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J. Cortázar, Tutti i fuochi il fuoco

Le ragioni dell’assurdo

di Antonio Stanca

cortazarJulio Cortázar è stato uno scrittore argentino in lingua spagnola. Figlio di un diplomatico, era nato a Bruxelles nel 1914 ed è morto a Parigi nel 1984. Dopo quattro anni di permanenza a Bruxelles la famiglia era rientrata in Argentina, a Buenos Aires, e qui Julio era rimasto solo con la madre perché il padre li aveva lasciati. Comincerà a scrivere precocemente, quando ancora andava a scuola, scriverà poesie e racconti. Poi, abbandonati gli studi universitari, si dedicherà alla lettura e alla traduzione di opere di autori di diverse lingue, al giornalismo, alla saggistica, al teatro, alla narrativa e così continuerà a Parigi dove si trasferirà nel 1951 perché contrario al regime che Perón aveva instaurato in Argentina. Il suo primo romanzo, Il viaggio premio, è del 1960 e del 1963 è il suo capolavoro, Il gioco del mondo. Saranno opere che faranno conoscere Cortázar a livello internazionale, che faranno di lui uno dei maggiori tra i moderni autori ispano-americani. In esse lo scrittore mostra di aver risentito della lezione dei classici del suo e di altri paesi e di voler andare oltre, di voler raggiungere una dimensione propria, scoprire quanto nella vita d’oggi ci può essere di torbido, ossessivo, quanto di ambiguo, inquietante. Alla scoperta dei segreti dell’anima, dei misteri della mente si metterà il Cortázar scrittore di romanzi e racconti. A questo genere di produzione si dedicherà in maniera particolare e intanto si mostrerà impegnato nella funzione del personaggio pubblico che interviene dove nel mondo la giustizia, la libertà, l’uguaglianza sono minacciate dalla violenza e dalla guerra. Molti riconoscimenti, oltre a quello della cittadinanza francese concessagli da Mitterrand nel 1981, otterrà Cortázar, a molti Convegni di studio parteciperà, molte Università lo inviteranno, molto tradotto sarà. Un’attività così intensa diventerà la sua da rendere difficile distinguere l’uomo dall’autore. Nel 1951 aveva scritto la prima raccolta di racconti, Bestiario, dove aveva mostrato di possedere una fantasia ed un’immaginazione così fervide da spingerlo oltre i limiti del reale, oltre quanto viene comunemente considerato finito e scoprire quel che si muove dietro le apparenze. Questa sarebbe diventata la nota distintiva del Cortázar narratore. La si sarebbe trovata anche in Tutti i fuochi il fuoco, altra raccolta di racconti che risale al 1966 e che recentemente Einaudi ha pubblicato nella serie “ET Scrittori” (pp. 147, € 10,00). La traduzione è di Ernesto Franco e Flaviarosa Nicoletti Rossini. In ognuno di questi racconti Cortázar parte da una situazione reale, concreta e procede verso un’altra che la supera perché prodotta dai pensieri reconditi, dai bisogni nascosti dei protagonisti. Ogni racconto è un processo che si carica, si complica sempre più fino a perdere quanto di vero gli apparteneva e diventare un fenomeno d’immaginazione, a volte di allucinazione, capace di sostituire la realtà di prima, di creare un’altra. Nel primo racconto intitolato L’autostrada del Sud si dice di due giovani che si sono conosciuti mentre erano fermi nelle loro macchine a causa di un ingorgo automobilistico verificatosi alle porte di Parigi e durato alcuni giorni. Si sono innamorati, si sono amati, si sono promessi eterna fedeltà e una felice vita matrimoniale ma finito l’ingorgo, ripartite le macchine, ognuno ha seguito la sua fila e si sono persi di vista, non si sono più ritrovati senza che lui capisse mai perché lei era sparita e per sempre. Nel racconto La salute degli infermi ad una vecchia madre molto malata dai familiari vengono lette delle lettere facendole pensare che sono state spedite dal figlio prediletto, Alejandro, che lei crede impegnato in un lontano posto di lavoro e che, invece, è morto in un grave incidente. Ad una continua finzione si sottomettono quei familiari senza calcolare quanto sarebbe durata, quanto l’avrebbero sopportata, come avrebbero potuto liberarsi prima di giungere a non saper più distinguere tra il vero e il falso. In La signorina Cora una bella infermiera, che in ospedale accudisce con molta diligenza un ragazzo, Pablito, è tanto attratta da lui da non valutare il male che gli procura per soddisfare i propri bisogni sessuali, da usarlo per questi e stremarlo fino a farlo morire pur essendo stato ricoverato per una semplice appendicite. In L’altro cielo un giovane agente di Borsa ama tanto vagabondare per quei vicoli di Parigi pieni di locali notturni, di persone losche, di prostitute da trascurare la vita di casa, la fidanzata, da innamorarsi di una prostituta e fare di quella vita del vizio la sua preferita.

Queste, insieme ad altre, sono le situazioni paradossali che il Cortázar fa emergere nei racconti della raccolta, questi sono i modi attraverso i quali lo scrittore mostra come si possa giungere a creare, a vivere realtà diverse da ogni previsione, assurde, come anche queste abbiano la loro spiegazione, la loro verità.

Abilissimo è il Cortázar nel rappresentare situazioni così complicate. Aiutato è in questo oltre che dalla fantasia da uno sperimentalismo linguistico che gli permette di muoversi con facilità tra tempi, luoghi, eventi, pensieri, discorsi diversi, lontani, di farli procedere contemporaneamente, di accogliere, spiegare ogni pur minimo loro risvolto, di procurare una logica anche a quanto diventa assurdo.

“Chiamatemi Francesco” di Daniele Luchetti

“CHIAMATEMI FRANCESCO”, un film di Daniele Luchetti

di Mario Coviello

 

francescoOggi, otto dicembre 2105, Papa Francesco ha aperto nella basilica di San Pietro la Porta Santa, dando inizio al Giubileo straordinario della misericordia. Questa mattina, ancora una volta, ha invitato tutti gli uomini di buona volontà a “ non avere paura”.Dal 3 dicembre è nei cinema di tutta Italia in 700 copie il primo film su un Papa che sia mai stato girato nel corso del suo Pontificato. Chiamatemi Francesco, diretto da Daniele Luchetti e scritto dallo stesso regista con la preziosa collaborazione dell’argentino Martin Solinas, è il film che ho visto in anteprima e di cui vi voglio parlare . Una pellicola unica nel suo genere: 15 settimane di riprese tra Argentina, Germania e Italia; oltre 15 milioni di euro di badget (messi dalla TaoDue di Pietro Valsecchi e dalla Medusa); un’imponente massa di ricerche storiche e religiose; centinaia di interviste a testimoni e persone comuni che hanno conosciuto Bergoglio prima che diventasse Papa; almeno 3000 comparse per girare le scene nei barrios argentini. Ma non sono soltanto i numeri a fare di Chiamatemi Francesco il caso cinematografico di questo scorcio di fine d’anno (basti pensare che il film è stato già venduto in 40 paesi).  A rendere speciale la pellicola sono l’onestà e la passione con cui viene disegnata la figura di Jorge Mario Bergoglio negli anni giovanili di formazione e poi nel duro confronto quotidiano con la feroce dittatura del generale Videla.

Intervistato nella più quotata trasmissione radiofonica che parla di cinema “ Holliwood party “ Lucchetti ha raccontato il lungo periodo che ha trascorso in Argentina sulle tracce di questo papa che ogni giorno ci invita nelle periferie del mondo per avere attenzione ai più poveri.  “Il film è nato da un’idea di Pietro Valsecchi. Quando me l’ha proposta confesso di essermi sentito spiazzato”, racconta Luchetti. “Siamo partiti, io e lui, per Buenos Aires dove abbiamo incontrato e intervistato tantissime persone che avevano conosciuto Bergoglio: alcune benissimo, altre magari solo quando erano bambini. E non è mancato chi, nella penombra di un lampione, mi ha sussurrato di fare attenzione perché anche lui sarebbe stato compromesso con la dittatura argentina. Un bailamme di informazioni in cui faticavo a orizzontarmi, non riuscivo a trovare il filo di un racconto. Poi c’è stata una frase che mi ha colpito:Jorge è stato un uomo ‘preoccupato’ per tutta la vita. Ecco la chiave! Capire la maturazione, esplorando il suo passato per comprendere come sia potuto arrivare a essere ciò che è oggi”.

