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F. Tarantino, C’era una volta… una fiaba lunga un anno

“C’era una volta…una fiaba lunga un anno“ di Filomena Tarantino
edizioni Ecogeses AIMC 2015

di Mario Coviello

 

tarantinoFresco di stampa,nella collana “ Profumo di gesso” delle edizioni Ecogeses dell’Associazione Italiana Maestri Cattolici, è uscito in questa settimana “ C’era una volta…una fiaba lunga un anno” di Filomena Tarantino. Arricchito da una introduzione di Graziano Biraghi, presidente dell’ECOGESES, il libro racconta “ la buona scuola “ e può, come sottolinea Biraghi “ diventare un valido strumento di formazione e di crescita sia degli studenti universitari …che dei docenti impegnati nell’anno di formazione del periodo di prova o nelle attività di formazione in servizio.”

Filomena Tarantino è un’insegnante di scuola dell’infanzia e dedica il libro, che è la sua relazione dell’anno di prova nell’ Istituto Comprensivo di Bella ( Potenza), ai suoi bambini della sezione B.

Lo introduce con una frase tratta dal romanzo ” La maestra e’ un capitano “, Coccolebooks di Antonio Ferrara, premio Andersen 2012 e amico della bibliomediateca della scuola “….se ci credi, nei bambini, loro possono diventare qualsiasi cosa..”.

Ed è proprio questo il senso più profondo del libro perché l’autrice dimostra che i bambini imparano, crescono se si ripone in loro una grande fiducia.

La leva per la crescita dei suoi piccoli Filomena l’ha scoperta nella fantasia o meglio in servetta Fantasia di pirandelliana memoria. Come docente di lettere nella scuola media aveva notato che gli adolescenti preferiscono scrivere una lettera,raccontare un fatto mentre Filomena ricorda ancora con affetto la sua maestra che gli raccontava fiabe ogni giorno.

Le fiabe hanno consentito ai suoi ventuno piccoli alunni di prendere confidenza con il mondo e i suoi aspetti luminosi come la gioia e la curiosità e quelli più oscuri : la paura, la malattia, la morte.

E con convinzione afferma che ” le piacerebbe che in tutti i gradi dell’ istruzione si riscoprisse la dimensione fantastico-emotiva dell’educazione, che si costruissero curricula colorati di gioco e costituiti non solo di ciò’ che serve ma anche di ciò’ che piace”.

L’autrice con Rodari e Morin ci ricorda che la musica e la poesia, il teatro e lo sport servono all’uomo completo che è’ ” sapiens e demens ,faber e ludens…

Le fiabe sono state il filo conduttore della programmazione annuale delle quattro sezioni della scuola dell’infanzia di Bella e Filomena racconta la sua esperienza come una fiaba

…” C’era una volta una maestra, una giovane maestra che aveva deciso fin da piccola di fare questo lavoro perché aveva la mamma maestra e una maestra nella scuola elementare che per cinque anni l’aveva fatta crescere con le storie.”

Vincitrice di concorso viene a Bella e con garbo racconta del suo approccio con il paese,la scuola il dirigente,le colleghe e soprattutto con i bambini.

Racconta che la sua storia ” non si svolge in fastosi castelli, ne’ in boschi e foreste incantate, ma al secondo piano a scendere di un edificio che di piani ne ha nove. La accoglie un ampio salone, un terrazzo baciato dal sole e un’aula spaziosa e colorata e soprattutto ventuno bambini curiosi provenienti non solo da Bella ma anche dall’Africa,dalla Romania,dall’Albania perché la scuola , da una ventina di anni e’ una scuola a colori e l’autrice con una valigia piena di sorprese, un orsacchiotto e una chitarra e soprattutto con tante fiabe cresce con i suoi piccoli.

I primi giorni di settembre sono stati, ” inquieti e carichi di tensione”. Con la collega di sezione che l’ha subito “adottata”, ha preparato l’aula e i suoi angoli e programmato l’attività’ di accoglienza.

Il primo giorno di scuola qualcuno dei piccoli, anche se è al secondo anno piange perché ..” nel passaggio da casa a scuola ci sono braccia che lasciano andare ma anche braccia che prendono,che accolgono,che sostengono ..”

E anche Filomena ha aperto le braccia…” Si sono precipitati verso di me, lasciandomi senza parole: mi ero tanto preoccupata e invece sono stati loro ad accogliermi..”

Ed è’ stato questo l’inizio di un viaggio..” Un viaggio faticoso, costellato di imprevisti, in cui mi è’ forse capitato di sbagliare strada, perché’ io da inesperto capitano quale sono, non sempre conoscevo bene le tappe per arrivare alla meta..”

Il viaggio si intitola ” Maestra raccontami una storia ” e in cinque tappe porta i piccoli e la loro maestra alla scoperta del bosco con Cappuccetto Rosso, nel castello di Biancaneve, al bacio del principe che sveglia la Bella addormentata e ad una emozionante unica,fantastica rappresentazione teatrale di fine anno scolastico con canti,balli,musica e sorprese…

Filomena descrive in modo affascinante le tappe del suo percorso. Racconta la ricerca sulle definizione delle competenze per gli alunni della scuola dell’infanzia, attraverso lo studio delle Indicazioni Nazionali e la costruzione di rubriche valutative per la verifica e valutazione delle unità’ di apprendimento.

Il libro e’ arricchito dai disegni dei bambini, da foto a colori dei momenti di vita in classe e in biblioteca. La maestra racconta gli incontri con nonno Ninuccio, depositario di storie e con gli anziani dei Centri Sociali di Bella e Baragiano. Narra la visita al bosco con le guardie forestali, guide preziose, e come ha affrontato lo studio delle parti del corpo, come il corpo e’ divenuto scoperta,appropriazione,identità’.

Con i piccoli questa maestra non si è fatta mancare niente ed ha pigiato l’ uva e preparato il vino e fatto conoscere a tutti i piccoli della scuola di Bella l’orsacchiotto Jim che ha insegnato, accompagnato con la chitarra , come si saluta , come si chiamano i cibi…. in inglese.

Con la valigia della fantasia, una vecchia valigia di cartone piena di domande, l’ insegnante Tarantino ha risposto ad una domanda che una mattina Elia le ha fatto “..Maestra..come nascono le storie?”

E la maestra non ha più’ raccontato storie come faceva ogni mattina, ma seduta in cerchio con gli altri piccoli, piano piano li ha incoraggiati a turno a raccontare , utilizzando i libri illustrati della biblioteca , Propp   e la vita di tutti i giorni di bambini, sempre piena di meraviglie, dubbi, domande.

Le storie narrate sono diventate momenti di vita e i piccoli hanno tirato fuori paure, gioie..dubbi..Hanno raccontato,disegnato e i disegni sono diventati storie su grandi cartelloni colorati che hanno fatto scoprire i piccoli ai loro genitori.

Nel libro troverete la valigia delle storie e le loro foto .Cose semplici, esempi illuminanti che possono aiutare a fare meglio il difficile meraviglioso lavoro di insegnante della scuola dell’infanzia.

Come in tutte le fiabe il libro che ha avuto inizio con… “C’era una volta “..termina con “ e vissero tutti felici e contenti” perché Filomena Tarantino, raccontando un anno di scuola, appassiona per la ricerca nel far bene, e con le foto, i disegni , il racconto della sua esperienza arricchisce il cuore e la mente dei suoi lettori che mi auguro numerosi.

Caro Luigi! Mai più margaritas ante porcos!

Caro Luigi! Mai più margaritas ante porcos!

di Maurizio Tiriticco

 

Ottimo il tuo discorso, caro Luigi alla convention della Buona scuola, ma… Sono tanti i “ma”, credimi! In effetti, l’alto profilo delle tue parole collude con il basso profilo delle proposte che emergono dalla “Buona scuola” di Renzi, Faraone, Fusacchia, Luccisano § C. In altri scritti ho sottolineato che, disponendo di un governo di sinistra e di una Legislatura a tempi lunghi, avremmo potuto por mano a un riordino – non chiamiamolo riforma, vivaddio – che avesse un minimo di spessore. La tua legge 30/2000 mirava alto! Avevi – avevamo intuito – che il percorso di un’istruzione obbligatoria di base dovesse avere un respiro e un profilo alti: quello che chiamavamo e chiamiamo curricolo continuo, verticale e progressivo. Un curricolo che, invece, lo spezzatino attuale di infanzia, primaria, media, biennio, triennio, eredità di sovrapposizioni che vengono da un lontano passato, non è assolutamente in grado di assicurare. Sai meglio di me che la certificazione delle competenze di fine obbligo nelle nostre scuole non è sentita come dovrebbe e spesso si riduce a una semplice operazione formale! E ciò, anche se le competenze di cittadinanza e culturali che i nostri studenti dovrebbero acquisire hanno, almeno sulla carta, una stretta corrispondenza con le competenze di secondo livello che l’UE ha indicato a tutti i 28 Paesi membri: competenze che in altri Paesi si perseguono.

Ovviamente, riparare le scuole che crollano è un’urgenza. E’ un’urgenza dare certezze a 150mila precari. Dare spazio all’arte e alla musica è più che doveroso; e così dare spazio all’alternanza, alla banda larga veloce! Molto discutibile, invece, creare gerarchie tra gli insegnanti. Ma non mi dilungo su questi aspetti.

Non c’è alcun accenno, nella Buona scuola, a un riordino complessivo dell’intero sistema educativo di istruzione, che resta quello degli anni Settanta e che i riordini della Gelmini non hanno affatto messo in discussione, anzi! Basti pensare all’istruzione professionale che ha perduto tanto, se non tutto, di quanto avevamo innovato, e con tante difficoltà, con i Progetti ’92 e 2002. Assolutamente incompiuto è il discorso sulle competenze, se non impasticciato: basti vedere i modelli di certificazione per il primo ciclo di cui alla CM 3/15, su cui mi sono già espresso in altro scritto. Per non dire dell’esame di Stato del secondo grado di istruzione! Quest’anno – come sai – va a regime il riordino avviato nel 2010 dalla Gelmini e le Linee guida degli istituti tecnici e professionali indicano chiaramente le competenze terminali che gli studenti devono raggiungere (le Indicazioni nazionali per i licei sono estremamente vaghe al proposito), ma… l’esame di Stato resta quello che è. Di quella certificazione che nella tua legge 425/97 è chiaramente prescritta all’articolo 6, neanche l’ombra! Così, sono più di dieci anni che con l’esame di Stato non si certifica nulla! I punteggi lasciano il tempo che trovano! E i nostri studenti non posseggono diplomi leggibili anche oltralpe.

In effetti, abbiamo un ministero che non sa quel che fa. Però, abbiamo strani amici di una Buona scuola che pontificano non si sa in base a quale mandato. E vanno avanti come treni, anche se centinaia di collegi dei docenti hanno avanzato molte riserve sulle 135 pagine del loro documento.

Tu hai parlato – e io lo condivido da sempre – di una scuola senza banchi e senza cattedre con cui si liquidi per sempre una scuola logocentrica per dare spazio all’immaginazione, alla fantasia, al sogno, per attivare quelle operazioni di un cervello destro mutilato – sono parole tue – che entusiasmino gli alunni, da sempre annoiati da quelle lezioni cattedratiche di cui non riusciamo a liberarci: la “scuola che spalla”! Sono sempre parole tue. Ma la responsabilità non è degli insegnanti, è dell’organizzazione scolastica che la Buona scuola non mette in discussione, perché non ne è capace! Sai meglio di me che una materia, o meglio, più correttamente, una disciplina, non è un oggetto “da” apprendere, ma uno strumento “per” apprendere. Ma, e lo sai meglio di me, persistono le classi di età, le aule fatte di banchi, di cattedre – oggi ci sono anche le Lim, ma non sempre sono utilizzate al meglio – e di 18 ore per disciplina, tutte spese in uno stancante vis a vis con gli alunni! Stremati dopo cinque ore seduti su scomodi banchi! E poi ci sono le campanelle che scandiscono i tempi, uguali per tutti, come nelle fabbriche! Sono tutte cose che i Casati e i Coppino adottarono… allora… ma ora? La scuola caserma – corridoi e aule-camerate – la scuola collegio, la scuola convitto ha fatto il suo tempo. E non voglio tirare in ballo la Finlandia! Tu stesso hai accennato a scuole “altre” dove si apprende – e si insegna – in modi altri. Sui documenti del riordino gelminiano si insiste sulla “didattica laboratoriale” – ed è un accenno importante – ma è e resta un flatus vocis! L’organizzazione rigida rende vana la possibilità stessa di una didattica altra!

