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Svjatlana Aleksievič

Una cronaca da Nobel

di Antonio Stanca

Aleksievic“Per la sua scrittura polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio del nostro tempo”: è il motivo che ha accompagnato quest’anno l’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura alla scrittrice e giornalista bielorussa Svjatlana Aleksievič.

E’ nata nel 1948 a Ivano-Frankovsk, in Ucraina, ma poi la famiglia si è trasferita in Bielorussia, da dove il padre proveniva. Dopo gli studi universitari ha cominciato a collaborare, a Minsk, con il giornale “Sel’skaja gazeta”. Diventerà inviata di questo e molti saranno i suoi reportage riguardanti momenti, eventi, ambienti della vecchia e nuova Russia. In seguito presso la rivista letteraria “Neman”, che rappresentava la voce degli scrittori bielorussi, curerà la rubrica dedicata alla critica e alla saggistica.

Già da giornalista la Aleksievič si era mostrata incline a trattare delle difficili condizioni, passate e presenti, dei problemi dei poveri, dei deboli del suo paese, del coraggio che avevano mostrato nel sopportare, nel resistere, si era impegnata a favore di quanti venivano umiliati, aveva scritto per un loro riscatto, per un’affermazione dei loro diritti. Aveva condannato le ingiustizie, le prevaricazioni alle quali erano stati ed erano esposti, aveva parlato di una società, di una vita nuova, diversa rispetto a quella che da secoli durava in Russia. E intanto gli argomenti del suo giornalismo, dei suoi reportage cominciavano a diventare i temi dei suoi romanzi. Nel 1983, quando aveva trentacinque anni, scrisse il primo La guerra non ha un volto di donna, nel quale diceva della donne che nella Russia della Seconda Guerra Mondiale erano state mandate a combattere contro i tedeschi. L’opera sarà bloccata per due anni presso l’editore e la scrittrice accusata di dissacrazione dell’eroica figura femminile sovietica. Nonostante tutto il romanzo avrà successo presso il pubblico sovietico, sarà più volte ristampato e sarà seguito da altri quali Ragazzi di zinco del 1989, che narra dei sopravvissuti alla guerra in Afghanistan, Incantati dalla morte del 1993, dove si scrive della serie di suicidi seguiti al crollo del regime comunista in Russia, Preghiera per Chernobyl del 1997, che tratta del disastro nucleare allora verificatosi, Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo del 2014. Questo è il romanzo più recente della Aleksievič che vive a Parigi da quando è stata esiliata perché accusata di essere un’agente della CIA.

Anche l’ultimo romanzo è dedicato alla ricostruzione di particolari avvenimenti verificatisi in Russia, stavolta nella Russia recente che ha vissuto drammi quali quello dell’attentato alla metropolitana di Mosca avvenuto il 6 Febbraio 2004. Di nuovo impegnata si è mostrata la scrittrice a trarre dalla storia, dalla vita della Russia i temi delle sue narrazioni, i motivi per una denuncia dei responsabili di certe situazioni, delle omissioni, delle colpe che mai erano state svelate. E’ stato questo suo procedere a procurarle, fin dalle prime opere, l’interesse, l’approvazione del pubblico prima sovietico e poi straniero. Molti riconoscimenti ha ottenuto la scrittrice sia in Russia sia all’estero, in Svezia, Francia, Germania, Austria, Italia. Apprezzato è stato anche il suo stile dal momento che la Aleksievič scrittrice non ha abbandonato la maniera della cronista e nei romanzi usa presentare delle persone che raccontano, parlano di quanto è avvenuto durante gli avvenimenti considerati, dicono cosa hanno visto, sentito, fatto in quelle circostanze. Testimonianze sono le loro che la scrittrice ha raccolto al fine di riuscire vera, autentica. Una cronaca documentata vuole essere la sua narrativa che è così sapientemente costruita da trasformare in personaggi quelle persone comuni che parlano, da farle sentire vicine al lettore poiché guidato viene da esse nella scoperta di ciò che non sapeva.

In molte lingue sono state tradotte le opere della scrittrice, importanti sono risultate la sua figura, la sua posizione, la sua presenza in un contesto quale il contemporaneo tanto mosso, tanto agitato da problemi individuali, sociali, da tensioni vecchie e nuove. Non è facile compiere le operazioni che la Aleksievič ha compiuto con i suoi romanzi, non è facile pensare di scriverli quando il mondo è così turbolento come quello di questi ultimi anni, non è facile difendere i deboli da chi è forte e soprattutto non è facile farlo come la Aleksievič, cioè muovendo dal vero, dal vivo, riportando, registrando le voci di coloro che certi eventi hanno visto, vissuto, sofferto.

«Afferrare quanto vi è di autentico, ecco cosa volevo […] ho assimilato all’istante questo genere, fatto delle voci di uomini e donne, di confessioni, testimonianze e documenti dell’anima delle persone […] il mondo io lo vedo e lo sento proprio in questo modo: attraverso le voci e i dettagli della vita quotidiana e del vivere», così ha detto la scrittrice durante un’intervista e questo suo impegno ha voluto premiare il Nobel, questa sua volontà di essere vera, questa sua capacità di fare della cronaca un motivo di letteratura.

L’elogio della Follia

L’elogio della Follia
Verità filosofiche sulle ali della IRONIA

di Luigi Manfrecola

Erasmo da RotterdamLe Verità Eterne si propongono fuori dal tempo e, pur a distanza di secoli , si riaffacciano mostrandosi assolutamente non datate . Le verità , tanto più evidenti quanto più banali, puoi rintracciarle anche nelle pagine più ammuffite e corrose dalla polvere di secoli. A patto che ti renda conto del fatto che il BUON SENSO, che dovrebbe guidare le nostre azioni, è merce rara che evitiamo sistematicamente d’interpellare nel corso della nostra ordinaria esistenza…In una desolata e rigorosa prospettiva temporale, che NON cerchi consolazione nelle FINZIONI che ci costruiamo personalmente, socialmente e culturalmente, nulla sembra avere senso e niente giustifica QUELLA FALSA SAPIENZA, illuminata e moderatrice, che distingue il perbenismo di vite e di condotte “regolate” dalle convenzioni, dall’ ipocrisia, dalle vanagloria che alimenta il nostro comportamento quotidiano. C’è allora da chiedersi ove vada ravvisata e riconosciuta l’autenticità dell’UMANO : nella censura del Super-Io freudiano oppure nella vitalità esuberante dell’Es? Ha forse ragione quel NIETZSCHE che deride l’UOMO OCCIDENTALE mimetizzatosi in senso religioso, morale e scientifico per poter sopravvivere oppure Il vecchio EPICURO, ben attento all’aritmetica d’un piacere stabile e tranquillo che sappia evitare le ansie e i turbamenti del desiderio?