Oltre due terzi del film raccontano di Bergoglio, rettore di un seminario gesuita che lotta contro il regime sanguinario del dittatore Jorge Videla. Quando Francesco è salito al soglio di Pietro per lungo tempo si è parlato sulla stampa internazionale delle accuse di collusione e comunque di non opposizione del gesuita al regime. Il film racconta di Bergoglio che rischia la vita per dare rifugio ai ricercati, che accompagna personalmente al confine i perseguitati che celebra la messa per il dittatore solo per chiedergli conto delle migliaia di desaparecidos che le madri e i parenti non si stancano di cercare. “La mia preoccupazione è stata quella di evitare l’agiografia, – confessa il regista – di non fare cioè quel santino in cui si dà continuamente di gomito allo spettatore dicendogli: lo vedi, si capiva subito chi sarebbe diventato”.

Missione compiuta. L’avventura umana, oltre che spirituale, di Bergoglio è talmente infatti ricca e complessa da mantenere alta la tensione di chi guarda senza bisogno di ricorrere ad alcun artificio.
“La storia di quest’uomo non è fatta soltanto di fede incrollabile e convinzioni profonde, è anche una testimonianza toccante della tragica storia recente dell’Argentina”, sottolinea il regista. “Io ho cercato di raccontare l’intreccio tra queste storie in modo partecipe, evitando lo sguardo da turista. Rispettando anzi l’identità dell’uomo e di un Paese”. Da colui che porta la borsa a quello che porta la croce, di ferro.

Alla fine della dittatura ritroviamo Jorge Bergoglio in una sperduta periferia dell’Argentina mentre cura il pollaio della parrocchia e colpiscono nel film le scene con il futuro papa che pela le patate nella cucina del seminario e confessa ad un’amica giudice che sa cucinare solo il pollo fritto come gli ha insegnato la madre. Emoziona l’umanità di Bergoglio tifoso del San Lorenzo che alla televisione si accapiglia con i giocatori della squadra del cuore che lo stanno deludendo

E’ Giovanni Paolo II che lo richiama a posti di responsabilità e manda il cardinale di Buenos Aires a chiedergli di fare il suo vicario. Egli accetta ed inizia il suo terzo cammino di conversione dopo l’accettazione della chiamata da giovane maestro dopo una confessione che lo costringe a lasciare la fidanzata e il suo secondo cammino quello del rettorato.

E ancora una volta come vescovo vicario Bergoglio è dalla parte degli ultimi. Il film di Lucchetti racconta la sua capacità di mediazione nella difesa dei proletari delle periferie, il suo affiancamento ai preti di frontiera che vivono Cristo nei più poveri, con gli ultimi.

Pochi minuti sono dedicati nel film alla sua ascesa al soglio pontificio. Con fare dimesso e un meraviglioso sorriso accoglie la nomina e si affaccia ai fedeli stipati in Piazza San Pietro e con il suo ormai celebre “ buonasera”, chiede ai presenti di pregare per lui.

Nei panni del giovane che diverrà Papa Francesco c’è l’attore argentino Rodrigo della Serna (curioso: ha interpretato anche il giovane Che Guevara ne I diari della motocicletta).Mentre il volto di Bergoglio maturo, segnato dalle esperienze, è invece quello dell’attore cileno Sergio Hernandez. Entrambi bravissimi, mai sopra le righe.

Daniele Lucchetti, allievo di Nanni Moretti, è il regista del” Portaborse “, dell’indimenticabile “ La scuola” con Silvio Orlando , di “ Mio fratello è figlio unico”. E’ un regista di drammi e di commedie agrodolci che hanno saputo raccontare la realtà italiana di questi anni. Ma come Lucchetti è arrivato a Bergoglio ? “Per quanto mi riguarda, tutto è cominciato con una suggestione. Profonda”, confessa Luchetti. “Quest’uomo mi ha emozionato fin dal primo momento, quando si è affacciato al balcone di San Pietro e ha esordito con un semplice buonasera rivolto alla folla. Mi ha affascinato la personalità carismatica di Bergoglio. Non sapevo molto della sua vita. Con lo sceneggiatore argentino Martin Solinas, ho fatto un enorme lavoro di ricerca: ci siamo basati sui suoi scritti ma abbiamo anche parlato con amici e nemici storici. Andando a fondo ho scoperto una traiettoria esistenziale tormentata ma limpida, chiara, che spiega bene come mai Bergoglio abbia toccato livelli di comunicazione così alti”.

Chiamatemi Francesco è il racconto della vita di un uomo straordinario”, sottolinea Luchetti. “E di una Chiesa latinoamericana molto impegnata e progressista. Quando ho cominciato le riprese non potevo certo definirmi un credente, adesso invece credo molto nella gente che crede… In Sudamerica ho scoperto una Chiesa straordinaria. Sono rimasto letteralmente sedotto dalle persone che ho visto farsi Chiesa per le strade, tra la gente”.

Certo il film ha stacchi bruschi perché è una sceneggiato di quattro puntate da 50 minuti che è diventato un racconto di 127 minuti, ma vi consiglio di vederlo perché la storia di Bergoglio diventa in Chiamatemi Francesco metafora di un mondo diviso fra chi distoglie lo sguardo e chi sceglie di vedere.  La qualità portante del Bergoglio di Luchetti è la propensione alla cura, più spesso identificata col materno perché comporta un obbligo inderogabile di protezione altrui e ci aiuta a capire il magistero di questo papa che ci indica la strada in questi tempi così spaventati.

N. Klein, Una rivoluzione ci salverà

UNA RIVOLUZIONE CI SALVERÀ di Naomi Klein

di Luigi Manfrecola

 

kleinUna attenta e documentata denunzia

Come l’autrice chiarisce già nel titolo del suo ultimo best-seller, la Rivoluzione cui si accenna è quella destinata ad abbattere l’egoistica cultura oggi imperante, «quell’ideologia del libero mercato che è stata screditata dal decennale acuirsi delle disuguaglianze e della corruzione». A chiarire ancor meglio la natura del ponderoso volume (di oltre 700 pagine- Edizioni Rizzoli) può valere anche il sintetico sottotitolo che promette di spiegare “perché il Capitalismo non è sostenibile”.

Altrettanto insostenibile sarebbe però, per noi, il pretendere di sviluppare esaurientemente, ed in qualche breve pagina, quell’analisi che la Klein, viceversa, protrae attraverso un itinerario ben documentato, molto ricco e assai puntiglioso, alla tipica maniera anglosassone . Qui ci limiteremo, allora, soltanto a coglierne e ad illustrarne le conclusioni evidenti, dando per corrette le premesse da cui esse muovono. Premesse, convalidate ed acquisite nello sviluppo attuale del dibattito, riaccesosi in questi stessi giorni per effetto del Summit in Parigi sul “disastro climatico” cui stiamo colpevolmente assistendo. Secondo la Klein occorre un vero e proprio “salto di civiltà” poiché il “capitalismo globale” ha provocato e sta provocando un sfruttamento troppo rapido delle risorse attraverso “una macchina economica che sta sbandando ed appare ormai fuori controllo”. Soltanto i movimenti sociali di massa, che fortunatamente si stanno diffondendo, possono ancora (?) salvarci.

In tal senso provvidenzialmente operano e spingono i numerosi movimenti per il disinvestimento nel settore dei combustibili fossili e per il contrasto alle estrazioni ad alto rischio, così come le azioni legali intraprese da gruppi di indigeni in difesa del loro territorio. Ma finora ciò non è bastato a frenare gli interessi ciechi e rapaci dei gruppi di potere economico trans-nazionali. I gas-serra aumentano rapidamente e , secondo alcuni, siamo già prossimi ad un punto di non più ritorno . “Tali gas vanno intrappolando il calore per le generazioni a venire, creando un mondo più caldo, più freddo, più povero, più assetato e più affamato”. I fenomeni climatici estremi mietono sempre più vittime in ogni parte del mondo, come insegna la cronaca ormai quotidiana. Secondo la Klein occorre dunque “una rivoluzione climatica” sulla quale tuttavia riposano assai ben scarse speranze.