Con la Buona scuola abbiamo perso una grande occasione! Abbiamo un governo “da 40 per cento” che, invece di pensare in grande per una scuola che sia veramente Diversa e Migliore, ci costringe a bivaccare su una scuola Buona. Non vado oltre. In altri scritti, che tu per altro conosci, ho tentato di disegnare modi e tempi per una scuola diversa, una scuola attiva e centrata veramente sui bisogni dei nostri alunni, normali o speciali che siano.

Caro Luigi, tu hai volato alto e hai riscosso mille applausi e mille riconoscimenti. Vorrei solo che le tue parole spingessero i nostri anonimi estensori della Buona scuola a qualche ripensamento! Ma non credo! Ormai hanno avuto anche il tuo viatico! E procederanno per la loro strada. Les jeux sont faits, come si suol dire.

Prima che il gallo canti

Prima che il gallo canti


di Stefano Stefanel

Tra qualche giorno tutta l’attenzione del mondo della scuola sarà orientata verso i provvedimenti ministeriali nati da La Buona Scuola. Una parte consistente del mondo della scuola è già pronta a dare battaglia e credo che fin dai primi minuti dopo l’emanazione dei provvedimento ci saranno già le grida d’allarme e i richiami alla Costituzione tradita. Il Governo e la sua maggioranza parlamentare sembrano orientati su provvedimenti che eliminino le graduatorie dei precari, aumentino la flessibilità didattica e organizzativa con la generalizzazione dell’organico funzionale, introducano principi di valutazione, spingano verso un’uscita degli studenti dalla sola attività didattica nelle scuole con forti immissioni di alternanza scuola lavoro. Contro questa impostazione ci sono una vasta gamma di operatori della scuola che si sbracciano per spostare l’attenzione sulla Legge di iniziativa popolare (LIP) che vuole riportare la scuola italiana agli Anni Settanta del secolo scorso. I progressisti vogliono cambiare ma vengono tacciati di aziendalismo e di volontà privatistiche, i conservatori vogliono portare indietro le lancette della globalizzazione con ricette totalmente stataliste. Staremo a vedere, ma penso sia facile predire uno scontro frontale senza grandi possibilità di mediazioni e con un’ennesima “riforma” della scuola che si porta dentro sia le cose buone sia quelle meno buone per il rifiuto da parte dei contraddittori di intervenire sui singoli particolari e non solo sull’insieme (è già successo con Berlinguer, Moratti, Gelmini).


I VERI NODI PERO’ SEMBRANO ALTROVE


Scrivevo a inizio anno che “Si è spostato l’orizzonte”, ma poco meno di due mesi dopo devo dire che l’orizzonte è proprio sparito. Perché l’orizzonte dovrebbe essere il punto di arrivo che toglie alla scuola italiana le sue debolezze. So bene che le debolezze della scuola italiana indicate da tutti gli osservatori stranieri ed italiani (orari rigidi, poca autonomia delle scuole e degli studenti, poca flessibilità, esami di stato privi di alcun valore ma fortemente condizionati, orientamento dal primo al secondo ciclo e dal secondo ciclo all’Università molto debole e produttore di dispersione, discipline obsolete dominate da classi di concorso fuori dal tempo, orario settimanale rigido, valutazione attraverso medie matematiche di astrusi prodotti, dispersione nel biennio del secondo ciclo troppo alta, dominio delle lezioni frontali e delle interrogazioni, compiti in classe scritti su carta con penna, debolezza del 2.0, troppa teoria, ecc.) sono rivendicate da molti come la sua forza, ma credo non sia difficile da dimostrare che agendo solo su organici e docenti non si va a toccare il nocciolo culturale della questione. Cioè l’orizzonte.

La recente circolare sugli esami di stato conclusivi del secondo ciclo dell’istruzione mostra desolatamente come le forze della conservazione hanno vinto ancora e alla grande. L’occasione dell’esame finale per le prime classi nate dopo la Riforma Gelmini  è stato perso in maniera eclatante, ripetendo lo schema vecchio e mettendo una vera ipoteca su qualsiasi futuro cambiamento. La seconda prova d’esame condiziona ancora le didattiche disciplinari dell’intero quinquennio, mentre la terza prova è una vera esposizione del nullismo mnemonico-nozionistico della nostra scuola. Non capisco perché non si sia ribaltato completamente quell’esame, facendolo diventare anche nel diritto quello che è già nei fatti: una chiusura della carriera dello studente con un aumento della valutazione ottenuta nel suo corso di studi. Poiché in quell’esame nessuno viene bocciato e poiché non serve a nulla, non è chiaro perché si sia voluto perpetrare lo scempio e lo spreco di tempo e ricorse per ottenere risultati scontati e che non interessano più nessuno (due giorni d’estate sulla stampa, poi basta).

Non si parla poi molto dei percorsi didattici flessibili per gli studenti e dell’importanza che le esperienze extrascolastiche ed extracurricolari devono avere nel percorso formativo e culturale dello studente. Un buon metodo era quello di dare meno peso ai voti nelle discipline e più peso ad un punteggio che coniugasse valutazioni disciplinari, valutazioni extradisciplinari ecertificazione delle competenze e che andasse più verso una logica descrittiva e non solo sommativa. L’Italia ha bisogno più di altre Nazioni di sapere cosa sanno fare i suoi studenti, mentre l’unica cosa che sappiamo è che voto hanno preso. Con tutto quello che questo comporta in termini di perdita di competenze, opportunità e competitività.

La debole cultura valutativa italiana permette ai docenti di valutare gli alunni in base al rapporto insegnamento-apprendimento, anche quando l’insegnamento vale poco o riguarda cose da poco. Tutto il resto pare non interessare, anche se poi il sistema scolastico italiano viene valutato nella società della conoscenza attraverso le prove Ocse-Pisa e Invalsi e non attraverso i voti. Ma un ragionamento sulla valutazione parte sempre dall’idea che ci si deve difendere dai ricorsi, quasi che senza bocciature l’Italia non sappia più insegnare. Forse c’è da chiedersi perché in una società della conoscenza sia così importante mantenere strutture organizzative che nascono quando la società era del lavoro (forse) o dei consumi (forse). Oggi c’è bisogno di competenze e la modulazione dei percorsi degli studenti già molto dice su questo argomento. Eppure non c’è alcun interesse a ragionare attorno a sostanziali modifiche di tutto il sistema di valutazione (degli studenti, delle scuole, dei dirigenti, dei docenti).

Prima che si scateni il dibattito su provvedimenti che toccheranno soprattutto il personale docente mi è sembrato necessario ricordare flebilmente che la scuola italiana sta dentro una società della conoscenza di cui si ostina ad ignorare i contorni, quasi che il mondo non stesse cambiando giorno dopo giorno. Le possibilità ci sarebbero e sarebbero molte, rese più tangibili dall’autonomia scolastica, ma queste possibilità vengono bloccate dal rapporto tra la società della conoscenza che si ostina a non volersi far racchiudere nella scuola italiana e l’idea di scuola come luogo dei diritti contrapposti: quelli dei docenti in quanto lavoratori e quelli degli studenti. Solo la flessibilità didattica, educativa e curricolare può portare la scuola dentro quella società della conoscenza che guida la globalizzazione. Le rigidità del passato invocate come diritti costituzionali e dei lavoratori tengono soltanto la scuola lontana dal mondo che cambia, rendendo i nostri studenti poco competitivi nel mercato del lavoro, soprattutto italiano. A nessuno è mai venuto in mente un rapporto diretto tra disoccupazione post laurea e post diploma e obsolescenza della scuola italiana. Ma se magari a qualcuno viene in mente capisce dove bisognerebbe andare a parare.

Didattica Orientativa

Didattica Orientativa

di Salvatore Amato

L’azione orientativa ha accompagnato l’esistenza dell’uomo nel corso dei secoli, modificandosi parallelamente allo sviluppo della società umana. Nella nostra civiltà, fino al diciannovesimo secolo la pratica di orientamento si poteva definire come una “pratica spontanea”, la pratica professionale ha preso forma parallelamente allo sviluppo della società industriale che richiede una disponibilità continua all’aggiornamento e alla formazione, unitamente ad una rapida capacità di adattamento e riconversione delle proprie competenze.
L’esigenza di un orientamento che si realizzi lungo un continuum attraverso l’arco della vita e non si limiti ad un atto episodico viene ribadito a livello internazionale anche nella “Raccomandazione” conclusiva sul tema dell’orientamento del Comitato di esperti al Congresso internazionale UNESCO a Bratislava (1970).
A livello europeo il ruolo strategico attribuito all’orientamento nella lotta alla dispersione e all’insuccesso formativo trova adeguati riferimenti nel Memorandum del 2000 condiviso dagli stati membri dell’Unione Europea e nel successivo documento contenente i 15 indicatori considerati rilevanti per la qualità dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita (Lifelong learning).
A livello italiano, merita una riflessione la Direttiva Ministeriale n. 487 del 6 agosto 1997 che sottolinea la necessità di un rinnovamento della concezione e della pratica dell’orientamento: una nuova visione del concetto di orientamento, promosso al ruolo di “componente strutturale dei processi educativi” e non più un’attività laterale, saltuaria, circoscritta, mirata a risolvere situazioni di transizione o scelte come può essere il passaggio dalla scuola media alla scuola superiore o da questa all’università.
Nel corso del ventesimo secolo l’orientamento è stato ed è tutt’ora oggetto di studio e tema di confronto fra differenti teorie, sia dal punto di vista ideologico e sia metodologico, specialmente nell’ambito formativo.
All’inizio è prevalsa una concezione “psicologistica” dell’orientamento, che a partire dagli anni ’70 è stata sostituita da una concezione “socio-economica” che vede succedersi tre modelli consecutivi di orientamento di cui il primo aperto al mondo del lavoro e sottomesso al sistema socioeconomico, il secondo chiuso, isolato rispetto al mondo esterno e finalizzato principalmente al successo formativo dello studente e il terzo che favorisce il pieno sviluppo della persona e, allo stesso tempo, inserisce l’individuo nel contesto sociale e nei processi di cambiamento in corso in esso.
In questo processo di ricerca ci sono stati in Italia alcuni contributi teorici di grande rilievo nella letteratura dedicata alla didattica orientativa, inizialmente riferiti alla scuola media ma successivamente sempre più decisamente all’intero sistema scolastico.
Per fare un breve irrinunciabile riferimento mi rifaccio alla Prof.ssa Maria Luisa Pombeni la quale nel 2000 introduceva la nozione di competenze orientative necessarie per auto-orientarsi, distinguendo le competenze orientative specifiche, che si sviluppano esclusivamente attraverso interventi intenzionali gestiti da professionalità competenti, con le cosiddette azioni orientative (di monitoraggio o di sviluppo) dalle competenze orientative generali, finalizzate principalmente ad acquisire una cultura ed un metodo orientativo (orientamento personale) e propedeutiche alle prime, che si acquisiscono principalmente attraverso i saperi formali (per esempio la didattica orientativa).
Nella nostra società complessa, caratterizzata da profondi cambiamenti, ci si interroga su quello che devono “fare” le scuole per far sviluppare queste competenze agli studenti.
Devono semplicemente riprodurre la cultura, uniformare i giovani a uno stesso stile, secondo la concezione sofistica della téchne ad esempio trasformandoli in tanti “piccoli” italiani come sosteneva il Linati dopo l’Unità d’Italia per esigenze di unificazione?
O la scuola farebbe meglio a dedicarsi all’ideale altrettanto rischioso di preparare i giovani ad affrontare il mondo in evoluzione che dovranno abitare?
In questo secondo caso, però, come faremo a decidere quale sarà quel mondo e cosa richiederà loro?
Nel mondo in cui viviamo, in continua evoluzione, l’unica soluzione percorribile per la scuola è quella di educare gli studenti all’autonomia, alla indipendenza, alla responsabilità, alla capacità di inventare il proprio futuro, rendendoli immuni da ogni forma di massificazione, di inquadramento.
Sotto il profilo pedagogico, l’orientamento come approccio educativo suscita quindi molto interesse e ci pone d’obbligo l’interrogativo, se esso debba essere considerato un mezzo o un fine.
Se l’orientamento è considerato un mezzo (téchne educativa/orientativa), per l’educazione delle persone, significa che è un problema di razionalità tecnica e sotto questo aspetto, sarebbe solo una raffinata “tecnica manipolatoria”, attraverso la quale qualcuno si impone su un altro facendogli interiorizzare, come scelte libere ed autonome, gli oggettivi rapporti di forza culturali, personali e sociali delle strutture di potere esistenti.
Se l’orientamento è considerato un fine, per l’educazione delle persone, significa che non è solo un problema di razionalità teoretica o tecnica, ma di razionalità pratica, umana, quella morale, che coinvolge la volontà, la libertà e la responsabilità di ciascuno.
Fin qui è emerso chiaramente che l’orientamento non costituisce più un processo a sé stante o indipendente, che si affianca al processo formativo, bensì si identifica con esso e se ne distingue solo in quanto contribuisce alla chiarificazione della scelta, ponendo, responsabilmente, l’individuo di fronte all’ambiente che lo circonda.
Di qui l’importanza, di un’ipotesi di lettura epistemologica dell’orientamento, per riflettere sul nostro modo di conoscere e di formarci, negli ambienti di apprendimento formali dove quasi tutto l’impianto della conoscenza ruota attorno all’apparato disciplinare e le discipline costituiscono l’oggetto dell’attività formativa.
Le discipline con i saperi che ne conseguono, sotto l’aspetto epistemologico, non sono intese come contenitori o classificazioni di conoscenze (come potrebbero esserlo le materie), ma come strutture e metodologie di pensiero e linguaggi (norme specifiche) per leggere la realtà o come strumenti per agire sulla realtà per una costruttiva integrazione di chi apprende nell’ambiente in cui vive.
Visto il duplice ruolo che può assumere la disciplina, a questo punto, è lecito porsi la seguente domanda: sarebbe bene, insegnare le discipline o insegnare con le discipline?
La mediazione, istruita dalla razionalità pratica, umana, che coniuga insieme le discipline come oggetto dell’apprendere e le discipline come strumento d’azione apprenditiva e formativa, ci conduce al fine dell’azione educativa “buona”: la competenza orientativa.
Alla luce di tutto ciò i docenti non possono più considerare l’orientamento come un’azione di tipo progettuale, affidata esclusivamente a funzioni strumentali o a figure di sistema, ma devono progressivamente acquisire l’ottica orientativa, per una didattica orientativa, come imprescindibile condizione dell’attività didattica quotidiana.
Scuola e territorio necessitano quindi di docenti e dirigenti formati, capaci di governare la complessità del processo alla scelta per mezzo di offerte formative e non semplicemente informative.
E’ in questo nuovo scenario che al Dirigente Scolastico è richiesta una cultura organizzativa, da ricercare nel quadro normativo e nella ricerca scientifica, che gli consenta di cogliere il senso e la trasformazione nel superamento del vecchio modo direttivo di gestire la scuola.