O, piuttosto ha ragione ERASMO che demolisce le false certezze e le arroganze dell’uomo mediante l’ELOGIO DELLA FOLLIA ?

La Follia, secondo Erasmo da Rotterdam, coincide con quella che abitualmente viene definita “Stultizia”, opposta alla “Sapienza” che ai suoi occhi si presenta sempre come accigliata e indisponente. La Stultizia è sempre pronta al “gioco delle parti” ; parti recitate nascondendoci con le maschere che ci scegliamo nel teatro della vita (e qui affiora anzitempo già un presagio pirandelliano).

A lungo andare la saggezza , austera e seriosa, diventa noiosa mentre la follia scatena sempre ed ovunque ilarità proprio perché attinge a risorse sorprendenti di buonumore, di vanità, di arguzie che coabitano con un istinto tipico della natura umana che ricerca la felicità. Non è un caso – osserva Erasmo – che “i Sovrani amano circondarsi di buffoni e di folli” (XXXVI”). Ma i Re appaiono folli anch’essi perché “Se essi infatti avessero soltanto un briciolo di saggezza, quale condizione risulterebbe più triste e detestabile della loro? Chiunque infatti consideri con un po’ di attenzione qual peso si mette sulle spalle colui che vuol essere un buon principe, certo non aspirerà a procurarsi una corona con lo spergiuro o il parricidio!“. Ma qui Erasmo si mostra esponente di quell’ingenuo Umanesimo che esprime una nostalgia di Valori prevalentemente ignoti alla Storia ed alla cronaca di ieri e di oggi. Oggi noi, post-moderni figli di Nietzsche, dolorosamente sappiamo cosa i più   siano disposti a fare pur di esercitare il Potere, quello stesso potere che Erasmo dice indissolubilmente legato alla vuota vanagloria. In sostanza, l’ironia corrosiva del filosofo non risparmia alcun aspetto delle debolezze umane e sistematicamente e provocatoriamente sostiene che: – la follia dà sapore alla vita(XXXI); – la gloria bellica è causata dalla follia(XXIII); – la vita umana è un gioco della follia(XXVII); la follia rende sopportabile la vita…

Fino ad esaminare le varie forme di follia fra le quali includere la “folle superbia dei nobili” le e “superstizioni” per cui : ” …E non è forse per una simile pazzia che ogni regione pretende di avere un suo Santo particolare e che a ciascuno di questi santi sono attribuiti poteri diversi, e che ciascuno è venerato con diversi riti? Uno protegge contro il mal di denti, un altro è il patrono delle partorienti, un altro ancora fa ritrovare gli oggetti rubati, questo fa rifulgere la sua benevolenza ai naufraghi, quello protegge il gregge , e così via….“(XI).

Insomma,concludendo: “la vera saggezza è la follia “(XXIX).

Ed è proprio la Follia che, nella finzione letteraria , si rivolge al lettore interpellandolo anche con tono irridente che vuole fare scandalo: ” E perché (io Follia) non dovrei parlarvi più apertamente come sono abituata a fare? Vi chiedo dunque: forse è col capo, col volto, col petto, con la mano, con l’orecchio, con queste parti del corpo ritenute oneste, che si generano gli Dei e gli uomini? Direi proprio di no! Anzi, la propagatrice del genere umano è quella parte del corpo così buffa e ridicola che non si può neanche nominare senza ridere. Questo è in fin dei conti quel sacro fonte donde prendono origine tutte le cose, e non il famoso numero quattro di Pitagora”. (XI)

Che dire di più? Certamente siamo di fronte ad un’ironia bonaria che pone Erasmo fuori dal suo tempo: un ‘epoca segnata ancora (siamo fra ‘400 e ‘500) dalle dispute religiose, dal fanatismo, dal bigottismo ignorante degli ultimi spasmi medioevali, dall’Inquisizione, dalla protesta di Lutero che nega l’originalità dell’uomo poiché incompatibile col “Servo arbitrio” che tutto fa discendere dal consenso divino; quel Lutero al quale Erasmo decisamente oppone invece il “Libero arbitrio” col piglio dell’umanista che si mostra già rivolto alla riscoperta dei valori terreni e più compiutamente umani.

Risulta perciò evidente quale grande contributo possiamo ancora noi, varcate le soglie del 2000, ricavare dalla lettura dei Classici del pensiero e non ci consola di certo la constatazione dell’ignoranza abissale dimostrata dai nostri giovani, iperstimolati “babbuini dei tempi presenti” (Postman), mai più sollecitati o indotti alla lettura di quella ” pagina stampata ” che è e che rappresenta il luogo elettivo della riflessione e della meditazione, sottratto alla magia frettolosa e fragorosa del più comodo linguaggio mass-mediale.

Vecchio e nuovo dovrebbero sempre convivere, ma i nostri tempi convulsi restano innamorati del “nuovo” a tutti i costi, anche se i COSTI possono risultare elevatissimi pur d’inseguire la moda, ciò che è ipertecnologico, vistoso, sensazionale, accessibile senza eccessivi sforzi. Il verbo consumistico ha fatto e va facendo anche della CULTURA una merce di rapido consumo, senza accorgersi di contrabbandare per cultura un’informazione epidermica, inutile e non metabolizzata in maniera da poter divenire alimento fecondo della mente e dell’anima.

E. Gilbert, Mangia prega ama

MANGIA PREGA AMA DI ELIZABETH GILBERT

di Mario Coviello

 

mangiapregaamaIn questo irresistibile diario-confessione,che ha venduto nel mondo oltre otto milioni di copie, è stato tradotto in trenta lingue,ed è disponibile in edizione economica, Elizabeth Gilbert ci racconta le tappe della sua personalissima ricerca della felicità:l’Italia, dove impara l’arte del piacere, ingrassa di 12 chili e trova amici di inestimabile valore;l’India, dove raggiunge la grazia meditando in compagnia di un idraulico neozelandese dal dubbio talento poetico; e l’Indonesia, dove uno sdentato sciamano di età indefinibile le insegna a guarire dalla tristezza e dalla solitudine, a sorridere e a innamorarsi di nuovo.