Lo scenario prossimo venturo

Nessuno ci garantisce che il successo un tempo ottenuto dai movimenti sociali con battaglie compiute in difesa dei diritti umani, sia destinato a replicarsi anche in occasione di quest’ultima battaglia, ancor più vitale. Non possono valerci come esempio le storiche lotte vittoriose condotte dai movimenti sociali in difesa dei diritti umani, quale – ad esempio – la rivendicazione delle femministe per l’ottenimento di un salario che fosse pari a quello degli uomini né le iniziative intese all’ottenimento d’un salario domestico, che pure hanno riscosso qualche successo in alcuni Paesi. La Naomi giustamente osserva che « Condividere lo status legale è una cosa, altro è condividere le risorse». Il “Sistema” capitalistico è attrezzato per travolgere ogni istanza sociale e civile che sia incompatibile con gli interessi delle ristrette oligarchie economiche. C’è addirittura il rischio, secondo l’Autrice, che tale “Sistema” possa sfruttare i disastri seriali legati ai cambiamenti climatici per trarne ulteriori profitti economici…E non vale ad esorcizzare questo rischio la considerazione che “nella storia pure ci sono stati movimenti sociali che hanno saputo sfidare con successo le posizioni di ricchezza più consolidate“, in modi di fatto paragonabili alle trasformazioni che i movimenti di oggi dovrebbero riuscire a provocare se vogliono sperare di evitare la catastrofe climatica.

Il riferimento esplicito riguarda “L’ABOLIZIONE DELLA SCHIAVITÙ” che verso la metà dell’ottocento ebbe forti impatti economici , come sembra possa e debba avvenire se si riuscirà ad ottenere una riduzione radicale delle emissioni. Scrive testualmente la scrittrice “Per larga parte della classe dominante dell’epoca, perdere il diritto legale di sfruttare uomini e donne in catene rappresentò un grosso colpo economico, paragonabile a quello che tutti i protagonisti dell’economia mondiale – dalla Exton a Richard Branson – dovrebbero affrontare oggi…..Per quanto non siano del tutto equivalenti, la dipendenza dell’economia statunitense (e, in particolare degli Stati del Sud) dal lavoro degli schiavi è di certo paragonabile a quella dell’economia globale dai combustibili fossili”. Sta di fatto, osserva la Klein, che gli svantaggi che le classi economicamente rilevanti ebbero a subire dalle conquiste ottenute dai movimenti civili ebbero tuttavia sempre un contraltare in vantaggi compensativi accordati e concessi alle élite danneggiate. Cosicché « le elité locali ed internazionali riuscirono spesso a strappare dei forti indennizzi a titolo di compensazione per le loro “perdite” di proprietà umana senza , al contempo, offrire quasi nulla agli ex-schiavi . (Ad esempio) Washington ruppe la sua promessa , fatta verso la fine della Guerra civile, di concedere agli schiavi liberati la proprietà di vaste estensioni di terra negli Stati del Sud; questi terreni vennero invece restituiti ai proprietari degli ex schiavi, che procedettero quindi a riempirli di forza lavoro tramite quella forma di servitù a contratto che era costituita dalla mezzadria…(pag.605)» .

E ciò, secondo l’Autrice è valso anche per la più generale vicenda del COLONIALISMO che, pur quando è stato cancellato, ha fatto conservare vantaggi e privilegi agli uomini ed agli Stati che quelle terre e popolazioni avevano sfruttato. Insomma, un “premio di consolazione” è stato sempre preteso ed ottenuto dalle classi dominanti nel momento in cui avanzava la rivendicazione dei diritti da parte delle classi subalterne. Ma ora non sarebbe più così poiché «una vera fine dell’era dei combustibili fossili non offre alcun analogo premio di consolazione ai principali attori delle industrie del petrolio, del gas e del carbone. Certo è possibile guadagnare anche con il solare e l’eolico; ma a causa della loro stessa natura decentralizzata, queste fonti non forniranno mai quel genere di superprofitti concentrati ai quali i titani dei combustibili fossili si sono ormai abituati. In altre parole, se vincerà la giustizia climatica, i costi economici per le nostre élite saranno reali: non solo per via del carbonio rimasto sottoterra, ma anche a causa delle regolamentazioni, delle tasse e dei programmi sociali necessari per portare a termine la trasformazione richiesta….Gli enormi investimenti globali necessari per far fronte alla minaccia climatica derivante da quagli eventi meteorologici estremi che abbiamo ormai scatenato ci offrono un’altra chance di cambiare tutta questa situazione e di riuscire dove i movimenti del passato avevano fallito. Questi investimenti globali, fra l’altro, potrebbero portare con sé quella redistribuzione equa delle terre agricole che avrebbe dovuto far seguito alla liberazione dalle dittature e dal domino coloniale…».

Il frutto d’un progetto ideologico, prima ancora che politico

Fatto sta che, secondo la Klein, la nostra classe politica si mostra del tutto incapace di afferrare gli strumenti che , nonostante tutto , le tecnologie verdi potrebbero offrire per scongiurare il rischio climatico dal momento che restano devote all’ideologia capitalistica. Ma anche noi, facili nel protestare, rappresentiamo un problema poiché non siamo più capaci di quelle mobilitazioni di massa che hanno animato con successo gli anni trenta e quaranta del secolo scorso. «Noi restiamo con i nostri occhi incollati agli smartphone, il nostro intervallo di attenzione si fa sempre più ridotto fra un click e l’altro, i nostri sentimenti di lealtà resi contrastanti dal peso dei debiti da pagare e dalle insicurezze dei contratti di lavoro . Dove ci dovremmo organizzare? Di chi ci possiamo fidare abbastanza da lasciare che ci guidi? E, inoltre, chi siamo “noi”? In altre parole, noi siamo i prodotti della nostra epoca e di un progetto ideologico dominante. Un progetto che ci ha insegnato più e più volte a vederci solo come singole unità in cerca di gratificazione, votati a massimizzare il nostro ristretto vantaggio e che, al contempo, ha separato molti di noi da quelle comunità più ampie che, con le loro competenze condivise, sono in grado di risolvere i problemi grandi e piccoli… Per tutti questi motivi, ogni tentativo di rispondere al cambiamento climatico sarà inutile se non verrà inteso come parte di una battaglia più ampia fra visioni del mondo contrastanti, di un processo di ricostruzione e di reinvenzione delle idee stesse della collettività, della comunità. dei beni comuni, del senso di appartenenza civica e civile, dopo tutti i decenni in cui queste idee sono state attaccate e trascurate.» Si tratta dunque, di riuscire a cambiare, secondo l’autrice “gli schemi di pensiero” anche perché, secondo lei, «Dovremmo iniziare a credere che l’umanità NON È irrimediabilmente egoista ed avida, secondo quell’immagine che ci viene riproposta di continuo da una serie di fonti che vanno dai reality show all’economia classica Qualche speranza di cambiamento, secondo l’Autrice si può tuttavia intravvedere nella diffusione planetaria dei social-media che potrebbero contribuire a ricostruire quelle consapevolezze ormai smarrite all’interno di un universo virtuale che può tradursi in movimenti collettivi capaci di influenzare il decisore politico.

L’ultimo tentativo disperato fra buone intenzionie grida manzoniane

Come sappiamo, la cronaca di questi giorni sembra dare ragione a tali previsioni dal momento che il colosso cinese e gli altri Paesi fin qui indisponibili a rispettare gli accordi di Kyoto e Copenaghen stanno mutando atteggiamento, a fronte del disastro e delle devastazioni che stanno quotidianamente scuotendo il nostro asfittico pianeta malato . Leggiamo su La Repubblica che i grandi inquinatori del Pianeta (Stati Uniti, Cina, India) hanno avviato un dialogo nuovo, abbandonando definitivamente la strategia fallimentare dei limiti da porsi obbligatoriamente alle emissioni di CO2 da parte della comunità internazionale. Il futuro della specie umana è oggi nelle mani di Obama, Xi Jinping e Nerendra Modi. Resta tuttavia la questione di rimborsare per la mancata crescita passata e futura quei popoli incolpevoli che non hanno mai potuto sviluppare alcuna ricchezza con proprie devastanti tecnologie, sopportando unicamente le devastazioni dell’inquinamento globale.

