poi manifestare o sviluppare disturbi o patologie come reazioni a quanto subìto. “[…] molti ricercatori hanno dimostrato come i bambini, già alla nascita, siano degli esseri umani consapevoli, nonostante la loro “immaturità fisica”, ed in grado di fare piena esperienza della realtà che li circonda in modo sorprendentemente preciso. In particolare, David Chamberlain nel suo libro “I bambini ricordano la nascita” (ed. Bonomi) documenta, attraverso numerosi resoconti a due voci (mamma e figlio) raccolti in ipnosi, la precisione dei ricordi riguardanti la nascita. Alla nascita, madri e figli fanno diverse esperienze insieme (il parto, gli incontri in ospedale ed il ritorno a casa, etc). Le narrazioni di tali episodi da parte delle madri e dei figli possiedono una coerenza impressionante, tale da escludere invenzione o fantasticheria. Chiaramente i loro racconti portano punti di vista diversi, come è ovvio che sia, ma i fatti coincidono in modo sorprendente” (la formatrice Silvia Iaccarino). I genitori non devono solo tutelare la salute dei figli ma dare loro anche un futuro di salute. “La salute non dipende solo dall’assenza di agenti biologici che provocano la malattia, ma è il risultato di un armonico, naturale e completo sviluppo dell’individuo in ogni aspetto della sua esistenza e in relazione all’ambiente che lo circonda, un bene che va curato e coltivato fin da prima del concepimento e durante tutto l’arco dell’esistenza” (definizione di salute nel punto 4.2 delle Linee guida).

A proposito di salute è determinante l’educazione sentimentale e sessuale ma, purtroppo, nei contesti familiari ci sono coppie basate su intimidazioni nella quotidianità e, poi, sull’intimità tra le pareti della camera da letto per risolvere i problemi o per soddisfare solo uno dei partner. Si manca di rispetto per se stessi e di coerenza nell’educazione nei confronti di eventuali figli. Coppia: un gioco delle parti tra dominare, domare, donare. Vita di coppia: cercare, tra alti e bassi, l’equilibrio e non scendere a compromessi. Nelle “Linee guida sull’infanzia e l’adolescenza” si parla di “educazione all’affettività e alla sessualità” e di “educazione sessuale consapevole”, locuzioni più opportune e efficaci di quelle comunemente usate.

“Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità rientrano nella gender based violence [violenza basata sul genere] tutte le forme di violenza e abuso contro l’infanzia, che si articolano in base al sesso biologico e all’identità di genere, comprese le mutilazioni genitali femminili, l’infanticidio, i delitti d’onore, gli attacchi con l’acido, i matrimoni e le gravidanze precoci ([…]), il gavage, ovvero la nutrizione forzata delle bambine per renderle attraenti agli occhi dei futuri mariti, e la prostituzione minorile” (dal punto 4.1.3 “Gender based violence” delle Linee guida). Bisogna fare attenzione che alcune abitudini o pratiche o mode invalse nelle famiglie occidentali o tradizionali possono violare l’integrità psicofisica delle bambine, per esempio scegliendo abbigliamento inidoneo per le bambine già con trasparenze o scarpe con tacchi, usando linguaggio volgare, avendo relazioni sentimentali e rapporti sessuali fugaci, facendo stare a lungo le bambine nel lettone tra mamma e papà e fin troppo in intimità e così di seguito.

Accanto alla famiglia si pone la scuola, altro luogo di vita di bambini e ragazzi in cui costruiscono la loro identità, la loro memoria, la loro storia. Il maestro Alberto Manzi, il cosiddetto “maestro televisivo degli anni ‘60”, era solito scrivere una lettera agli alunni della quinta elementare: “Non rinunciate mai, per nessun motivo, ad essere voi stessi […]. Andate avanti serenamente, con l’affetto verso tutte le cose e gli animali e le genti, con onestà, onestà e ancora onestà, perché questa è la cosa che manca oggi nel mondo e voi dovete ridarla, e intelligenza, e ancora e sempre intelligenza, il che significa prepararsi, il che significa riuscire sempre a comprendere, il che significa riuscire ad amare. Realizzate tutto ciò, ed io sarò sempre in voi, con voi” (parole che sono riecheggiate nella lettera di commiato di Pietro Carmina, professore di storia e filosofia, deceduto a dicembre 2021 nella tragedia di Ravanusa in Sicilia). Scuola: dare una suola adeguata ai passi di ogni bambino o ragazzo affinché faccia la sua strada per arrivare alla sua destinazione. Nel punto 4.3 rubricato “Educazione” delle Linee guida si parla, tra l’altro, di “Promuovere l’allineamento pedagogico fra scuola primaria e secondaria”.

Oltre a questi gradi d’istruzione, essenziale nel processo di crescita è la scuola dell’infanzia in cui il bambino è accompagnato a raggiungere l’abbiccì dei traguardi dell’infanzia: autonomia; benessere; conoscenze e competenze di base. È necessario perciò “Sostenere l’attuazione delle strategie e dei piani educativi nazionali, con speciale attenzione a: – Accesso gratuito ai servizi educativi di qualità per la prima infanzia (tra cui almeno un anno obbligatorio di scuola dell’infanzia) così da assicurare lo sviluppo delle capacità cognitive e psicosociali necessarie per l’inserimento nella scuola primaria e per formare le basi del futuro apprendimento” (dal punto 4. 3 “Educazione” delle Linee guida).

È importante che ogni bambino viva serenamente e pienamente la sua infanzia, i suoi fugaci anni, il calderone delle sue emozioni affinché non affiorino problemi o disturbi psicosociali di ogni sorta con l’avanzare dell’età: “Bisogna viverle le cose, anche quando ancora non le si sa raccontare. Altrimenti l’infanzia, cos’è?” (la scrittrice Laura Imai Messina). Si assiste sempre più spesso a giovani e meno giovani che fanno uso di sostanze psicotrope e stupefacenti anche senza apparenti problemi esistenziali ma procurandosi così problemi esistenziali. Eppure per emozionarsi, per rialzarsi, per sentirsi vivi bisognerebbe guardare un bambino nato pretermine che si aggrappa alla vita con ogni fibra del suo corpicino dalla pelle ancora trasparente o guardare quel barlume negli occhi smarriti di una persona affetta dal morbo di Alzheimer in cui, forse, si conserva la memoria del cuore. Qualsiasi dipendenza è un problema sociale perché c’è interdipendenza tra tutti, per cui occorre “Promuovere la nascita di associazioni e cooperative per il reinserimento lavorativo e il supporto sociale dei soggetti con disagio mentale e dipendenza, per il contrasto al negazionismo relativamente ai disordini mentali e di prevenzione della loro criminalizzazione” e “Rafforzare azioni per l’individuazione e la presa in carico del disagio da dipendenza nei minori” (dal punto 4.2.4 “Salute mentale” delle Linee guida).

Le suddette Linee guida rimarcano altre pubblicate in anni precedenti e in occorrenze diverse, per esempio nel 2019, in occasione del decimo anniversario dell’adozione delle “Guidelines for the alternative care of children” (“Linee Guida ONU sull’accoglienza dei bambini fuori dalla famiglia d’origine”), l’organizzazione internazionale privata “SOS Children’s Villages International” (“SOS Villaggi dei Bambini”, con sede in Austria) ha stilato un vademecum “You Have the Right to Care and Protection! The Guidelines for the Alternative Care of Children in Child and Youth Friendly Language”(“Hai il diritto di essere curato e protetto! Linee Guida per interventi di cura alternativi per i bambini, in un linguaggio accessibile per bambini e ragazzi”). La guida (sviluppata con la partecipazione di oltre 500 bambini di 26 paesi diversi) utilizza linguaggi e immagini accessibili, “friendly”, per informare i bambini e i ragazzi sul loro diritto a vivere in un ambiente familiare favorevole e spiega cosa deve accadere nel caso in cui non possano vivere con i genitori o siano a rischio di essere separati da loro. Il libello è coerente con il Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e con gli articoli 8 (diritto alle relazioni familiari) e 9 (diritto di mantenere relazioni personali e contatti diretti in modo regolare con entrambi i genitori). Nelle Linee guida delle Nazioni Unite si rimarca il diritto alla cura e alla protezione che è trascurato o calpestato da quei genitori troppo presi dai loro problemi di coppia, di lavoro o altro.

Questi atti scritti si rendono necessari perché uno degli articoli più negletti della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia è l’art. 42 che recita: “Gli Stati parti si impegnano a far conoscere diffusamente i principi e le norme della Convenzione, in modo attivo e adeguato, tanto agli adulti quanto ai fanciulli”.

Anche perché è dovere di tutti dare orientamento e consigli ai bambini e ai ragazzi (art. 5 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), ovvero indicare loro l’oriente, la luce, la speranza, nuovi giorni, il futuro.  

La scuola dell’infanzia, l’infanzia a scuola

La scuola dell’infanzia, l’infanzia a scuola

di Margherita Marzario

Sintesi: Ogni bambino è già un progetto iscritto dalla vita

Abstract: L’autrice, attraverso riferimenti normativi e principi pedagogici, delinea la funzione basilare della scuola dell’infanzia

Tutta la scuola è bistrattata ma quella più trascurata è la scuola dell’infanzia che, in realtà, è fondamentale perché lì si mettono le radici per la crescita cognitiva e personale di ogni bambino.

Lo statuto ontologico e deontologico della scuola dell’infanzia dovrebbe essere l’art. 3 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, i cui principi sono: primaria considerazione dell’interesse superiore del fanciullo, protezione e cure necessarie al benessere del fanciullo, consistenza e qualificazione del personale delle istituzioni, dei servizi e delle strutture responsabili della cura e della protezione dei bambini. Ma nella scuola dell’infanzia e altrove non sempre è così. “L’articolo 3 afferma che in ogni assunto l’interesse del bambino va sempre considerato superiore: ciò significa che ogniqualvolta tale interesse entri in conflitto con interessi di altri debba prevalere. È sorprendente notare come le affermazioni che gli adulti fanno quando si tratta dei bambini siano sempre assolute, senza riserve, radicali e generose fino all’esagerazione. Poiché quasi tutti i Paesi del mondo aderiscono a questa Convenzione, l’interesse dei bambini dovrebbe prevalere su quello degli altri: in realtà, nella pratica, tali promesse vengono non solo tradite, ma risultano oltretutto sconosciute. Rispetto all’articolo 3 possiamo domandarci perché, ad esempio, un bambino debba smettere di prendere il latte dal seno materno a quattro o cinque mesi. È per il suo bene? E perché i bambini debbono stare in un nido o in una scuola dell’infanzia o primaria otto ore consecutive? È per il loro interesse? Evidentemente no, ma è per l’utilità dei genitori, o meglio per adeguarsi all’orario di lavoro dei loro genitori” (lo storico gesuita Giancarlo Pani nel saggio “I diritti dell’infanzia”, 2019). L’interesse superiore del fanciullo non deve essere solo affermato ma confermato, invece è subissato da interessi superiori o dei superiori. Ci si dimentica che si è bambini (nel senso anagrafico) solo una volta, mentre c’è tutto il tempo successivo per essere per sempre adulti insoddisfatti, frustrati, nevrotici, psicotici, apatici o altro, perché resi tali da genitori o altri educatori che non hanno fatto vivere la dimensione di quel tempo unico e magico dell’infanzia e non hanno dato le giuste coordinate esistenziali per andare avanti e oltre nella vita e lungo la propria vita.

La psicologa e psicoterapeuta Simona Abate afferma: “L’amore non può sopravvivere al dolore, non può sopravvivere al maltrattamento, non può sopravvivere all’abuso… La sofferenza patita nell’infanzia può essere messa in atto nell’età adulta… Per superare il c.d. contagio della follia, occorre stare a contatto con il dolore, esserne consapevole e ristrutturare gli affetti… un bambino abusato non muore una volta sola, ma muore ogni volta che viene lasciato solo nella sua sofferenza” (dagli atti del VII Congresso AMI – “La strage degli innocenti” – Roma, 21 e 22 ottobre 2016). “[…] qualsiasi forma di violenza, danno o brutalità fisica o mentale, abbandono o negligenza, maltrattamento o sfruttamento, inclusa la violenza sessuale” (art. 19 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) è il contrario dell’amore che si deve a un bambino. Nonostante si parli tanto di amore nei confronti dei bambini o si dica loro “amore” in ogni momento, sono molte le situazioni in cui si fa mancare loro l’amore necessario e vitale e si deturpa per sempre la loro personalità e la loro vita, anche con piccoli gesti o con scelte egoistiche, come l’anticipo scolastico indiscriminato o forzato a due anni e mezzo nella scuola dell’infanzia di bambini, non ancora pronti, che, invece, dovrebbero frequentare serenamente l’asilo nido.

L’anticipo scolastico o altre forme d’anticipo sono solo esigenze dei genitori. Fanno sorridere amaramente quei genitori che s’affannano per iscrivere i figli anticipatamente a scuola (già dalla scuola dell’infanzia, pure quando non sanno ancora parlare ed esprimere i loro bisogni fisiologici o non hanno alcuna forma di precocità) perché “altrimenti perdono un anno”. Quale anno? Hanno già preventivato la vita? Si dia ai bambini la possibilità di essere pienamente bambini e si dia loro il tempo di crescere, svilupparsi, maturare e diventare adulti (concetti differenti che costituiscono un processo, un percorso) e non acerbi adultizzati.

Si farebbe nascere un bambino pretermine solo perché lo si può mettere nell’incubatrice? Si farebbe mangiare un uovo lesso ad un neonato? Si pretenderebbe di far camminare un lattante? Allora perché imporre l’anticipo scolastico ad un figlio che non ha ancora raggiunto certi livelli medi? Perché premere con forme di precocizzazione in ogni campo, anche nell’abbigliamento o nelle pose in fotografia? Si è bambini una sola volta e se lo si è a pieno si potrà affrontare e godere a pieno il resto e il meglio della vita perché l’infanzia è il pilastro della vita e, se non lo si fissa e costruisce bene, il seguito diventa vacillante. Si spera di superare questa impasse con l’attuazione del cosiddetto “sistema integrato 0-6” previsto dal decreto legislativo 13 aprile 2017 n. 65.

“Possiamo dire che siamo di fronte ad un furto della bellezza? – Sì” (cit.). Quanta bellezza è sottratta ai bambini, anche dalla scuola dell’infanzia: schede fotocopiate da colorare, stereotipi a cominciare dal colore dei grembiulini, filastrocche lunghe da far recitare solo per mostrare quanto i bambini siano bravi a ripeterle (talvolta senza emozione e senza comprensione del testo), linguaggio non adeguato, i cosiddetti “lavoretti”, manufatti che interessano solo agli adulti (insegnanti che mostrano quanto sono abili e genitori desiderosi di riceverli nelle occasioni comandate), recite o saggi di fine anno o manifestazioni ansiogene e tanto altro. Per non parlare di quanta bellezza viene sottratta in famiglia! Eppure i bambini sono la bellezza della vita e la vita è bellezza da coltivare, curare, custodire, cullare. I bambini hanno diritto a un pieno ed armonioso sviluppo della loro personalità (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia): sulla base degli studi etimologici e delle speculazioni filosofiche di cui il termine è stato oggetto nel corso del tempo, si può ben dire che “armonia” consista nell’unità dell’oggettivo e del soggettivo, del fattuale e dello psicologico, nel “gestimmt sein” (in tedesco “essere in accordo, essere sintonizzato”) dell’individuo con ciò che lo circonda, un suo simile, la natura, la sua interiorità. È fondamentale, perciò, il rispetto dell’infanzia nel suo linguaggio e nelle sue espressioni.

A scuola e, soprattutto nella scuola dell’infanzia, non si dovrebbero usare le fotocopie o almeno si dovrebbe limitare il loro uso, perché i bambini non sono fotocopie e non devono essere abituati all’appiattimento e alla mancanza di originalità. L’uso delle fotocopie limita l’educazione alla bellezza, fa sprecare risorse (dalla carta alla corrente elettrica) e fa aumentare anche l’inquinamento. “I bambini hanno diritto ad avere un rapporto con l’arte e la cultura senza essere trattati da consumatori ma da soggetti competenti e sensibili” (art. 6 Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura).

A scuola, e in particolare nella scuola dell’infanzia, si può (e si dovrebbe) lavorare in maniera progettuale anche senza presentare e proporre i cosiddetti “progetti”, perché ogni bambino è già un progetto iscritto dalla vita. Nella scuola dell’infanzia si dovrebbe limitare la somministrazione di schede didattiche, di attività strutturate o metodi predefiniti o kit didattici perché i bambini non devono tendere alla perfezione e all’omologazione ma all’emozione da vivere ed esprimere. In Italia, pur essendo il Paese dei fondamenti della pedagogia moderna (da Lorenzo Milani a Mario Lodi, da Gianfranco Zavalloni a Daniela Lucangeli), ci si dimentica della vera centralità del bambino (come ha pure scritto il pedagogista Daniele Novara nel suo libro “I bambini sono sempre gli ultimi”). Gli insegnanti devono arretrare rispetto ai bambini, fare da registi (Maria Montessori docet!) e non primeggiare o, addirittura, sovraneggiare prendendosi tanto tempo e spazio, per esempio nelle cosiddette attività di routine o nella presentazione delle attività da svolgere.