Liz è bella, bionda, solare; ha una grande casa a New York, un matrimonio perfetto, un lavoro invidiabile. Eppure, in una notte autunnale, si ritrova in lacrime sul pavimento del bagno, con l’unico desiderio di essere mille miglia lontana da lì. Quella notte, Liz capisce di non volere niente di tutto quello che ha, e fa qualcosa di cui non si sarebbe creduta capace: si mette a pregare.

Come reagireste se Dio (o qualcosa che gli assomiglia) venisse a toccarvi il cuore e la mente, non per invitarvi alla pazienza e alla rassegnazione, ma per dirvi che avete ragione, quella vita non fa per voi? Probabilmente fareste come Liz: tornereste a letto, a pensarci su. A raccogliere le forze, perché il bello deve ancora venire.

Un amarissimo divorzio, una tempestosa storia d’amore destinata a finir male e, in fondo, uno spiraglio di luce:un anno di viaggio alla scoperta di sé.

Mangia prega ama è la storia di un’anima irrequieta, con cui è impossibile non identificarsi.

Sappiate che non avevo assolutamente nessun’aspettativa nei confronti di questo libro. Non avevo visto il film che ha lo stesso titolo del libro ed ha per protagonista assoluta la deliziosa e brava Julia Roberts,non avevo idea di quale fosse la trama, nulla Ma appena ho cominciato a leggerlo non sono riuscito a staccarmene.“Mangia prega ama” è il racconto di un lungo viaggio; non soltanto attraverso tre Stati ma anche attraverso se stessi.E’un’autobiografia, una storia vera che ci permette di osservare l’evoluzione di un’anima.Elizabeth con le nuove esperienze e conoscenze che il suo lungo viaggio le offre, prende pian piano maggiore consapevolezza di se stessa, impara ad ascoltarsi, a togliere la maschera, ad affrontare la vita con sincerità e coraggio.

Credo che ognuno di noi, almeno una volta nella propria esistenza, abbia sentito quella voglia di lasciare tutto. “Mangia prega ama” è il diario di viaggio di chi ha avuto il coraggio di farlo sul serio.

La sezione riguardante l’Italia e quella più divertente ed è quella cui fa riferimento il “Mangia” del titolo. Infatti, principalmente, Liz in Italia mangia. Non prendetelo come un luogo comune, anzi. Liz è innamorata dell’italiano come lingua e della cultura del nostro paese. Sceglie semplicemente un modo di esplorare il nostro paese che non sia visitare musei. Non le si addice.
Ho adorato il modo in cui ha assaggiato le parole italiane, mostrandomi quanto bella possa suonare la nostra lingua ad uno straniero.
Lo stile è scorrevole, colloquiale, quasi come si stesse ascoltando il racconto di un’amica. È un libro che parla di sentimenti,particolarmente adatto ad un pubblico femminile, ma è anche una storia ricca di spunti di riflessione e nozioni interessanti che, certamente arricchiscono qualunque lettore.

Per l’autrice L’Italia rappresenta il piacere, l’arte del sapersi godere la vita, il “mangia” del titolo. L’india rappresenta il “prega“, la meditazione, lo spirito di sacrificio e la capacità di ascoltare se stessi. L’Indonesia  chiude metaforicamente il cerchio con “ama“, ossia impara a volerti bene, a sorridere, a donarti agli altri con fiducia.

Questo libro ci ricorda quanto troppo spesso viviamo una vita che non ci appartiene soltanto per paura; lo consiglio a tutte quelle persone che si sentono insoddisfatte della propria vita senza nemmeno capirne il motivo. E fate come me, dopo aver letto il libro, godetevi anche il film che è disponibile on line.

Elizabeth Gilbert è giornalista e scrittrice. Ha collaborato con “Esquire”, “GQ” e “The New York Times Magazine”. È stata inserita da “Time Magazine” nella classifica delle 100 persone più influenti del mondo ed è autrice di biografie, racconti e romanzi. Per conoscerla meglio sono disponibili su youtube molti suoi interventi nei quali si racconta con intelligente sarcasmo.

Verso un incerto futuro

VERSO UN INCERTO FUTURO
L’analisi di Angust Deaton

di Luigi Manfrecola

 

Abbiamo già accennato in precedenza (ANGUS DEATON – ” Nobel ” per l’Economia 2015) alle considerazioni sviluppate da Angust Deaton – Nobel per l’economia 2015 – nel volume “La grande Fuga” , recentemente pubblicato da “Il Mulino”.

Tuttavia, per completezza di analisi e come avevamo preannunziato, è il caso di presentare qui anche le conclusioni cui arriva nell’opera citata.

angus deaton* IL TONO COMPLESSIVO DELL’OPERA

Riteniamo comunque necessario, per esaurire discorso, richiamare preliminarmente alla mente alcune delle considerazioni accennate in precedenza , in occasione della prima lettura del libro ( vedasi precedente nostro articolo).

Come si è evidenziato, l’Autore formula un giudizio complessivamente positivo sui progressi economici registratisi negli ultimi secoli che hanno certamente ridotto le forti sperequazioni sociali, storicamente sempre esistite. Tuttavia egli non manca di sottolineare un certo rallentamento in tal senso subìto negli ultimi anni, anche per effetto della globalizzazione e del consolidamento delle posizioni d rendita di un ceto capitalistico sempre più aggressivo. Stralciamo alcuni passi significativi dal suo libro , già fedelmente trascritti nel nostro precedente articolo e li riproponiamo.

«…  è indubbio che i 7 miliardi di abitanti che popolano in questo momento la terra conducono , in media, esistenze molto migliori di quelle vissute dai loro genitori e nonni… Tuttavia le medie non possono essere di conforto per chi è stato lasciato indietro….In effetti le disuguaglianze sono aumentate e molti paesi hanno sperimentato incrementi nella sperequazione dei redditi. E che dire delle disuguaglianze fra i paesi che si è ridotta di poco o di nulla?»

E più avanti««Se il capitale è relativamente abbondante nei paesi ricchi e relativamente scarso nei paesi poveri, l’apertura delle frontiere da un lato consentirà ai capitalisti dei paesi ricchi di diventare più ricchi dall’altro impoverirà i capitalisti dei paesi poveri. Se nei paesi ricchi i capitalisti diventeranno più ricchi e i lavoratori più poveri, la disuguaglianza di reddito aumenterà…»

Comunque, Deaton non può che guardare con favore alla « DISTRUZIONE CREATRICE che è caratteristica del CAPITALISMO – pag. 365» anche se , aggiunge, le grandi creazioni di ricchezza possono minare la democrazia e la crescita stessa.