Insomma, la malattia irreversibile che affligge la nostra affannata astronave trova origine nell’avidità di pochi e nella frenesia di un guadagno insensato e rapace, figlio d’un Capitalismo senz’anima e del modello culturale-ideologico che lo ha accompagnato e che sta accompagnando le nostre nuove generazioni, plagiate ed intontite dallo spettacolarismo mediatico, dal narcisismo imperante, dal consumismo frenetico. Personalmente non posso dunque non sorridere dei ripetuti e ridondanti appelli pedagogici reclamanti sempre nuove strategie   per la formazione alla “cittadinanza responsabile e solidale”, per l’educazione ecologica in vista dello “sviluppo sostenibile” e così via dicendo…

Viviamo la condizione schizofrenica d’un mondo parolaio che si va inventando la retorica solenne ed inconcludente d’una pedagogia fintoprogressista che non vuole fare però i conti con la realtà vera, che non sa e che non vuole denunziare con forza la condizione di servaggio in cui una malintesa pseudo-scienza “economica” mantiene popoli e Paesi avendo addomesticata perfino la Politica al suo credo farneticante ed èlitario.

In questa cornice, dunque, le pur pregevoli Linee Guida ministeriali del 2009 sviluppate su queste tematiche , ma non ben attente a rappresentare la causa vera ed ultima d’una devastazione ambientale che è figlia d’una economia di rapina, conservano un sapore vagamente beffardo che richiama le antiche grida manzoniane , illudendoci che tutto possa risolversi convincendo i nostri figli ad allineare compostamente i sacchetti dell’immondizia differenziata.

Incontro con Daniela Valente

Arturo e l’uomo nero, romanzo di Daniela Valente

Incontro con l’autrice di Mario Coviello

 

valente“Ninna nanna, ninna oh,questo bimbo a chi lo do?
Lo darò alla Befana che lo tiene una settimana,lo darò all’Uomo Nero che lo tiene un anno intero”. Fin da piccoli ci siamo chiesti dove si nascondesse quel terribile uomo nero che agitava i nostri sogni. In “ Arturo e l’uomo nero” l’ultimo romanzo di Daniela Valente il protagonista è un ragazzo coraggioso che ama tutte le storie, anche quelle che fanno venire i brividi. Le stesse che la gente del paese racconta di una specie di bestia selvatica che vive nella foresta, della ninna che porta via i bambini per un anno intero. Ma Arturo, vuole a tutti i costi vincere una gara importante e non ha paura del buio, ed è proprio nel bosco più scuro che incontrerà….

Con una scrittura pulita e un ritmo avvincente, ancora una volta Daniela Valente sa raccontare e ci fa riflettere sulla vita e le sue contraddizioni e ci invita a non arrenderci, a coltivare il sogno e la speranza.

L’abbiamo incontrata.

 

  • Il tuo ultimo libro “Arturo e l’uomo nero”, pubblicato da Coccole Books un mese fa affronta due temi forti l’amicizia e la paura. Hai dedicato il tuo libro a“A tutti gli amici, quelli che ci sono stati e quelli che ci sono ancora”,perché per Daniela Valente l’amicizia e così importante? E’ possibile un’amicizia fra un uomo e una donna? Si può insegnare ai piccoli l’amicizia? Come?

 

Credo molto nella fratellanza e nella cuginanza che alcune volte si allacciano con perfetti estranei, piuttosto che con i reali parenti. I primi li scegli e cambiano, come cambia la vita, i secondi te li ritrovi e non sempre i legami di sangue corrispondono a legami di cuore.Scegliere di essere un amico o avere degli amici comporta necessariamente il confronto, mettersi in discussione, rendersi disponibili e comprendere l’altro prima di essere compreso. Alcune volte è una prova difficile, altre volte può salvarti la vita. Come tutte le relazioni, anche l’amicizia ha bisogno di equilibro che sia tra donne che tra uomini e donne. Io sin da piccola ho sempre avuto sia amici maschi sia femmine. E sono proprio i bambini a ricordarci quanto possono essere assoluti i sentimenti. In occasione di un progetto in una scuola ho avuto modo di stare diverso tempo al lavoro con lo stesso gruppo classe. Ricordo la rabbia, il pianto, la gelosia, ma anche le risate e la complicità di due bambini molto amici di nove anni. Le loro emozioni erano fortissime ed estreme sia nel bene che nel male, mi hanno ricordato quanto possono essere esclusivi i sentimenti a quella età. Del resto amore e amicizia in latino hanno la stessa radice e se nel tuo orto non ci metti i sentimenti non crescerà mai nulla…

 

  • Il secondo tema del tuo libro è la paura. Dal 13 novembre, dopo gli attentati a Parigi, la paura è aumentata e viviamo queste settimane di Avvento, in attesa del Santo Natale quasi sospesi, in attesa di risposte, di soluzioni. In” Arturo e l’uomo nero”, tu vuoi insegnarci a vincere la paura, quella paura che cambia il nostro corpo e ci fa perdere la voce, trasformandoci in bestie “forse” feroci. Come possiamo insegnare ai piccoli a non avere paura, a continuare a sperare?

 

La paura è un sentimento come gli altri ed è giusto provare paura. Non vergognarsene anche da adulti, quando stereotipi di genere ci fanno immaginare per esempio gli uomini meno paurosi delle donne. Niente di più falso. Il vero problema non è solo ammettere di avere paura ma cercare di superarla, reagire. Così come grazie al solletico esploderò in una risata, che dopo un poco finirà, ecco che la paura magari mi farà piangere e arrabbiare, ma poi devo imparare anche a smettere, ripartendo da quello che mi è successo. Quando invece non capiamo tutto questo, allora il rischio di trasformarsi in bestie feroci è molto alto, come succede a Tiberio, il protagonista della mia storia. Purtroppo questi tempi ci ricordano anche che la paura è contagiosa, ci rende sordi e muti e così si diventapiù cattivi. Lo spavento ci confonde e finiamo per fare scelte sbagliate o poco lucide. In questo occorre che gli adulti diano esempi di comportamento più coerente ai bambini che pretendono di educare.

 

  • Nonna Maria (ancora una nonna come in Mamma farfalla), sa raccontare storie. A pag. 62 di Arturo e l’uomo nero scrivi: “… In quei momenti le storie vere si mescolavano alle storie inventate, in un fiume di parole, che serviva a non perdersi e a riconoscere se stessi e gli altri…”.

So che ti piace raccontare di te, della tua famiglia, e ti ho visto dolce e attenta negli incontri con le classi. Perchè Daniela nella società liquida dei Tweet, di Istagram e Youtube è ancora necessario raccontare storie?

 

La mia infanzia è stata ricca di figure femminili che avevano un grande potere affabulatorio. Ho ascoltato tante storie quando ero bambina da mia nonna, da mia madre, dalle donne che abitavano vecchie case di campagna, anche storie di paura e di magia in cui il sogno si confondeva con la realtà. Poi quelle storie e molte altre le ho trovate nei libri e oggi,in questi nuovi tempi, io credo ancora fortemente al loro grande potere. Non mi serve scomodare il Vecchio Testamento o Le Metamorfosi di Ovidio, mi viene in aiuto il libro che in questi giorni è sul mio comodino: Donne che corrono coi lupi, dove l’autrice attinge alle fiabe e ai miti delle più diverse tradizioni culturali per fondare la sua psicanalisi femminile. Del resto la nostra tradizione popolare è ricchissima di storie e nel libro non solo faccio riferimento a delle figure reali: i briganti, i carbonari, gli eremiti che abitavano il nostro bosco, da sempre luogo deputato al mistero nell’immaginario collettivo, ma cito anche storie che ho letto o ascoltato in cui il bosco è protagonista assoluto. Credo che la migliore prova della necessità e dell’utilità del racconto siano gli occhi attenti e le orecchie tese di tutti i bambini, ogni qual volta un adulto presta loro attenzione e decide di leggere o raccontare una storia, e questo resta uguale oggi come cento anni fa.

 

Come scrittrice e direttore editoriale di Coccole Books sei stata sempre molto attenta alle illustrazioni e questa volta hai scelto il giovane Francesco Pirini. Perché in un libro le illustrazioni sono così importanti? E il tuo rapporto con Pirini com’ è stato ? Come avete lavorato insieme?