Nella scuola dell’infanzia i bambini devono essere bambini e niente di più. Dovrebbero soprattutto giocare, nel senso di imparare a giocare e saper giocare. Così imparerebbero a esercitare i loro diritti e assumersi i doveri, come d’altronde previsto nell’art. 31 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. Per non parlare dell’ascolto (art. 12 Convenzione): la scuola dell’infanzia dovrebbe essere il luogo privilegiato in cui il bambino possa esperire l’ascolto per ascoltare, poi, l’altro.  “Infante”, etimologicamente, è “chi non ha ancora l’uso della favella”, per cui va ascoltato in quello che dice per comprendere ciò che esprime e, in seguito, possa imparare a dirlo articolatamente.

“[…] è il rischio grave di essere educatori disattenti, di non saper cogliere le domande della vita stessa, proprio oggi che i bambini diventano prestissimo dipendenti dalle «risposte» dei tablet. Del resto, una vita in rodaggio è tutta una domanda: ogni gesto di un bimbo è una domanda, è la vita in presa diretta, nel qui e ora di ogni situazione semplice o complessa” (fra Danilo Salezze, fondatore di una comunità terapeutica per giovani tossicodipendenti). Nelle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione (2012) nella parte relativa alla scuola dell’infanzia si legge: “[Il bambino] Raccoglie discorsi circa gli orientamenti morali, il cosa è giusto e cosa è sbagliato, il valore attribuito alle pratiche religiose. Si chiede dov’era prima di nascere e se e dove finirà la sua esistenza. Pone domande sull’esistenza di Dio, la vita e la morte, la gioia e il dolore. Le domande dei bambini richiedono un atteggiamento di ascolto costruttivo da parte degli adulti, di rasserenamento, comprensione ed esplicitazione delle diverse posizioni”. Se l’aspetto interiore deve essere considerato nella scuola dell’infanzia, ancor di più bisogna fare attenzione in famiglia dove, invece, è spesso negletto.

La scuola dell’infanzia è dotata di una specificità e specialità attribuitale altresì dalla denominazione stessa che è l’unica, nel mondo scolastico, a essere caratterizzata da un complemento di specificazione. Deve mirare affinché il bambino, considerato soggetto e non semplice destinatario, al termine del ciclo arrivi a: Autonomia nelle attività assegnate e in quelle in cui attivarsi da sé; Emozioni da esternare ed elaborare e esprimersi in maniera adeguata all’età; Insegnamenti da ascoltare e indicazioni da seguire, interventi educativi da rispettare; Osservazione, come capacità di sguardo e pensiero, da trasporre nell’organizzazione e nell’ordine dell’operare; Unitarietà dello sviluppo del bambino (e non solo alunno o figlio) nell’unione tra scuola e famiglia.

Urge “Sostenere l’attuazione delle strategie e dei piani educativi nazionali, con speciale attenzione a: – Accesso gratuito ai servizi educativi di qualità per la prima infanzia (tra cui almeno un anno obbligatorio di scuola dell’infanzia, cfr. anche paragrafo 4.4 “ECCE”) così da assicurare lo sviluppo delle capacità cognitive e psicosociali necessarie per l’inserimento nella scuola primaria e per formare le basi del futuro apprendimento. – Adozione di misure educative volte a superare stereotipi e pregiudizi. – Sviluppo e coordinamento di sinergie tra le istituzioni e gli educatori” (dal punto 4.3 “Educazione” delle “Linee guida sull’infanzia e l’adolescenza”, a cura dell’AICS, Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, 2021).

La scuola dell’infanzia è anche “scuola” per i genitori e altre figure adulte di riferimento. Bisognerebbe leggere e approfondire le Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione (quelle del 2012 con la novella normativa del 2017) che possono essere considerate una guida. La scuola dell’infanzia è, tra l’altro, la culla dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura, come formulati nella Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura, presentata a Bologna il 3 marzo 2011, perché “i bambini hanno diritto ad avvicinarsi all’arte […]; a sperimentare i linguaggi artistici […]; a essere parte di processi artistici che nutrano la loro intelligenza emotiva e li aiutino a sviluppare in modo armonico sensibilità e competenze” (artt. 1-3).

Insegnare nella scuola dell’infanzia non è far passare il tempo più o meno tranquillamente ai bambini, come si pensa nell’immaginario collettivo, ma far loro sperimentare, scoprire, impiegare, vivere il tempo specifico e speciale dell’infanzia, alla base di ogni altro tempo. La scuola dell’infanzia è la fucina dell’emozione di apprendere e dell’apprendere l’emozione. È, perciò, necessario un idoneo arruolamento delle (o degli) insegnanti, un loro giusto comportamento e un continuo aggiornamento.

“Per trasmettere le tue idee utilizza parole semplici, grandi idee e brevi frasi” (l’eclettico John Henry Patterson). Un buon insegnante deve saper trasmettere con parole semplici, grandi idee e brevi frasi, dalla scuola dell’infanzia all’università, perché già la vita stessa è una scuola dell’infanzia e un’università. 

Gioco, gioia, giornaliero, giostra (di emozioni, situazioni e relazioni), perché così è la vita: queste le peculiarità (o quelle che dovrebbero essere) della famiglia e, poi, della scuola dell’infanzia.

La famiglia oltre la pandemia

La famiglia oltre la pandemia

di Margherita Marzario

Abstract: La famiglia è la prima formazione sociale in cui si sperimenta – e che richiede – la solidarietà doverosa o fraterna di cui all’art. 2 della Costituzione

In tempo di pandemia da Covid-19 le famiglie sono state messe a dura prova per cui alcune ne sono uscite corroborate dimostrando ancor di più quanto siano importanti le relazioni familiari, mentre altre si sono strappate o frantumate anche perché non più abituate a stare insieme.

Ma la famiglia cosa può essere o dare ancora nella nostra società digitale e definita post-familiare?

Alcuni ricercatori (l’italiano M. Albertini e gli svedesi M. Gähler & J. Härkönen) hanno verificato -in un’analisi del periodo 2007-2012 – che anche in Svezia, contrariamente ad alcune rappresentazioni culturali che lo considerano un paese all’avanguardia in ogni senso, i legami familiari rimangono comunque molto forti, anche se con modalità diverse da altri Paesi europei. In caso di difficoltà familiari o personali (ad esempio perdita dell’autonomia economica o divorzio) i giovani non rientrano a casa dei propri genitori; tuttavia le reti familiari rimangono una risorsa forte per affrontare le difficoltà, anche se questo non implica il rientro nella propria famiglia/casa di origine (si veda il report «Moving back to “mamma”? Divorce, intergenerational coresidence, and latent family solidatiry in Sweden», febbraio 2018). A conferma che, nonostante divisioni e trasformazioni, la famiglia è e rimane la “cellula fondamentale della società” (Parte I punto n. 16 Carta sociale europea, riveduta nel 1996) e l’“ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Edoardo e Chiara Vian, esperti di famiglie in difficoltà, affermano: “Se riuscissimo a cambiare prospettiva, a smettere di chiederci che cosa vogliamo dalla vita per interrogarci su che cosa la vita vuole da noi, saremmo forse più sereni. Anche in famiglia”. La vita di famiglia si pone al di sopra dei bisogni ed interessi dei singoli componenti, è quanto si ricava anche dalla formulazione dei relativi articoli del codice civile dopo la riforma del diritto di famiglia del 1975: “interesse della famiglia” (art. 143 comma 1), “bisogni della famiglia” (art. 143 comma 2), “vita familiare” e “esigenze preminenti della famiglia stessa” (art. 144 comma 1), “esigenze dell’unità e della vita della famiglia” (art. 145 comma 2).

“La famiglia è l’arco e il figlio è la freccia. Il giovane non vuole tutela. Deve fare il salto da solo. Sta invece agli adulti valorizzarne i talenti e le capacità” (citazione che riecheggia quella famosa di K. Gibran) è la traduzione di quanto scritto nel Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia: “Convinti che la famiglia, quale nucleo fondamentale della società e quale ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli debba ricevere l’assistenza e la protezione necessarie per assumere pienamente le sue responsabilità all’interno della comunità”. I genitori devono prendere come paradigma il binomio “crescita e benessere” (“crescita” è un concetto più individuale, mentre “benessere” ha anche una dimensione interpersonale) e non devono preoccuparsi e occuparsi solo dell’una o dell’altro tenendo conto altresì di essere all’interno di una comunità più vasta, a cominciare da quella parentale.

“Alcune famiglie non sono un progetto di vita, ma società a responsabilità limitata” (cit.): la famiglia è, invece, una società a responsabilità illimitata (come una società in nome collettivo). Famiglia è la parola chiave, semplice, non banale, ma costitutiva e linfa della vita. Il ruolo della mamma e del papà è quello di aprire il libro di una nuova storia e farsene carico. Una storia che i genitori non possono e non devono cancellare, ma possono e devono (perché frutto di una loro scelta o, comunque, esperienza) assumere per portarne insieme il peso.

La famiglia è una democrazia, per cui il pedagogista Daniele Novara scrive: “I nostalgici dell’autoritarismo possono solo mangiarsi le unghie, urlare contro il ’68, denigrarlo in ogni occasione, farlo passare per un movimento politico a sfondo comunista, ma la realtà è un’altra. Dopo cinquant’anni si può ben dire che «indietro non si torna», che la società del comando ha lasciato il posto a quella della condivisione e dello scambio. Furono i grandi educatori del ’68 a capire cosa stava veramente succedendo. Don Milani con Lettera ai giudici («l’obbedienza non è più una virtù»), Danilo Dolci con la critica dei leader, ma anche Mario Lodi che crea la storia di Cipì assieme ai suoi bambini”. Lo spirito di condivisione e scambio è stato introdotto nella disciplina della famiglia con la riforma del diritto di famiglia del 1975 che ha democratizzato la famiglia. Condivisione è considerazione dell’altro, confronto con l’altro che può pure comportare contrasto, conciliazione anche dei tempi di vita e di lavoro (si veda il Testo unico d.lgs. n. 80 del 15 giugno 2015 e successivi aggiornamenti), mentre non è concitazione di vita (tanto da dimenticare i figli sull’auto e dover essere resi obbligatori sulle auto i seggiolini e i dispositivi anti-abbandono con la legge n. 157 del 19 dicembre 2019) o connessione al mondo virtuale sino alla dipendenza. Le pietre miliari della condivisione in famiglia sono date dai tre articoli del codice civile letti durante il rito del matrimonio, artt. 143, 144 e 147, in particolare l’art. 144, quel concordato “indirizzo della vita familiare” cui si è tornati o si è stati costretti a tornare durante l’isolamento e le restrizioni a causa della pandemia. 

“Capita a volte che il padre si occupi della prole, un fenomeno abbastanza frequente fra i pesci” (la filosofa Simone de Beauvoir). Un padre che si occupa dei figli non è frutto di una “società capovolta” o della “famiglia capovolta”, ma deve essere esplicazione della paternità adeguatamente intesa, vissuta e condivisa come “proteggere, nutrire, mantenere, sostenere la famiglia” (secondo l’etimo di “padre”). La madre solitamente dà cura e cure e così col padre realizza quel binomio di cura e protezione (di cui all’art. 3 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) che è l’anima della genitorialità, che è connaturalmente bigenitorialità, sia con i genitori sotto lo stesso tetto sia con i genitori separati tra di loro. In molti casi si è passati dai papà assenti o monolitici a quelli mielosi (o pietosi). Tanto, per non dire tutto, dipende dalle donne in base al ruolo che rivestono loro e che, poi, consentono all’uomo che hanno accanto percorrendo la stessa linea educativa e genitoriale. Univocità non deve significare essere fotocopia l’uno dell’altra, altrimenti la famiglia diventa “monogenitoriale”. “[…] ogni fanciullo ha il diritto di avere dei genitori o, in loro mancanza, di avere a sua disposizione persone o istituzioni che li sostituiscano; il padre e la madre hanno una responsabilità congiunta quanto al suo sviluppo e alla sua istruzione; è loro obbligo prioritario procurare al fanciullo una vita dignitosa e assicurargli, nella misura consentita dalle loro risorse finanziarie, i mezzi per soddisfare le sue necessità” (punto 8.11 Carta europea dei diritti del fanciullo, 1992).

“In che modo Internet, smartphone, tablet e tutti i device di uso quotidiano cambiano la vita delle famiglie e le relazioni tra i loro vari componenti? Quanto incide il divario tecnologico tra le generazioni? Come amarsi ed educare i figli nella nuova era cibernetica? Siamo a un passo dall’ibridazione delle famiglie, in un mondo in cui virtuale e reale fatalmente si sovrappongono?”. Sono le domande chiave del Rapporto Cisf 2017 “Le relazioni familiari nell’era delle reti digitali”, ma dovrebbero essere pure le domande orientanti l’operato dei genitori e di altre figure con responsabilità, come per esempio il legislatore e i politici che determinano la politica legislativa che appare trascurare la famiglia. La famiglia ha bisogno di ogni attenzione e tanta attenzione da parte di tutti e ciascuno, dagli interessati ai politici.

Sei i modelli di famiglia (rispetto ai consumi mediali dei figli) evidenziati nel capitolo del Rapporto Cisf 2017 «Media digitali e social, educazione e famiglia»:

«1 – Famiglia restrittiva

Alto livello di controllo dei genitori (che leggono mail e messaggi dei figli, controllano la navigazione sul web) ma basso livello di educazione.

2 – Famiglia permissiva

È caratterizzata da un basso livello di educazione e da un basso livello di controllo (i genitori lasciano fare, non si pongono il problema).

3 – Famiglia affettiva

I genitori controllano poco quello che fanno i figli nel digitale ma hanno un alto livello di presenza educativa, che si manifesta attraverso l’aiuto costante nei confronti del figlio, la condivisione del consumo, la forte convivialità.

4 – Famiglia luddista

Poco frequente, è la famiglia che elimina i media dall’universo familiare, procrastinando sine die il momento dell’acquisto del primo smartphone ai figli. L’atteggiamento di controllo in questo caso è spinto alle estreme conseguenze, fino a configurare forme di vera e propria iconoclastia.

5 – Famiglia lassista

Anch’essa non molto rappresentata, non vede come i media digitali e sociali rappresentino un problema educativo, lascia fare, confida che comunque i propri figli siano sufficientemente attrezzati per cavarsela.

6 – Famiglia mediattiva

Rispetto alla famiglia affettiva, questo modello di famiglia è molto più attento alle pratiche dei figli, soprattutto alla loro elaborazione nella direzione dello sviluppo del pensiero critico».

Modelli che si addicono alla famiglia in qualsiasi ambito educativo.

Tra le nuove psicopatologie (i cui segnali o sintomi sfuggono ai genitori) cui possono essere soggetti i ragazzi vi sono il ritiro sociale web-mediato e l’uso compulsivo di videogiochi, il cyberbullismo e le sue interazioni, il poliabuso di sostanze e il gioco d’azzardo, come spiegato dallo psicologo Federico Tonioni (nel Rapporto Cisf 2017) e anche da altri esperti, tra cui don Antonio Mazzi. “La salute è creata e vissuta dalle persone all’interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si studia, si lavora, si gioca e si ama. La salute è creata prendendosi cura di se stessi e degli altri, essendo capaci di prendere decisioni e di avere il controllo sulle diverse circostanze della vita, garantendo che la società in cui uno vive sia in grado di creare le condizioni che permettono a tutti i suoi membri di raggiungere la salute” (da “Entrare nel futuro” della Carta di Ottawa per la promozione della salute, 1986). La famiglia è il primo ambiente organizzativo della vita quotidiana dove si ama, si gioca, si lavora, si studia: la salute e l’educazione alla salute passano anche e soprattutto mediante i gesti e riti quotidiani. E i genitori non si possono (e non si devono) deresponsabilizzare o accontentare che il figlio stia comunque in casa o che non faccia male ad altri o che non gli succeda di peggio in confronto ad altre situazioni. Famiglia e educazione è un binomio imprescindibile: quando si rompe questo binomio si hanno “lacerazioni” personali e sociali. “Contrastare le pratiche tradizionali lesive della salute e del benessere dei minori, che includono tutte quelle pratiche inumane, degradanti e crudeli condizionate o prodotte da fattori socioculturali, religiosi ed estetici (tra cui mutilazioni genitali femminili, tortura, schiavitù sessuale, poligamia forzata, aborto selettivo contro le bambine, matrimonio precoce, delitto d’onore, rapimento a fini di schiavitù), attraverso interventi mirati a modificare i modelli di comportamento sociali e culturali degli uomini e delle donne e che coinvolgano famiglia, scuola, comunità e società, in azioni di informazione, formazione, sensibilizzazione ed inoltre di sostegno a educazione, prevenzione sanitaria e terapia e profilassi delle conseguenze fisiche e fisiologiche e psicologiche, tutela legale dei diritti del minore leso” (dal punto 4.8 delle “Linee guida sull’infanzia e l’adolescenza”, a cura dell’AICS, Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, 2021). E i “fattori socioculturali, religiosi ed estetici” che possono ledere i diritti dei bambini non riguardano solo le “culture altre” ma anche quelle occidentali e vicine.

A proposito di “modelli di comportamento sociali e culturali”, secondo Daniele Novara: “[…] non c’è bisogno di barattare la paghetta con l’aiuto casalingo: quest’ultimo deve essere una necessità imprescindibile di collaborazione da parte di ogni figlio”. Famiglia: essere al servizio l’uno dell’altro, senza se e senza ma, oltre tutto e nonostante tutto. La famiglia dovrebbe essere culla di gratuità, gratitudine e graziosità, perché anche questo caratterizza la naturalità della famiglia di cui si parla nelle fonti normative tra cui la Costituzione: “[…] famiglia come società naturale” (art. 29 comma 1 Cost.). La famiglia deve essere “auditorium” e “laboratorium” di vita, in cui ci si mette l’uno nell’ascolto e al servizio dell’altro. Quando la famiglia perde questa connotazione possono intervenire quelle professioni che svolgono “relazioni di aiuto” (consulenza di coppia, mediazione familiare, orientamento familiare, …) per ripristinare le connaturali funzioni della vita, come fa la protezione civile. Nonostante tutto e tutti, la famiglia ha dei suoi connotati che si evincono anche dalla tutela penalistica (artt. 556 e ss. c.p. “Dei delitti contro la famiglia”) e che sono riemersi preponderanti durante la pandemia: esistenza di legami, domicilio domestico, ordine o morale riconoscibile, responsabilità non solo giuridica.