Al punto che , In sostanza e guardando al futuro , il suo messaggio resta moderatamente ottimistico « La storia della grande fuga che ho ricostruito è una storia positiva: > milioni di individui salvati dalla morte e dalla miseria, un mondo che nonostante le disuguaglianze e i moltissimi esseri umani ancora lasciati indietro, è oggi un luogo migliore di quanto sia mai stato. E tuttavia il film che ho utilizzato come metafora-guida non ha un lieto fine. Quasi tutti gli evasi vengono catturati e molti di essi giustiziati. Possiamo dirci certi che la nostra grande fuga ( n.d.r. : dall’indigenza ) sarà diversa ? Probabilmente no, ma abbiamo buone ragioni per nutrire qualche speranza….»

Ed a questo punto,secondo noi ritornando coi piedi per terra, Deaton non manca di esprimere preoccupazioni e riserve (da 362 a seguire…)

 

* UNO SGUARDO INCERTO SUL FUTURO PROSSIMO E REMOTO

«Molte GRAVI MINACCE incombono su di noi.

– IL CAMBIAMENTO CLIMATICO è la più evidente e, per il momento, non vi sono soluzioni chiare politicamente percorribili.

– CHE GLI INTERESSI PRIVATI POSSANO TRIONFARE SUI BISOGNI PUBBLICI lo dice una memorabile riflessione di Jared Diamond…

– LE GUERRE NON SONO FINITE. Le idee, e le iniziative politiche pericolose, sono ovunque…

  • Pensiamo agli spasmi che potrebbero scuotere LA LEADERSHIPO CINESE quando la crescita economica del Pese si fermerà, come la storia ci dice debba accadere…

– LA SCIENZA È SOTTO L’ ATTACCO dei fondamentalismi religiosi in vari luoghi del mondo. Molti di questi fondamentalisti sono politicamente influenti e sostenuti da quei gruppi che vedono minacciati i propri interessi dalla conoscenza scientifica

– LA SCIENZA NON È IN GRADO DI IMMUNIZZARCI DALLE MALATTIE. Può comparire un nuovo morbo in qualunque momento (n.d.r– Deaton cita a mo’ di esempio l’HIV)…Più banalmente, i sistemi sanitari di tutto il mondo contano sull’efficacia degli antibiotici, ma l’efficacia di questi farmaci è a rischio a causa dell’uso incontrollato che se ne fa…

– QUASI OVUNQUE IL RALLENTAMENTO DELLA CRESCITA È STATO ACCOMPAGNATO DA UN AUMENTO DELLE DISUGUAGLIANZE …Mancur Olsen aveva previsto che i Paresi ricchi sarebbero entrati in una fase di declino, insidiati dalla ricerca delle rendite da parte di un numero crescente di gruppi di interesse ristretti…

Poiché l’avanzamento degli uni può avvenire soltanto a spese degli altri, il rallentamento della crescita rende INEVITABILI I CONFLITTI DISTRIBUTIVI – tra ricchi e poveri, tra vecchi e giovani, tra Wall street e Main srtreet, tra pazienti e medici e tra i partiti politici portavoce di questi gruppi..

  • Il tasso di crescita della speranza di vita sta rallentando ma si tratta di un segno positivo, la morte sta invecchiando e salvare persone già anziane incide sulle aspettative di vita meno di quanto inciderebbe salvare bambini…(????)

– Le grandi concentrazioni di ricchezza POSSONO MINARE LA DEMOCRAZIA e, ostacolando la DISTRUZIONE CREATRICE CARATTERISTICA DEL CAPITALISMO, la crescita stessa. E’ un tipo di disuguaglianza che incoraggia coloro che sono già fuggiti , a bloccare alle proprie spalle le vie di figa appena percorse

……….e concludendo, DEATON   osserva che « gli eventi negativi sono inevitabili e le nuove fughe , come le vecchie. portano nuove disuguaglianze. Ciononostante, credo che queste battute d’arresto in futuro saranno superate come è accaduto in passato.

 

* QUALCHE NOSTRA OBIEZIONE

Deaton dimostra di aver sostituito, con un’opera di autoconvincimento, all’ottimismo della Ragione un OTTIMISMO   DELLA   SPERANZA. Personalmente credo che ciò non possa e non debba bastarci. Ogni serio studioso dovrebbe superare l’agnosticismo delle analisi per impegnarsi e per sforzarsi personalmente al fine di cambiare la realtà, piuttosto che subirla. Ma l’atteggiamento messo in campo è tipico degli economisti che fanno di ciò che è , e che comunque va considerato come opera dell’uomo, una legge fisica ineludibile, quasi fosse una Religione Incontestabile.

Ma soprattutto, da dove ricava l’illustre scienziato il convincimento che “IL CAPITALISMO SIA PORATORE DI UNA DISTRUZIONE CREATRICE”?

Ebbene, sono d’accordo solo a metà e per quel che riguarda soltanto la “DISTRUZIONE” d’ogni senso di equità , di pietà umana, di giustizia sociale.

Ma forse, a pensarci meglio, posso concordare anche sul termine “distruzione creatrice” se vogliamo riferirlo all’humus generativo dell’egoismo, dell’avidità, della stupida cecità umana che non tiene in alcun conto la provvisorietà e la precarietà dell’esistenza individuale e collettiva : una considerazione che dovrebbe spingerci a sentirci pascolianamente fratelli degli altri nostri simili, ugualmente aggrappati a questo atomo opaco del male.

Natsume Sōseki, Guanciale d’erba

In Giappone l’arte

di Antonio Stanca


 Natsume Sōseki, pseudonimo di Kinnesuke Natsume, è uno scrittore giapponese nato nel 1867 a Tokyo, quando la città si chiamava Edo, e morto nel 1916, a quarantanove anni, a causa di un’ulcera duodenale. Dal 1984 al 2004 la sua immagine risulterà impressa sulle monete giapponesi da 1.000 yen.