 

Francesco Pirini ha già illustrato per Coccole Books l’albo Blu come me, con cui ha vinto il Premio Cento2015 proprio con le sue illustrazioni. In Arturo e l’Uomo nero, abbiamo voluto sperimentare un genere diverso e più adatto allo stile un poco noir della storia. Ecco perché abbiamo scelto di realizzare le immagini con toni scuri. Per raccontare un poco e lasciare immaginare il resto. Tiberio si trasforma senza cambiare completamente. Ogni bambino avrà la possibilità di immaginare il suo Uomo Nero, evocato dagli adulti nella famosa ninna nanna per spaventare, ma mai descritto per davvero. Si sa cosa fa: rapisce i bambini e li tiene un anno intero, ma non si sa com’è. Una bambina che ho incontrato qualche giorno fa lo ha definito: un’ombra spaventosa mischiata al buio della notte…

 

Arturo e l’uomo nero è un libro con i caratteri più grandi “ad alta leggibilità..” perché ?

 

Da quando nel 2010 è stata finalmente approvata la legge sulla dislessia, è cresciuto anche nel mondo editoriale per ragazzi l’attenzione all’ aspetto della difficoltà nella lettura. La legge promuove il successo scolastico dei bambini dislessici e l’uso dei font ad alta leggibilità rappresenta uno strumento importante che gli editori possono dare anche e soprattutto nella proposta di testi non scolastici per la lettura e la comprensione del testo. Insieme a S.O.S. supplente in arrivo di Isabella Paglia, Arturo e L’uomo Nero è il secondo titolo di Coccole Books con font ad alta leggibilità e di certo non sarà l’ultimo. Del resto vale per tutti i bambini,dislessici e non,la regola che più leggi, più sai scrivere, più sai parlare, più cresce il tuo spirito critico e la tua capacitàdi scegliere.

 

Ed infine un’ultima domanda sul tuo lavoro come direttrice editoriale di Coccole Books. Stai per partire per la grande Fiera del libro di Roma (4-8 dicembre 2015), come riuscite come piccola casa editrice meridionale di libri per ragazzi, a continuare la vostra eroica impresa, nonostante ci siano sempre meno soldi per la cultura e i libri?

 

Con grande impegno e con grande passione, ma non senza difficoltà. Se ami il tuo lavoro non sei mai stanco davvero. La Fiera di Roma è un momento importante che chiude anche un anno di grande fatica, ma come ogni evento nazionale e internazionale in cui i libri sono protagonisti, sono sicura che trarremo nuovo spirito per affrontare il futuro, che vogliamo immaginare sempre migliore.

C. Dotto Viglino, Maremadre

Una vita a due

di Antonio Stanca

viglinoA Giugno del 2015 presso la casa editrice E/O di Roma è comparso un altro romanzo, il quarto, Maremadre, della poetessa e scrittrice genovese Cristina Dotto Viglino.

Nata a Genova nel 1966, la Viglino già a ventotto anni, nel 1994, si è fatta conoscere con la prima raccolta di poesie Inutile phare de la nuit, che le ha procurato il Premio Marguerite Yourcenar per la poesia. L’anno successivo con il primo racconto, Il porto, vinse il Premio di Narrativa Città di Novara. I primi due romanzi sono del 2006 e sono stati pubblicati insieme, in un volume unico dal titolo Di due dolori ed altro.

Altre raccolte poetiche ed altri romanzi avrebbe scritto la Viglino fino a quest’ultimo dove narra di una situazione particolare verificatasi nella prima metà del secolo scorso e vissuta da una madre ed una figlia legate, unite in maniera morbosa, inalterabile, indissolubile.

Non è un romanzo autobiografico come alcuni hanno inteso anche perché ambientato in una Genova precedente a quella vissuta dalla scrittrice nei suoi anni da bambina ad oggi. Probabilmente nella vita della Viglino ci saranno stati degli elementi, degli aspetti dai quali le è provenuta ispirazione, è stata mossa a scrivere l’opera ma altro è questa dalla sua vita.

Il romanzo si presenta scorrevole, facile nell’esposizione, chiaro nei contenuti. Questi passano tra tempi, eventi, ambienti diversi senza, però, perdere di vista il motivo che li tiene uniti dall’inizio alla fine e che è costituito dall’affetto, dall’amore che uniscono una madre ed una figlia in una Genova che delle loro vicende sembra partecipare, dai loro pensieri sembra essere percorsa nelle sue strade, nelle sue case, nelle sue piazze, nel suo mare, nel suo porto, nei suoi abitanti, nelle sue luci, nei suoi colori. Sempre presente è la città nel romanzo, sempre nominata pur nelle sue parti più segrete, nei suoi vicoli più remoti. Vivere sembra Genova in quest’opera della vita delle due donne. E’ una vita particolare questa, un “caso” eccezionale è il loro dal momento che tutto ciò che è dell’una appartiene pure all’altra. Tra le due non ci sono segreti, esse vivono più come amiche che come familiari. Nella famiglia il padre aveva proceduto per conto proprio senza pensarle molto e questo aveva mosso la madre a rimanere vicina alla figlia da quando era piccola a quando era diventata una donna matura che aveva compiuto i suoi studi universitari e si era più volte sposata. Sempre pronta era stata la madre a capire i pensieri, i bisogni della figlia, ad aiutarla nei suoi problemi, a risolvere i suoi dubbi, a placare le sue angosce, ad insegnarle a vivere nel migliore dei modi. La vita aveva fatto imparare alla figlia, la sua vita le aveva trasmesso convinta che fosse stata la migliore perché fatta di equilibrio, compostezza, cultura, eleganza ed anche libertà di pensiero ed azione, scambi, rapporti compresi quelli sessuali che, secondo lei, arricchivano, facevano acquisire quanto agli altri apparteneva, aggiungevano alla propria altre vite. Due donne unite anche nelle loro passioni amorose erano diventate quella madre e quella figlia: come era stato per una era adesso per l’altra.

Un movimento continuo, incessante, un processo interminabile viene avviato nel romanzo fin dalle prime pagine. La voce che parla è quella della figlia e mai si ferma, mai conclude, mai finisce di dire di una situazione poiché sempre ha da aggiungere a quel che ha detto, ha visto, ha fatto, sempre ha da riferirsi alla figura, alla persona della madre che anche quando non è presente vive, opera nei suoi pensieri, nei suoi ricordi, nei suoi sogni. Hanno cominciato insieme e finiranno insieme. Ancora più unite, ancora più strette le mostrerà la Viglino al momento della notizia della grave malattia che ha colpito la madre. Allora sarà la figlia la protettrice, la consolatrice ma niente cambierà ché uguali saranno le parole, le intimità che tra loro correranno, uguali i modi, gli sguardi. E neanche dopo, si ripromette la figlia, sarebbe cambiato qualcosa, neanche dopo la morte della madre lei avrebbe smesso di sentirla vicina.

Meraviglia, affascina questa lunga, interminabile ricostruzione che una donna fa della sua vita senza mai mostrare di ricredersi su qualche momento, aspetto di essa, senza mai dubitare se le è valso vivere come la madre, insieme alla madre, per la madre.

A testa alta di Emmanuelle Bercot

“A testa alta“, un film di Emmanuelle Bercot

di Mario Coviello

atestaaltaNel 1959 il film di un esordiente chiamato François Truffaut lasciò il suo segno sul festival di Cannes con la storia di un ragazzino difficile, malamato in famiglia, finito in un istituto correzionale. Era “I 400 colpi”.

Albert Einstein diceva: “Non esistono grandi scoperte né reale progresso finché sulla terra esiste un bambino infelice.” Dall’alto della sua saggezza non sbagliava. Il legame con l’ultimo film di Emmanuelle Bercot, A Testa Alta (La Tête Haute), presentata in apertura al Festival di Cannes 2015 (il film è uscito la scorsa settimana in Italia in occasione della giornata mondiale dei diritti per l’infanzia e l’adolescenza), è significativo ai fini della storia e della sua possibile analisi.

Qual è il prezzo da pagare per vedere gli occhi di un bambino colmi di gioia e il suo sguardo disteso se durante l’infanzia gli è stato rubato il sorriso?
“L’educazione è un diritto fondamentale. Esso deve essere assicurato dalla famiglia, ma se essa non vi provvede, spetta alla società assumersene l’onere”, recita la nostra Costituzione.