“C’è una sorta di legge sociale che fa sì che quel che non circola muore, come è per il Mar Morto e per il Lago di Tiberiade, che pur formati dallo stesso fiume, il Giordano, sono l’uno morto e l’altro vivo, perché il primo consegna tutta l’acqua per sé, il secondo la dà ad altri fiumi” (l’antropologo Jacques Godbout, 1992). Ogni famiglia deve farsi (e deve esserne consapevole) vivaio e non acquario.

La famiglia, “in-si-e-me”, “fa miglia”. 

La comunicazione in famiglia

La comunicazione in famiglia

di Margherita Marzario

Abstract: L’articolo scandaglia i meccanismi profondi della comunicazione intrafamiliare evidenziando percorsi virtuosi e circoli viziosi.

Tra genitori e figli (nella famiglia in generale) non dovrebbe esistere la telecomunicazione ma la comunicazione, non dovrebbe esserci un filtro tra i legami ma un feltro dei legami, invece così non è.

“La comunicazione non è un dato, ma un miracolo. Ma un miracolo che accade e ci fa desiderare di poterlo ripetere” (dal pensiero del filosofo Paul Ricoeur): così dovrebbe essere la comunicazione nella coppia sino ad estendersi alla comunicazione familiare. La comunicazione è ciò che arriva nel profondo e fa sì che non si cada nello sprofondo e non si subisca un affondo.

In base al secondo assioma della comunicazione dello psicologo Paul Watzlawick, in ogni comunicazione c’è un aspetto di contenuto ed uno di relazione. Il contenuto è cosa si sta comunicando. La relazione esprime il tipo di rapporto che quella comunicazione sottende (il classico esempio è la frase “Chiudi la porta”, che esprime un contenuto, cioè la richiesta di chiudere la porta, che a seconda del tono pacato o aggressivo rivela due tipi di relazioni diverse con l’interlocutore). La relazione è essa stessa comunicazione; e solo una relazione forte e significativa può dar senso al contenuto. Curare una buona ed efficace comunicazione nella coppia è garantire quell’assistenza morale e materiale di cui all’art. 143 comma 2 cod. civ. da cui discende pure l’assistenza morale che si deve ai figli (artt. 147 e 315 bis comma 1 cod. civ.).

L’art. 12 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia disciplina l’ascolto dei bambini nei procedimenti. Non bisogna attendere un procedimento per riconoscere ad un bambino la possibilità di essere ascoltato perché ogni giorno è un “procedimento”. Ah, se si ascoltassero di più i bambini! Anzi basterebbe osservarli (dal mangiarsi le unghie all’avere uno sguardo perso) o dedicare loro il silenzio (lontani da telefonate o altra routine). Uno dei problemi di oggi, e causa di parte dei problemi di oggi, è la mancanza degli adulti: molti fanno come i bambini che vogliono tutto, subito e senza sforzi ignorando responsabilità (“rispondere”) e sacrificio (“fare cosa sacra”), che sono richiesti dalla vita. I bambini, che hanno il diritto di essere bambini, per essere tali e per crescere come tali, hanno bisogno di avere accanto e di fronte adulti con cui confrontarsi e scontrarsi, da imitare e da cui distaccarsi.

Lo psichiatra Federico Tonioni scrive: “Ci sono delle responsabilità, questo è fuori dubbio. Ma a fare mea culpa dovremmo essere tutti noi adulti, perché l’era digitale l’abbiamo inventata noi, e perché siamo noi i primi a mettere nelle mani dei bambini telefonini, videogiochi portatili, applicazioni e tutto quanto è possibile per distrarli, viaggiare in macchina in silenzio e stare tranquilli. Lo facciamo anche a casa, perché non esiste una baby-sitter più funzionale e a basso costo di questi strumenti”. Spesso sono i genitori a indurre i figli verso le dipendenze tecnologiche con abitudini sbagliate sin dai primi mesi di vita: far mangiare i piccoli davanti a tablet, farli addormentare con dispositivi accesi, fotografarli o filmarli in continuazione, farsi vedere nel manipolare frequentemente congegni elettronici e altro ancora. I bambini dell’era digitale non sono diversi dagli altri bambini di qualsiasi altra epoca: hanno bisogno di attenzione ed emozione, relazione e comunicazione. E l’amore genitoriale ha sempre comportato fatica anche interiore e impegno quotidiano e non c’è nessun surrogato che susciti gli stessi affetti ed effetti.

I genitori devono: avere fermezza, che non è imposizione ma essere sicuri e dare sicurezza, stabilità, fiducia. Chiarezza nella comunicazione, ovvero né paroloni né spiegazioni scientifiche né edulcorazioni ma precisione in quel che si dice, specchio di quello in cui si crede e che si persevera. Regole: evitare il “non si fa così, perché si fa proprio così o perché lo dico io”, ma “facciamo così perché è più opportuno, più giusto, più…”, per inculcare rispetto, reciprocità e responsabilità, per indurre anche a pensare, reagire, contraddire, per far abituare al no che esiste nella vita e nei rapporti interpersonali, altrimenti si arriva a conseguenze estreme quando non si riesce ad elaborare fallimenti o rifiuti da parte degli altri (come suicidi o violenze sulle donne). Autorità, che non è autarchia o autocrazia, “qui comando io, scelgo io per te, decido io perché sono tuo padre o tua madre”, ma rivelarsi co-autori della vita, spingere all’autonomia, promuovere la vita, come fanno materialmente i genitori quando spingono le carrozzine o i passeggini o i figli in bicicletta o sull’altalena. Rigore, che non è rigidità, ma una “riga” di valori da conseguire e valori da perseguire, indicare un orizzonte. Severità, che non è infliggere sevizie. Rimproverare, che non è maltrattare o umiliare o mettere in punizione, ma richiamare al vero e bello della vita per sé e per e con gli altri.

Bambini e ragazzi non hanno bisogno di sermoni, predicozzi, paternali, ma di pratica, pratiche, prassi e prassia, anche nell’educazione all’ascolto da cui deriva, poi, l’obbedienza (basti analizzare l’etimologia di “ascoltare” – che è la stessa di “auscultare” – e di “obbedire”, verbi che fanno riferimento ad una dimensione interiore e interpersonale). La vita in famiglia deve essere una sorta di apprendistato in cui mettere mano in tutto ciò che serve per acquisire le competenze essenziali ed esistenziali (nel Preambolo e nell’art. 29 lettera d della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si dice che “occorre” o si “deve” “preparare il fanciullo”). Il pedagogista Daniele Novara spiega: “La capacità d’ascolto, così come la intende e la pretende il genitore dei nostri tempi, risulta molto difficile sia ai bambini che ai ragazzi. Entrambi lontani dalla concentrazione necessaria per fare proprie spiegazioni, incitazioni, esortazioni e quant’altro. Il discorso di due, tre minuti rischia di creargli solo confusione. L’adolescente vive nel bisogno di sfuggire al controllo dei genitori e, anche per lui, l’ascolto è un’impresa al limite del possibile. Meglio essere pratici”.

Il sociologo polacco Zygmunt Bauman precisa: “Il monologo è più sicuro di un dialogo. Impegnandosi in un dialogo, ciascuno di noi rischia di esporre la propria fiducia in se stesso ai capricci del destino, oppure al pericolo di perdere un confronto ed essere smentito. Sono tutte esperienze dannose per la stima di sé e per la pace spirituale, dunque sono di solito rigettate o possibilmente evitate. Piuttosto che affrontare gli azzardi del confronto, si preferisce quindi il monologo, che di solito va di pari passo con il negare diritto di parola a chi porta visioni e opinioni contrarie, che non vengono prese in considerazione seriamente”. I bambini vanno educati al dialogo per lo sviluppo armonico della personalità. Costruttive sono le esperienze artistiche e culturali, come si ricava dalla Carta dei diritti dei bambini all’arte e alla cultura (atto non prescrittivo presentato a Bologna nel 2011), in particolare dall’art. 13: “I bambini hanno diritto […] a una cultura laica, nel rispetto di ogni identità e differenza”. L’assurdo della vita (o di quella che, spesso, è una “non vita”) familiare di oggi: si deve parlare di diritto per far valere quella che dovrebbe essere una situazione normale, fondamentale, vitale, come la relazione con entrambi i genitori e conseguentemente con i nonni.

“Asservito in questo modo a una dimostrazione, il povero dialogo si svolgeva ammanettato di fronte a un tribunale invisibile. Invece dev’essere una creatura allo stato brado, il dialogo, e le sue parti possono avere tutte torto o venirsi incontro sulla spinta di istinti, sentimenti altre variabili” (Erri De Luca in “La doppia vita dei numeri”). Nella coppia e in famiglia si recuperi il dialogo e non si arrivi in tribunale per guardarsi in faccia e non riconoscersi più. Nelle difficoltà bisogna trovare insieme un passaggio e sostenersi per passare dall’altra parte, soprattutto se vi sono i figli che aspettano e s’aspettano che vada così.

In quasi tutte le fonti normative, a cominciare dall’art. 29 della nostra Costituzione, la famiglia è definita “naturale”, che deriva da “nascere”. La famiglia di oggi deve recuperare questa naturalità o naturalezza (che può chiamarsi “ortopatia”) e chiedersi da dove la famiglia nasca e cosa e chi faccia nascere e, per questo, è necessario o può rendersi necessario il sostegno di qualcuno che, in passato, era insito nel parentado o nel rapporto di vicinato. «La cultura diffusa tenta di inquinare addirittura le sorgenti dell’autentica comprensione dell’uomo e della donna. La famiglia si alimenta proprio della bellezza antica e sempre nuova della relazione della donna con l’uomo, e ciò presuppone un processo complesso di mentalizzazione obiettiva del maschile e del femminile fortemente radicato nella corporeità e nell’organizzazione emotiva dell’uomo e della donna. Oltre ad un’ortodossia, un’ortoprassi, ci serve oggi anche un’ortopatia, ossia una rinnovata capacità di equilibrio emotivo e relazionale nelle persone e tra le persone che compongono il sistema familiare. L’ascolto attento e competente offerto nei consultori familiari può molto contribuire a riarticolare il discorso familiare e la conversazione tra i coniugi e genitori. Riabilitare il dono della parola ed aiutare a verbalizzare emozioni e valori è la strada maestra della consulenza familiare e l’inizio di ogni percorso autenticamente terapeutico» (dagli Atti del XVIII Convegno Nazionale della CFC “Il futuro nelle nostre radici”, presso l’Università Cattolica a Roma, 14 aprile 2018).

La comunicazione è un bisogno e un diritto, è determinante per l’essere persona tanto che per la tutela di coloro che hanno qualche difficoltà esiste la Carta dei diritti della comunicazione (1992) e di comunicazione si parla diffusamente nelle “Linee guida sull’infanzia e l’adolescenza” (a cura dell’AICS, Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, 2021) e precisamente  vi è scritto che “La comunicazione svolge un ruolo fondamentale nella crescita e nel corretto sviluppo psico-fisico dei minori fin dalla più tenera età” (punto 4.9 “Comunicazione”).

Come nei casi di afasia c’è il coinvolgimento dei familiari per aiutare la singola persona per aiutarla ad uscire da questo stato così la famiglia faccia di tutto per uscire dall’afasia in cui è caduta: si torni a parlare, dialogare, comunicare e anche a litigare perché significa che ci si guarda, ci si considera, si “con-fligge” ma ci si ritrova.

ON MY MIND. The State of the World’s Children 2021

UNICEF/Rapporto salute mentale in Europa: 9 milioni di adolescenti (tra i 10 e i 19 anni) convivono con un disturbo legato alla salute mentale. Il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani (15-19 anni). 

Lanciata l’Analisi europea tratta dal rapporto “La condizione dell’infanzia nel mondo: Nella mia mente”. 

  • Circa 1.200 bambini e adolescenti fra i 10 e i 19 anni pongono fine alle loro vite ogni anno, ovvero 3 vite al giorno perse a causa di suicidi in Europa.  
  • In Italia si stima che il 16,6% dei ragazzi e delle ragazze fra i 10 e i 19 anni soffrano di problemi legati alla salute mentale.

15 ottobre 2021 – Secondo il nuovo rapporto lanciato oggi, l’UNICEF ricorda che il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani in Europa. Solo gli incidenti stradali causano più decessi tra i giovani tra i 15 e i 19 anni. Il rapporto mostra anche che il 19% dei ragazzi europei tra i 15 e i 19 anni soffre di problemi legati alla salute mentale, seguiti da oltre il 16% delle ragazze nella stessa fascia d’età. 9 milioni di adolescenti in Europa (tra i 10 e i 19 anni) convivono con un disturbo legato alla salute mentale; l’ansia e la depressione rappresentano oltre la metà dei casi.  

Mentre il COVID-19 continua a causare caos nelle vite, il Brief – un’analisi con focus sull’Europa del rapporto annuale dell’UNICEF “La condizione dell’infanzia nel mondo: Nella mia mente” – esamina le problematiche che colpiscono i bambini e la salute mentale e il benessere di bambini e giovani in Europa. Lo studio fornisce anche dati preoccupanti sullo stress cui sono sottoposti, insieme a chiare raccomandazioni per i governi in Europa e le istituzioni dell’Unione Europea. 

ALTRI DATI DEL RAPPORTO: Circa 1.200 bambini e adolescenti fra i 10 e i 19 anni pongono fine alle loro vite ogni anno, ovvero 3 vite al giorno perse a causa di suicidi in Europa.  La percentuale di suicidio nel 2019 fra i ragazzi è stimata di gran lunga maggiore rispetto alle ragazze, rispettivamente il 69% e il 31%, e la fascia di età più colpita è fra i 15 e i 19 anni (1.037 contro i 161 fra i 10 e i 14 anni).  La percentuale di problemi legati alla salute mentale per i ragazzi e le ragazze in Europa fra i 10 e i 19 anni è del 16,3%, mentre il dato globale nella stessa fascia di età è del 13,2%. Le nazioni con la percentuale maggiore in Europa fra le 33 prese in esame sono: Spagna (20,8%), Portogallo (19,8%) e Irlanda (19,4%), mentre quelle con la percentuale minore si trovano principalmente in Europa orientale: Polonia (10,8%), Repubblica Ceca (11%), Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia (11,2%). 
IN ITALIA: In Italia si stima che, nel 2019, il 16,6% dei ragazzi e delle ragazze fra i 10 e i 19 anni soffrano di problemi legati alla salute mentale, circa 956.000 in totale. Fra le ragazze, la percentuale è maggiore (17,2%, pari a 478.554) rispetto ai ragazzi (16,1%, pari a 477.518).   

“La pandemia da COVID-19 ha evidenziato diversi fattori che hanno messo a rischio la nostra salute mentale: isolamento, tensioni familiari, perdita di reddito”, ha dichiarato Sua Altezza Reale la Regina Mathilde del Belgio, che oggi interverrà alla presentazione del Brief all’Unione Europea a Bruxelles. “Troppo spesso i bambini e i giovani portano il peso di tutto questo. Dobbiamo investire tempo, sforzi e impegno per rafforzare e migliorare la nostra salute mentale e i sistemi sociali per garantire a ogni bambino accesso al benessere mentale e un’infanzia felice.”  

 “L’analisi europea offre una triste lettura, ma diverse e chiare raccomandazioni,” ha dichiarato Geert Cappelaere, Rappresentante UNICEF per le Istituzioni dell’Unione Europea. “Ora sappiamo che non agire ha un costo elevato – in termini di peso sulle vite umane, sulle famiglie, sulle comunità ed economici – e anche che ci sono chiari interventi che i governi nazionali delle Istituzioni dell’Unione Europea, le famiglie e le scuole possono intraprendere. Lì si deve focalizzare la nostra attenzione.”  

La nuova analisi del Brief europeo “La condizione dell’infanzia nel mondo: Nella mia mente” indica che la perdita annuale di capitale umano che deriva dalle condizioni generali di salute mentale in Europa tra i bambini e i giovani tra 0 e 19 anni è di 50 miliardi di euro*.   

“Questo rapporto arriva in un momento molto importante per i bambini e i giovani, registra una crisi che è stata tristemente costruita, ma ho paura per ciò che verrà. Questa crisi è stata peggiorata dalla pandemia. I politici e gli adulti hanno l’opportunità di fare qualcosa adesso. Investite su di noi ora, prima che sia troppo tardi. Permetteteci di non essere la generazione perduta del COVID-19″ (Erika, 17 anni, Irlanda). 

“La scuola non dovrebbe essere soltanto studio, è un luogo dove possiamo imparare a costruire società sane. Programmi di sostegno nelle scuole per poter parlare apertamente con i gruppi di coetanei su ciò che ci stressa, sul nostro benessere, funzionano. Abbiamo delle soluzioni, abbiamo solo bisogno che vengano considerate prioritarie e implementate in modo efficace” (Elliot, 16 anni, Irlanda). 

“La pandemia da COVID-19 è anche un’emergenza di salute mentale che ha conseguenze su bambini e giovani in Europa,” ha dichiarato Stella Kyriakides, Commissario Europeo. “Una vera Unione della Salute Europea aiuterà a investire lì dove è più necessario: per promuovere una salute mentale positiva e accedere a un sostegno per i nostri bambini – il futuro dell’Europa.” 