prospettiva

Giornata nazionale del Braille

Il 21 febbraio: GIORNATA NAZIONALE DEL BRAILLE

La Giornata nazionale del braille è una ricorrenza istituita con la legge n. 126 del 3 agosto 2007. La giornata si celebra annualmente il 21 febbraio, quale momento di sensibilizzazione dell’opinione pubblica nei confronti delle persone non vedenti, in coincidenza con la Giornata mondiale della difesa dell’identità linguistica promossa dall’Unesco (l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura). Infatti, questo sistema consente ai ciechi di accedere al patrimonio culturale scritto dell’umanità.

Nell’ambito di tale giornata, le amministrazioni pubbliche e gli altri organismi operanti nel settore sociale possono promuovere idonee iniziative di sensibilizzazione e solidarietà, nonché studi, convegni, incontri e dibattiti presso le scuole e i principali mass-media, per richiamare l’attenzione e l’informazione sull’importanza che il sistema Braille riveste nella vita delle persone non vedenti e di quanti sono coinvolti direttamente o indirettamente nelle loro vicende, al fine di sviluppare politiche pubbliche e comportamenti privati che allarghino le possibilità di reale inclusione sociale e di accesso alla cultura e all’informazione per tutti coloro che soffrono di minorazioni visive.

La ricorrenza è considerata solennità civile e non determina riduzione dell’orario di lavoro negli uffici pubblici, né, qualora cada nei giorni feriali, costituisce giorno di vacanza o comporta riduzione di orario per le scuole di ogni ordine e grado.


 

Seminario-Giornata Studio “DAL BRAILLE TRADIZIONALE A QUELLO MULTIMEDIALE DELLE NUOVE TECNOLOGIE DIGITALI: tavoletta e Hi-tech a confronto”- Isernia 27 febbraio 2015.

 

Riceviamo e pubblichiamo:

 

“Si comunica che  in occasione dell’VIII Giornata nazionale del Braille l’Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti Onlus di Isernia organizza il Seminario-Giornata Studio dal titolo: “DAL BRAILLE TRADIZIONALE A QUELLO MULTIMEDIALE DELLE NUOVE TECNOLOGIE DIGITALI: tavoletta e hi-tech a confronto”.

 

Il Seminario -giornata studio si svolgerà presso l’Aula Magna dell’ITIS “E. Mattei”, Viale dei Pentri – 86170 ISERNIA, dalle ore 9.00 alle ore 13.00 del giorno 27 febbraio 2015.

 

Durante i lavori saranno consegnati i riconoscimenti al merito di chi si è particolarmente distinto per la vicinanza e il sostegno alla Dirigenza dell’UICI Onlus di Isernia.

 

IL Programma

  • ore 9.00  registrazione dei partecipanti, saluto delle autorità e dei rappresentanti istituzionali dell’Associazione
  • ore 9:30 Saluto e intervento del Presidente nazionale dell’Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti, Mario Barbuto

  • ore 10:00 Avv. Paolo Colombo, Responsabile del Centro di documentazione giuridica Gianni Fucà: “Normativa di tutela del non vedente

  • ore 10:20 Prof. Marco Condidorio, presidente regionale UICI Onlus Molise e Direttore I.Ri.Fo.R. Onlus Molise : “Dal significato storico dell’invenzione di Louis Braille: l’approccio tiflologico e didattico del codice per i docenti di sostegno
  • ore 10:40  Dr.  Sabato De Rosa, Assistenza e Consulenza Ausili e Tecnologie Informatiche Servizio Tiflotecnico “Cavazza” , “Il Braille per e su dispositivi mobili”.

ore 11.00 Coffee break

  • 11:20 Antonio Maggiore, Presidente della Cooperativa sociale “Centro italiano tiflotecnico” di Lecce: “Strumenti per l’autonomia e stampante braille”
  • 11:40 Dr. Salvatore Romano, Componente della Direzione Nazionale UICI: “Gli Ausili e  Progetto Mercurio della Apple rivolto ai sordo-ciechi”
  • 12: 00 Dr. Michele Corcio, vice presidente IAPB e Consigliere nazionale dell’UICI: “Attività riabilitativa per gli ipovedenti: realtà e problematicità“.

ore 12.20  Dibattito e  conclusioni

Si informano i partecipanti che in concomitanza al Seminario – Giornata Studio è allestita nei locali adiacenti alla Sala Convegni la mostra tiflo-tecnica e informatica dedicata agli ausili per l’autonomia delle persone in situazione di cecità assoluta e ipovisione.

 

Inoltre,  per chi lo richiede sarà possibile ritirare l’attestato di partecipazione per uso di certificazione e/o come richiesta  di crediti scolastici.

 

Per ulteriori informazioni è possibile contattare la segreteria dell’Unione isernina ai seguenti recapiti: tel. 0865 415084 oppure scrivere a uici-isernia@legalmail.it.”

 

 

 

Mario Barbuto

Presidente Nazionale


Concorso europeo di temi sul Braille 2015 (scadenza 30 aprile 2015)

 

 

 

In occasione della Giornata Nazionale del Braille, l’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti è lieta di informare che l’Unione Europea dei Ciechi organizza anche quest’anno il Concorso europeo di temi sul Braille, sponsorizzato dalla ditta Onkyo e dalla rivista “Braille Mainichi” giapponesi. Quest’anno il concorso propone una pluralità di temi tra i quali scegliere:

 

  • “Il ruolo del Braille nella promozione della partecipazione delle persone con disabilità visiva alla vita politica, economica, culturale, sociale e familiare”. Esempi di come questo tema generale possa essere trattato sono: il Braille nell’era della tecnologia, l’uso del Braille a tutte le età, il Braille e il voto.

 

  • “Vivere con il Braille – incoraggiamo insegnanti, trascrittori e tutti coloro che fanno in qualche maniera uso del Braille o vorrebbero farne uso a riflettere sul ruolo del Braille”. Viene incoraggiata la descrizione oggettiva di soluzioni, idee e prodotti innovativi per promuovere il Braille in tutta Europa.

 

  • “Storie divertenti sul Braille”

 

  • “Riflessioni sul futuro del Braille”

 

  • “Riflessioni su vantaggi e svantaggi del Braille a confronto con la stampa in nero”

 

  • “Braille e touchscreen: le nuove frontiere del sistema”.

 

 

Gli elaborati non devono superare le 1000 parole (con un 10% in più o in meno di tolleranza).

 

I concorrenti saranno comunque liberi di trattare il tema scelto interpretandolo secondo la propria immaginazione e sono altresì incoraggiati a essere creativi non limitandosi alla classica narrazione della storia della propria vita, ma elaborando il testo sotto forma, ad esempio, di lettera, poesia o intervista.

 

L’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti è stata chiamata a collaborare allo svolgimento del concorso occupandosi della diffusione delle informazioni sul concorso a livello italiano e fungendo da segreteria del concorso per la fase iniziale di selezione delle composizioni dei concorrenti italiani. Le composizioni, in Braille o in formato elettronico accessibile, dovranno pervenire all’Ufficio Affari Internazionali dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti, via Borgognona 38, 00187 Roma, tel: 06 69988388/375, e-mail: inter@uiciechi.it entro il 30 aprile 2015. Si allega il regolamento del concorso.

 

Si confida in una sollecita e ampia diffusione della notizia.

 

Cordiali saluti.

IL SEGRETARIO GENERALE

(dr. Alessandro Locati)

ALLEGATO

 

CONCORSO DI TEMI SUL BRAILLE EBU ONKYO 2015 – EUROPA

REGOLAMENTO

1. Scopo e tema

1.1 Il concorso europeo di temi sul Braille organizzato dall’Unione Europea dei Ciechi (EBU) per conto della ditta Onkyo e della rivista Braille Mainichi ha lo scopo di promuovere l’utilizzo del Braille come chiave di accesso per i non vedenti all’informazione e all’inclusione sociale.

1.2 Quest’anno il concorso propone i seguenti temi:

  • “Il ruolo del Braille nella promozione della partecipazione delle persone con disabilità visiva alla vita politica, economica, culturale, sociale e familiare”. Esempi di come questo tema generale possa essere trattato sono: il Braille nell’era della tecnologia, l’uso del Braille a tutte le età, il Braille e il voto.

 

  • “Vivere con il Braille – incoraggiamo insegnanti, trascrittori e tutti coloro che fanno in qualche maniera uso del Braille o vorrebbero farne uso a riflettere sul ruolo del Braille”. L’elaborato può essere una relazione o un esercizio di scrittura creativa sul tema scelto e viene incoraggiata la descrizione di soluzioni, idee e prodotti innovativi per promuovere il Braille in tutta Europa.
  • “Storie divertenti sul Braille”
  • “Riflessioni sul futuro del Braille”
  • “Riflessioni su vantaggi e svantaggi del Braille a confronto con la stampa in nero”

 

  • “Braille e touchscreen: le nuove frontiere del sistema”.

 

I concorrenti saranno comunque liberi di trattare il tema scelto interpretandolo secondo la propria immaginazione e sono altresì incoraggiati a essere creativi non limitandosi alla classica narrazione della storia della propria vita, ma elaborando il testo sotto forma, ad esempio, di lettera, poesia o intervista.

  1. Condizioni generali2.1 Concorrenti

    Chiunque utilizzi il Braille, vedenti compresi, e risieda in Italia può partecipare al concorso senza alcun limite d’età.