Il film è la storia di un adolescente infelice, un giovane smarrito senza una guida, è l’immagine riflessa allo specchio di una anima triste, avvolta nell’ombra di un’apparente cammino di crescita la cui retta via non è mai stata tracciata. Malony è un ragazzo che non ha avuto una madre capace di seguirlo passo dopo passo, ed è costretto a vivere un tragico dramma esistenziale, infettato di dolore e solitudine, in perenne equilibrio tra ragione e istinto.

Per una società che vuole ampliare i suoi orizzonti in nome di un progresso mirato è fondamentale stabilire un contatto con i cittadini più bisognosi , tracciando un percorso ‘educativo’ che garantisca loro un futuro e una graduale integrazione comunitaria. Ognuno deve poter camminare “a testa alta” Ed è grazie al lavoro di persone che svolgono con passione e fedeltà il proprio mestiere che esiste ancora oggi una ferma speranza per l’avvenire, la volontà di riuscire a cambiare lo stato dei fatti e a sanare l’insanabile.

Giustizia, tenacia e solidarietà, il messaggio lanciato dalla regista francese è chiaro: A Testa Alta focalizza l’attenzione su una pagina triste e spiazzante della storia di un minorenne problematico, “out of control”, e di una famiglia ‘adottiva’ che cerca di salvarlo dalla perdizione con tutti i mezzi possibili per guidarlo verso un’ideale strada che porta alla redenzione.

“Il punto di partenza del film ha radici molto specifiche” – spiega la regista – “ Ho uno zio educatore e da bambina ero andata a trovarlo in Bretagna dove era responsabile di un campo estivo per giovani delinquenti. Uno di loro era un bambino. Da ragazza di buona famiglia, sempre protetta e incoraggiata, ero affascinata dal comportamento di questi adolescenti che non avevano avuto la mia stessa fortuna, ero attratta dalla loro insolenza, dal loro atteggiamento ribelle nei confronti dell’autorità e delle convenzioni sociali. Allo stesso tempo ammiravo lo sforzo di mio zio e degli altri assistenti sociali per rimetterli in carreggiata, educarli, insegnar loro ad amare se stessi e gli altri, portare rispetto ai propri simili, ma soprattutto a se stessi. Il ricordo è rimasto in me così presente che da adolescente volevo diventare un giudice minorile. Questo ricordo mi ha spinto a fare un film sull’argomento”.

Emmanuelle Bercot con grande capacità legge attentamente le situazioni, utilizza la macchina da presa in modo utile ed essenziale e mette a proprio agio gli attori, lasciandoli liberi di muoversi sulla scena e di sfoderare performance autentiche di incredibile impatto reale. Il film fotografa lo spaccato sociale della Francia di oggi,la Francia ferita dagli attentati a Parigi di questo mese, dove il sistema e le istituzioni tutelano appieno i diritti dei minori, favorendo l’educazione piuttosto che la repressione

In un via vai tra trasferimenti in ostelli della gioventù sperduti nella bucolica realtà di una Francia contadina legata all’agricoltura intensiva ed istituti di correzione, tra sbandate di testa ed isterie ingovernabili, forse alla fine il ragazzo riuscirà a capire sulla sua pelle il valore della famiglia e le responsabilità che gli competono quando da ragazzo e figlio diviene genitore precoce e per nulla deliberato o programmato.

Quando in un film si narra il disagio giovanile, la mente va quasi istantaneamente a registi come i fratelli Dardenne e Van Sant e, andando più indietro nel tempo, come ho scritto all’inizio, a maestri del cinema come Truffaut. Ai docenti, agli operatori sociali, alle persone che hanno il coraggio di guardare avanti, in queste settimane di paura, consiglio la visione di questo film da vedere e far vedere.

Walter Tocci, La scuola, le api e le formiche

Walter Tocci,
La scuola, le api e le formiche
Come salvare l’educazione dalle ossessioni normative
Saggine, n. 263
2015, pp. XVI-192,
ISBN: 9788868434038

«In natura ci sono due comunità operose: le formiche che curano la vita in comune e le api che scrutano nuovi paesaggi. Ecco una sorta di manuale per i riformatori dell’istituzione scolastica: formicai accoglienti per le domande dei giovani, per i migranti, per gli adulti che tornano a studiare. E favi sapienti, alimentati dalla curiosità per il nuovo mondo e dalla creatività della didattica. Sono questi i mondi vitali che salvano l’educazione dalle ossessioni normative. Così sono maturate le buone opere e i giorni migliori della scuola italiana. per editto è venuto ben poco».

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Marco Balzano, L’ultimo arrivato

Marco Balzano, L’ultimo arrivato, Sellerio editore 2014

di Mario Coviello

 

balzanoNemmeno duecento pagine: trentuno brevi capitoli che appassionano e scorrono veloci, senza mai annoiare è questo “ L’ultimo arrivato”, romanzo di Marco Balzano, Sellerio editore, premio Campiello 2015, che mi ha appassionato e commosso in queste ultime settimane e che vi consiglio di leggere e far leggere, e leggere in classe ai vostri alunni se siete docenti, che vi consiglio di raccontare ai vostri figli e nipoti.

Ninetto e Giuvà, paesani di San Cono, lavorano i campi legati ancora al grembo materno delle loro terre. Maturano sempre di più la speranza di staccarvisi, per recarsi in quel posto dove la macchina industriale e quella del destino si incontrano. Dopo un interminabile viaggio in treno arrivano a Milano e si scontrano con una realtà diversa, fatta di palazzoni, ciminiere, viaggi in tram e giornate scandite dalla nebbia.

E’ la storia di Ninetto pelleossa, che il romanzo racconta che lascia il suo paese sperduto in Sicilia, alla fine degli anni cinquanta e va a lavorare a Milano

«Non è che un picciriddu piglia e parte in quattro e quattr’otto. Prima mi hanno fatto venire a schifo tutte cose, ho collezionato litigate, digiuni, giornate di nervi impizzati, e solo dopo me ne sono andato via. Era la fine del ’59, avevo nove anni e uno a quell’età preferirebbe sempre il suo paese, anche se è un cesso di paese e niente affatto quello dei balocchi»(pag 18 )

Negli anni Cinquanta a spostarsi dal Meridione al Nord in cerca di lavoro non erano solo uomini e donne pronti alla vita, ma anche bambini a volte più piccoli di dieci anni che mai si erano allontanati da casa. Il fenomeno coinvolge migliaia di ragazzini che dicevano addio ai genitori, ai fratelli, e si trasferivano spesso per sempre nelle lontane metropoli.

Ed ecco come l’autore racconta la nascita del libro “ Poi qualcuno, non mi ricordo chi, mi ha raccontato che negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta arrivavano a scuola anche bambini, che scappavano dalla fame e da un futuro che non poteva riservare nessuna sorpresa o speranza di miglioramento. Dunque mia madre, che è emigrata dalla Puglia bambina, lì dentro non si sarà potuta sentire nemmeno la più piccola. La notizia mi ha colpito e . ho letto saggi che mi restituivano la percezione di allora…. La conclusione era chiara, dell’emigrazione infantile non se n’è parlato molto. E se n’è raccontato ancora meno. Poi ho intervistato questi bambini emigranti, oggi più o meno settantenni. Un signore mi rimandava a un altro. Un ex compagno di fabbrica, di partito, un vicino di casa, un parente… “

E da qui il romanzo che mi ha emozionato per l’affetto che Ninetto conserva per il suo maestro Vincenzo che gli faceva imparare a memoria le poesie di Pascoli e raccontava di Rousseau e Campanella.