Oltre agli investimenti sull’assistenza all’infanzia di qualità, sulla genitorialità e sulle misure per le famiglie in tutti i settori, l’UNICEF identifica 5 interventi prioritari per le istituzioni europee e i governi nazionali: 

  1. Supportare interventi per facilitare l’accesso dei gruppi vulnerabili a servizi per la salute mentale e fornire migliori infrastrutture regionali. 
  2. Includere l’accesso ai servizi per la salute mentale nei piani di azione nazionali, anche sfruttando le opportunità offerte dalle tecnologie digitali e online per ridurre i gap nell’accesso al supporto per la salute mentale. 
  3. Fornire programmi a scuola per diffondere consapevolezza e capacità di adattamento emotivo per gli adolescenti; integrare servizi di consultorio per la salute mentale; formare insegnanti e staff scolastico; creare spazi sicuri per i bambini di confronto e condivisione. Integrare programmi di genitorialità positiva che prevengono la violenza domestica. L’Unione Europea dovrebbe supportare iniziative per “l’apprendimento sicuro” per porre fine alla violenza a scuola e tramite la scuola affinché i bambini si sentano liberi di imparare, crescere e realizzare i propri sogni.  
  4. Investire risorse adeguate per formare gli operatori sanitari e sociali sulla salute mentale per supportare i servizi per i bambini che migrano. 
  5. Incorporare azioni mirate sulla salute mentale e il benessere psicosociale nell’assistenza ufficiale per lo sviluppo dedicata allo sviluppo umano, così come nei programmi umanitari di preparazione, risposta e ripresa per rispondere ai bisogni di tutte le popolazioni colpite da emergenze, compresa la protezione dell’infanzia durante crisi umanitarie. 

È possibile seguire l’evento in diretta streaming del lancio del brief sull’Europa della pubblicazione dell’UNICEF “La condizione dell’infanzia nel mondo: Nella mia mente” oggi (15 ottobre) dalle 10 alle 11 al link: https://webcast.ec.europa.eu/unicef-state-of-the-worlds-children-report-on-mental-health 

*Lista dei paesi compresi in questo calcolo: Austria, Belgio, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Islanda, Irlanda, Italia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito. I dati si riferiscono alla parità di potere d’acquisto in dollari. 

Note. Le stime sulle cause di morte tra gli adolescenti sono basate sui dati del Global Health Estimates 2019 dell’OMS. Le stime sulla prevalenza delle diagnosi dei disturbi mentali sono basate sul Global Burden of Disease Study dell’Institute of Health Metrics and Evaluation’s (IHME).   

Costruire il benessere a scuola

Costruire il benessere a scuola: la mediazione come strumento di regolazione del clima scolastico

Mariacristina Grazioli

Nell’ambito delle pratiche di accompagnamento verso un nuovo sistema di prassi educative e organizzative del sistema scolastico, la ricerca verso attività significative per il miglioramento del clima scolastico ha necessità di una nuova visione. Tra queste le frontiere della mediazione nella classe e a scuola rappresentano un’avanguardia assoluta da esplorare.

In Italia la complessità sociale che riverbera sul microsistema scolastico ha raggiunto livelli tali da richiedere un intervento sistemico. Non è più procrastinabile l’idea che la cura del clima scolastico sia relegata a una mera aspirazione: il benessere a scuola, come peraltro il benessere personale, va messo al centro dell’azione organizzativa.

Oggi occorre una presa di coscienza collettiva sulla nuova cultura della mediazione, da intendersi come strumento essenziale per pacificare i contesti, prima ancora che per pacificare i conflitti.

La mediazione è fondamentale per garantire un’azione riflessiva destinata a elevare la qualità del lavoro professionale, e capace di attribuire una nuova consapevolezza alle relazioni tra le persone che vivono contesti strutturati.

L’azione mediativa – come nuovo scenario culturale- è prioritariamente finalizzata alla prevenzione dei conflitti e alla riduzione delle tensioni, e questa opportunità consente il cambiamento oggettivo del senso profondo dell’agire scolastico. La mediazione assume quindi il valore di una vera occasione di rimodulazione del pensiero costruttivo, al fine di dare strumenti attivi di composizione dei conflitti e gestire la complessità in senso generale.

La stratificazione “plurilivello” negli ambienti scolastici (e i relativi elementi di distonia) rappresentano solitamente un elemento negativo; purtroppo ora assistiamo – con la ripresa della scuola in presenza dopo le urgenze emergenziali- a sostanziali dialoghi mancati, a zone d’ombra, a setting educativi “erosi”.

Mediare- inteso come strumento concreto ed organizzato presso ciascuna istituzione scolastica e come prassi di comunità- potrà ascriversi a utile area di approfondimento delle motivazioni profonde del «fare» professionale; l’atto “mediativo” costruisce senso di comunità a produce consapevolezza e perciò esso stesso è anche atto formativo.

Il “conflitto” nella nuova società pandemica può offrirsi come “occasione”? Certo, se lo sguardo istituzionale consente questa sorta di “ribaltamento delle visioni”. Ma occorre che il conflitto o la conflittualità in genere diventi un oggetto di un intervento collettivo, una presa in carico dell’intera organizzazione. In tal senso l’esperienza professionale della mediazione -come attività preordinata alla composizione delle situazioni di crisi tre persone e tra contesti- rappresenta un nodo indiscutibile di riflessione permanente e garantisce una “auto conduzione” verso pratiche assai significative.

Agire in un’ottica di mediazione consapevole e partecipata, genera un’ attenzione valoriale per il Sistema; dunque le persone che abitano le nuove architetture educative se ne assumono una responsabilità formale e sostanziale e possono avvicinarsi al concetto di mediazione come azione trasversale, fondamentale per la relazione pedagogica , per lo sviluppo dei diritti di cittadinanza attiva a livello istituzionale e per imprimere all’ organizzazione una forte evoluzione nel senso della coesione interna ed esterna.

L’azione scolastica in senso “mediativo” consente anche di sanare un essenziale senso di deprivazione del potere educativo, oggi sempre più diffuso in capo alla famiglia, offrendo scenari utili al cambiamento di prospettiva. In tal senso, la scuola «mediativa» non toglie spazio alla scelta educative delle famiglie, ma si affianca ai loro progetti di vita, creando un eco-sistema virtuoso, dove parlare di «comunità educante» ha finalmente un senso tangibile e un significato concreto.

La mediazione, come prassi di composizione dei conflitti, consente alle scuole di agire sull’ impatto sociale e, dunque, agisce a livello di immagine sociale. La mediazione sposta l’attenzione dall’oggetto educativo al percorso didattico soggettivo. Si esce dunque dalla logica del prodotto didattico e si attribuisce maggiore attenzione alla comprensione profonda delle motivazioni di ciascuno e ciò al fine di raggiungere una reale personalizzazione educativa.

In maniera più specifica occorre prendere consapevolezza che i tempi sono maturi per cambiare visione istituzionale e per realizzare scelte strategiche: è bene che i sistemi educativi operino una scelta di struttura al fine di integrate la prassi della mediazione a qualunque livello. La missione dirigenziale ha tutto l’interesse ad orientarsi sulle azioni necessarie per lo sviluppare un modus operandi nuovo: occorre una nuova funzione professionale, capace di abilitare condotte riflessive nell’ organizzazione e per l’organizzazione. A livello di classe anche i docenti traggono interesse ad abilitarsi alle tecniche mediative, ed in generale ad avere a disposizione team, gruppi o referenti che supportano la funzione docente alle prese con la complessità del sistema scuola.

Il mediatore inserito a più livelli nel microclima scolastico interviene su tutti i campi e su tutte le dimensioni, ma soprattutto interviene sulle persone che abitano a pieno diritto le scuole: studenti, docenti, famiglie.

Un primo livello di intervento va necessariamente nella direzione della diffusione della cultura della mediazione e del sostegno dell’agito mediativo tra ruoli, tra funzioni, tra soggetti e persone in una visone di pari che si autoregolano.

È importate chiarire che la mediazione è una strategia ma soprattutto una scelta personale che richiede una volontà precisa, ossia quella di accrescere il potere e le linee di dominio di ciascuno incrociando le prospettive tra pari. La mediazione a livello culturale rinuncia all’idea della gerarchia tra le soluzioni o, meglio ancora, critica l’idea dell’unicità della soluzione. L’atteggiamento mediativo punta alla piena consapevolezza che possano coesistere più soluzioni ad un problema e che, in modo altrettanto consapevole, si possa agire con un pieno diritto di scelta responsabile. Il cuore propulsivo della mediazione risiede in una condizione di libertà, ossia quella per cui i soggetti in conflitto possono trovare, o meno, un accordo considerato conveniente per entrambi.

Il mediatore sa agire con consapevolezza ed intenzione tra due situazioni differenti, le parifica nelle loro asimmetria ipotetica, non assume mai la funzione di giudice e sviluppa la funzione di conduzione verso una esplorazione coerente con l’obiettivo della composizione.

In questa ottica, nel sistema scolastico la prima grande area dove potere sperimentare il percorso di mediazione con concretezza è la classe. Qui la pratica di mediazione sostiene un percorso di controllo e sviluppo del clima tra pari in un’ottica di benessere. Il circuito virtuoso della mediazione genererà un senso di partecipazione collettiva al senso di stima di sé delle persone che di mettono in gioco nella dimensione mediativa.

I temi chiave delle mediazioni sono riconducibili a delle azioni chiare e consapevoli. La prima è l’ascolto al fine di trarre le condizioni essenziali per agire sulla complessità dei conflitti. l’ascolto contribuirà alla ricerca delle soluzioni e potrà abilitare la successiva azione di traduzione delle posizioni e riformulazione delle istanze. Attraverso un dialogo attivo, privo di pregiudizi, il mediatore attribuisce potere a tutte le parti e delinea gli aspetti asimmetrici delle questioni. Dunque il cuore dell’azione mediativa è rappresentata dal dialogo pacificante, un dialogo dove il mediatore promuove un incontro dialogante generativo di nuove posizioni in seno all’organizzazione scolastica.

La mediazione come prassi di composizione dei conflitti restiuisce di una immagine sociale di scuola pacificante, dialogante, generativa di senso. In questa prospettiva l’auspicio è che i vertici nazionali facciano tesoro delle esperienze internazionali, in particolare di quelle francesi, che hanno già sperimentato il modus operandi. Auspicabile anche è una azione di sensibilizzazione dei territori alla pratica, con attività formative capillari di valorizzazione delle professionalità che, nel contesto scuola dell’emergenza, hanno – talvolta silenziosamente ma efficacemente- offerto il servizio di mediazione come atteggiamento istituzionale e professionale e infine personale.

Genitorialità a misura di bambino

Genitorialità a misura di bambino

di Margherita Marzario

Abstract: Il contributo ci interroga sul senso profondo dell’essere genitori scavandone due aspetti essenziali, generatività e generosità

In passato si parlava di maternità e paternità, attualmente si parla di genitorialità in ogni ambito, da quello psicologico a quello legislativo. Ma cos’è la genitorialità? Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, scrive: “Il concetto di generatività ha anche un notevole peso dal punto di vista sociale, se lo si intende non soltanto come la capacità di mettere al mondo, di curare e custodire i propri figli, ma anche come una tensione proattiva che, all’insegna della gratuità, potenzia la dimensione relazionale a ogni livello e promuove la convivenza sociale. Si tratta di passare da una generatività tutta interna al nucleo familiare a una onnicomprensiva, in cui risultino in primo piano gli obblighi della società intera nei confronti delle nuove generazioni. È la società in cui viviamo che dovrebbe prendersi responsabilmente cura dei giovani, offrendo loro la possibilità di realizzare se stessi, di raccogliere il patrimonio del passato, di arricchirlo con le conquiste del presente e di trasmetterlo a loro volta a chi verrà dopo di loro”. Anziché pretendere di avere figli a tutti i costi, oltre una certa età e in qualsiasi condizione (per esempio con lo sperma di “padre” premorto), bisogna riappropriarsi della generatività sociale che si esprime nella responsabilità e corresponsabilità di tutti i figli che già ci sono. Dalla generatività scaturisce la genitorialità e non il contrario.

I figli, sin dal concepimento, non sono un diritto e, pertanto, i genitori devono accettare e saper accettare qualsiasi insuccesso generativo e/o generazionale. La genitorialità potrebbe essere considerata un’obbligazione di “mezzi” e non di “risultato”. Genitorialità è porsi continuamente domande, il più delle volte senza risposta, e dare risposte a domande, spesso assurde, poste dalla vita, perché i figli sono vita, vita in divenire, vita dell’avvenire. Fra Danilo Salezze, fondatore di una comunità terapeutica, fa notare: “«Sofia, Andrea, Luca…, ma perché ci hai fatto questo!?». Da tanti anni sento questa domanda di padri e madri a figli non «conformi»: a volte la droga, altre volte scelte di lavoro o di relazioni affettive che non vanno giù… e quant’altro. Altra domanda, senza risposta: «Ma dove abbiamo sbagliato con lui!?», immaginando che, interrogando il passato e magari un «esperto», si possa sanare un brutto equivoco. […] Niente di più umano di questa domanda senza risposta, perché ha a che fare con un inestricabile groviglio di casualità, inconvenienti educativi, influenze di tutti i tipi; ma è connessa anche al filo rosso della «volontà di esistere» che ogni individuo porta con sé nella vita. A pensarci bene è una domanda rivolta in fondo a ogni individuo: qual è il tuo destino, cioè la stella che ti sta guidando con irresistibile forza?”.

Marino Maglietta (presidente dell’associazione nazionale “Crescere Insieme” e “padre” della legge 54/2006 “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”, comunemente detto affido condiviso), richiama: «I bambini stanno bene se stanno bene entrambi i genitori. La separazione impoverisce la famiglia separata quando la distribuzione degli oneri non è equa. […] Da una parte il genitore collocatario con i figli e dall’altra il genitore residuale. Che è un’appendice cui si chiede di produrre ma cui molto spesso non si permette di avere le condizioni per farlo. Se un padre non ha nemmeno un alloggio decente dove accogliere i figli e deve produrre solo per dare più soldi alla persona da cui si è separato non sarà molto propenso a darsi da fare…[…]. Perché, al momento, in realtà tra la collocazione prevalente e il meccanismo dell’assegno e la riduzione dei tempi di visita,di “condiviso” non esiste nulla. Non abbiamo elementi per dire se la legge “funziona o non funziona”» (ottobre 2017). In caso di separazione e divorzio continua ad esserci conflittualità esacerbata e disparità di trattamento delle figure genitoriali perché, da più parti, è trascurata – per non dire calpestata – quella che è la cultura costituzionale della famiglia, a cominciare dal principio solidaristico dell’art. 2 della Costituzione di cui la genitorialità (che è connaturalmente bigenitorialità, senza che vi sia bisogno di denominarla in tal modo), disciplinata nell’art. 30 Cost., è l’espressione basilare ed esemplare. Soprattutto si dimentica che i figli non valgono soldi, quote, percentuali, “principio di proporzionalità” (art. 337 ter cod. civ.) o altro ma valgono e rappresentano quello che non si può comprare né trattare: la vita data e la felicità ricevuta dalla stessa.

La giornalista Renata Maderna sottolinea: “Come insegnava san Francesco di Sales […]: «Non bisogna né spezzare le corde, né abbandonare il liuto, quando ci si accorge della discordanza; bisogna porgere l’orecchio per vedere da dove viene lo squilibrio, e con dolcezza tendere la corda o allentarla secondo quanto richiesto dall’arte della musica». Che ha molto in comune con quella di fare i genitori. Veri e non di carta”. La genitorialità è un’arte e, come ogni arte, comporta fatica, impegno, tempo, passione, errori, tentativi, collaborazione con gli altri adulti responsabili dei bambini.

“Ogni adulto è figlio del bambino che è stato” (cit.). Si è figli non solo dei genitori, ma anche delle modalità di esercizio della loro genitorialità – in virtù della teoria dell’imprinting – e delle altre figure di riferimento, cosiddetta genitorialità sociale (in senso lato). “I genitori o le altre persone aventi cura del fanciullo hanno primariamente la responsabilità di assicurare, nei limiti delle loro possibilità e delle loro disponibilità finanziarie, le condizioni di vita necessarie allo sviluppo del fanciullo” (art. 27 par. 2 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

“Assicurare le condizioni di vita necessarie allo sviluppo del fanciullo” prevede anche il rispetto e la tutela dei diritti personalissimi o della personalità del bambino. “Il diritto del minore alla riservatezza prevale sul diritto di cronaca e neanche il consenso dei genitori autorizza il giornalista a divulgare informazioni che possano nuocere al suo sviluppo” (dalla Relazione annuale – anno 2016 – al Parlamento del Garante nazionale per la privacy). I primi a dover rispettare e garantire il diritto alla riservatezza dei bambini sono i genitori, per esempio fotografando o filmando di meno i figli (consentendo loro di vivere a pieno quel momento) e non pubblicando le foto nei “social network”. La genitorialità, in particolare la paternità, deve esplicarsi nella giusta distanza, deve astenersi ma non assentarsi, deve sostenere il figlio e non sostituirlo, aiutarlo e non assillarlo, ovvero deve assisterlo moralmente (artt. 147 e 315 bis comma 1 cod. civ.). “Bisogna restare un passo indietro. Bisogna esercitare una castità paterna, a rischio di essere deludenti, meglio, piuttosto che diventare indispensabili” (don Fabio Rosini).