Sōseki studiò Inglese presso l’Università Imperiale di Tokyo e dopo la laurea si trasferì in Inghilterra per perfezionare la conoscenza della lingua e della letteratura inglese. Dopo alcuni anni tornò in Giappone e fu incaricato dell’insegnamento di Letteratura Inglese presso l’Università Imperiale di Tokyo. Nel 1905 pubblicò il primo romanzo Io sono un gatto, che sarà seguito da altri. Nel 1907 Sōseki otterrà un incarico presso l’ “Asahi Shinbun”, il più importante quotidiano giapponese, e lascerà l’insegnamento per dedicarsi completamente alla scrittura. Sarà anche autore di saggi ma la narrativa rimarrà il suo genere preferito e qui otterrà i risultati migliori. Recentemente dalla casa editrice BEAT di Vicenza è stato ristampato il romanzo Guanciale d’erba, che Sōseki scrisse nel 1906. La traduzione dal giapponese è di Lydia Origlia.

Gli anni dello scrittore furono quelli durante i quali il Giappone si apriva alle influenze straniere, attraversava un periodo di passaggio che avrebbe comportato dei radicali cambiamenti nell’ambito sociale e culturale, nelle istituzioni economiche. Di questa transizione che il suo paese stava vivendo ha risentito Sōseki nelle sue opere. In ognuna si può notare la tendenza ad un confronto tra prima e dopo, tra tempi passati e tempi presenti e mentre i primi vengono giudicati positivamente, i secondi sono considerati volgari perché disposti ad accogliere tutto e tutti, a non distinguere, a confondere, a disperdere la qualità nella quantità. In tale contesto isolati, di pochi sono diventati i valori dello spirito, dell’anima. Perciò vanno difesi, non li si deve abbandonare, non si deve permettere che si disperdano, che finiscano e l’arte, che rappresenta una delle loro migliori espressioni, dovrà essere un modo per conservarli, continuarli e farli valere. Questa convinzione di Sōseki diventerà un motivo ricorrente nei suoi romanzi. Tra i personaggi di ognuno di essi, se non nel protagonista, sarà sempre possibile intravedere la figura dell’autore che soffre la situazione creatasi nel nuovo Giappone, la vive, la interpreta e come artista si pone a difesa dei principi che l’arte rappresenta e che i tempi stanno profanando. Così avviene pure in Guanciale d’erba, dove si dice di un artista, poeta e pittore, che, all’età di trent’anni, intraprende un viaggio a piedi lungo un sentiero che sale in cima ad una montagna dove si trovava un tempio antico. Dice di volerlo fare per liberarsi da ogni contatto con le persone e le cose comuni, dalle impurità, dalle bassezze alle quali queste potrebbero indurlo, per elevarsi a quell’altezza priva di ogni ombra, di ogni impurità che è propria del suo spirito artistico, per raggiungere quella condizione perfetta, incontaminata che è simile a quella della divinità immortale, eterna.

Il viaggio dell’artista sarà lento, faticoso, diventerà il simbolo di quanto richiede il processo di purificazione che vuole realizzare, l’ascesi che vuole compiere verso una condizione diversa da quella comune. Egli s’imbatterà in persone e situazioni di ogni genere, rischierà di rimanere intrappolato tra esse ma riuscirà sempre a liberarsi perché l’idea di dover raggiungere la sommità di quel monte, di dover, cioè, attuare quelle conquiste morali, spirituali che si è proposto lo farà sentire estraneo a quanto accade, gli farà superare ogni circostanza, ogni contingenza che potrebbe impedire, danneggiare i suoi propositi.

Nella casa da tè saprà di tristi, tragiche vicende vissute da giovani donne innamorate, di una storia che ancora sta avvenendo. Nella locanda dove alloggerà si troverà a contatto con la giovane figlia del padrone che è stata lasciata dall’uomo che aveva sposato. Parlerà con lei, ora la sentirà vicina, ora lontana, ora sarà una luce, ora un’ombra. I toni, i modi della visione, del sogno, della favola assumerà spesso la narrazione, i colori, le luci della fantasia, dell’immaginazione segneranno spesso i suoi ambienti. Alla descrizione di quei colori, di quelle luci l’autore-pittore si concederà, li identificherà con i colori, con le luci della natura che in un posto simile gli si offriranno al massimo grado di bellezza. Le piante, le acque, le rocce, gli uccelli della montagna che sta scalando lo attireranno al punto da fargli attribuire alla natura l’altezza che ritiene sia propria dell’arte, da fargliela considerare un valore unico, insostituibile, un segno della divinità. Entrambe, l’arte e la natura, lo sorreggeranno nel suo viaggio di elevazione sulle volgarità del mondo, di raggiungimento di una dimensione pari a quella divina.

Eccessivamente ideale, teorico diventa a volte il discorso di Sōseki dal momento che mostra il protagonista convinto di potersi liberare con facilità dalla condizione concreta, quotidiana dell’uomo sulla terra, dell’uomo tra gli altri uomini e di poter raggiungere una dimensione diversa.

Ricca è l’opera di riferimenti alla cultura, alla storia, alla religione, alle tradizioni, alle leggende, ai miti del Giappone, di confronti tra Oriente ed Occidente, tra le loro letterature.

Con chiarezza la lingua del Sōseki scorre tra tanti contenuti e giunge al lettore. La scoperta di un mondo poco noto gli procura, l’incanto che proviene da luoghi così lontani.

ANGUS DEATON – ” Nobel ” per l’Economia 2015

ANGUS DEATON – ” Nobel ” per l’Economia 2015

Un primo commento

di Luigi Manfrecola

La grande fugaUna delle sue opere più note, lanciata in Italia per le Edizioni “Il Mulino”, è intitolata “La grande fuga” e dal risvolto di copertina apprendiamo che l’economista scozzese, professore nell’Università di Princeton, è fra i massimi esperti di SVILUPPO ECONOMICO E DI POVERTÀ.

La cosa mi ha dunque incuriosito e mi sono accostato al ponderoso volume(367 pagine) con qualche speranza ma anche con molte perplessità.

Il best seller: La Grande Fuga

Volendovi rendere partecipi, sia pure in qualche misura solo sommaria, delle riflessioni dello studioso, prenoto in due tempi la vostra attenzione. Questa prima volta mi limiterò ad accennarvi alcune considerazioni sviluppate da Angus attraverso un discorso forse troppo tecnico, da ricercatore statistico prima ancora che da economista, per chiarire che è impresa ardua pretendere di isolare su “scala mondiale” il concetto stesso di una “soglia” minima di reddito al di sotto della quale sia possibile identificare LA POVERTÀ. Diversi sono i fattori da considerare, anche perché non tutti i popoli manifestano i medesimi bisogni primari. Ad esempio, rapportare l’India all’America oppure all’Europa in tema di bisogni essenziali è quasi impossibile poiché diverse sono le esigenze e le culture.