    2.2 Elaborati

    * I concorrenti devono presentare un elaborato in formato digitale su uno dei temi descritti nel comunicato sul concorso.

    * I concorrenti non possono presentare più di un elaborato.

    * Le composizioni devono essere in inglese o in italiano.

    * Gli elaborati non devono superare le 1000 parole (con un 10% in più o in meno di tolleranza)

    * Gli elaborati devono includere le seguenti informazioni: nome, cognome, sesso ed età del concorrente, paese, numero delle parole dell’elaborato, indirizzo postale, numero di telefono ed eventualmente indirizzo e-mail.

    IMPORTANTE! Le succitate informazioni devono essere poste all’inizio dell’elaborato, prima del titolo

    2.3 Diritti d’autore

    Con la loro partecipazione a questo concorso

    * Gli autori cedono automaticamente e in maniera esclusiva a livello mondiale tutti i diritti, inclusi quelli d’autore, all’EBU, che potrà consentire l’esercizio di tali diritti in licenza o cederli.

    * Gli autori permettono all’EBU l’utilizzo del loro nome e dei loro elaborati per attività di promozione con qualunque modalità l’EBU ritenga opportuna.

    * In quanto detentore di diritto d’autore, l’EBU può dare il permesso agli autori e ai suoi Membri Nazionali di fare uso degli elaborati nella maniera che essi ritengano adeguata.

    * I vincitori del concorso forniranno all’EBU alcune loro foto e riconosceranno il diritto dell’EBU a riprodurre, adattare, editare e pubblicare le loro foto su qualunque mezzo di comunicazione, incluso il web e la stampa.

    3. Procedura

    * I concorrenti devono far prevenire i loro elaborati all’Ufficio Affari Internazionali dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti, via Borgognona 38, 00187 Roma, tel: 06 69988388/375, e-mail: inter@uiciechi.it entro il 30 aprile 2015.

    * L’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti effettuerà una preselezione in modo da presentare non più di cinque elaborati alla Giuria di selezione europea.

    4. Premi

    * Premio Otsuki (1° premio): USD 2000,00

    * Premi di eccellenza
    o categoria giovani, per persone di età non superiore a 25 anni : USD 1000,00
    o categoria adulti/anziani per persone di età superiore a 25 anni: USD 1000,00

    * Premi per opere di merito
    o categoria giovani: due premi da USD 500,00 ciascuno
    o categoria adulti/anziani: due premi da USD 500,00 ciascuno

 


 

Braille, storia di Lisa: la piccola combattente che comincia tutto con un no

Giornata mondiale. Seguita dalla Lega del Filo d’Oro, una vita costellata da complicazioni fin dalla nascita, è riuscita a vincere un concorso di lettura Braille nella categoria riservata ai bambini

Lisa. Foto: Lega del Filo d’Oro
Lisa.
Lega del Filo d’Oro
OSIMO (AN) – La Giornata nazionale del Braille del 21 febbraio, accende i riflettori su situazioni e storie che vale la pena raccontare. Quella di Lisa, di appena otto anni, è una di queste. Oggi è una delle tante bambine sordocieche seguite dalla Lega del Filo d’Oro, ma tornando indietro nel tempo la sua storia è costellata da mille difficoltà che l’hanno accompagnata fin dai primi giorni della sua vita. La sua famiglia è piuttosto numerosa: mamma Sandra, papà Federico, le gemelle Denise e Jennifer, un cane e un gatto. Nel gennaio 2007, Lisa fu la prima delle tre a nascere, a sole 23 settimane di gestazione. Denise e Jennifer resistettero nella pancia della mamma altri quindici giorni.

Le difficoltà subito dopo la nascita. La storia della piccola Lisa è piena di complicazioni: a undici giorni ha avuto una perforazione del colon. Poi un’infezione al sangue. Poi la retinopatia del prematuro: “A tre mesi io e lei siamo stati per un mese a Milano, per tentare di riattaccare la retina”-  ricorda la mamma Sandra. È così che inizia la scoperta dei suoi problemi sensoriali: “Lisa non distingue nulla, nemmeno la luce o le ombre. Siamo andati fino a Detroit, niente da fare. Quando lei aveva un anno hanno riscontrato anche una sordità medio grave, ma grazie a una bravissima logopedista, Lisa ha imparato a parlare”.

Lisa. Foto: Lega del Filo d’Oro
Lisa.
Lega del Filo d’Oro 2
L’arrivo alla Lega del Filo d’Oro. Nonostante le difficoltà, Sandra ha trovato nella onlus marchigiana un’ancora di speranza alla quale aggrapparsi ed ora è contenta delle tante esperienze fatte con Lisa. “Quando siamo arrivati alla Lega del Filo d’Oro, però, abbiamo capito subito che questo è il top”, dice, “da nessuna altra parte fanno così tante ore di terapia, ogni giorno, come qui. Né ci sono così tanti specialisti che ti visitano. E soprattutto questa è l’unica struttura che accoglie tutta la famiglia”.

Traguardi e sfide. Tra i molteplici significati della Giornata dedicata al Braille, il più importante è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica su storie come quella di Lisa. Il suo continuo superarsi e sorprendere rende orgogliose le persone che le sono vicine, prima tra tutte la sua mamma. Sorprese, con Lisa, ce ne sono tutti i giorni. “È vero, noi le chiediamo sempre di più, perché sappiamo che ha le possibilità. Ogni volta lei dice ‘no’, e poi si mette d’impegno”, racconta Sandra. L’insegnante intanto tira fuori una dattilobraille: “Lisa, proviamo a schiacciare i tasti con la dattilobraille?”. “No!”, fa lei, buttando indietro i riccioli biondi. Poi si siede al tavolo e comincia a picchiettare. Un ditino a sinistra, due ditini a sinistra, tre ditini a sinistra. E via, si ricomincia. “Vedrai che diventerà la sua attività preferita!”, scommette Sandra. E sorride.
Sandra aveva ragione. Oggi infatti Lisa è riuscita a partecipare, e a vincere, un concorso di Braille nella categoria riservata ai bambini di II e III elementare.

Tattile, digitale, in braille o Lis: il libro accessibile si mette in mostra

Promossa da Area Onlus in collaborazione con la fondazione Agnelli a Torino, la rassegna partirà sabato 25 e andrà avanti fino al 31 ottobre. Vi interverranno docenti universitari, ricercatori, scrittori ed editori, per fare il punto sull’editoria accessibile e sulle sue applicazioni nel sistema scolastico

TORINO – Se la cultura dev’essere per tutti, meglio iniziare da giovani. Con questo spirito, si aprirà domani a Torino la prima settimana del libro accessibile, una rassegna di convegni, workshop, laboratori ed eventi sull’editoria che si rivolge ai disabili: libri tattili, digitali, con marcatori visivi o Lis; ma anche ad alta leggibilità, senza parole o espressi in simboli.

Promossa da Area onlus, in collaborazione con la fondazione Giovanni Angelli, l’iniziativa prende il nome di “Lettori senza frontiere”: vi partecipano scrittori, editori e docenti universitari, invitati a fare il punto sull’editoria accessibile in Italia e all’estero. I primi destinatari saranno invece gli operatori del sistema educativo e i ragazzi delle scuole di ogni ordine e grado: a loro sono rivolti i cinque giorni di laboratori che si terranno nella sede di Area Onlus dal 27 al 31 ottobre, durante i quali potranno incontrare, tra gli altri, lo scrittore Massimiliano Verga, che in “Un gettone di libertà” (Mondadori) ha raccontato, con ironia e tenerezza, la sua esperienza di padre di un bimbo affetto da grave disabilità. Parallelamente, docenti ed educatori potranno frequentare una serie di workshop sugli utilizzi del libro accessibile all’interno del sistema scolastico, in relazione alle diverse forme di disabilità.
Sabato 25, inoltre, Andrea Canevaro – già direttore del dipartimento di Scienze dell’educazione dell’università di Bologna e membro della Commissione scientifica dell’Osservatorio nazionale per l’integrazione dei disabili – terrà una lectio magistralis nel convegno d’apertura, dedicato a “L’editoria accessibile come strumento di apprendimento, inclusione e crescita sociale”. Tra gli altri relatori, l’esperta di letteratura per l’infanzia e handicap Elena Cormiglia illustrerà lo stato dell’arte del libro accessibile in Italia; Caterina Ramonda, istruttrice bibliotecaria,  indicherà percorsi di lettura per ragazzi; Della Passarelli, editrice, racconterà il ruolo delle case editrici nello sviluppo di un progetto di libro ad alta leggibilità; mentre Andrea Mangiatordi, ricercatore in didattica e pedagogia speciale presso l’università Bicocca di Milano, parlerà di libri digitali e app come potenziali strumenti di apprendimento e conoscenza per i bambini con bisogni educativi speciali.

Attiva dal 1982, Area Onlus si occupa in prevalenza di bambini, adolescenti e giovani adulti cui è stata diagnosticata una disabilità complessa derivante da sindromi genetiche, neurologiche o da esiti di sofferenze perinatali. Il lavoro della onlus, di orientamento psicodinamico, è caratterizzato dalla presa in carico dell’intero nucleo familiare e dal coinvolgimento degli operatori sociosanitari di riferimento. “Negli ultimi anni – spiega la presidente Gianna Recchi – abbiamo approfondito le tematiche collegate all’editoria accessibile dedicata all’infanzia e all’adolescenza, portando avanti una riflessione attenta e puntuale sulle reali possibilità di inclusione che questo tipo di strumento offre. La particolare caratteristica di questi libri, costruiti a partire da codici espressivi diversi e compresenti, fa sì che essi siano allo stesso tempo speciali, perché rispondono a particolari bisogni di lettura e per tutti, perché consentono esperienze condivise.”

All’interno della rassegna – patrocinata dalla città di Torino, la regione Piemonte e il ministero dell’Istruzione – ogni giornata sarà dedicata a un tema specifico: si discuterà di dislessia e disturbi della comunicazione; dei silent books, in cui la narrazione è veicolata esclusivamente attraverso le immagini; della comunicazione aumentativa e alternativa, di libri tattili e disabilità sensoriali. La partecipazione è gratuita per tutti gli eventi, previa prenotazione (segreteria.contesti@areato.org). Durante la settimana, sarà inoltre possibile visitare la mostra di libri accessibili per l’infanzia “Vietato non sfogliare”, già esposta nell’edizione 2013 del Salone del libro. Per informazioni: www.areato.org (ams)


Giornata del Braille: quei 64 simboli che fanno leggere con le dita

Il 21 febbraio si celebra anche in Italia la ricorrenza del metodo di lettura e scrittura per non vedenti. L’esperienza della Lega del Filo d’Oro, l’associazione marchigiana di assistenza e riabilitazione di persone sordocieche e pluriminorate sensoriali

Persone impegnate nella lettura Braille. Foto: Lega del Filo d’Oro
Ciechi, non vedenti – Lettura in Braille
OSIMO (AN) – Il viso di Lisa si illumina in un sorriso mentre le sue dita corrono sulle pagine di un quadernone dove sono incisi dei segni in Braille. Quei puntini in rilievo sulla carta che Lisa chiama “stradine” e che già da qualche tempo ha imparato a distinguere con attenzione, sono i protagonisti della ricorrenza di sabato 21 febbraio quando si celebrerà la Giornata nazionale del Braille. Lisa è solo una dei tanti bambini che oggi grazie al metodo di scrittura utilizzato dalle persone non vedenti può comunicare, leggere e studiare in autonomia.

A seguirla è la Lega del Filo d’Oro, l’Associazione che dal 1964 si occupa di sordociechi e pluriminorati psicosensoriali. “I traguardi di Lisa sono quelli che ci danno la spinta ad andare avanti – dice Patrizia Ceccarani, direttore tecnico scientifico della Lega del Filo d’Oro – perché la comunicazione è uno strumento fondamentale per lo sviluppo della persona, su cui si basa il percorso riabilitativo e su cui bisogna investire con metodo e professionalità. La sfida più grande che ci poniamo ogni giorno è proprio quella di mettere l’ospite in relazione con il mondo esterno”.