“Cerca di trovare quanto di meglio c’è in una persona e diglielo. Tutti possiedono qualcosa che merita di essere lodato. Le lodi significano comprensione. Impara a vedere la grandezza del tuo prossimo e vedrai anche la tua” (lo scrittore Kahlil Gibran): quello che si deve insegnare ai bambini, quello che si deve imparare dai bambini. Rivelarsi ai bambini semplicemente per quello che si è nella quotidianità è il primo esempio che si possa dare ai piccoli, perché anche loro manifestino il meglio da adulti. Restare bambini, restare se stessi: questo il compito più difficile della vita, quello che chiede la vita, la vera educazione alla vita. Metodo di insegnamento affinché diventi metodo di apprendimento, metodo di vita (etimologicamente “metodo”, da “andar dietro per ricercare”). Anche la genitorialità deve essere trasmettere la vita e fornire un metodo di vita.

“Genitorialità” ha la stessa origine etimologica di “generosità”: “La generosità, come sappiamo – precisa il filosofo Adriano Fabris -, consiste nel saper dare senza che ci si aspetti un contraccambio. Chi è generoso offre qualcosa di ciò che possiede, magari tutto quello che ha, e lo fa con animo lieto. […] Ma nell’esperienza della generosità c’è più che la manifestazione di un buon carattere. C’è il farro che un gesto generoso rende più bella e più buona ogni relazione con gli altri, e contribuisce a migliorare il mondo. Ecco perché, se chi è generoso non ha nulla da dare, allora offre, magari, qualcosa di sé. Offre non quello che possiede, ma quello che è”. La genitorialità è darsi e dare, dare alla vita e dare la vita, è educazione alla generosità.

Quella generosità che è traboccante del bello e del buono, come descrivono Chiara ed Edoardo Vian, esperti di famiglie in difficoltà: “Gioia e allegria affiorano nel nostro cuore quando accettiamo di ridiventare un po’ bambini, quando decidiamo di rinunciare al controllo, al calcolo, alla logica produttiva per lasciare spazio al gioco, alla sorpresa, alla parte più genuina e più limpida che c’è, magari latente o coperta, ma pur viva, dentro di noi”. Così dovrebbe essere la genitorialità, fonte di vita e di biofilia, quell’amore per la vita e tutto ciò che è vivo.

“Attendere e lavorare nella grande veglia della vita, dilatare giorno dopo giorno gli occhi del cuore e con umiltà intuire la salvezza che arriva da ogni dove” (cit.): questo il senso profondo della genitorialità.

Identità e diversità

Identità e diversità

di Maria Grazia Carnazzola

1. Diritto di nascita.

Alcino a Odisseo “Dimmi il nome con cui ti chiamano tuo padre e tua madre e quelli della tua città e coloro che vivono intorno”. “Sono Odisseo, figlio di Laerte”. In quell’universo raccontato nell’Odissea, che rappresentava se stesso e consentiva a ciascuno di rappresentarsi al suo interno, bastava il riferimento all’origine per connotare l’identità: un’identità data per intero alla nascita e immutabile fino alla morte, declinata nel paradigma dell’appartenenza. Il progetto esistenziale di ciascuno non dipendeva dalle volontà dei singoli, ma era controllato dalle tradizioni, dall’appartenenza familiare e sociale…con qualche rara eccezione, come ad esempio nell’antica Roma durante le feste decembrine in onore di Saturno, o in occasione del carnevale, feste che consentivano un travestimento e in cui la maschera era il veicolo della temporanea trasformazione. I carnevali e le maschere li abbiamo anche oggi, ma non si limitano a qualche periodo dell’anno. Oggi ciascuno ha, quasi sempre, la possibilità di essere l’artefice della propria identità, attingendo a un mercato di opzioni che possono condurre a continui e a volte paradossali modificazioni del corpo, della mente e dei comportamenti. Qualche volta può essere difficile scegliere, perché ogni scelta può tramutarsi in rimpianto; sappiamo che l’identità non è un “fatto” definitivo, ma un processo di continua ridefinizione delle combinazione di diverse componenti presenti contemporaneamente- familiare, etnica, religiosa, professionale, di gruppo- che possono interagire per diventare un progetto di vita- o esistenziale( Nietzsche, Heidegger…) , oppure diventare una successione di trasformazioni intercambiabili non finalizzate, fini a se stesse, con il rischio di adottare uno stile di vita frammentato che sfocia nella precarietà.

2. Gli elementi costitutivi.

L’elemento più problematico del concetto di identità è che con un’unica parola ci si riferisce contemporaneamente a ciò che è uguale a sé e a ciò che è diverso dagli altri: una persona ha caratteristiche proprie che la rendono differente da altre persone perché l’identità nasce dal rapporto dell’individuo, e della sua storia, con gli altri. Si possono individuare quattro grandi aree concentriche a cui fanno capo le identità. L’area dell’individualità a cui afferiscono i progetti e gli interessi personali; quella della socialità primaria (famiglia, scuola, lavoro…) che incide fortemente sui nostri atteggiamenti e comportamenti. C’è poi l’aspetto che identifica ciascuno di noi come membro di un macro-soggetto collettivo: identità etnica, religiosa, nazionale…, che costituiscono l’dentità secondaria, che si sovrappone a quella primaria; da ultimo, siamo parte di “una parte” di mondo- cultura occidentale, Europea…- e della specie umana. L’interrogativo che connota la prima area è “chi sono io”, domanda a cui solo l’individuo che se la pone può dare una risposta. Per le altre tre l’accento si sposta perchè sono largamente riconducibili alle domande “chi sono io per gli altri e chi sono gli altri per me”, in questi casi ciascuno risponde a seconda del peso che attribuisce alle diverse appartenenze: sono italiano, europeo, straniero, cattolico…

William James, il primo ad affrontare in modo sistematico il tema dell’identità, in una felice metafora sosteneva che l’identità è un torrente che ha confini ben netti nei confronti dell’ambiente che lo circonda, ha continuità nella sua lunghezza, si muove autonomamente sotto il proprio peso e impeto. La perdita di uno o più di questi aspetti del senso di identità genera disagio, senso di depersonalizzazione, ansia, a volte panico. In questo senso l’identità costituisce uno sforzo costante per trasformarsi senza contraddirsi, cosa non proprio facile.

3. No alla discriminazione, ma anche no all’ostentazione.

Zigmunt Bauman ne “La società dell’incertezza”, riprendendo un’affermazione di Richard Sennet, sostiene che “ … un uomo o una donna possono divenire nel corso della loro esistenza come stranieri a se stessi, assumendo atteggiamenti o percependo sentimenti che non si adattano al quadro di riferimento della propria identità fornito dai caratteri sociali apparentemente fissi della razza, classe, età, genere o etnia”. Nel corso della vita può capitare di perdere un’identità e di acquisirne un’altra: è un percorso complesso che ciascuno compie a partire dai primi anni di vita e che inizia ancora prima della nascita nell’immaginario dei genitori. L’abbozzo della propria identità avviene mentre si impara a riconoscersi come individuo distinto, apprendimento che avviene inizialmente attraverso il corpo dove si localizzano le tensioni, le sensazioni e le emozioni. Con l’emergere dell’identità corporea compare anche quella di genere e l’interesse per i modelli di femminilità e di mascolinità che si incontrano. Quello che avviene a livello motorio, sensoriale ed emotivo, avviene anche a livello cognitivo, in un movimento di relazioni fatto di opposizioni e di avvicinamenti, di aperture e di chiusure, di assimilazioni e di differenziazioni. Il ruolo dell’identificazione (con familiari in primis, altri adulti, amici, coetanei, con gli ideali culturali…) è fondamentale per l’interiorizzazione di norme e di modelli di comportamento che permettono dapprima di definire un “noi” e successivamente di riconoscere la propria identità, intesa come espressione della propria singolarità, nel pieno rispetto della singolarità dell’altro. I diritti sono i diritti civili uguali per tutti, non sono i privilegi. Gli stranieri, gli omosessuali, le persone con disabilità sono uomini e donne con le loro particolarità, cittadini e non specie protette come a volte alcune iniziative di questo o di quel partito possono far pensare. Così come le tutele giuridiche non sono sinonimo di uguaglianza sostanziale che può essere garantita solo attraverso l’educazione; e la prima istituzione educativa rimane la famiglia, nell’accezione più larga del termine. Ho letto e riletto il testo del DDL Zan, di nuovo rispetto a quanto contenuto nella Costituzione ho trovato solo parole. Wittgenstein aveva riconosciuto che il linguaggio non è isomorfo al mondo: aggiungere parole non è arricchire la realtà, così come modificarle o toglierle non significa cambiarla, ma con le parole si narra, si rappresenta una realtà che può essere diversa da come viene narrata. In questo caso specifico mi pare si confondano le cose, a discapito di persone che forse non intendono esibire le proprie specificità ma vogliono proteggere la propria privacy e vivere la vita come è diritto di tutti. Maschio e femmina sono evidenze biologiche; uomo e donna sono identità soggettive che riguardano il percorso individuale in un contesto culturale che situa la memoria e la storia di ciascuno, percorso che va rispettato e garantito sempre. Solo la conoscenza e l’educazione possono renderlo possibile. È evidente che nella collettività deve crescere il senso di rispetto e di responsabilità dei comportamenti, perché non si generino pensieri infausti di discriminazione o di darwinismo inconsapevole, o, ancora, di sgretolamento progressivo dei valori perché ciascuno guarda il suo cortile e si sgancia dalla comunità. Il DDL Zan potrebbe rappresentare un’occasione di riflessione per tutti e non occasione di ostentazione, in un senso e nell’altro, perché da una parte ci possono essere discriminazioni e offese vere, dall’altra l’eventualità di doversi discolpare senza prova della colpa, creando di fatto lo scontro di due diritti. Ovviamente non si può costringere alla responsabilità, ma si può insegnare a vedere nella responsabilità un guadagno per tutti.

4. Identità soggettiva e identità culturale.

Il concetto di identità soggettiva- conscia e inconscia- si combina con quello di identità culturale che è forse il primo aspetto fondante di ogni percorso di educazione-formazione-istruzione. Tornando alla citazione di Sennet, è evidente che l’insegnamento deve confrontarsi con la trama del concetto polimorfo di identità che si costruisce in contesti storici, geografici, culturali, con le dimensioni esistenziali delle esperienze soggettive e collettive, con il sistema dei valori e dei simboli. Per dirla con Claude Lévi-Strauss “il tema dell’identità si situa al punto di confluenza non di due semplicemente ma di più strade insieme, interessa praticamente tutte

le discipline” perché la cultura include i saperi, le credenze, l’arte, la morale, il diritto il costume e ogni altro aspetto che riguarda i membri di una società. Affrontare “scientificamente” i dibattiti presenti nella società permette ai ragazzi di comprendere il significato e il senso di quanto accade intorno per farsi un’idea che permetta loro di operare delle scelte e di assumersi impegni e responsabilità, nei confronti di sé e degli altri. Intraprendendo quel passaggio dalla totale accettazione dei valori parentali, alla fase di diffusione dell’identi, a quella di moratoria e di giovane adulto (E. Erikson) che consente di fare scelte strategiche, compromessi, transazioni, di accogliere tensioni e conflitti chiedendosi sempre “perché”. Di impegnarsi nello sforzo di realizzare una continuità nel cambiamento: da quello che si era a quello che si pensa di essere nei progetti per il futuro, preparandosi ad assumere il ruolo che altri, intorno a lui, già ricoprono. Percorso non semplice in questo tempo che è fondato più sul consumo (anche delle identità) che sulla produzione: quando si è convinti che la propria identità possa essere cambiata, aggiustata, modificata, allora si può diventare ansiosi perché non sicuri di aver fatto la scelta giusta e si avverte il bisogno di ottenere il riconoscimento degli altri e la validazione dell’identità esibita.

5. L’impercettibile erosione dei principi democratici.

Rendersi conto di chi si è, di dove si vive, di quello che succede e di ciò che si fa è il primo passo, ma non basta: mostrarsi inclusivi per definirsi progressisti, non significa esserlo realmente. C’è la necessità di allargare e approfondire il discorso attraverso il confronto e la mediazione, per una visione “dall’alto” che permetta di guardare gli eventi del reale nella loro complessità. Il rischio è di far sempre più posto al sensazionale a discapito del normale, presentando come nuove cose che nuove non sono e disorientando con l’eccesso e l’incalzare insostenibile delle informazioni. La sostenibilità non riguarda solo l’ambiente: è per noi, per la vita. Verifichiamo ogni giorno come l’ambiguità eroda impercettibilmente i principi democratici e la fiducia nelle Istituzioni. Si può normare tutto, sanzionare- giustamente- comportamenti offensivi, ma il rispetto e la responsabilità sono valori che passano attraverso l’esempio, sono frutto e oggetto dell’educazione. Insegnare ad essere “pro” e non “anti” potrebbe essere un inizio, ma per insegnarlo bisogna saperlo fare: i pavidi, gli indecisi, possono insegnare il coraggio?

Che la Scuola debba contribuire all’educazione è pacifico: sul cosa insegnare probabilmente siamo quasi tutti d’accordo, il problema rimane il come, per “costruire” la consapevolezza;

– che la bontà di una legge non si giudica dalle intenzioni di chi la propone, ma dagli effetti che produce; che gli effetti sono le conseguenze fattuali e non sono gli obiettivi; che i fatti – in sé- non sono né morali né amorali. Che il diritto dovrebbe rappresentare il punto di equilibrio tra posizioni sociali anche contrapposte, indipendentemente dal peso del partito o gruppo di riferimento; che una sentenza riguarda il diritto e non la morale;

– che la scuola stessa è un bene pubblico e come tale deve essere pensata e gestita. Si fonda su un patto sociale e politico, sulla condivisione mediata di principi e di paradigmi che connotano “un sistema” che sarà gestito su una linea di continuità dall’alternanza degli schieramenti di partito, finchè quei principi saranno proficuamente praticabili;

– che le parole rappresentano il mondo e che più parole usiamo, maggiori possibilità di rappresentazione e di scambio informativo abbiamo. Usiamo parole per identificare evidenze scientifiche (maschio, femmina, sesso, razza) e altre parole che appartengono all’universo delle scienze umane (uomo, donna…) e che a usare le parole si impara. Che l’informazione è importante ma non deve essere settoriale se vuole “dare una forma” al dibattito, comprensibile a tutti;

– che bisogna dare ai ragazzi gli strumenti per una cittadinanza attiva da praticare, insegnando ad utilizzare le fonti, come ad esempio i motori di ricerca, per orientarsi – verificandone l’attendibilità- distinguendo i fatti dalle opinioni, per non farsi prendere nei meccanismi della bolla.

BIBLIOGRAFIA
Baumann Z., La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999;
Mead C. H., Mente, Sé e Società, Ed. Giunti, Firenze 1968;
Lévi-Strauss C., L’identità, Sellerio, Palermo 1980;
Erikson E., Identity: Youth and crisis, Norton, New York 1998;
Morin E., L’identità umana, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002; Jung C.G., Tipi psicologici, Bollati Boringhieri, Milano 1977;
James W., Principi di psicologia, Società Editrice Libraria, Milano 1901;

Essere se stessi nell’adolescenza

Essere se stessi nell’adolescenza
L’educazione all’io

di Gino Lelli [1]

Abstract

The self in adolescence is the set of considerations that characterize a teenager and that affect his self-esteem. Recognizing and expressing sensations and emotions allows the teenager to fortify the self. Trusting oneself and one’s actions is very important especially in adolescence because other people tend to evaluate what is clearly manifested in terms of concepts and behaviors. The attachment style that characterizes every teenager falls on the internal operating models that affect the consideration of oneself, others and reality, thus influencing the relationship that is established with other people. These internal operating models in adolescence influence the choice of friendships and love preferences. When interacting, a teenager assumes, according to the Transactional Analysis, a certain State of the Ego. By ego state we mean a specific way of thinking, feeling and behaving.

Keyword

  • Adolescence
  • Self
  • Self esteem
  • Attachment
  • Ego states

Il concetto di sé nell’adolescenza

Il concetto di sé nell’adolescenza è quell’articolato insieme di considerazioni che un adolescente ritiene possano rispecchiare la propria realtà individuale e che impiega per delinearsi. Tale percezione può anche non esprimere esattamente la verità ma incide comunque sull’autostima. L’opinione del sé dipende anche dalle relazioni che vengono instaurate con le altre persone e con l’ambiente circostante e che, pertanto, non è statica ma oggetto di variazioni. Il concetto di sé deriva da vari elementi:

  • le relazioni personali e intime ed il riscontro da parte degli altri;
  • gli aspetti caratteriali e di personalità;
  • i risultati che si riesce ad ottenere in virtù degli obiettivi che vengono prefissati;
  • la capacità di saper cogliere le situazioni e i problemi e di adoperarsi per affrontarli al meglio.