La povertà assoluta come concetto relativo

Testualmente « La linea della povertà indiana ignora quasi completamente tre tipi di spesa per noi essenziali : la spesa per la casa, quella per la salute e quella per l’istruzione. D’altra parte in un paese caldo come l’India il riscaldamento è necessario di rado e, in abbigliamento, si può spendere ancora meno…»

Così , la linea della povertà globale definita dalla BANCA MONDIALE , che è stata ora portata o a 1,25 dollari al giorno, corrisponde ad una media delle povertà nazionali di alcuni paesi più poveri del mondo. Il che faceva, nel 2005, un reddito di 1.825 dollari annui per una famiglia di 4 persone : un dato già molto superiore rispetto a quello calcolato nel 1985 per un diverso numero di Paesi. Un’ulteriore difficoltà nel paragonare paesi molto diversi è data dal calcolo del tasso di cambio, ma è altrettanto difficile conteggiare in ciascun pese il numero degli individui al di sotto della linea di povertà ipotizzata. Ugualmente non significativo è il calcolo dell’incremento del benessere individuale anche in presenza dell’evidente crescita economica globale d’una nazione, poiché nulla ci dice circa la distribuzione reale delle risorse fra i cittadini. Acquisito che per misurare il tasso di disuguaglianza viene sempre considerato il primo 1% della popolazione, è stato accertato che «quando il primo 1% della popolazione balza in avanti, il rimanente 99% ottiene risultati al di sotto della media nazionale. Poiché i successi di questo 1% variano di paese in paese, è possibile che la classifica dei paesi ricchi dal punto di vista del reddito dell’ultimo 99% non coincida con quella basata sul reddito dell’intero paese».

Il che , detto diversamente, ci rimanda alla mente la storia degli italiani che, secondo Trilussa, pur se affamati, risulterebbero “statisticamente” aver mangiato un pollo a testa. La conseguenza che Deaton ricava da queste considerazioni è che non ha senso che LA BANCA MONDIALE ignori del tutto chi si trova appena un poco sopra la soglia di povertà, privandolo di qualunque livello di assistenza.

Perciò «quel che sarebbe più ragionevole fare è prendersi tanto più cura delle persone quanto più sono povere, non operare distinzioni drastiche in corrispondenza di una qualche soglia

La Globalizzazione dell’Economia

Dopo aver chiarito che «la disuguaglianza interna di un paese parla del suo livello di giustizia e ci dice se i cittadini di questo paese ( i quali lo apprezzino o meno, sono tenuti a pagare le tasse e a rispettare le leggi e le politiche della comunità) stiano ricevendo ricompense commisurate agli obblighi cui assolvono», l’Autore osserva CHE A LIVELLO GLOBALE ORMAI LA SITUAZIONE È DIVERSA poiché (sfortunatamente?) non esistono istituzioni di Governo sovranazionali. Tuttavia esistono istituzioni internazionali – per esempio l’Organizzazione mondiale del commercio o la Banca mondiale di cui si diceva – le cui politiche incidono sui redditi di molte persone in molti paesi diversi, al punto che sarebbe ragionevole rivolgere loro richieste di giustizia. Sta di fatto che, come egli stesso ammette, dopo la stagione ottocentesca e di parte del ‘900 che aveva visto in Occidente le disuguaglianze diminuire, la forbice fra ricchi e poveri s’è di nuovo notevolmente allargata…

Tuttavia – afferma Deaton – va riconosciuto che « negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, la rapida crescita economica di molti paesi ha liberato centinaia di milioni di individui dalla povertà. I tassi di mortalità si sono ridotti e la gente vive più a lungo ed in condizioni più agiate ed è indubbio che i 7 miliardi di abitanti che popolano in questo momento la terra conducono , in media, esistenze molto migliori di quelle vissute dai loro genitori e nonni… Tuttavia le medie non possono essere di conforto per chi è stato lasciato indietro» . In effetti le disuguaglianze sono aumentate e molti paesi hanno sperimentato incrementi nella sperequazione dei redditi. E che dire delle disuguaglianze fra i paesi che si è ridotta di poco o di nulla?

Ma ciò per molti economisti non rappresenta un problema al punto che «Il grande Nobel James Meade era solito definire l’infernale motore a scoppio, l’esplosione della popolazione e l’istituzione del Premio Nobel per l’economia come le tre sciagure del 20° secolo».

Naturalmente il nostro Deaton riporta la citazione per dichiarare di non essere d’accordo e tuttavia anch’egli deve ammettere la forte disuguaglianza di reddito nel mondo, precisando :«Si accusa spesso la globalizzazione di avere reso il mondo più disuguale. Mentre i ricchi avrebbero potuto godere di nuove opportunità di arricchimento, i poveri ne avrebbero ricavato ben poco. Sono tesi che suonano plausibili– pag.288» E poco più avanti :«Se il capitale è relativamente abbondante nei paesi ricchi e relativamente scarso nei paesi poveri, l’apertura delle frontiere da un lato consentirà ai capitalisti dei paesi ricchi di diventare più ricchi dall’altro impoverirà i capitalisti dei paesi poveri. Se nei paesi ricchi i capitalisti diventeranno più ricchi e i lavoratori più poveri, la disuguaglianza di reddito aumenterà…». Di fatto, la polarizzazione delle occupazioni e delle retribuzioni è in corso ovunque: i posti di lavoro a reddito medio vengono sostituiti dalle macchine o delocalizzati : mentre le occupazioni mal pagate nel settore dei servizi sono in aumento…A quanto pare il sistema fiscale e i meccanismi redistributivi -in Europa più estesi ed egualitari degli Stati Uniti – non sono riusciti a prevenire l’aumento delle disuguaglianze»

A questo punto occorre chiarire che Deaton, alla fin fine, pur segnalando le storture del sistema, non lo condanna poiché – malgrado tutto – resta convinto del fatto che nel corso dei secoli le disuguaglianze si sono comunque ridotte e guarda con favore alla « DISTRUZIONE CREATRICE che è caratteristica del CAPITALISMO – pag. 365» anche se , aggiunge, le grandi creazioni di ricchezza possono minare la democrazia e la crescita stessa.

Ma certo non possiamo pretendere di più da quello che è e resta un economista convinto…

Quali CONCLUSIONI?

In sostanza e guardando al futuro , il suo messaggio resta moderatamente ottimistico anche se non manca di esprimere preoccupazioni e riserve…

Ma alle sue conclusioni riserviamo un successivo approfondimento, limitandoci per adesso a dirci assolutamente in disaccordo con la sua rassegnata e laudativa visione del capitalismo.