Lettura in Braille. Foto: Lega del Filo d’Oro
Ciechi, non vedenti. Foglio con incise le parole
in Braille
Il Braille è un metodo di lettura e scrittura utilizzato dalle persone non vedenti, costituito da punti in rilievo a cui corrispondono le lettere dell’alfabeto. Messo a punto dal francese Louis Braille nella prima metà del XIX secolo consiste in simboli formati da un massimo di sei punti, impressi su fogli di carta. La lettura Braille viene effettuata di solito dall’indice della mano destra, seguito da quello della mano sinistra che ha il compito di orientare nella individuazione delle righe. A causa del limitato numero di simboli disponibili, solo 64, esistono diversi significati per ogni carattere, a seconda dell’argomento trattato e del linguaggio usato.

La Giornata nazionale del Braille è una ricorrenza per sensibilizzare “l’opinione pubblica nei confronti delle persone non vedenti”: è quanto recita la legge approvata il 3 agosto del 2007, dando seguito agli sforzi e alle richieste di chi si occupa di cecità e della sua prevenzione. La data del 21 febbraio coincide con la Giornata mondiale della difesa dell’identità linguistica promossa dall’Unesco, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura.

Con le competenze non si gioca

Con le competenze non si gioca
e, soprattutto, non si possono rateizzare

di Maurizio Tiriticco

Ho letto con molta attenzione i due modelli di certificazione delle competenze che i nostri alunni dovrebbero conseguire al termine della scuola primaria e del primo ciclo di istruzione: sono allegati alla recente cm 3/15. La prima considerazione critica riguarda l’opportunità stessa di certificare competenze relative a bambini/e di dieci anni e di adolescenti di quattordici. Il possesso e l’esercizio di una reale competenza sono cose troppo impegnative per riguardare fasce di età così basse. Ma è un’osservazione che lascia il tempo che trova, perché la nostra Amministrazione, che in materia di competenze mastica poco o nulla, da quando il concetto stesso di competenza è entrato nel linguaggio dei processi di Educazione, Istruzione e Formazione, “importato” – se così si può dire – da ricerche effettuate oltralpe ed entrate nelle normativa dell’Unione europea, si è sentita in dovere di infilare questa sorta di parola, magica e salvifica nello stesso tempo, in ogni testo normativo: ovviamente, senza mai darne una definizione certa, tale che gli operatori scolastici potessero condividere.

E’ un’esperienza che ho mal vissuto personalmente quando, con la prima applicazione della legge 425/97, che riordinava l’esame di Stato dell’istruzione secondaria superiore, non si riuscì neanche a dare una definizione di “competenza”. Tant’è vero che un esame che avrebbe dovuto sostituire alla “valutazione globale della personalità del candidato” (L. 119/69, art. 5) la necessità di “dare trasparenza alle competenze, conoscenze e capacità acquisite” (L. 425/97, art. 6)”, anche per tener conto “delle esigenze di circolazione dei titoli di studio nell’ambito dell’Unione europea” (ibidem), a tutt’oggi vive ancora nel limbo! E va anche considerato che con l’anno scolastico in corso si conclude il riordino avviato cinque anni fa, con i dpr 87, 88 e 89 e le Direttive 4 e 5 del 16 gennaio 2012, e fortemente finalizzato, proprio, alla certificazione delle competenze!!!

Per anni l’amministrazione si è prodigata a “legiferare” sul fatto che, alla fine della scuola primaria e alla fine del primo ciclo, le scuole sono tenute a verificare le competenze raggiunte dagli alunni, ma non ha mai indicato quali fossero concretamente queste competenze, lasciando alle scuole l’onore e l’onere di “inventarsele”, letteralmente! Ma una competenza non si inventa! Così per anni i nostri alunni, usciti dai due gradi di istruzione si sono trovati nella mani documenti diversi, incomparabili, inutili ai fini di una concreta utilizzazione. E va poi considerato che oggi, sotto il profilo formale, le uniche competenze spendibili per proseguire gli studi nell‘istruzione o nella formazione professionale regionale o per accedere all’apprendistato (nel caso il soggetto abbia conseguito i 15 anni di età), sono solo quelle che concludono l’obbligo di istruzione, ormai decennale.

E non si capisce perché questo esame di terza media debba essere sempre così impegnativo (appesantito pure dalla prova nazionale Invalsi), quando in effetti non conclude un ciclo completo di studi! Se è vero, com’è vero, che abbiamo avvertito l’esigenza di innalzare di due anni l’assicella relativa alla conclusione deglii studi obbligatori e necessari per poi fare altre scelte. Pertanto, non sarebbe forse l’ora di pensare a un ciclo decennale obbligatorio continuo e progressivo, pur se, ovviamente, articolato al suo interno? Un’articolazione che, però, non debba necessariamente essere l’attuale differenza formale di distinti gradi di istruzione. E l’esame di Stato, previsto dalla Costituzione, coinciderebbe con la certificazione delle competenze raggiunte al termine dell’unico e unitario ciclo decennale finalizzato al conseguimento dell’obbligo di istruzione.

Rispetto a queste colossali carenze della nostra amministrazione, qualche eccezione va fatta, ovviamente. Infatti, per quanto riguarda la conclusione dell’obbligo decennale di istruzione, sono state individuate con il dm 139/07: a) competenze chiave di cittadinanza, necessarie e indispensabili ai fini dell’apprendimento per tutta la vita, in ordine a quanto indicato anche e soprattutto dalla Raccomandazione europea del 18 dicembre 2006; b) competenze culturali rintracciabili lungo quattro assi pluri- ed interdisciplinari, in relazione al fatto che una competenza molto difficilmente è afferibile a un unico campo disciplinare. Però, quando si è trattato di definire il modello di certificazione – il che è avvenuto inspiegabilmente ben tre anni dopo, con il dm 9/10 – l’amministrazione ha omesso la certificazione delle competenze di cittadinanza, che sono altra cosa rispetto a quelle culturali, e non possono assolutamente costituirne un semplice “riferimento”, come si afferma nel citato dm. In effetti, un soggetto può essere un ottimo cittadino, ma un pessimo ingegnere, oppure un ottimo ingegnere, però… a servizio della mafia!

Non va poi dimenticato il lavoro effettuato da gruppi di esperti per quanto riguarda l’individuazione, la definizione e la descrizione delle competenze terminali dei percorsi degli istituti tecnici e professionali, anche se nei limiti delle singole discipline di studio. Non si capisce, comunque, perché, per quanto riguarda i percorsi liceali, non sia stata adottata la medesima procedura: di competenze si parla anche troppo spesso nel documento di riordino, ma queste… “scompaiono”, al termine dei percorsi. Così, di fatto, abbiamo nel nostre Paese due modelli di percorsi di istruzione secondaria di secondo grado: quello dei tecnici e dei professionali, governato da Linee guida, finalizzato all’acquisizione di competenze, e quello dei licei, governato da Indicazioni nazionali, finalizzato non si sa bene a che cosa!

Per quanto riguarda il merito dei due modelli proposti dalla cm 3/15, ritengo che:

  1. a) la competenza è una cosa troppo seria perché un adolescente di 11 e poi di 14 anni possa essere dichiarato “competente” in qualcosa. A meno che non si voglia dire che è competente un bambino quando è in grado di controllare le sue minzioni (la fine del pannolino!) o di allacciarsi il cappotto o di andare a scuola da solo! In effetti, mi sembra corretta la scelta, molto più sfumata, dei “traguardi per lo sviluppo delle competenze”, di cui alle Indicazioni nazionali. Poi bisogna avere ben chiara la differenza che corre tra abilità e competenza e, se vogliamo, in via prioritaria, tra capacità e abilità, e ancora, tra conoscenza in quando dati e informazioni appresi, compresi, acquisiti, “archiviati”, e conoscenza in quanto elaborazione e/o produzione di informazioni. Comunque, è la “legge” (il dpr 122/09 sulla valutazione) che impone la certificazione delle competenze per bambini e adolescenti, quindi… E non è affatto casuale che tanti insegnanti abbiano difficoltà a definire e accertare competenze – se poi di competenze si tratta – a livelli così bassi di età;
  2. b) perché “profilo delle competenze” e non, invece, “competenze” chiare e tonde? La risposta discende dal punto a). Probabilmente gli estensori del documento si sono resi conto della materiale impossibilità di descrivere competenze a tutto tondo;
  3. c) ovviamente, la dizione “profilo” comporta una scritturazione abnorme e a volte involuta. Si guardi ad esempio al profilo 3 della scuola media o al profilo 7 della primaria. Forse era difficile per gli estensori individuare, definire e descrivere una precisa e circoscritta competenza, data la scelta del “profilo” più che della vera e propria “competenza”. Insomma, tra profilo e competenza corre una grande differenza concettuale e semantica. Se penso a un ingegnare o a un giudice o a un cuoco o a un agente di commercio, non posso contentarmi di un profilo generico, ma esigo un titolo di studio a tutto tondo e con l’indicazione di un preciso e mirato corso di studi;
  4. d) non convince l’intreccio delle competenze culturali – lato sensu – con le competenze chiave di cittadinanza, per le ragioni che abbiamo già ricordate: al limite, un alunno può essere un genio in matematica, ma nel contempo rubare le merendine ai compagni; un altro può essere generoso con tutti, ma incapace di fare due più due, o di esprimere un pensiero compiuto;
  5. e) perché quattro livelli di indicatori e non tre, come nella certificazione dell’obbligo di istruzione? Per non dire di quella goffa espressione del livello iniziale D: “se opportunamente guidato/a”: vuole significare una sorta di salvataggio dei mediocri? Sempre che il “mediocre” sia un giudizio accettabile in una scala valutativa che abbia un minimo di correttezza. O forse si è voluto evitare che è anche possibile che qualche competenza non accertata non venga certificata? Eppure, la scelta fatta con il dm 9/10 (modello di certificazione conclusivo dell’obbligo) va proprio in questa direzione, quando si afferma: “Nel caso in cui non sia stato raggiunto il livello base, è riportata l’espressione ‘livello base non raggiunto’, con l’indicazione della relativa motivazione”;
  6. f) che cosa significa al livello avanzato che l’alunno “propone e sostiene le proprie opinioni…”? Un ingegnere o un cuoco deve essere in primo luogo “certo e padrone di ciò che fa”! Non si guida un’auto o un treno Frecciarossa proponendo e sostenendo opinioni. Non si deve confondere un “fare” certo e oggettivo, con un “pensare” o un “dire”, che riguardano un altro aspetto del nostro essere attori;
  7. g) che cosa significa affermare come “indicatore esplicativo avanzato” che un alunno, sia di 11 che di 14 anni, “svolge compiti e risolve problemi complessi, mostrando padronanza nell’uso delle conoscenze e delle abilità”? Tutto e nulla! Quali sono i problemi complessi che un 11enne o un 14enne può e deve affrontare? Spendere al meglio la paghetta settimanale o costruire un’auto ibrida, che oggi va tanto di moda? La genericità non aiuta a capire che cosa veramente il nostro alunno di livello avanzato sa, sa essere e sa fare;
  8. h) e, per concludere, non credo che competenze serie si acquisiscano “a rate”, un primo pezzo a 11 anni, un secondo pezzo a 14 e quello conclusivo a 16!

Si tratta di fattori critici non indifferenti Eppure, sembra che qualcuno al Miur stia lavorando alla definizione delle competenze relative alla terminalità dell’istruzione di secondo grado, ma, se tanto mi dà tanto, temo molto circa il prodotto che ci verrà proposto.

Per tutte queste ragioni, ritengo che le schede di certificazione redatte dall’amministrazione possano ingenerare più confusioni che operazioni certe. Pertanto, intendo riproporre all’attenzione di chi legge un modello di certificazione conclusivo del primo ciclo, nato da una serie di percorsi di formazione continua con insegnanti di istituti comprensivi del Lazio e della Campania. E’ stato prodotto come documento intermedio rispetto a quello conclusivo dell’intero obbligo decennale, l’unico formalmente valido ai fini delle ulteriori scelte dell’obbligato.