L’immagine che un giovane crea di se stesso dipende molto dalle esperienze che ha vissuto e che sta vivendo, se positive favoriscono la buona considerazione di sé altrimenti determinano fenomeni di svalutazione e avvilimento. Per aumentare il senso di identità un adolescente dovrebbe cercare delle peculiarità positive che lo rendono unico e per questo apprezzabile mentre, per ridurre i momenti di sconforto legati a determinate vicende, il confronto con altre realtà difficili può dare quella sensazione di non esclusività della negatività e di poterle vedere diversamente così da affrontarle in maniera differente e più efficace. Riuscire a riconoscere ed esprimere le sensazioni e le emozioni consente di fortificare il sé. Il sé combinato con l’individualismo spesso può far pensare di essere la causa di situazioni che in realtà dipendono da altri fattori o di essere erroneamente nel giusto in termini di valutazioni, considerazioni, opinioni ed azioni. Il riscontro degli altri viene spesso falsato in virtù di queste considerazioni. Si aziona sovente anche il meccanismo di ricerca di ciò che può confermare le credenze e di non considerazione di ciò che può metterle in discussione. Il sé è ricco di elementi e si articola in un sé privato e in uno pubblico. Il primo è costituito da come gli adolescenti si vedono, il secondo, invece, dalle rappresentazioni che possiedono le altre persone. Il sé privato influenza il sé pubblico, per esempio un ragazzo disponibile, positivo, gentile è facile che venga dagli altri percepito come tale e questo elemento favorisce le relazioni. I due sé si influenzano a vicenda però rimangono distinti in quanto costituiti da elementi anche diversi. Anche le credenze che un giovane possiede incidono sulla valutazione altrui, sull’autovalutazione e sul comportamento. Ogni adolescente effettua continuamente valutazioni riguardanti se stesso e il contesto che lo circonda in virtù delle proprie credenze. L’autovalutazione può essere realistica, tendente al negativo o al positivo, se molto critica si rende necessario il cercare di giungere ad una accettabile considerazione si se stessi. Caratteristica umana è la propensione a convalidare le credenze anche se conducono per esempio ad autovalutazioni non positive, dunque, è presente la tendenza a trovare maggiormente le prove delle proprie considerazioni rispetto a quelle contrarie[2].

A livello relazionale la tendenza individuale è di preferire la frequentazione di persone che consentono la convalida delle considerazioni che si possiedono. La consapevolezza in particolar modo nell’adolescenza incide sull’autovalutazione e orienta il giovane nel cercare di piacere a se stesso e agli altri. Possedere una considerazione positiva di sé consente di poter avere fiducia nelle proprie capacità, di mettere in atto comportamenti e azioni con la percezione che possano andare a buon fine. Le autovalutazioni positive permettono di prendere decisioni, di fare scelte, di rivelare i desideri, di essere intraprendenti, di aumentare in generale le possibilità di successo. Le autovalutazioni dovrebbero essere il più possibile realistiche, dunque, senza eccessi svalutanti o sovrastimanti, ma con una  leggera propensione verso la sopravvalutazione, affinché l’adolescente possa riuscire meglio nelle varie circostanze anche grazie alla considerazione e fiducia che ha di se stessa. La necessità di avere più consapevolezza caratterizza ogni giovane e consente quei cambiamenti che possono aiutare a migliorare le proprie prestazioni. Può capitare che i ragazzi non desiderino mostrare agli altri i propri pensieri e assumono delle maschere sia in positivo che in negativo. Sarebbe auspicabile una coerenza tra il pensare e l’agire, nel momento in cui questa dovesse venire meno, un intervento per riequilibrare la situazione sarebbe auspicabile.

L’autostima nell’adolescente

Secondo R. W. Reasoner la formazione e lo sviluppo dell’autostima dipende dalla presenza dei seguenti elementi:

  • la percezione e la conoscenza di sé attraverso un’autodescrizione precisa e realistica in termini di caratteristiche fisiche, attributi, ruoli;
  • il sentimento di fiducia, certezza, protezione; sentirsi a proprio agio, ed essere in grado di affidarsi a persone e a situazioni;
  • il sentimento di appartenenza e accettazione, in particolare nelle relazioni considerate importanti; corrisponde al sentirsi accettati, apprezzati e rispettati dagli altri;
  • il senso di propositività e motivazione nella vita; consapevolezza della propria capacità di gestire ed incidere sugli eventi della propria esistenza; rafforzamento di sé attraverso la scelta di obiettivi realistici e raggiungibili; propensione ad assumersi responsabilità per le conseguenze delle proprie scelte[3].

Avere fiducia in se stessi e nelle proprie azioni è molto importante soprattutto nell’adolescenza perché le altre persone tendono a valutare ciò che viene palesemente manifestato in termini di concetti e comportamenti. L’autostima si può definire come il giudizio in termini di valore che una persona attribuisce a se stessa. L’autostima richiede il volersi bene, il considerarsi positivamente e l’aver fiducia in se stessi. Importante è anche il saper calibrare in maniera reale quanto le proprie azioni possono determinare e incidere nelle varie circostanze[4]. Alla base dell’autostima c’è la consapevolezza, la tolleranza e l’indulgenza che l’adolescente dovrebbe avere verso se stesso così da riuscire ad accettarsi per quello che è e anche a perdonarsi. Determinante è, inoltre, il riuscire a capire le necessità che si possiedono così da potersi attivare per realizzarle ed accrescere la propria autostima. L’accettazione implica la consapevolezza sia degli aspetti personali positivi, sia delle carenze e inadeguatezze che sono presenti, queste ultime non devono, dunque, essere negate bensì visualizzate al fine di una assunzione di responsabilità e di una possibile evoluzione migliorativa. Per un adolescente è importante capire la propria unicità e per questo deve distinguersi dagli altri, essere autonomo e saper anche vivere la separazione e la solitudine. Questo consente di sviluppare un’autostima che non è condizionata dagli altri bensì dall’accettarsi con anche le imperfezioni e dal volersi bene. L’accettarsi di un adolescente implica anche il sapersi perdonare che non significa non prendere in considerazione o giustificare gli errori ma pensare di poter andare avanti verso un differente futuro. Il dolore legato alla non accettazione di sé e/o degli sbagli commessi determina l’attivazione di meccanismi di reazione quali il colpevolizzare se stessi e che possono condurre:

  • a delusione, senso di inidoneità, inettitudine, inferiorità, depressione e rabbia rivolta verso sé;
  • all’attaccare gli altri con rancore e astio;
  • all’isolamento;
  • all’allontanamento[5].

Tali meccanismi di difesa che si innescano possono servire al principio per contenere e ridurre angoscia e sofferenza ma poi non devono prolungarsi fino a danneggiare l’identità e le relazioni sociali dell’adolescente.

E’ importante che l’adolescente riesca a riconoscere ed accettare anche gli aspetti sgraditi e rifiutati come facenti parte di un complesso che presenta comunque caratteristiche positive che prevalgono e consentono di aumentare l’autostima.

Il saper e sapersi perdonare sono, quindi, elementi determinanti, gli errori dovrebbero essere visti dal giovane da un punto di vista diverso rispetto a quello più comune e cioè come vicende possibili che consentono comunque di poter apprendere come ottimizzare la propria condizione anche in virtù di un riscontro degli altri migliore.

Nel caso in cui gli errori dovessero indurre l’adolescente a svalutarsi e a considerarsi inadeguato e incompetente si verificherebbe quella paura che inibirebbe le azioni volte a conseguire gli obiettivi prefissati e la risoluzioni di problemi.

I giovani con una buona autostima hanno consapevolezza dei meriti che possiedono e delle proprie possibilità che gli consentono di realizzare più facilmente desideri e bisogni.

Perdono, autostima e desiderio di realizzare gli obiettivi sono gli elementi che conducono un ragazzo a realizzarsi.

Una delle distinzioni principali che riguardano l’autostima è tra alta o bassa, stabile o instabile, globale o specifica.

La distinzione tra alta o bassa riguarda il rapporto tra le autovalutazioni e le aspirazioni di un adolescente che si concretizza nello stimare la discrepanza tra le autovalutazioni reali e quelle ambite. Se la differenza è notevole l’autostima non sarà alta poiché la persona non si percepisce come vorrebbe, al contrario se è poca l’autostima non sarà bassa.

In un giovane si possono distinguere almeno due scopi, il primo concerne il come la persona vorrebbe essere, il secondo il come dovrebbe essere. La risposta comportamentale al non essere soddisfatti del come si vorrebbe essere è il malcontento e la delusione, quella del come si dovrebbe essere è, invece, disapprovazione e senso di colpa. Incide, comunque, anche la percezione delle attese che le altre persone hanno nei propri confronti.

Avere aspettative molto maggiori di quelle reali, determinate da una percezione di sé molto diversa da quella concreta, può causare una bassa autostima con manifestazioni di ansia, paura, sensazione di incapacità, fallimento ed evitamento. Una bassa autostima determina sia difficoltà nel prendere decisioni, nel programmare, nell’agire, sia l’essere bloccati e il rimanere in disparte e vedere ciò che accade senza poter intervenire.

Il susseguirsi di insuccessi legati a tali manifestazioni instaura un circolo vizioso che incrementa sempre di più l’autovalutazione negativa e la bassa autostima nell’adolescente.

Un giovane con alta autostima invece è sicuro di sé, possiede una autovalutazione positiva, agisce per realizzare bisogni e desideri con la prospettiva di poterli soddisfare e concretizzare. I traguardi raggiunti aumentano l’autostima. Dinnanzi a risultati negativi non si perde d’animo, talvolta ne attribuisce la causa a elementi esterni o cause temporanee personali di poco valore. La consapevolezza che possiede del proprio valore gli attribuisce fiducia e forza, non concede troppo credito al giudizio degli altri in quanto elemento marginale per lei.

Un adolescente con alta autostima ha una leggera sopravvalutazione di sé che gli consente di essere ottimista e fiduciosa.

Mantenere una buona autostima non è sempre facile infatti per alcuni giovani il non riuscire a realizzare determinati desideri o obiettivi può condurre a meccanismi di autosvalutazione. Sono anche presenti adolescenti che per paura di perdere l’autostima preferiscono mantenerla ad un livello più basso così da poter avere meno sofferenza nel caso di passaggio da uno stato migliore ad uno peggiore e maggiori possibilità che rimanga dunque costante nel tempo.

L’autostima può essere stabile/regolare o instabile/incostante nel tempo, a seconda delle vicende presenti e passate. L’autostima incostante è dettata da avvenimenti che ne determinano una variazione in termini sia negativi quali un insuccesso che positivi come un traguardo raggiunto. L’autostima tende a mutare verso l’alto o il basso anche a seconda di quanto un giovane è soddisfatto o meno della propria realtà, in caso di autovalutazione positiva darà meno peso alle singole vicende negative, altrimenti, attribuirà loro grande importanza facendo così abbassare anche il giudizio su di sé.

L’autostima stabile, determinante per un adeguato benessere psicologico di un adolescente, a differenza di quella instabile, è contraddistinta da una autovalutazione positiva, da una limitata considerazione del parere degli altri, dal vedere la possibilità di raggiungere gli scopi personali e dal saper affrontare le difficoltà con la consapevolezza dei propri limiti e di poter anche compiere degli errori.

L’autostima può concernere la considerazione personale generale (globale) o quella legata ad un determinato contesto (specifica) che è, dunque, mirata ad esempio all’ambito scolastico o affettivo e così via. Occorre poi capire quanto ciascun ambito sia importante per il singolo adolescente, poiché soggettivo e a seconda del valore che viene attribuito ci sarà una corrispondente aspettativa che, a sua volta, inciderà sui comportamenti e, a seconda dei risultati ottenuti (positivi o negativi) sull’autovalutazione[6].

Lo stile di attaccamento dell’adolescente

Secondo J. Bowlby il bambino ha una predisposizione naturale ha instaurare fin dai primi anni di vita un attaccamento con le figure di riferimento che gli garantiscono sopravvivenza, protezione e supporto. Il venir meno della percezione di sicurezza nel fanciullo determinata dalla assenza di una persona adulta che possa sostenerlo, rassicurarlo e aiutarlo può portare a una autovalutazione di incapacità, inadeguatezza, fragilità e generare dispiacere, angoscia. Lo stile di attaccamento che caratterizza ogni adolescente ricade sui modelli operativi interni che incidono sulla considerazione di sé, degli altri e della realtà, influendo quindi sul rapporto che si instaura con le altre persone. Tali modelli operativi interni nell’adolescenza influenzano la scelta delle amicizie e delle preferenze amorose. Gli stili di attaccamento possibili sono:

  • sicuro;
  • insicuro ansioso-evitante;
  • insicuro ansioso ambivalente/resistente;
  • insicuro disorientato/disorganizzato.

Lo stile di attaccamento sicuro è caratterizzato da un bambino che ha consapevolezza di avere una madre pronta e disponibile nei suoi confronti, una base sicura di riferimento.

Lo stile di attaccamento ansioso-evitante è contraddistinto da un bambino che percepisce la madre non disponibile, che lo rifiuta, questo determina una chiusura egocentrica che lo spinge a pensare che solo non mostrando il bisogno che ha della madre può starle vicino.

Lo stile di attaccamento ansioso ambivalente/resistente è caratterizzato da un bambino che ritiene la madre in grado di dargli protezione anche se a volte non raggiungibile, tale situazione determina l’attribuzione a se stesso di fallimenti o successi a seconda del risultato dell’interazione. Tali madri sono imprevedibili o iperprotettive.

Lo stile di attaccamento disorientato/disorganizzato è contraddistinto da comportamenti del bambino contraddittori, la madre è timorosa, si sconforta, può avere traumi o lutti irrisolti. Tale situazione determina nel bambino la considerazione di una madre non affidabile anzi, pericolosa, questo determina reazioni di fuga, attacco, sopravvivenza, controllo, impassibilità[7].

Lo stile di attaccamento determina degli atteggiamenti che gli adolescenti metteranno in atto verso se stessi e gli altri.

Nel caso di stile di attaccamento sicuro il giovane possiede una buona autostima, un buon controllo sulle diverse situazioni, un atteggiamento tendenzialmente calmo, una visione positiva della vita.

Nel caso di stile di attaccamento ansioso-evitante, la percezione che possiede l’adolescente di sé non è positiva, le situazioni negative vengono viste come fallimenti personali, quelle positive come faticose e difficili da realizzare. Tende a strutturare una esistenza in solitudine poiché pensa di poter contare solo su se stesso.

Nel caso di stile di attaccamento ansioso ambivalente/resistente il giovane ha una percezione di sé che può essere anche positiva, cerca una dipendenza relazionale sia sua che del partner e nel contempo vuole essere libero, ha il timore di essere scoperto non amabile e di essere rifiutato.

Nel caso di stile di attaccamento disorientato/disorganizzato l’adolescente propende per la ricerca della perfezione che lo porta ad avere una eccessiva autostima e una elevata suscettibilità alle critiche, la perfezione la ricerca in ogni contesto e anche negli altri.

Ciascuna individuale necessità conduce sovente ad assumere delle maschere quindi a non essere veramente se stessi. Tali maschere si articolano in:

  • paranoide, caratterizzata da un dominio del manipolatore che si manifesta nel voler comandare, rimproverare, colpevolizzare, nella sua contro-dipendenza e nel comportamento complementare del salvatore;
  • di fuga, contraddistinta da evitamento dove è presente una fusionalità che viene elusa;
  • depressiva, caratterizzata da una passività che serve per relazionarsi in maniera dipendente dagli altri, negando se stessi e dalla vittimizzazione di tale situazione[8].

Gli Stati dell’Io nell’adolescenza

Le interazioni interpersonali sono costituite da transazioni che a loro volta sono formate da due componenti, gli stimoli e le risposte. Solitamente le transazioni fanno parte di una serie e possono essere dirette, vantaggiose, sane oppure confuse, ambigue, distruttive, malsane. Un adolescente quando interagisce assume, secondo l’Analisi Transazionale, un determinato Stato dell’Io. Per Stato dell’Io si intende una specifica modalità di pensare, sentire e comportarsi. Ogni Stato dell’Io ha origine in una specifica regione del cervello. E. Berne definisce uno Stato dell’Io come un insieme coerente di pensieri, sentimenti ed esperienze direttamente correlate a diversi modelli di comportamento. Gli Stati dell’Io, potenzialmente infiniti, sono stati sintetizzati da E. Berne in tre ampi insiemi chiaramente distinti e osservabili in ciascun individuo, che rispecchiano fenomeni ed esperienze realmente accadute: Genitore, Adulto e Bambino.

Il Genitore, è il modello e l’insieme di valori e norme imparati da bambini dai propri genitori, dagli insegnanti e dagli adulti significativi.

Il Bambino, è la parte spontanea, ingenua ed emotiva di ogni persona, capace di entusiasmarsi e meravigliarsi, ma anche di provare paura.

L’Adulto, è la parte razionale che media fra gli altri due stati, analizza e valuta la realtà.

L’Io rappresenta un’entità fenomenologica derivante dall’integrazione fra i tre Stati dell’Io.

Il Genitore (G)

Il Genitore è l’insieme di pensieri, sentimenti e comportamenti che si incorporano dall’esterno durante l’infanzia e l’adolescenza dalla relazione con le figure significative: genitori (o chi ne fa le veci), parenti, maestri, insegnanti, o da tutte quelle persone autorevoli che si incontrano negli corso degli anni. Un genitore si può accorgere che a volte assume un comportamento simile a quello dei propri genitori quando sta utilizzando in modo automatico il proprio Stato dell’Io G. Esternamente l’attivazione di questo Stato dell’Io si identifica spesso in comportamenti pregiudiziali, critici o protettivi; mentre dall’interno è vissuto come vecchi messaggi genitoriali che continuano ad influenzare il bambino interno. A livello funzionale un adolescente può presentare il Genitore Normativo o Critico (GN) quando si manifestano atteggiamenti di divieto e di comando, il sancire regole, dettare le leggi ed il Genitore Affettivo (GA), che invece si prende cura, mostra attenzione, premura, da sostegno ed è comprensivo.

L’Adulto (A)

L’Adulto è un insieme obiettivo di pensieri, sentimenti e comportamenti coerenti con la situazione che vive nel “qui ed ora” il giovane e indica la capacità di elaborare continuamente nuovi dati. La gestione della realtà attuale spinge l’adolescente a trovare in continuazione strategie efficaci senza che debba dover subire interferenze limitanti da Stati dell’Io arcaici o incorporati dall’esterno.