Ma sarà perché troppa è la distanza culturale e la formazione che da Lui personalmente ci separa…

La vita è facile ad occhi chiusi di David Trueba

“La vita è facile ad occhi chiusi “ un film di David Trueba

di Mario Coviello

 

 

vitaDall’otto ottobre è possibile andare a vedere “ La vita è facile ad occhi chiusi”, un film spagnolo di David Trueba che vi consiglio perché è onesto, pulito,e può aiutare i genitori e gli insegnanti a capire i giovani .Si ispira alla storia vera di Juan Carrion, un professore di inglese che volle a tutti i costi incontrare nel 1966 John Lennon in Almeria, durante le riprese del film “ Come vinsi la guerra” di Richard Lester. Lo volle incontrare per essere aiutato nella trascrizione in spagnolo dei testi delle canzoni dei Beatles che utilizzava per insegnare l’inglese ai suoi adolescenti in una scuola di preti nella Spagna di Francisco Franco.

Il film, che è un classico road movie, racconta il viaggio che è anche la ricerca interiore di questo professore non più tanto giovane, calvo, con gli occhialini e la pancetta che conosciamo in classe mentre spiega “Help” e dice ai suoi ragazzi che “ La vita è come un cane, se sente che hai paura ti morde “ e lo dice, mentre un vecchio prete, il direttore della scuola, prende a schiaffi un adolescente davanti ai suoi occhi.

Per strada carica sulla sua Fiat prima Belen, una ragazza di venti anni che scappa da un collegio dove è stata rinchiusa perché incinta e poi il sedicenne Juanio al quale il padre poliziotto vuole tagliare i capelli lunghi “da femmina “. Juan non fa domande, prediche; offre loro il cibo che ha portato con sé, dà loro una mano e racconta di sé, dei suoi ragazzi. I due giovani a poco si aprono e si mostrano fragili e forti allo stesso tempo, vogliono decidere della loro vita, anche se non hanno ancora scoperto in quale direzione andare. E il professore li incita “ Vai cammina, non sarai arrivato finchè non avrai perso tutto”.Le riprese del film iniziano all’alba e allora “Alzati presto, qualcuno dovrà pure accendere il sole” Della Spagna franchista dice “ In questo paese i giovani sono disperati perché non hanno futuro..” e a noi che lo ascoltiamo viene in mente la nostra Italia.

Le riprese del film sono blindate,ci sono i poliziotti che non lasciano passare nessuno. Li aiuta un barista catalano Ramon che la moglie più giovane ha lasciato con un figlio disabile. Si fa dare una mano dal ragazzo a servire i clienti e li fa arrivare sul set con il camion dell’acqua. Il professore e John Lennon si incontrano e tutti gli album successivi dei Beatles verranno accompagnati dai testi delle canzoni.

L’attore protagonista è lo straordinario Javier Camara, già interprete per Pedro Almodovar di “ La mala educacion “ e “Parla con lei “ Lo spettatore viene rapito dai panorami aperti dell’Almeria, e gli tornano alla mente gli spaghetti-western di Sergio Leone prima maniera. La splendida fotografia di Danel Vilar è tutta sui toni gallo ocra. Il tempo risulta rarefatto e passa lentamente. Un discorso a parte merita la musica. Sul set del film di Lester Lennon , che era in crisi con gli altri Beatles e voleva abbandonare la musica per il cinema, stava componendo “Strawberry Fields Forever”, canzone che viene citata esplicitamente nel titolo del film di Trueba, ma che appare solo di straforo, probabilmente per ragioni di costi d’autore. Ma Pat Metheny è un grande e ha vinto con la sua colonna sonora uno dei sei premi Goya che sono andati a “ La vita è facile ad occhi chiusi” Javier Cámara ha raccontato in un’intervista del suo personale incontro con il professore che ha ispirato il film a Cartagena, un arzillo ultranoventenne molto contento della pellicola, soprattutto del fatto che almeno dopo tanti anni tutto il mondo conosca la sua storia perchè “ Essere onesti potrà non farti avere molti amici, ma ti farà avere quelli giusti” John Lennon.

V. Parrella, Troppa importanza all’amore

Di Valeria Parrella o di chi soffre

di Antonio Stanca

parrella«Scrivo racconti quando sento che la realtà è troppo sfuggente e varia per essere cristallizzata in una forma lunga. E scrivo racconti perché mi interessano gli esseri umani: donne e uomini solitari che combattono le loro solitarie guerre», così dice Valeria Parrella nel risvolto di copertina della sua opera più recente, Troppa importanza all’amore (e altre storie umane), pubblicata ad Aprile del 2015 dalla casa editrice Einaudi di Torino nella serie “I Coralli” (pp.111, € 14,00). E’ una raccolta di otto racconti con la quale la scrittrice napoletana, ormai nota in ambito nazionale e straniero per la sua produzione narrativa, sembra voler tornare agli inizi della sua attività quando nel 2003 pubblicò i racconti di Mosca più balena e nel 2005 quelli di Per grazia ricevuta. Poi avrebbe scritto romanzi diventati noti quali Lo spazio bianco, dal quale Francesca Comencini avrebbe tratto il film omonimo. Sarebbe stata anche autrice di libretti d’opera ed avrebbe collaborato con i giornali “Grazia” e “la Repubblica”.

Valeria Parrella è nata a Napoli nel 1974 e a Napoli vive. Ha cominciato a scrivere quando non aveva ancora trent’anni e motivo ricorrente nella sua narrativa è stato quello della donna che ancora oggi vive una vita difficile perché ancora oggi umiliata, esclusa soprattutto nelle zone di periferia, nelle aree lontane dai centri urbani. Sono luoghi che non le permettono di emanciparsi, di accedere alla vita che avviene altrove, al suo movimento. Della sua terra, di Napoli e delle sue periferie, delle donne che qui soffrono ama scrivere la Parrella quasi volesse denunciare una condizione umana, sociale che viene dal passato remoto e che ancora dura. Di donne vinte in ogni loro aspirazione perché povere o abbandonate o isolate dice generalmente la scrittrice al fine di procurare una voce, una presenza a chi non ce l’ha.