VEDI ALLEGATO (Certificazione Competenze Scuola Media)

Tecnodidattica

Tecnodidattica

di Bruno Santoro

Eh si, sembra proprio che senza tecnologie non si possa davvero più insegnare, a tutti i livelli della scuola italiana. Siamo in ritardo, è stato sentenziato, rispetto alla solita Europa, che quando si tratta di livellare sembra sempre un passo avanti a noi. Siamo in ritardo, sprona il Ministero, è l’era digitale e noi siamo ancora alla biro..
Probabilmente è vero (mi tocca qui la ormai solita premessa: non sono un luddista! see my CV here please: http://www.letsnet.it/PPP/CV.htm..) ma c’è lo stesso qualcosa di inquietante in questa ‘necessità’ di tecnologia nella scuola, soprattutto da quando i tablet a basso costo hanno fatto la loro comparsa sulla scena commerciale realizzando di colpo quello che in vent’anni di tentativi non si era riusciti a fare: svecchiare, rinnovare, discutere, cercare. Ben venga, giustamente, questa ondata di novità se davvero, porta con sé una riflessione anche sui fondamenti epistemici, sulla teoria dell’apprendimento, sulla reimpostazione del processo di insegnamento e apprendimento.
Sembriamo invece in una fase alla statu nascenti’ in cui al noviziato tecnologico di tanti si unisce la ‘impalpabilità teorica’ di chi potrebbe e dovrebbe dare a questo movimento sostanza di assunti e consistenza di pratiche e monitoraggi. In fondo è questo che si cerca, l’efficacia dell’insegnamento ed un apprendimento più significativo, una formazione in linea con le esigenze del mondo moderno (saper convivere) e con le indicazioni di Lisbona 2006 in tema di competenze chiave, no? 

La potenza seduttiva dei nuovi dispositivi, accelerata da ambienti opportunamente predisposti, è meravigliosa è, come dire, ludico-magica e promette all’utente, qualunque utente, di potere fare veramente qualsiasi cosa: un gesto ieratico a sfiorare gli schermi et voilà, la realtà virtuale diventa di colpo realtà aumentata, tutto sembra realizzabile …con un dito. 
Ne sono sedotti gli adulti, figuriamoci se non dovrebbero esserne i giovanissimi.
L’avessimo avuto noi, alla loro età, altro che dostoevskij e le 1200 pagine di Delitto e Castigo in edizione Bur economica…
Oggi però il problema non esiste, un comodo epub di 14.000 kindle-facciate risolverebbe il problema di peso e trasporto. Di lettura, chissà..
Solo che ci siamo dimenticati i fondamenti. Mi rifiuto di credere che migliaia di professionisti si sentano coinvolti convintamente in un movimento di rinnovamento radicale senza averli enunciati, quanto meno dichiarati. Ed ogni soluzione che si dichiari strategica e irreversibile come questa presuppone un problema, del quale si propone come la soluzione, lo scioglimento. Ecco, appunto, qual è il problema, il vero problema, quello che si evita persino di formulare?
Non si dica che si tratta di strutture perché sarebbe risposta superficiale e insufficiente: in questi venti anni, dopo i primi investimenti del governo Prodi, molte scuole hanno goduto di un periodo di relativa abbondanza tecnologica mentre un profluvio di corsi, come le famose TIC, hanno risolto praticamente il problema dell’alfabetizzazione informatica e telematica, se non quella didattico metodologica.
Una volta la lingua si insegnava solo in classe, oggi ci sono laboratori, bravi insegnanti, lettori madre-lingua in diverse scuole, computer e software dedicati.
Il punto è che i nostri risultati complessivi non sono migliorati in quanto a rendimento né è diminuito il problema della dispersione scolastica che, anzi, è addirittura aumentata.
Qualunque analisi seria prenderebbe in considerazione altre ipotesi, posto che però a noi le strutture e le attrezzature, se ci sono, vanno benissimo, naturalmente.

Invece qui gli unici assunti sembrano essere quelli di una ‘presa d’atto’ di essere in piena era digitale e della necessità di adeguare le procedure scolastiche a quelle che la società già condivide e prtica: ma siamo sicuri che sia questo, il problema? 
In ogni caso, si dice, è questa la strada della modernità inevitabile: scuola moderna è scuola digitale. Che altro se no?
Quello che è più stupefacente è questa straordinaria equazione che lo stesso Ministero della Magica Istruzione ha ormai fatto propria: esiste una super-razza, quella dei nativi digitali (evidente generatio spontanea ed evoluzione di quella umana…) dotata di super-poteri neuro-informatici e addirittura di una vera e propria ‘intelligenza’ aggiuntiva (povero Gardner: prima le critiche al tuo sistema delle intelligenze multiple, adesso anche le aggiunte..), l’intelligenza digitale appunto.(Ferri e altri)
Sicché adesso al sistema scolastico non resta che andare incontro al nuovo ‘stile cognitivo’ proprio di questa nuova generazione di genietti telematici e adeguarlo alla loro ‘dieta mediale’ riempiendo le nostre aule di ‘strumenti’ (è così che vengono chiamati?) e terminali, di lavagnone elettriche e apparecchi senza fili: altrimenti come si fa a comunicare, con i giovani alieni? Come si fa ad insegnare, oggi? 
Eccolo il problema, quindi: non sappiamo più come insegnare, come metterci in contato con le nuove generazioni. Già da tempo abbiamo perso contatto, noi, e proprio nell’epoca del contatto permanente e ossessivo. Ma allora si tratta di un problema di metodo, di impostazione didattica, di fondamenti pedagogici e di psicologia cognitiva.
Il futuro ci dirà.
Al momento sembra impossibile fronteggiare anche solo il desiderio assai condiviso di elettrificazione del processo di insegnamento e apprendimento. Un vero e proprio nuovo bisogno, direi, creatosi chissà dove: generatio spontanea anch’esso?. 
Morire se in tutti questi anni di predigitale (quello degli ultimi venti anni, per intenderci) si sia mai manifestato con la stessa forza il bisogno di nuovi fondamenti epistemici dell’insegnare, di una nuova teoria della conoscenza, di nuove pratiche efficaci e adeguate ai tempi…
La ‘scuola tavoletta’ ha fatto il miracolo: s’è trovato l’anello mancante alla catena dei perchè..
Anzi: proprio questa passione per il digitale spegne e vanifica qualsiasi discorso pedagogico che potesse nel frattempo avere preso piede.
La prova? Il fatto che la risoluzione di ogni problema venga quasi automaticamente demandata a ‘nuove strutture digitali’, a delle applicazioni. Abbiamo studenti che non sanno scrivere? Si impara a scrivere con un app e direttamente sullo schermo. Hanno difficoltà terribili di lettura e comprensione? Audiolibri e app-osite applicazioni digitali!
Abbiamo problemi di disagio formativo, mancanza di capacità sociali e problemi di cittadinanza consapevole? Tablet! App! App! e via cantando…

Ma il ruolo del docente è quello di esperto di problemi di apprendimento, non di piazzista di materiale digitale. Il suo compito è quello di elaborare una strategia per risolvere i problemi di apprendimento degli allievi aiutandoli ad uscirne: non quello di delegarlo a realtà connettive realizzate da presunti esperti e per di più, guarda un po’, in vendita promozionale…
Per capirci basti per ora segnalare la strana attenuazione dell’appellativo di ‘strumenti’ riferito ai dispositivi di connessione al mondo digitale: se ne vuole sottolineare forse, dopo averne esaltato la potenza, la flessibilità, la capacità di curvare i nostri comportamenti, anche la loro controllabilità?
Effettivamente finché sono solo ‘strumenti’ (frullatori?) il soggetto operante, il deus ex-machina è sempre, almeno per l’analisi logica, l’utente: Ma se solo si riflettesse un attimo non si potrebbe che concludere che essi sono in realtà sliding doors e perfetti ambienti, i cui codici sono etero-strutturati ed i cui linguaggi finiscono per in-formare in modo univoco la nostra permanenza.

Gli ambienti condizionano il comportamento, come a volte sono i nostri comportamenti a modellare gli ambienti: gli ambienti digitali non fanno eccezione, ci modellano e si lasciano abitare, anche se alle loro condizioni. Come tutti gli ambienti suggeriscono codici e parlano un linguaggio: il loro.
Stabilire che i comportamenti, spesso compulsivi, coattivi, infantilmente ripetitivi, raramente dettati da reali necessità dei nostri giovani digitalizzati siano anche quelli a cui il sistema deve andare incontro (evidentemente per disperazione: è questo il problema? non riusciamo più ad entrare in relazione con loro e con il mondo in cui noi, proprio noi, li abbiamo spinti?) sembra essere un’operazione con un certo margine di errore. Di cui certamente risponderemo.

Promuovere e governare l’integrazione

Alunni stranieri, Giannini: “Integrazione sarà centrale nella Buona Scuola”

gianniniL’integrazione linguistica e culturale degli studenti figli di migranti sarà uno “dei punti cardine del decreto ‘La Buona Scuola’”. Perché “la scuola è la base, la cornice ideale per diventare cittadini sostanziali. E noi stiamo andando in questa direzione”. Così il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Stefania Giannini ha aperto la due giorni di approfondimento e formazione dal titolo ‘Le scuole in contesti multiculturali. Promuovere e governare l’integrazione’, a cui partecipano oltre 250 fra dirigenti scolastici, docenti, esponenti di associazioni, studenti e genitori provenienti da tutta Italia. L’iniziativa è organizzata dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca in collaborazione con l’Ufficio Scolastico per il Lazio, Roma Capitale e l’Università Roma Tre.

“Vogliamo fornire alle istituzioni scolastiche – ha spiegato il Ministro – gli strumenti scientifici, didattici e organizzativi adeguati e dare centralità alla formazione linguistica perché la lingua è passaporto di comunicazione e integrazione”.

L’iniziativa di oggi e domani è stata promossa nell’ambito dei lavori dell’Osservatorio nazionale per l’integrazione e l’intercultura, istituto a settembre scorso dallo stesso Ministro Giannini. Nel corso della mattinata, presso la Sala della Comunicazione, al Miur, a Roma, è stata presentata una sintesi del volume “Alunni con cittadinanza non italiana. Tra difficoltà e successi”, in corso di pubblicazione e realizzato dal Miur in collaborazione con la Fondazione Ismu (Iniziative e Studi sulla Multietnicità). Il seminario si è poi spostato presso l’Università Roma Tre dove, tra le 15.00 e le 18.00, sono state previste sessioni tematiche di lavoro (nelle aule della facoltà di Scienze della formazione primaria). Gli esperti che hanno preso parte all’iniziativa provengono tutti da scuole che si caratterizzano per una forte presenza di alunni con cittadinanza non italiana. Ad animare i tavoli di lavoro anche studenti immigrati in Italia, ciascuno con una propria storia da raccontare.

Domani, venerdì 20, nell’Aula Magna del Rettorato (sempre dell’Università Roma Tre), la tavola rotonda finale. Ad aprirla Houssem Dalhoumi, alunno di La Spezia e primo presidente “straniero” di una consulta provinciale degli studenti. Housseum per la sua relazione ha scelto come titolo “Sono italiano, vengo dall’altra sponda del Mediterraneo”. Il presidente della consulta, nato in Tunisia, cresciuto in Italia, e in Italia ha fatto tutto il suo percorso scolastico, è il “prototipo” dei ragazzi “in attesa di cittadinanza”.

Gli alunni con cittadinanza non italiana sono quasi 803.000 (anno scolastico 2013/2014), il 9% del totale degli alunni. Il numero di questi studenti è quadruplicato dal 2001/2002 (erano 196.414, il 2,2% della popolazione scolastica complessiva) ad oggi. La loro presenza è in crescita nelle scuole superiori (22,7% nel 2013/2014 e nelle scuole non statali (10% degli alunni con cittadinanza non italiana nell’anno scolastico 2013/2014 a fronte del 13,3% degli italiani). I nati in Italia sono ormai oltre la metà: il 51,7 per cento (415.283) degli alunni stranieri, un sorpasso avvenuto nell’ultimo anno scolastico. Romeni, albanesi e marocchini: i gruppi più numerosi secondo un trend ormai consolidato. Gli istituti tecnici – nell’anno scolastico 2013/2014 – sono stati in cima alle preferenze di questi alunni. Ma in aumento anche la scelta dei licei.