Il Bambino (B)

Il Bambino è l’insieme di pensieri, sentimenti e comportamenti che risalgono all’infanzia. Contiene le registrazioni delle prime esperienze di vita e delle “posizioni” che il bambino ha assunto verso se stesso e gli altri. A livello strutturale è uno Stato dell’Io arcaico e si manifesta negli adolescenti come vecchi comportamenti dell’infanzia: così come la persona reagiva da bambino.

Si parla di Bambino Adattato (BA) se si attiva un comportamento correlato all’influenza genitoriale e di Bambino Libero (BL) quando si esibiscono comportamenti autonomi, senza l’influsso genitoriale. Sia il BA che il BL possono essere positivi o negativi a seconda di come rispondono efficacemente ed adeguatamente alla situazione. La struttura del B è quella parte della personalità che fornisce le motivazioni principali dell’agire di un ragazzo.

Nel dettaglio si può evidenziare che:

  • il GA (positivo) si prende cura di un’altra persona con amore, quando quest’ultima ne ha bisogno e lo desidera;
  • il GA (negativo) è troppo permissivo, troppo affettivo, fa per gli altri cose che non erano richieste o di cui non avevano bisogno;
  • il GN (positivo) è forte e dogmatico e prende le difese dei diritti propri o degli altri senza umiliare nessuno;
  • il GN (negativo) cerca di togliere l’autostima ad un’altra persona;
  • l’A opera sulla base dei dati che raccoglie e che poi memorizza o utilizza per prendere decisioni secondo un programma probabilistico e logico;
  • il BA (positivo) ottiene ciò che desidera o, comunque, riesce ad evitare di provare dolore compiacendo i “grandi”;
  • il BA (negativo) si comporta in modo talvolta autodistruttivo, segue anche passivamente le regole, cerca di ottenere l’attenzione degli altri;
  • il BL (positivo) esprime direttamente quello che pensa, si diverte, vive in intimità con gli altri senza nuocere a nessuno;
  • il BL (negativo) fa del male agli altri o a se stesso nell’esprimersi e nel divertirsi[9].

Sono presenti casi di comportamenti che possono sembrare del BL negativo ma che in realtà sono del BA negativo (autodistruttivo). Nello Stato dell’Io Bambino, dunque, l’adolescente agisce come farebbe da fanciullo nell’infanzia. Non è una messa in scena, pensa, sente, vede, ascolta, reagisce come farebbe un bambino dai tre agli otto anni a seconda dei casi. Gli Stati dell’Io non sono dei ruoli ma stati dell’essere che vengono provati realmente. Quando il Bambino è affettuoso o scontroso, impulsivo, spontaneo o giocoso, viene detto Bambino Naturale. Quando è pensoso, creativo, ingegnoso è detto il Piccolo Professore. Se ha paura, si sente in colpa o si vergogna è detto Bambino Adattato. Il Bambino prova tutte le emozioni: paura, amore, rabbia, gioia, tristezza, vergogna e così via. Talvolta lo Stato dell’Io Bambino è considerato la fonte di tutti i problemi di un adolescente, proprio perché è egocentrico, emotivo, potente, e fa resistenza nei confronti delle repressioni cui è soggetto crescendo. L’Analisi Transazionale (AT) considera il Bambino come fonte di creatività, ricreazione e procreazione; la fonte di rinnovamento della vita. Nei bambini si può osservare il Bambino per lunghi periodi di tempo; ma anche negli adulti, nelle situazione in cui è loro permesso di lasciar emergere il Bambino, come per esempio in una festa o in una partita. Il Bambino può affiorare, per brevi periodi, anche in altre situazioni dove può essere del tutto indesiderato, come durante importanti riunioni d’affari, o discussioni serissime, o a scuola. Nella sua forma meno auspicabile, può dominare completamente la vita, come nel caso di un ragazzo con gravi disturbi emotivi, il cui Bambino confuso, depresso, folle o vizioso la porterà alle soglie dell’autodistruzione, con un comportamento che sfugge al suo controllo. Inoltre, il Bambino può emergere per lunghi periodi, sotto forma di depressione o dolore, come nel caso di chi ha subito una grave perdita. Nello Stato dell’Io Genitore l’adolescente è volto a raccogliere codici pre-registrati, pre-giudicati, preconcetti che indirizzano la vita. Nello stato dell’Io Genitore, il giovane pensa, sente e si comporta come uno dei suoi genitori o chi ne ha fatto le veci. Il Genitore decide, senza ragionare, come reagire alle situazioni, cosa è bene e cosa non lo è, come si dovrebbe vivere. Il Genitore giudica a favore o contro, e può rappresentare un controllo o un sostegno. Quando il Genitore ha un atteggiamento critico è detto Genitore Normativo; quando offre appoggio viene detto Genitore Affettivo. Nello Stato dell’Io Adulto, dunque, l’adolescente è come un calcolatore, opera sulla base dei dati che raccoglie e che poi memorizza o utilizza per prendere decisioni secondo un programma logico. Nello stato dell’Io Adulto la persona usa il pensiero logico per risolvere i problemi, assicurandosi che il processo non venga contaminato dalle emozioni del Bambino o del Genitore. Per poter essere logici e razionali occorre saper tenere distinte le emozioni anche se non è sempre così facile farlo; talvolta, poi, non è la scelta migliore.

Ogni adolescente possiede ed utilizza tutti e tre gli Stati dell’Io, sebbene possa essere presente anche la tendenza ad utilizzare in modo privilegiato uno dei tre. Si può identificare una patologia quando si attivano meccanismi:

  • di esclusione di uno o due dei tre Stati dell’Io (una persona si avvale solo di uno o due Stati dell’Io);
  • di contaminazione degli Stati dell’Io (la persona utilizza informazioni non corrette come dati di realtà, ovvero il suo A (Adulto) non costruisce criticamente la realtà attuale ma prende per buoni dati provenienti dal G (Genitore) o dal B (Bambino).

Uno degli Stati dell’Io può quindi dominare nel giovane, con esclusione degli altri due. Ad esempio il Genitore Affettivo o Normativo può escludere gli altri Stati dell’Io e l’adolescente non riesce ad usare il Bambino o l’Adulto con grave svantaggio in quanto per poter essere pienamente funzionante, i suoi Stati dell’Io devono essere tutti disponibili quando necessario. Il Genitore utilizza vecchie “registrazioni” per risolvere i problemi ed è quindi in generale indietro di vari anni rispetto ai tempi; è comunque utile quando l’Adulto non ha informazioni a disposizione o non ha il tempo per pensare. D’altra parte, il Bambino con la sua intuizione potrà trovare soluzioni innovative, che potrebbero però non essere altrettanto affidabili delle decisioni prese dall’Adulto che esamina i dati.

Conclusioni

Conoscenza di sé, sentimento di fiducia, appartenenza e autostima sono elementi molto importanti nella delicata fase evolutiva dell’adolescenza.

Un Io poco strutturato, vincolato e limitato da valutazioni esterne, può determinare negli adolescenti il timore delle aspettative degli altri o la necessità morbosa di appartenere a un’altra persona determina dalla paura della solitudine. Taluni giovani percepiscono il loro valore solo se hanno il riconoscimento continuo altrui, causa il timore di essere svalutati o non considerati. Sono inoltre presenti adolescenti che hanno la necessità di riuscire sempre a controllare ciò che accade per paura di essere imbrogliati, manovrati, approfittati. La teoria della personalità di E. Berne si focalizza proprio su comportamenti, rapporti umani e comunicazioni, nonché su un approccio basato sulla convinzione che i disturbi derivano da una disarmonia fra i vari Stati dell’Io. Il modello funzionale positivo è quello in cui i tre Stati dell’Io (Genitore, Adulto, Bambino), che per E. Berne sono fenomeni reali, dialogano fra loro a livello inconsapevole e sono in continua evoluzione. La presenza dei tre Stati dell’Io conduce al completamento inteso come equilibrio personale. Nello specifico, generalmente, gli adolescenti hanno la capacità di “stare al mondo come genitori o adulti o bambini”. L’educazione all’Io, affinché possa essere strutturato, può avvenire anche tramite uno strumento chiamato “egogramma” che aiuta a rivelare la forza dei diversi Stati dell’Io di un adolescente in un determinato momento. Tale strumento consente di conoscere e monitorare gli Stati dell’Io posseduti nelle diverse circostanze, che determinano reazioni e comportamenti, nonché le evoluzioni nel corso del tempo. Il benessere psicosociale di un adolescente dipende dalla consapevolezza propria e della realtà e dall’autostima globale intesa come quella autovalutazione generale, che deriva dalla totalità degli ambiti e delle circostanze.

Bibliografia

Giannelli M. T., “Comunicare in modo etico” Raffaello Cortina, Milano, 2012.

Holmes J., “La teoria dell’attaccamento”, Raffaello Cortina, Milano, 2017.

Lowen A., “Il linguaggio del corpo”, Feltrinelli, Milano 2013.

Miceli M., “L’autostima”, Il Mulino, Milano, 2002.

Pacori M., “I segreti del linguaggio del corpo”,  Pickwick, Casale Monferrato, 2019.

Reasoner R. W., “Building Self-Esteem: A comprehensive Program”, Consulting Psychologists Press, Palo Alto California, 1982.

Stewart I., Joines V., “L’analisi transazionale. Guida alla psicologia dei rapporti umani”, Garzanti, Milano, 2000.


[1] Gino Lelli, Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi “Carlo Bo” di Urbino

[2] Giannelli M. T., “Comunicare in modo etico” Raffaello Cortina, Milano, 2012

[3] Reasoner R. W., “Building Self-Esteem: A comprehensive Program”, Consulting Psychologists Press, Palo Alto California, 1982

[4] Miceli M., “L’autostima”, Il Mulino, Milano, 2002

[5] Lowen A., “Il linguaggio del corpo”, Feltrinelli, Milano 2013

[6] Reasoner R. W., “Building Self-Esteem: A comprehensive Program”, Consulting Psychologists Press, Palo Alto California, 1982

[7] Holmes J., “La teoria dell’attaccamento”, Raffaello Cortina, Milano, 2017

[8] Pacori M., “I segreti del linguaggio del corpo”,  Pickwick, Casale Monfettaro, 2019

[9] Stewart I., Joines V., “L’ analisi transazionale. Guida alla psicologia dei rapporti umani”, Garzanti, Milano, 2000

Educare al senso della famiglia

Educare al senso della famiglia

di Margherita Marzario

Abstract: Il contributo tenta di cogliere l’essenza delle relazioni intrafamiliari, scandagliandone nel profondo la complessità nei fondamentali aspetti psicologici, sociologici e giuridici

Agli inizi del ‘900 Aleksandra Michajlovna Kollontaj, attivista per i diritti delle donne, dichiarava: “L’amore non è affatto un fenomeno “privato”, una semplice storia di due “cuori” che si amano, ma racchiude in sé un “principio di coesione” prezioso per la collettività”. L’amore non è un fatto privato: basti pensare ai benefici della famiglia e ai costi economici e sociali del divorzio. L’amore non va mai dato per scontato ma va ogni giorno mostrato (più che dimostrato) nel linguaggio che sia condiviso dalla persona amata e non nascondendosi dietro l’alibi di voler bene, ma a modo proprio: a cominciare dalla famiglia, soprattutto in famiglia.

“L’unica cosa più complicata dell’amore è la famiglia” (dal film “Mine vaganti”). L’amore e la famiglia, per quanto possano far male, non se ne può fare a meno, perché fonti di vita e dell’essere persona. Anche se l’amore e la famiglia possono essere ed esistere l’uno senza l’altra: e quante volte è così, oltre ogni apparenza. Si può soffrire in amore e/o in famiglia anche quando s’inganna se stessi. Esistono tante forme di tradimenti e tormenti, come tante forme di famiglie disfunzionali o coppie disfunzionali, sino a giungere ai delitti contro la famiglia sanzionati negli articoli 556 e ss. cod. pen..

“La famiglia è il luogo in cui puoi togliere la maschera” (cit.). La famiglia è stata ed è sempre più spesso il luogo in cui si mette la maschera, etimologicamente da “masca”, “fuliggine, fantasma nero”: rancori, tradimenti, questioni ereditarie, silenzi pesanti, situazioni incancrenite. La famiglia, nelle fonti normative (dalla Costituzione alla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), è definita “naturale”, da “nascere”, perché dovrebbe generare e trasmettere la vita in ogni suo aspetto e non solo con la procreazione. Famiglia deriva dal latino “famul” (a sua volta derivante da una radice etimologica della lingua osca), “servitore”, pertanto dovrebbe significare mettersi al servizio l’uno dell’altro. Sempre più spesso, però, ci si dimentica della famiglia appena non serve più ai propri interessi individualistici o egoistici. Eppure ci sarebbe tanto da imparare dal comportamento di alcuni animali, in particolare dei lupi, tra gli animali ritenuti più aggressivi e temibili che, invece, rivelano un gran rispetto della loro organizzazione sociale e ritualizzante (per esempio rapporto tra giovani e vecchi; vari tipi di comunicazione; salvaguardia dei piccoli nel branco sino ai 2-3 anni; il branco più che essere tale è una famiglia con un proprio territorio e così di seguito).

La famiglia: una storia di errori comuni, condivisi, in cui ci si corregge e si cresce. Seguire l’esempio, dare l’esempio: piantare chiodi nella roccia perché insieme si possa salire lungo la cordata della vita, così si costruisce la famiglia. Infatti, Gary Chapman, consulente matrimoniale statunitense, spiega: “L’atteggiamento migliore che possiamo adottare nei confronti degli errori del passato consiste nel considerarli storia. Sono accaduti. […] Non possiamo cancellare il passato, ma possiamo accettarlo come storia. Oggi possiamo scegliere di vivere liberi dagli errori commessi ieri”.

Anche lo scrittore Franco Arminio osserva: “I rapporti tra marito e moglie, i rapporti tra padri e figli, i rapporti tra amanti, i rapporti tra amici, tutti i rapporti del mondo dovrebbero avere questa semplice regola: ognuno deve immaginare che l’altro ha un tumore in fase terminale. Dunque bisogna parlargli con dolcezza, dolcezza a oltranza. E nessuna paura di perdere tempo, tanto il tempo nella vita si perde comunque. Non mi fate l’obiezione che le persone devono crescere, che la commiserazione non è una bella cosa. E poi veramente ognuno è un malato terminale, non è che cambia molto che si muoia fra un giorno o fra vent’anni. Immaginiamo che ogni persona è prossima all’ultimo respiro e spetta a noi raccoglierlo. Bello fare l’amore con questo spirito, e leggere una poesia e mangiare un gelato. La meraviglia di essere al mondo appartiene solo a chi sente di avere i respiri contati e sente che è così anche per gli altri. In questo modo veramente ogni giorno diventa una storia enorme, intensa, indimenticabile. E ognuno è un eroe, un salvatore”. Ci si prenda cura della famiglia prima che sia malata terminale.

A volte, però, in famiglia ci si fa prendere più dalle preoccupazioni che dalla cura dei suoi membri, soprattutto dei bambini. Lo psicoanalista Massimo Recalcati richiama: “I genitori sono più preoccupati di farsi amare dai loro figli che di educarli. Più ansiosi di proteggerli dai fallimenti che di sopportarne il conflitto, e dunque meno capaci di rappresentare ancora la differenza generazionale”. I genitori devono essere “portatori sani” di differenza generazionale e differenza genitoriale. Amare qualcuno non è giustificare tutto e relativizzare ogni cosa, ma correggere quello che non va e coltivare quello che va, consigliare il meglio, confidare nel massimo, costruire insieme: così nella coppia, così tra genitori e figli. È questo uno dei contenuti della previsione nel Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia in cui si legge che la famiglia è “ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri”.

Già Jeremy Bentham, filosofo e giurista inglese, tra il Settecento e l’Ottocento scriveva: “Per ogni granello di gioia che seminerai nel petto di un altro, tu troverai un raccolto nel tuo petto, mentre ogni dispiacere che tu toglierai dai pensieri e dai sentimenti di un’altra creatura sarà sostituito da meravigliosa pace e gioia nel santuario della tua anima”. Perché così dovrebbe essere la famiglia, fonte di economie, ma soprattutto di ecologia, quella esistenziale e vitale. Si dimentica che la famiglia è un soggetto economico e politico che influenza le scelte di ogni suo componente e che ha conseguenze all’esterno dell’ambito familiare. Per questo si tiene conto sempre della famiglia pure a livello internazionale (forse più che a livello statale), fra i tanti riferimenti normativi l’art. 33 paragrafo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (cosiddetta Carta di Nizza, 7 dicembre 2000): “È garantita la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale”.

Lo studioso gesuita Thomas Casey descrive: “La famiglia ha un’influenza decisiva sulla nostra personalità e sul nostro destino. Noi nasciamo sempre all’interno di un contesto umano. Entriamo nel mondo dal corpo di una donna. Essa può essere single, sposata o divorziata. Può darsi che abbia un partner amorevole e solidale, oppure violento e prepotente. L’ambiente familiare può essere povero, confortevole o agiato; i genitori possono essere colti o analfabeti, emotivamente maturi o immaturi. Non cominciamo tutti dallo stesso punto di partenza. Sarebbe bello se fossimo tutti uguali, ma, dato il modo in cui vengono distribuite le carte, «alcuni sono più uguali degli altri»”[1]. Aiutare la famiglia, le famiglie, è altresì un dovere costituzionale, in ossequio degli artt. 2 e 3 e della “trilogia” degli arrt. 29-31 della Costituzione.