E grazie a questo maestro che non dimentica mai, Ninetto che è stato educato così :“Come per il cielo è normale piovere, per una vacca muggire, per un albero far cadere le foglie, per un genitore di San Cono era naturale sganciare mazzate… “Ti sei sporcato i pantaloni?” calci a ripetizione….”amerà sempre lo studio:“Anche oggi, quando mi capita di conoscere una questione o un argomento sento una soddisfazione che non si può dire. Questo sentimento non tutti lo provano, c’è chi non si interessa di sapere e vive bene con la sua faccia da ignorante. Io invece sono curioso, mi mangio le mani se si parla di cose che non so e godo quando qualcuno mi fa una domanda e conosco la risposta per filo e per segno come un egregio dottore.”(p. 160)

Ninetto va in carcere per motivi che non vi racconto perché dovete comprare e leggere il libro e, torniamo a Balzano “! In tutto questo vuoto si fa strada un desiderio che già in carcere, nello squallore della cella, Ninetto avvertiva: raccontare la sua storia a chi può custodirla. Questo scrigno innocente è la nipotina mai vista. Si chiama Lisa, figlia della sua unica figlia, che ha deciso di non fargliela conoscere per dimostrargli il disprezzo per ciò che ha fatto. Ninetto da quando è nata la immagina: fantastica di portarla in giro, prenderle la mano, proteggerla dal mondo, che è sempre prudente affrontare con un coltello in tasca. La sua storia è l’unica cosa che gli è rimasta, tutto il resto si è perso per strada. Ad essere capace di scrivere l’avrebbe lasciata sul diario che gli aveva regalato il suo idolo, il maestro Vincenzo della scuola di via dei Ginepri, a San Cono, che gli faceva imparare i versi di Pascoli a memoria e gli aveva messo voglia di diventare poeta o maestro elementare anche lui. Però quella pagina è rimasta sempre bianca, la mano si irrigidiva ogni volta che impugnava la penna. Invece, quando vedrà la bambina che gioca con nonna Maddalena, e quando la strapperà da lei per qualche ora portandola in via Gorizia, in una sorta di viaggio agli inferi in cui lui veste i panni di un poco saggio Virgilio, Ninetto sentirà di non meritare perdono, ma di aver riscattato almeno parzialmente la paura di vivere senza lasciare traccia.

Le parole di Ninetto, ovvero di Balzano, trasudano una bellezza primitiva, sia candida che aggressiva. Un’epoca che ci sembra così distante ci viene descritta con parole semplici e per questo poetiche. Ninetto da grande voleva fare il poeta. E il lettore che si affeziona a lui quasi come se lo conoscesse da anni, continua ad augurarglielo anche dopo aver letto l’ultima pagina di questo libro straordinario.

Perdetevi nei dialoghi e nelle descrizioni di questo romanzo, innamoratevi del tempo che dedicate a ogni pagina. Lasciate che, a un certo punto, le lacrime corrano veloci sul vostro viso come era solito fare Ninetto per le vie di Milano.

Il romanzo infatti è commovente (“Il dolore tiene insieme più di ogni altra cosa”) sia perché attraversa efficacemente le dinamiche psicologiche del protagonista e i fenomeni sociali – l’emigrazione, il caporalato – che i corsi e ricorsi storici tragicamente ripropongono, sia perché Marco Balzano, milanese e docente di scuola media, riesce a identificarsi pienamente nel suo personaggio siciliano e ingenuamente innamorato della cultura (“Questo signor Camus autore de Lo straniero…

E al giornalista che gli chiede “Come si riflette il drammatico tema dell’immigrazione internazionale sulla scuola dei nostri giorni?
lo scrittore risponde “ – La diversità è una ricchezza, su questo non si discute. Dove la scuola ha gli strumenti per interpretarla, accoglierla e condividerla nascono situazioni molto stimolanti. Dove gli strumenti non ci sono è più facile che si verifichino fenomeni di emarginazione, incomprensione, razzismo. È sempre una questione di risorse, se preferisci una questione politica.

In quanto a dialogo col contemporaneo, dunque, quello di Balzano è un romanzo che cade bene: si incontra e scontra con il tema dell’altro e del multiculturalismo  All’immigrazione in senso largo, si pensa e ci s’interroga, leggendo questo romanzo.

Marco Balzano arriva dalla letteratura che si insegna nelle scuole – professore di medie e liceo, già pubblicato da Sellerio nel 2013 con Pronti a tutte le partenze, e prima ancora timido esordiente poeta con Particolari in controsenso (Lietocolle, 2007), con in più una passione, e alcuni saggi pubblicati sull’argomento, nientemeno che per Giacomo Leopardi. Arriva quindi in un certo senso ultimo, anche lui, dietro ai grandi autori che riporta in luce per i propri studenti, al punto che quando scrive riesce a sembrare Verga, in certe righe, e far rientrare nella storia di Ninetto, nel suo universo curioso e dissacrante, le lezioni scolastiche del maestro Vicenzo su Giovanni Pascoli e “Giangiacomo Russò”: “Fece una lezione coi fiocchi, il maestro. Parlò di un signore che si chiamava Giangiacomo Russò e lo chiamò pensatore, una parola che non avevo mai sentito e che secondo il mio compagno di banco significava uno molto intelligente e che la sa lunga, mentre secondo Peppino indicava uno che il mattino si alza e non tiene una minchia da fare”.

E che Balzano scriva di questo, sembra un ottimo motivo per vincere il Campiello, per farci pensare, alla spaccatura tra cultura lenta del sud e nord industrializzato, alla necessità di capire e accettare i contatti con le culture del Mediterraneo.

Che l’Italia abbia un’anima mediterranea, di cui il nord spesso si dimentica, si esprime  per il narratore nei suoi viaggi al sud sempre sofferti: “Il treno che scende non è lo stesso che sale. È un’altra storia. Quelle carrozze vuote parlano chiaro, dicono vuoto è pure il paese dove si è diretti. Vuoto di lavoro, di cose fare e vuoto pure delle persone che pensi di ritrovare e invece non ci stanno più”.

L’ultimo arrivato diventa così anche un importante documento sociologico perché fa riflettere sul problema dell’immigrazione e su come sia cambiata la nostra realtà negli ultimi sessant’anni

A. Fuiano, Bobo, Gastone, lo scienziato e lo stregone

ANTONELLA FUIANO, Bobo, Gastone, lo scienziato e lo stregone, Illustrazioni di Saverio Romito, MARIO ADDA EDITORE, BARI, 2014 

  
Un libro per bambini.

Un libro singolare.

Un libro che è un albo riccamente illustrato con immagini estremamente significative per i bambini.

Racconti scritti in versi.

Sospesi tra prosa e poesia.

Poesia per i bambini, facile, comprensibile, facilmente memorizzabile.

Si fa amare.

Ma anche ricordare.

E non solo.

Ci sono anche le schede.

Le schede in appendice, che sostituiscono le note a piè di pagina.

Ma soprattutto aiutano a comprendere i significati dei racconti, senza tuttavia risultare didascaliche.

Né noiose né penose.

Ma amabili, piacevoli, amorose.

A tutti i bimbi, ai bimbi di tute le età, io lo consiglio.

 

RECENSIONE DI UMBERTO TENUTA

P. Paterlini, Lasciate in pace Marcello

Per l’idea di un amore

di Antonio Stanca

paterliniA Maggio del 2015 è comparsa presso Einaudi (Torino), nella serie ET Scrittori, la nuova edizione di Lasciate in pace Marcello, breve romanzo pubblicato la prima volta nel 1997 da Piergiorgio Paterlini, giornalista e scrittore italiano, nato a Castelnovo di Sotto, Reggio Emilia, nel 1954 e divenuto, a sessantuno anni, un autore impegnato in molte direzioni. Ha cominciato come giornalista, nel 1975 con “Il manifesto”, nel 1988, insieme a Michele Serra e Andrea Aloi, ha fondato il giornale satirico “Cuore”, in seguito ha collaborato con altre riviste e altri giornali ma poi ha ridotto la sua attività giornalistica, l’ha limitata ai soli “la Repubblica” e “l’Espresso” per potersi maggiormente dedicare alla scrittura narrativa e alla produzione di programmi per la radio, la televisione, di testi per il teatro, di sceneggiature per il cinema.

Molto ha fatto Paterlini, in molti sensi si è impegnato e s’impegna. L’attualità, i suoi problemi sono i temi che attirano la sua attenzione, l’individuo, la società, quelli che in particolare lo muovono ad operare. Anche il Paterlini scrittore è interessato all’attualità, a quanto essa ha comportato per la società e in particolare per le famiglie e per i giovani. Il suo romanzo Ragazzi che amano ragazzi, pubblicato nel 1991, ampliato nel 1998 e nuovamente edito nel 2005, dice dell’infanzia e dell’adolescenza di ragazzi omosessuali, di un problema, cioè, che, nonostante i progressi oggi compiuti in ogni ambito, è rimasto ancora difficile da risolvere per le implicazioni che comporta riguardo alla famiglia, alla scuola, alla società. L’opera ebbe molto successo e diventò quella distintiva dello scrittore. Anche poesie, saggi e un’autobiografia insieme a Gianni Vattimo ha scritto Paterlini ma quello della condizione familiare, coniugale e della conseguente condizione giovanile in un contesto come l’attuale rimane il motivo sul quale ritorna la sua narrativa, il motivo che ha fatto di Paterlini uno scrittore.