Rapporto alunni cittadinanza non italiana 2013-14

Galleria fotografica:
https://www.flickr.com/photos/124601151@N05/sets/72157650502350588


‘Promuovere e governare l’integrazione’
Dal 19 febbraio a Roma due giorni di seminari e formazione fra pari per 250 presidi e docenti di scuole multiculturali
Aprono il Ministro Giannini e il Sottosegretario Faraone

Lavorano in scuole dove la multiculturalità è pane quotidiano e da domani, per due giorni, si riuniranno a Roma per condividere e scambiare le loro esperienze di integrazione. Duecentocinquanta fra dirigenti scolastici, docenti, esponenti di associazioni, studenti e genitori saranno protagonisti del seminario “Le scuole in contesti multiculturali. Promuovere e governare l’integrazione”, organizzato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca in collaborazione con l’Ufficio scolastico per il Lazio, Roma Capitale e l’Università Roma Tre.

L’iniziativa è nata nell’ambito dei lavori dell’Osservatorio nazionale per l’integrazione e l’intercultura del Miur, istituito a settembre dal Ministro Stefania Giannini. Il Ministro aprirà i lavori insieme al Sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone. L’evento di apertura del seminario sarà ospitato presso la sala della Comunicazione del Miur, in Viale Trastevere, a partire dalle 9.30.

Nel corso della mattinata, sarà presentata una sintesi del volume ‘Alunni con cittadinanza non italiana. Tra difficoltà e successi’ in corso di pubblicazione e realizzato dal Miur in collaborazione con la Fondazione Ismu (Iniziative e Studi sulla Multietnicità). Il volume, che raccoglie dati provenienti da molteplici fonti (Miur, Invalsi, Ministero del Lavoro, Isfol, Indire, Istat, Pisa, Ocse), traccia un quadro della presenza di alunni di origine straniera nelle nostre scuole e università, ma offre anche spunti sull’educazione degli adulti immigrati e sui numeri dei Neet (Not in education, employmentor training) fra i giovani di cittadinanza non italiana. Gli alunni di cittadinanza non italiana sono 803.000 (anno scolastico 2013/2014), aumentano quelli presenti nelle scuole superiori. I nati in Italia sono ormai oltre la metà, il 51,7%: il sorpasso si è registrato nel corso dell’ultimo anno scolastico. I neo arrivati nell’ultimo anno sono il 4,9% e sono in calo. Nel 2013/2014, gli istituti tecnici sono stati la prima scelta degli alunni stranieri, ma è in aumento anche la scelta dei licei.

Nel corso del pomeriggio di domani, il seminario si sposterà a Roma Tre dove fra le 15.00 e le 18.00 si svolgeranno sessioni tematiche di lavoro presso le aule di Scienze della formazione primaria. Gli operatori coinvolti provengono da scuole con una forte presenza di alunni di cittadinanza non italiana. Sette i temi che verranno affrontati. Alcuni inediti, come l’integrazione fatta a partire dai nidi, anche attraverso il coinvolgimento delle famiglie. Altri di stringente attualità: un tavolo, fortemente voluto dopo la strage di Charlie Ebdo in Francia, sarà dedicato alla sfida del dialogo tra culture e religioni. Nel corso del seminario, gli operatori della scuola racconteranno le loro buone pratiche. Un viaggio attraverso l’Italia dell’integrazione. Come quella della scuola ‘Sassetti Peruzzi’ di Firenze, dove la presenza massiccia di studenti cinesi è stata trasformata in una ricchezza ai fini anche dello scambio linguistico. O quella della scuola ‘Crema 3’, in provincia di Cremona, dove grazie alle tecnologie avanzate si cerca di facilitare l’apprendimento dell’italiano degli alunni figli di migranti.

Nei tavoli saranno coinvolti anche studenti di origine straniera per raccontare le loro esperienze. Venerdì 20, nell’Aula Magna del rettorato, la tavola rotonda finale. Sarà Houssem Dalhoumi, studente di La Spezia, primo presidente “straniero” di una consulta provinciale degli studenti, ad aprire la giornata conclusiva con un intervento dal titolo, da lui scelto, ‘Sono italiano, vengo dall’altra sponda del Mediterraneo’. Houssem, nato in Tunisia, cresciuto in Italia dove ha fatto il suo percorso scolastico, è il prototipo dei ragazzi “in attesa di cittadinanza”, il suo Mediterraneo è anche il nostro e richiama questioni di grande (e preoccupante) attualità.

Programma Seminario nazionale

Atti Seminario Nazionale

Diagrammi e competenze

Diagrammi e competenze

di Bruno Santoro

Devo essere grato ad un mio antico insegnante di applicazioni tecniche perché in anni non sospetti di costruttivismo sociale e di apprendimento cooperativo, ci insegnò a lavorare in gruppo per il gruppo facendoci realizzare dei progetti con la costruzione di oggetti invece di limitarsi a spiegare i principi, scegliendo quindi la strategia dell’attività diretta cioè dell’imparare facendo, ma imponendoci nel contempo uno stile di lavoro ed un ‘sapere procedurale’ il cui scopo non era solo quello di sviluppare lo ‘spirito di gruppo’e la disponibilità alla condivisione del risultato, ma soprattutto quello di fissare gli interventi pratici e coordinati del gruppo in una serie logica e possibilmente ottimizzata di piccole attività.
Al progetto generale, realizzato attraverso una descrizione testuale, seguiva infatti la richiesta di un disegno anche in prospettiva dell’oggetto da realizzare. Il “foglio di lavorazione” che avrebbe guidato l’esecuzione pratica del compito assegnato al gruppo doveva essere però sviluppato in ogni sua parte: il materiale necessario, il dettaglio degli elementi costitutivi con misure esatte e costi, l’esploso progressivo del montaggio. La “nettezza mentale” di quel lavoro mi è rimasta impressa, l’ho sempre utilizzata, in seguito, ovviamente in contesti diversi: è diventata una capacità costitutiva della mia ‘abilità manuale. Una competenza.

Possibile utilizzare anche solo per realizzare oggetti di tipo diverso? Per prodotti, diciamo così, astratti? Mi provo qui ad applicarla per un momento a questioni apparentemente teoriche ma la cui sistematizzazione ha poi un’enorme ricaduta nella vita pratica di un professionista o di un artigiano dell’istruzione quale mi penso.
Non sono d’accordo con chi afferma che ogni ulteriore esplicitazione del problema delle competenze sia ormai superflua (Bardi), vista l’abbondanza di letteratura in proposito.
Personalmente non trovo che ci sia concordanza funzionale su concetti e definizioni ma in generale penso invece che il discorso, a livello sia pratico che metodologico, non sia stato in realtà ancora valorizzato per la sua reale portata orientativa. 
Sono molti ad esempio i docenti che entrando in classe al mattino o preparando una lezione si chiedono onestamente: quale argomento del programma, quale parte del mio programma stiamo svolgendo? non trovando in ciò assolutamente niente di contraddittorio o di problematico rispetto ad una programmazione che, almeno sulla carta e secondo le indicazioni ministeriali dovrebbe essere una pianificazione delle competenze.
La corretta elaborazione di una didattica per competenze dovrebbe invece portare a chiederci, diversamente: a quali competenze, a quali capacità tra quelli a cui abbiamo deciso di lavorare, lavoreremo? E con quali attività?
Per poterlo fare non solo come fatto di carattere formale ma nucleo orientativo di tutta l’azione didattica occorre però, oltre ad una pianificazione accorta (conosciamo l’angoscia dei tempi, della burocrazia, delle interruzioni impreviste, delle attività corollarie, dell’orientamento…) anche un quadro sinottico di riferimento che riassuma l’analisi strategica degli obiettivi, delle priorità e quindi delle soluzioni e delle tecniche da adottare.
Senza questa sorta di ‘foglio di lavorazione’, che peraltro permette un insegnamento collaborativo e coordinato degno di questo nome, senza questo (o simili) lavoro di ‘mappatura delle direzioni’ il discorso sulla pianificazione resta più difficile da visualizzare e quindi da rendere concretamente operativo.
D’altra parte le ‘mappe mentali’ di Tony Buzan o le mappe concettuali sono entrambe molto utili per disegnare una sorta di ‘architettura delle idee’ che, visualizzate, forniscono però una interessante disposizione bipolare, una sorta di interattività tridimensionale: la mappa realizza la rappresentazione mentale del modello operativo ma il valore aggiunto è dato dal fatto che modificando la mappa esterna cambia e si aggiorna anche la rappresentazione mentale.
 Una sorta di post-it neuronale, insomma, per dirla in modo scherzoso e ascientifico.

Personalmente, ma non è certo l’unica soluzione, uso dei diagrammi.
Il riferimento più prossimo a questo tipo di rappresentazione grafica sono i diagrammi di flusso usati in informatica, solo in questo caso, privi di… flusso, visto che non si tratta di routines o di istruzioni obbligate: uso invece dei connettivi dinamici che indicano, per amore di semplicità, solo due direzioni possibili oltre le etichette riassuntive: in e out.
Il diagramma realizza quindi uno schema semplificato per cui abilità, attitudini e capacità risultano gli elementi afferenti e costruttivi che concorrono alla strutturazione di una competenza, la quale, ricordiamolo, non è altro che una capacità essa stessa, proiettata attraverso l’esperienza in direzione della risoluzione di un problema. 
Un fatto dinamico, insomma, e che poi dinamicamente potrà essere valutato con opportune prove di prestazione.

Il problema principale in una didattica per competenze sta quindi, individuata la competenza a cui si sta lavorando con i propri colleghi , nel decodificarla, cioè nell’indicarne gli snodi interni in termini di abilità costitutive.
È appena il caso di ricordare che tutti gli insegnanti, in una didattica per competenze, lavorano a tutte le competenze di cittadinanza.

Una volta identificati questi elementi (sub-competenze? abilità? attitudini evidentemente da valorizzare con il medesimo obiettivo) è possibile compilare il vero ‘foglio di lavorazione’ cioè realizzare il progetto di attività attraverso la quale ci si propone di sviluppare (magari in passaggi reiterati, progressivi o ripetuti a distanza di tempo a seconda della strategia didattica più opportuna) quella o quelle determinate abilità.
Lo schema operativo è dunque il seguente:
competenza abilità attività
uno schema rovesciato, come si vede, perché si tratta appunto di una pianificazione a ritroso (Comoglio) che deve però ogni volta essere adattato al contesto e che non può, per sua stessa natura, essere applicato senza una preventiva, anche sommaria, analisi strategica destinata ad identificare il problema da affrontare.

Il ruolo dell’insegnante all’interno di una concezione didattica moderna è a mio avviso quello di ‘esperto che affronta e risolve problemi di apprendimento’ ovvero di un professionista (ma si potrebbe parlare sicuramente e senza offesa di un artigiano) che cerca le soluzioni sia nel proprio bagaglio di esperienza e competenze che in luoghi e occasioni e materiali che possano aiutarlo in questo compito (consiglio di classe, colleghi, forum, blog, libri, convegni, seminari…).
La strategia di lavoro può essere così ‘messa a progetto’: definito il problema si può dichiarare le ipotesi di soluzione, ovvero cambiarle quando ad una successiva verifica i risultati non fossero soddisfacenti.
Viene così evitata quella vaghezza progettuale che non permette né l’identificazione del disagio fomativo problemi né la concreta possibilità di soluzione.
Sono così peraltro il professionista può valutare il proprio lavoro e magari sottoporsi senza particolari remore ad una valutazione esterna: che è poi la valutazione della propria prestazione, dunque suscettibile di miglioramenti nel tempo e con l’esperienza come per tutti i bravi artigiani, non certo il giudizio sulla propria intelligenza di professionista o sulla propria sensibilità di persona.

Competenza questa, la capacità di accogliere la valutazione sul proprio lavoro, che non sempre viene sviluppata dai professionisti dell’istruzione: che invece a volte reagiscono con stizza ai suggerimenti e con chiusura ai consigli come fossero solo indebite intromissioni alla propria libertà d’insegnamento oppure critiche e giudizi al valore della propria persona.
Il nostro foglio di lavorazione ci suggerisce invece costantemente quello che il vero obiettivo dell’azione didattica e cioè di ottenere un insegnamento efficace ed un apprendimento il più possibile significativo.

A titolo di esempio ecco un diagramma generale delle competenze così come fu elaborato dal team di lavoro del progetto Let’s Net! nel 2009: si trattava di una prima classe dell’Itis Marconi di Jesi, la particolarità sta nella decisione strategica di considerare prioritarie e quindi centrali, le competenze socio-relazionali.
Il lavoro conseguente fu quello di decodificare le singole competenze e quindi creare occasioni di apprendimento e attività adatte a sviluppare le abilità e i costituenti delle competenze generali.