Lo studioso Casey continua: “Il nostro carattere, la nostra personalità si sviluppano nel corso della vita. Il processo inizia in famiglia. È lì che i bambini imparano per la prima volta ad amare e a odiare, a essere gentili o manipolatori, a servire o a spadroneggiare. La famiglia è la scuola fondamentale per la vita. Se in famiglia i bambini imparano soltanto l’ingiustizia, per loro sarà difficilissimo costruirsi da adulti una cultura giusta. Se viene insegnato loro a mentire e a ingannare, più tardi essi avranno enormi difficoltà ad aiutare a costruire una società trasparente”. L’educazione comincia e continua, si costruisce e si consolida in famiglia: è anche questo il senso del binomio “istruire e educare” nell’ambito dei doveri genitoriali disciplinati nell’art. 30 comma 1 Cost. e negli artt. 147 e 315 bis cod. civ.. Educazione alla famiglia e della famiglia, anche e soprattutto da parte della famiglia di origine che è spesso nell’ombra.

“La malinconia è temperata, tuttavia, dalla costanza degli affetti che il tempo non ha consumato” (Norberto Bobbio). Famiglia: costanza degli affetti che il tempo non consuma e che tempera la malinconia. Così dovrebbe essere e non il contrario come sempre più spesso avviene. Nel documento “Cinque principi per rimettere al centro il diritto dei bambini a crescere in famiglia” (elaborato dal Tavolo Nazionale Affido il 25 ottobre 2019) al n. 2 si ribadisce: “Il diritto di ogni bambina e bambino e di ogni ragazza e ragazzo a crescere nella propria famiglia e il connesso dovere delle Istituzioni e della società civile di offrire alle famiglie fragili adeguati servizi e interventi di sostegno, la cui erogazione va resa certa ed esigibile in modo omogeneo in tutto il territorio nazionale, così come stabilito dalla legge 184/1983 e successive modifiche”.

“Non sei tu a scegliere la tua famiglia: essa è un dono di Dio per te, così come tu lo sei per essa” (cit.). Si colga la differenza tra regalo e dono: col regalo ci si aspetta il ricambio, il dono si dà e basta. Così quello che si fa in famiglia, così quello che fa la famiglia!


[1] T. Casey nel saggio “La forza della famiglia”, 2016

Educazione sessuale… e poi!

Educazione sessuale… e poi!

di Adriana Rumbolo

Quando più di venti anni fa avevo scritto nel mio programma scolastico “Educazione percorso emotivo-sessuale-affettivo” dopo pochi mesi mi arrivò dalla presidenza  il messaggio: “se vuole fare questo corso, cancelli la parola sessuale”.

Non potevo  che rispondere: “Obbedisco”

Nel parlare  però usai sempre “percorso  emotivo-sessuale-affettivo: non è possibile scollegare i tre aggettivi.

Gli studenti recepirono il messaggio e ogni tanto quando sentivano urgente il bisogno di parlare di esperienze emotive,affettive,sessuali mo avvicinavano e sottovoce, comunicavano.

Ne racconto alcuni:

1) Una giovane studentessa  tutta rossa in volto mi disse: “ho una storia con un ragazzo grande di sedici anni”, lei ne aveva 14.

Avevo imparato che quando due adolescenti  stavano insieme dopo due settimane era già una storia.

Quando facciamo l’amore lui vuole la luce accesa, ma io mi sento a disagio e non so cosa fare.

Pensai a una ragazzina inesperta che si abbandonava in un coinvolgimento tanto intimo non sapendo ancora come far sentire anche la propria voce.

Era gravissimo.

Con garbo risposi che  alla  richiesta del ragazzo lei poteva tranquillamente ribadire le sue richieste, i suoi desideri. e parlarne.

Cercai di chiarirle questo concetto che li avrebbe aiutati a un rapporto migliore.

Lei ha ragione, mi rispose, ma io subito cosa posso fare?

Voleva un’alternativa, forse l’incontro era imminente e aveva bisogno di sentirsi più tranquilla.

Al momento le risposi :”metti un panno scuro sulla lampada”

Mi sorrise soddisfatta e mi ringraziò con gratitudine.

Ma io lo segnai come argomento urgente da approfondire con la classe


2) In una prima superiore una giovane studentessa mandava gioiosi segnali  della sua femminilità.

Cambiava spesso colore del rossetto scegliendo colori sempre più forti, cambiava la pettinatura avendo molta cura dei suoi capelli e ogni scusa era buona per passare dai corridoi con un andatura sicura di sè guardandosi attorno per godersi l’approvazione dei ragazzi.

La guardavo con tenerezza era così spontanea, un concentrato di gioia di vivere naturale per la sua età ma anche con qualche apprensione.

Ci furono le vacanze di Natale.

Finite le vacanze stentai quasi a riconoscerla.

Camminava per i corridoi con lo sguardo assente, non usava più il rossetto dai colori vivaci portava i capelli legati.

Mi si strinse il cuore.

Dopo circa due settimane chiese di parlare con me.

Era andata felice alla festa di Capodanno in una discoteca dove era sicura di trovare il suo ragazzo.

Aveva ballato con lui, forse avevano bevuto qualcosa di troppo e poi in  un luogo scuro della discoteca il primo rapporto sessuale per lei.

Dal giorno dopo da lui nemmeno un saluto.

Lo amava e pensava  che anche lui l’amasse.

Alla fine dell’anno la giovane studentessa non era ancora tornata sorridente

 La scuola, la famiglia e la società avevano fallito.

L’educazione sessuale è un argomento molto complesso; la conoscenza e la inscindibilità del nostro corpo, la capacità decisionale del si e del no, la conoscenza e la  gestione delle emozioni il  desiderio la relazionalità e non dire mai più come tante adolescenti ” mi dice lui se vado bene!”


3) Una studentessa più grande, terza superiore mi chiese un colloquio molto privato .

Le promisi che avremmo avuto una stanza tutta per noi e che intanto poteva scrivermi  per anticiparmi qualcosa.

Mi consegnò a mano una lunghissima lettera.

Mi raccontava che  fin dai 4/5 anni passava quasi tutta la giornata nei campi vicino a casa con un fratellino più grande di qualche anno, soli,  perchè i genitori erano al lavoro.

Piano piano i primi giochi: giocare al babbo e  mamma, giocare al dottore.

Intanto crescevano lei cercava di respingere il fratello che diventava più insistente.

Una notte scoppiò un forte temporale  e  il fratello pensando  che fosse una punizione per il loro peccato si rifugiò nel letto dei genitori e confessò tutto alla mamma.

La madre accusò la figlia perchè, da femmina doveva dire no e  da quel giorno venne severamente punita.

La incontrai e lei parlò a lungo con me.

Poi un pianto liberatorio e la richiesta di poter fumare.

Glielo concessi. Una mia trasgressione.

Era una ragazza molto bella, molto intelligente e io mi accorsi che  la cosa più grave era che lei amava profondamente suo fratello.

La rassicurai dicendole che non aveva fatto niente di male che si era comportata come tanti  bambini lasciati soli per troppo tempo.

Non importava se erano fratelli, erano solo due bambini non protetti

Ci siamo viste fuori della scuola per circa due anni e spero proprio che lei si sia rasserenata e abbia trovato pace e si sia liberata delle colpe degli  adulti.

Educazione sessuale è quando si può parlare di vita di tutto ma proprio tutto quello che appartiene alla vita.

Il fumo di Bertolt Brecht

Il fumo di Bertolt Brecht

di Adriana Rumbolo

La piccola casa sotto gli alberi sul lago.
Dal tetto sale il fumo.
Se mancasse
Quanto sarebbero desolati
La casa, gli alberi, il lago!

Bertolt Brecht

In una seconda di un Liceo Artistico i ragazzi,forse più le ragazze mi chiesero con insistenza di proporgli un test.

Non mi sforzai tanto e proposi il disegno di una casetta qualunque.

Mi guardarono sorpresi:si aspettavano qualcosa che si riferisse all’inconscio. (quasi tutto si riferisce all’inconscio soprattutto ciò che non suscita un sospetto).

Comunque si misero al lavoro e dopo circa venti minuti mi consegnarono i disegni.

Gli spiegai che da una casetta non esce fumo quando il fuoco è spento e nel test poteva signifcare che l’amore era spento.

Allora mi sorpresi io perchè poche casette avevano il comignolo e dai tetti non filava nessun fil di fumo.

Aggiunsi che i test sono indicativi, non diamogli eccessiva importanza.

Ma una grande tristezza gravò sulla classe.

Il primo abbraccio mancato

Il primo abbraccio mancato

di Adriana Rumbolo

Appena un neonato è fuori dal pancione della mamma, suo primo monolocale e l’ostetrico lo solleva un po’, lui con le braccine aperte e le manine  tremolanti cerca un sostegno , un rifugio e solo fra le braccia della mamma si calmerà

L’abbraccio della mamma è come l’utero esterno dove il neonato dopo il faticoso cambiamento della nascita dovrebbe ritrovare la giusta temperatura ,i suoni familiari  ,gli odori conosciuti  e in più per la prima  volta conoscerà il piacere di ciucciare  il latte e quando sarà sazio  continuerà a ciucciare per sentirsi veramente bene per la produzione di endorfine

In genere i mammiferi (compreso l’essere umano) preferiscono trascorrere il tempo con chi stimola in loro il rilascio di elevate quantità di ossitocina e di oppiodi

Questi ultimi, in associazione con l’ossitocina e altre sostanze chimiche endogene prodotte dal corpo e dal cervello, sembrano essere i principali responsabili del benessere e potrebbero influire sulle percezioni del cervello, attenuando nel soggetto qualunque tipo di preoccupazione, disponendolo a  uno stato di assoluta tranquillità fisica e mentale

Se tutto questo mancherà  il bambino  manifesterà presto frequenti stati di paura e di collera e in carenza di tranquillità  si sentirà costantemente insicuro e minacciato.

Il  suo senso di insicurezza  potrebbe arrestare il suo percorso di autostima e di merito.

Purtroppo , quando accade un ennesimo femminicidio penso che le braccine di quella bimba sono rimaste tremolanti non hanno  mai  trovato un rifugio sicuro.

Allora nella bimba   potrebbe essersi  sviluppata  una sensazione di insicurezza affettiva e  di mancanza di merito.

 Qualsiasi legge anche la più severa per punire l’assassino sarà inutile

Se non ci sarà una grande attenzione al neonato e non  si tutelerà quel primo abbraccio con la mamma offriremo sempre vittime prive di autostima e  di merito a soggetti con turbe psichiche.

Una donna uccisa violentemente quasi sempre è stata privata fin dal primo vagito  dell’amore e del rispetto.

Miracolo a Milano

Miracolo a Milano

di Adriana Rumbolo

dallo svolgimento di un tema scolastico

Un giorno, sotto un cavolo l’anziana Signora Lolotta rinviene un neonato.
 Diversi anni dopo, ritroviamo Totò, così si chiama il bambino, ormai grandicello.
 Un brutto giorno, tuttavia, la signora Lolotta muore e Totò viene affidato all’orfanotrofio.
 Di lì ne esce che è già quasi un uomo pieno di fiducia nel prossimo, un uomo che si aggira senza alcun timore per le strade innevate di Milano alla ricerca del suo primo lavoro.
 Rivolge a tutti un saluto ma ben presto si accorge che la gente non solo è scontrosa e diffidente, ma accoglie il suo “Buongiorno” con fastidio o addirittura come una provocazione.
A sera, mentre Totò si  ferma nei pressi della Scala per ammirare l’uscita dei ricchi spettatori in abito elegante e pelliccia, un vecchio barbone approfitta della sua sbadataggine per rubare la valigetta di pelle che egli aveva con sé; così inseguendo il ladro per farsi restituire la povera dote, Totò si commuove nel vedere le lacrime sul volto di quel poveretto e decide di donargli la valigetta.
Non avendo neanche Totò un posto dove dormire, accetta l’ospitalità del barbone che lo porta nella sua baracca, in un campo alla periferia della città.
 Al mattino, quando si sveglia, Totò vede intorno a sé altre baracche ed altri poveri disperati come lui e il suo amico.
Non appena si affaccia un raggio di sole tutti quanti sono pronti ad approfittarne, ma quando il cielo si fa cupo, per non sentire la morsa del freddo, tutti devono soltanto battere i piedi per potersi riscaldare.
Poi, arriva anche una bufera di neve e le baracche sono spazzate via dal vento.
Così, bisogna ricostruire l’accampamento e Totò si mette d’impegno per aggiornare la toponomastica delle vie ed alleviare le frustrazioni dei suoi compagni di sventura, o trovare la soluzione alle loro contese.
 All’accampamento arrivano sempre nuovi sventurati e famiglie cadute in disgrazia.
È il caso di quella composta dalla Signora Marta, da suo marito, dal figlio piccolo e dalla domestica, Edvige, di cui Totò subito si innamora.
Ma un bel giorno arriva anche il Signor Brambi, il proprietario del terreno dove sorge l’accampamento, e con sé porta il ricco capitalista Mobbi, a cui l’ha venduto.
I baraccati si fanno incontro a Mobbi con l’atteggiamento minaccioso, in quanto temono di essere cacciati dall’accampamento, ma quello li rassicura dicendo loro che ricchi e poveri gli uomini sono tutti uguali.
 Così, il giorno dopo si inaugura il nuovo accampamento con canti e balli, l’estrazione della lotteria ed altri divertimenti. Si pianta l’albero della cuccagna e, improvvisamente, sgorga dal terreno uno zampillo d’acqua, che però si incendia: è petrolio e tutti si affrettano a portare le proprie lucerne per farne scorta.
Il malvagio Rappi si allontana però dall’accampamento per avvertire Mobbi che sul suo terreno si è scoperto il petrolio.
Mobbi cerca allora di far sgombrare l’accampamento ma trova la resistenza dei baraccati, i quali mandano da lui anche una delegazione, per ricordargli che tutti gli uomini sono uguali.
 Mobbi rassicura i rappresentanti dei baraccati, ma quando tornano all’accampamento questi vedono che lo sgombero è già in corso.
Si organizza allora la resistenza.
Quando però i gendarmi lanciano i lacrimogeni, i baraccati sono costretti ad indietreggiare.
 Totò che si è rifugiato in cima all’albero della cuccagna vede comparire improvvisamente il fantasma della vecchia Lolotta, che gli consegna una colomba dagli straordinari poteri: tutto quello che lui desidera la colomba sarò in grado di realizzarlo.
Così, grazie alla miracolosa colomba della signora Lolotta, ai gendarmi succedono una serie di inconvenienti che li mettono in ritirata.
 È costretto a fuggire anche l’infame Rappi, ma intanto i poveri delle baracche continuano a chiedere favori a Totò: chi vuole una pelliccia, chi una radio, chi un vestito e così via.
 Chi vuole diventare alto, chi vuole diventare bianco e chi nero, e tutti vogliono diventare ricchi.
 Un povero chiede un milione di milioni di milioni di milioni di milioni, e un altro, per ripicca, un milione di milioni di milioni di milioni di milioni più uno.
Ed ecco che lo ha già fregato, tutti si affannano per vedere esauditi i propri desideri.
Finalmente, Totò riesce ad appartarsi in casa di Edvige e le chiede di esprimere un desiderio: un paio di scarpe, ma soltanto una scarpa fa in tempo a comparire ai suoi piedi, perché due angeli scesi dal paradiso sono riusciti a recuperare la miracolosa colomba.
Intanto è arrivata l’alba.
L’accampamento assediato dai gendarmi di Mobbi è evacuato e la gente è caricata sui cellulari. Quando però arrivano a Milano in Piazza Duomo, Totò rientra in possesso della colomba che la signora Lolotta gli ha riportato: improvvisamente i cellulari si aprono ed i poveri baraccati che si sono appropriati delle scope degli spazzini della piazza si allontanano, per la colomba, su di queste in volo, tra le nubi, “verso un regno dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno”.

Un bambino arriva in questo mondo pronto dotato di tutto quanto gli può essere utile alla sopravvivenza e alla conoscenza .
 Purtroppo  giorno dopo giorno viene a contatto con tante realtà familiari, scolastiche, affettive, sessuali, sociali, religiose, politiche dove le piccole cose VERE  rimangono  seppellite da montagne di parole, da simboli  molto incomprensibili e da tanti adulti che  promettono come un miraggio che da grande  avrebbe conosciuto le verità:  da piccolo, da adolescente doveva solo obbedire e considerare la conoscenza come un tabù.
Io che ho avuto un’infanzia a profonda immersione nella natura ed è stata un grande serbatoio a cui ho attinto e attingo sempre, parola di Adriana, quando ritornavo a casa naturalmente solo per mangiare e per dormire con il desiderio grande di raccontare, perchè le emozioni hanno bisogno di racconto, mia madre mi rimproverava perchè ero una ribelle e non era affatto disposta all’ascolto.
E così tutti i giorni  io continuavo da ribelle a  fare la mia spesa esistenziale quotidiana e non sapevo  che mi stavo vaccinando dall’omologazione, dalla banalità  e non avrei permesso a nessuno di
derubarmi del mio desiderio di conoscere e arrivare alle piccole verità che giustificano il vivere.
Stiamo attenti ai nostri ragazzi che vivendo in un mondo  dove montagne di parole, bombardamenti di brutta pubblicità, storditi da confusione, brutta musica potrebbero come gli ingenui barboni
volare sulle scope per raggiungere un posto magico dove “Buongiorno vuol dire Buongiorno” ma loro invece delle scope magiche  potrebbero avvicinarsi a sostanze pericolose per evadere senza arrivare mai nel paese magico dove “Buongiorno vuol dire Buongiorno”.