Ora, con Lasciate in pace Marcello, che ha avuto una traduzione all’estero, Olanda, che è stato censurato in una regione italiana, Veneto, lo scrittore ha inteso dire in breve dell’esperienza di un sedicenne, Marcello, che s’innamora perdutamente della madre di un suo compagno di scuola, che raggiunge la felicità massima quando da questa si vede corrisposto e soprattutto quando ha con lei un rapporto d’amore. Dopo tanta gioia, però, si rende conto che si tratta di un amore che non può avere seguito e dal momento che è convinto di non poter amare nessun’altra donna decide di scomparire, di sottrarsi a tutti e rinchiudersi in un convento lontano dalla casa sua, di lei e di tutti. Qui, tra i frati, c’è un altro rifugiato, Federico, un professore universitario al quale Marcello narrerà la sua storia senza però ottenere che Federico gli dica di sé, di quanto è successo nella sua vita. Federico morirà quando Marcello avrà venticinque anni e dopo nove anni che è stato in convento. Continuerà a stare, vi rimarrà per sempre, una conquista si convincerà di aver compiuto tramite quella scelta perché della conquista gli sembrerà che abbia tutte le caratteristiche e in particolare quella di essere stata fatta con decisione e continuata con fermezza.

Con Marcello Paterlini ha indagato nella vita di un altro dei suoi giovani, di un ragazzo ha narrato la sua particolare esperienza, il suo bisogno di conservare puro, intatto quell’amore che gli era stato concesso, di vivere della sua idea lontano da tutti. Un esempio di rinuncia della realtà in nome dell’idea offre Paterlini con questa breve narrazione, un tipo di ragazzo che oggi non si crede possibile mostra e non rimane che apprezzare il suo lavoro per il valore di documento che contiene e per la chiarezza del linguaggio che lo esprime.

Inside Out

Inside out, film di animazione della Pixar di Peter Docter e Ronnie Carmen

di Mario Coviello

insideoutHo insegnato l’intelligenza emotiva ai miei alunni prima e ai docenti poi dopo aver studiato Daniel Goleman dal 1997. E’anche per questo che consiglio a genitori ed insegnanti di non perdere la visione di Inside out. Genuino, profondo e psicologico. Inside Out, film animato della Pixar, è un concentrato di emozioni, grafiche da urlo e scene paradossali. Racconta la vicenda della piccola Riley, bambina del Minnesota che si trasferisce a San Francisco con la famiglia, e lo fa dal punto di vista della sua mente. Il film è quasi tutto ambientato nel suo cervello, dove le emozioni (Gioia, Tristezza, Paura, Disgusto e Rabbia) indirizzano gli stati d’animo da una plancia di comando, gestiscono la costruzione e lo stoccaggio dei ricordi, reagiscono secondo la loro natura agli stimoli esterni di un momento così critico per la bambina. In una fase concitata, Gioia e Tristezza finiscono per errore da un’altra parte del cervello. Il film racconta la storia parallela del loro viaggio di ritorno verso il quartier generale, mentre Riley cerca di tornare felice com’era nel Minnesota, sentendosi sperduta a San Francisco.

Inside Out sviluppa l’avventura di dentro, attraversando in compagnia di Joy e Sadness la memoria, il subconscio, il pensiero astratto e la produzione onirica di una bambina che sta imparando a compensare la propria emotività e ad assestarsi in una città altra.

Il film ci insegna che ciascuna delle emozioni è necessaria per barcamenarsi nel mondo esterno: la paura evita – quando può – i passi falsi, il disgusto l’avvelenamento per aver mangiato i broccoli, da sempre odiati dai piccoli, mentre Tristezza interviene nei momenti di scoramento, nelle piccole sconfitte (del campionato di hockey). I ricordi che si vengono a creare appartengono a uno di questi personaggi, ma i ricordi di base, quelli che più di tutti definiscono la personalità di Riley, appartengono sempre alla sfera delle emozioni rappresentate da Joy.

Si costruiscono così le isole emotive della famiglia, dell’amicizia, della stupideria, dell’hockey, edifici interiori che racchiudono una parte importante della bambina.

Con Inside Out il regista PeterDocter installa di nuovo l’immaginario al comando e ingaggia cinque creature brillanti per animare un racconto di formazione che mette in relazione emozioni e coscienza. Perché senza il sentimento di un’emozione non c’è apprendimento. Dopo la senilità e l’intenso riassunto con cui apre Up, che ha la grazia e la crudeltà della vita, Docter lavora di rovescio sulla fanciullezza, tuffandosi nella testa di una bambina, accendendola con flussi di pensieri sferici che hanno tutti i colori delle emozioni. E a introdurre Riley sono proprio le sue emozioni che agitandosi tra conscio e inconscio sviluppano le sue competenze e la equipaggiano per condurla a uno stadio successivo dell’esistenza.

Nel cammino alcuni ricordi resistono irriducibili, altri svaniscono risucchiati da un’ aspirapolvere solerte nel fare il cambio delle stagioni della vita e spazio al nuovo. A un passo dalla pubertà e resistente dentro un’infanzia gioiosa, che Joy custodisce risolutamente e Sadness assedia timidamente, Riley passa dal semplice al complesso, dal noto all’ignoto. Nel processo ‘incontra’ e congeda Bing Bong, amico immaginario che piange caramelle e sogna di condurla sulla Luna.
Creatura fantastica generata dalla fantasia di una bambina, Bing Bong, gatto, elefante e delfino insieme, è destinato a diventare uno dei personaggi leggendari della Pixar Animation, rivelando un’anima segreta, la traccia di un sentimento e l’irripetibilità del suo essere minacciato dalla scoperta di una data di scadenza. Rosa e soffice come zucchero filato, guiderà Joy e Sadness dentro i sogni e gli incubi di Riley, scivolando nell’oblio per ‘fare grande’ la sua compagna di giochi.
I personaggi, realizzati con tratti essenziali che permettono di coglierne la natura profonda (rotonda, esile, spigolosa),fanno emergere l’aspetto intangibile del processo conoscitivo dentro un film perfettamente riuscito, che ricrea la complessità e la varietà dell’animazione senza infilare scorciatoie tecniche o narrative. Dentro e fuori Riley partecipiamo alle vocalizzazioni affettive indotte da Joy e Sadness che, finalmente congiunte, la invitano a comunicare la tristezza. Perché la tristezza, quando è blu e piena come Sadness, è necessaria al superamento dell’ostacolo e alla costruzione di sé.

Impossibile resistere all’espressività emozionale delle emozioni primarie di Docter che privilegia anziani e bambini, gli unici a possedere una via di fuga verso il fantastico. Gli unici a volare via coi palloncini e ad avere nella testa una macchina dei sogni

E’ un film di commovente intensità sul grande passaggio e spauracchio della crescita, che riguarda tanto i piccoli, quanto i grandi; nonché un incredibile manuale utile per far capire davvero le teste dei figli a tanti genitori.

Perché l’impreparazione al cambiamento altro non è che un’impreparazione di fronte a quell’aumento di complessità che, volenti o nolenti, siamo tutti costretti ad affrontare (e a più riprese) nella nostra vita.
Con la capacità di suscitare risate irrefrenabili e di spingere alla commozione che lascia allibiti per la sua apparente semplicità, Inside Out rimescola le emozioni proprio come nel suo racconto, ci porta indietro negli anni e ci racconta del futuro nostro e dei nostri figli, concilia la purezza emozionale dell’infanzia con le capacità di comprensione e esposizione degli adulti.
Regala, insomma,
un viaggio emotivo, un momento di sintesi e introspezione che va goduto a fondo, conservando come ricordi preziosi, in splendide biglie colorate, ogni risata e ogni lacrima.
Preparatevi,e…
“Proteggete i ricordi a costo della vita”, una frase del film da tenere a mente, godendo di questo film anche i titoli di coda.