Il sito www.letsnet.it sviluppa praticamente una esperienza continuativa di didattica per competenze in Italiano e Storia.

Diagrammi e competenze

 

E. Filieri, Aedo delle Muse

Un altro esempio di “Italianità”

di Antonio Stanca

filieriVenerdì 6 Febbraio presso il Centro Studi “Chora-Ma” di Sternatia (Lecce), diretto da Donato Indino e impegnato, tra l’altro, a testimoniare della cultura, della letteratura che si sono verificate e si verificano nel territorio salentino, è avvenuta la presentazione del libro Aedo delle Muse. F. Morelli tra Otto e Novecento con Antologia poetica di Emilio Filieri, titolare di Letteratura Italiana II per il corso di Scienze di Beni Culturali di Taranto (Polo Ionico-Università di Bari). L’opera è stata pubblicata nel 2014 dall’editore Maffei di Trepuzzi (Lecce) e rientra in “Cultura & Storia”, Collana della Società di Storia Patria- Sezione di Lecce- diretta da Mario Spedicato.

In apertura il Presidente Indino ha illustrato brevemente l’attività svolta dal Centro durante i tanti anni della sua presenza e si è soffermato sui motivi di quella serata. Ad introdurre il discorso sull’opera del Filieri è intervenuta la Dottoressa Loredana Viola dell’Università del Salento. Ha messo in risalto la ricchezza di particolari che caratterizza il libro e che deriva da un lungo e attento lavoro di ricerca da parte dell’ autore. Di seguito il Filieri ha parlato della sua opera, ne ha chiarito gli aspetti specifici, ha evidenziato alcune parti per trarne gli esempi necessari a far intendere il procedimento usato, le finalità perseguite. Egli non è nuovo in questi lavori, già altre volte, con altre opere, si era mostrato impegnato a ripercorrere momenti, a recuperare personaggi, a ricostruire opere che hanno fatto parte del passato salentino, a rintracciarvi i segni di quanto avveniva nella storia, nella cultura, nella letteratura, nell’arte della nazione, a collegarli con queste ed a mostrarli come un aspetto dal quale non si poteva prescindere. Grazie a tali studi il Salento sta finendo di rimanere sconosciuto rispetto all’Italia più nota di uno, due secoli fa e sta acquistando il diritto di appartenere ad essa, di avere una sua funzione, un suo valore.

Parte da lontano lo studioso per arrivare al centro, dalla periferia muove e giunge alla capitale. Così ha fatto anche in quest’ultimo lavoro. Da un poeta di Squinzano, comune della provincia di Lecce, ha preso le mosse, da Francesco Morelli, a Squinzano vissuto dal 1878 al 1965, dalla sua ampia produzione ha avviato un percorso che gli ha fatto scoprire quanto essa abbia risentito del clima culturale, artistico allora diffuso nella penisola, come possa essere con esso collegata, perché vi debba essere inclusa.

Molte sono le raccolte poetiche del Morelli, le prime in dialetto, le seconde in lingua, e ovunque egli ha risentito delle sue conoscenze, della sua cultura. Si era formato da solo e nei suoi versi non è difficile scorgere quanto gli era giunto dalla tradizione poetica salentina in dialetto, dai poemi classici antichi, dai poeti latini, da Dante, dagli Stilnovisti, dal Petrarca, dai Romantici, dal Carducci, dal Pascoli, dal D’Annunzio fino a Trilussa. E tutti questi richiami, questi collegamenti è riuscito il Filieri ad individuare e chiarire nel suo lavoro. Lo ha fatto nei saggi che costituiscono la prima parte dell’opera mentre la seconda è dedicata all’antologia poetica. Nei saggi ha trattato delle raccolte poetiche del Morelli, dalle prime alle ultime, ha analizzato in ogni particolare alcuni loro testi, li ha commentati, spiegati e al tempo stesso li ha riferiti agli altri della raccolta in esame e ai modelli che operavano nella mente del poeta. Un procedimento ampio, complesso, plurimo è stato condotto dallo studioso, un’operazione alla quale non è sfuggito niente e che nonostante la sua vastità è stata svolta con determinazione perché sicuro si è mostrato dei suoi mezzi chi l’ha compiuta. Né è stato trascurato, tra tanto movimento, il compito di evidenziare che il Morelli non è solo un poeta colto dal momento che sa egli riportare quanto gli viene dalla sua cultura ad una dimensione, ad una linea propria. Giudizi positivi per la sua opera aveva egli ottenuto dal Pascoli e da Trilussa, case editrici non più meridionali si erano interessate alle raccolte poetiche della sua maturità. La sua formazione si riflette nel suo lavoro ma non gli impedisce di andare oltre, di raggiungere una propria autonomia, di essere un artista. A lui va riconosciuta una voce propria, un modo proprio di essere poeta. Ci sono motivi che ricorrono nella poesia del Morelli, nota il Filieri, motivi che percorrono l’intera produzione morelliana e che vanno individuati nel bisogno di rappresentare la vita, le sue persone, i loro luoghi, i loro tempi. Attento all’individuo è il poeta ma anche alla società, volto a cogliere quanto di intimo si muove nell’anima dei suoi personaggi, impegnato a fare della semplicità, della spontaneità, del bene, dell’amore un patrimonio comune, un motivo d’incontro, di unione, al quale potersi sempre riferire. Di carattere individuale e sociale è la morale che egli persegue, all’uomo guarda perché umana sia la dimensione della vita, della storia. E quando tale condizione sembrerà minacciata dai tempi moderni a causa dei costumi sopravvenuti e diffusisi all’insegna di valori estranei a quelli dell’anima, il Morelli più convinto si mostrerà, come nelle ultime raccolte, che soltanto la moralità, la spiritualità sempre perseguite potranno salvare da tali pericoli. Allora farà della donna il simbolo di questi principi, la identificherà con i valori della casa, della famiglia, la indicherà come una possibilità di salvezza in un mondo invaso dal male, la trasformerà in un riferimento sicuro, inalterabile, eterno per una vita che voglia rimanere a misura d’uomo.

Di tanti temi mostra il Filieri composta la poesia del Morelli e in nome di essi le riconosce una voce autonoma nel contesto suo contemporaneo, le attribuisce il merito di aver superato i limiti del suo territorio, di far parte della letteratura italiana.

Un altro esempio di “Italianità” ha indicato lo studioso con quest’opera, un altro motivo perchè il Salento non sia più considerato periferia ha scoperto.

L’ampia antologia poetica che viene dopo i saggi è testimonianza di tale raggiunta verità.

K. Hamsun, Per i sentieri dove cresce l’erba

Hamsun, l’uomo primitivo

di Antonio Stanca

hamsunNel 1949, quando terminò il romanzo Per i sentieri dove cresce l’erba, che ad Ottobre dell’anno scorso è stato pubblicato dall’Editore Fazi di Roma, nella serie “Le Strade” e con la traduzione di Maria Valeria D’Avino, il norvegese Knut Hamsun aveva novant’anni. Sarebbe morto tre anni dopo, nel 1952, dopo una vita dedicata quasi completamente all’attività letteraria. Aveva scritto di narrativa, di poesia, di teatro, di saggistica e molto aveva viaggiato.

Era nato a Lom, Gudbransdal, nel 1859 da una famiglia contadina, povera. Aveva sofferto questa condizione fino a giovane. Aveva svolto diversi mestieri sia in Norvegia sia in America. Dopo molti tentativi malriusciti era giunto al successo letterario nel 1890 col romanzo Fame. Si sposerà due volte e la seconda moglie, l’attrice Marie Andersen, rinuncerà alla sua carriera per rimanergli vicina anche quando si trasferiranno a Sud della Norvegia, a Larvik. Qui si stabilirono in una vecchia fattoria, acquistata e restaurata, dove Hamsun si dedicò alla sua attività di scrittore anche se amava scrivere negli altri luoghi e nelle altre città che raggiungeva con i suoi viaggi.

Dopo Fame sarebbero venute molte altre opere, narrative, teatrali, in versi. Hamsun sarebbe diventato un autore molto noto in patria e all’estero, nel 1917 avrebbe scritto Il risveglio della Terra, il romanzo che è considerato il suo capolavoro e che nel 1920 gli procurò l’assegnazione del Premio Nobel. Anche in quest’opera ritornano i temi che erano comparsi nei romanzi d’inizio e che segneranno l’intera produzione dello scrittore. I protagonisti delle sue narrazioni sono uomini che vivono da soli o insieme a una compagna e che ricavano da se stessi, dal proprio corpo, dalla propria mente le risorse necessarie per vivere, per affrontare i problemi, i pericoli della vita, per combatterli e vincerli. Nel loro animo scende lo scrittore e scopre quanto di segreto, di nascosto avviene, lo porta alla luce, oltre i limiti dell’evidenza egli procede sicuro che ci sia molto da sapere, nella vita dei sogni, nei misteri dello spirito penetra. Per questa sua maniera una novità rappresentò Hamsun già con Fame poiché già allora mostrò di volersi distinguere dalla tradizione letteraria norvegese che era di carattere realista. Con Hamsun l’opera diventò soggettiva, psicologico diventò il suo genere, la vita dello spirito formò il suo contenuto. E forte era questo spirito, capace di sopportare le avversità era l’uomo che lo possedeva, di resistere al male, di trovare nell’ambiente naturale quanto gli serviva, di scambiare, comunicare con esso poiché come lui era vero, autentico, non guastato dai problemi che con i tempi moderni, con la civiltà delle macchine si erano addensati ed avevano ridotto la vita ad una serie di convenzioni. Lontano dalla società dei consumi, libero dalla massificazione sceglie di vivere l’eroe di Hamsun, a contatto con i boschi, le foreste, le montagne, i fiumi, il mare, i ghiacciai di quella Norvegia tanto amata dallo scrittore e tanto descritta nelle sue opere. La forza del suo uomo trova completamento in quella della natura e insieme sono sicure di poter costituire la vera dimensione dell’esistenza. Quest’aspirazione il suo eroe realizzerà andando in giro, facendo il girovago, vagando tra le piccole comunità rurali della Norvegia, comparendo e scomparendo come la luce delle verità che reca con sé, trasformandosi egli stesso in un elemento della natura, in un aspetto della terra.

In questi tratti del suo personaggio, in questa ricerca di una vita primitiva può essere facilmente riconosciuto l’autore, in ogni sua opera possono essere riscontrati motivi autobiografici, sempre Hamsun vuol dire di sé, dei suoi pensieri, dei suoi bisogni, dei suoi ideali e lo farà fino all’ultimo, fin quando, a novant’anni, scriverà Per i sentieri dove cresce l’erba. In verità quest’opera voleva essere di carattere polemico, in essa l’autore voleva ripercorrere gli anni dal 1945 al 1948 quando aveva subìto un lungo processo poiché accusato di aver collaborato con i tedeschi di Hitler quando avevano occupato la Norvegia durante la Seconda Guerra Mondiale. Scrivendo voleva discolparsi dalle accuse che gli erano state attribuite e che lo avevano fatto rinchiudere prima in una casa di cura e poi in un ospedale psichiatrico. Il processo si sarebbe concluso dopo molto tempo, Hamsun sarebbe stato assolto e il pagamento di una pena pecuniaria sarebbe stata l’unica condanna. Scrisse, quindi, il romanzo per difendersi ma nonostante queste intenzioni lo scrittore finì col rientrare tra i suoi modi, col tornare sui propri passi. Stavolta è chiaramente lui l’eroe convinto di sé e capace di resistere a quanto di cattivo la vita gli ha riservato, è lui che entra in comunione con la natura dei luoghi dove viene tenuto, è lui che si trova spesso col girovago Martin, che s’identifica con i suoi pensieri, i suoi modi di essere, di fare, le sue parole, le sue verità. Anche quando vuole fare polemica Hamsun non rinuncia al suo spirito, alla vita che ha sempre sognato. Anche allora il suo stile, il suo linguaggio rimane semplice, chiaro tanto da procurare alla narrazione un’atmosfera di serenità, da farla assomigliare ad una favola sempre esistita.

Un maestro di scrittura è stato anche considerato Hamsun sia dai contemporanei sia dai posteri, una lezione è stata ritenuta la sua lingua.