Anche nei racconti di Troppa importanza all’amore (e altre storie umane) molte protagoniste sono donne e molti luoghi sono quelli intorno a Napoli. Non limitati, però, sono questi racconti a casi e luoghi del napoletano poiché pure di altri dicono. In essi non c’è solo la professoressa cinquantenne che vive senza marito, con una figlia e una madre da accudire, che ha fatto la supplente in tante scuole d’Italia, ha cambiato tante città, tante case, che non è stata mai sicura di sé, non si è mai sentita bella e, tuttavia, ha sempre cercato l’amore in tanti modi, in tanti uomini, né c’è soltanto la ragazza che ha subito la violenza, lo sfogo sessuale di un gruppo di giovinastri e che, incinta, si è rifugiata in un convento da dove, dopo aver partorito, è fuggita disperata abbandonando il bambino, né solo la giovane Livia, ammalata di leucemia, che consola la madre pregandola di non soffrire troppo quando sarebbe rimasta sola, ma c’è pure Bud, il marinaio inglese che presta il suo servizio nel Mediterraneo, che ha avuto dalla bellissima moglie Jude il figlio Brandon, nato con difetti agli occhi, alle gambe, ai piedi, e che a differenza di Jude, morta prematuramente, ha visto crescere Brandon, lo ha visto diventare adulto, lo ha seguito fuori di casa, nel suo posto di lavoro, nel suo bar, tra i suoi amici e ha sofferto. E c’è ancora Simone che muore d’infarto per aver “amato” troppo la giovane e bella Federica, sua nuora, e poi c’è il carcerato che, una volta libero, racconta di aver conosciuto un ergastolano che nello studio aveva trovato il modo per impegnare il suo tanto tempo e che pensa sia possibile considerare l’ergastolo un vantaggio dal momento che la lunga permanenza da esso richiesta all’interno di un carcere può consentire di rimanere uguali a se stessi, ai propri modi, ai propri costumi mentre all’esterno persone e cose cambiano in continuazione, finiscono. Può, quindi, il carcere far diventare immortali in vita, può rendere superiori a tutto ciò che finisce.

Sono diverse le persone, le “storie umane” che la scrittrice questa volta rappresenta. E’ un’umanità varia quella da lei ripresa, un’umanità che soffre ognuna a suo modo e di tante disgrazie la Parrella si fa interprete tramite la sua scrittura. Una scrittura che corre veloce, rapida, che non è tanto attenta a riuscire corretta, composta quanto ad aderire alle varie circostanze mostrate, a renderle nella loro verità. Le parole che meglio riescono a tanto vengono usate ed anche per questo sorprende stavolta la scrittrice, per un linguaggio che è molto vicino al parlato e del quale non si era mostrata finora capace.

Esempi di quelle “solitarie guerre” che la Parrella si è proposta di rappresentare, contiene il libro, di quelle pene che esistono senza che se ne sappia o se ne parli molto e mentre tanta altra vita scorre normalmente, di quel male che infierisce mentre tanto bene è diffuso.

Una funzione di testimonianza di tale grave contraddizione assume l’opera della scrittrice, un valore superiore a quanto scritto acquista.

G. Faletti, La piuma

L’ULTIMA RECENSIONE
(Quando la genialità si veste da clown)

di Luigi Manfrecola

 La genialità non è solo intelligenza poiché si nutre anche di sensibilità, buon gusto, senso della misura, ansia di ricerca.

E’ così che il genio riesce a spaziare in tutti i campi ed è così che un clown apprezzato e stimato può risultare imprevedibile e può riuscire a sorprenderti. Mi riferisco ad un finto comico che, dopo averci divertito nella tv degli anni ’80 ,ebbe poi modo di dimostrare la sua versatilità di attore, cantante, scrittore.

GIORGIO FALETTI (il poliziotto Vito Catozzo nella fortunata serie televisiva di Drive-in) ci aveva già stupito con i suoi thriller bestseller. Ora, con la sua scomparsa, dobbiamo prendere atto d’una sua nascosta vocazione, sospesa a mezzo fra filosofia e poesia.

Ho avuto fra le mani in questi giorni un ultimo suo breve scritto, poco più d’un librettino apparentemente senza pretese: “LA PIUMA” –ed. Baldini/Castoldi.

Dagli editori definita la sua opera più bella, originale e dolente , viene presentata come “una favola morale”.

Non condivido il giudizio che mi sembra forse alquanto riduttivo. Nel viaggio d’una piuma, che Giorgio descrive con timida leggerezza, non si nasconde solo un’accusa desolata per la malvagia avidità , la cupidigia, la debolezza umana.

La piuma che , spinta da folate improvvise di vento, percorre lenti scenari spostandosi dai palazzi del potere fino alle navate delle chiese ed alle assi del palcoscenico, termina il suo improbabile viaggio nel buio d’una caverna. La insegue “l’uomo dal foglio bianco”, lo scienziato o il filosofo (?) che vuole riempire la sua pagina vuota di verità sconosciute, che diano un senso alla sua sterile ricerca, alla sua presenza.

Ed è nella caverna che termina il volo e che la piuma ritrova la collocazione che aveva smarrito, incastonandosi in un paio di ali bianche dalle quali si era fortuitamente staccata. Quelle stesse ali che l’uomo poi riesce ad indossare per levarsi in volo verso gli ampi spazi aperti e luminosi che s’intravvedevano alti, fra le nuvole cremose. E la sua lunga ricerca trova così fine in un luminoso bagliore senza meta, mentre volteggia ”teso in quel vento che ora gli offriva tutte le risposte a cui aveva sempre anelato, perché era stato l’unico a capire quello che nessuno aveva compreso…una piuma è fatta per volare”.

L’allusione sembra che chiami in causa la vacuità dell’esistenza, il suo mistero lento e solenne, la vanità degli affanni e delle miserie umane. Forse altro e di più… ed io non so dire se questa ingenua semplicità del racconto possa definirsi un’opera di Filosofia o di Poesia, comunque pregevole. Ma una cosa è tuttavia certa, essa rappresenta il presagio della fine imminente, tratteggiato con lenta e soffusa melanconia.

R. Sennett, La cultura del nuovo capitalismo

Quella bestemmia del “Capitalismo Sociale” di Sennet
– ovvero i paradigmi culturali del Job-Act –

di Luigi Manfrecola

 

La cultura del nuovo capitalismoIl termine di “bestemmia”non l’ho usato a caso, malgrado Sennet non se ne stia rendendo conto. Di CAPITALISMO SOCIALE parla infatti il celebre sociologo e scrittore statunitense, pluripremiato docente universitario e direttore di numerose Commissioni di studio Unesco . Ed è il caso di ribadire che stiamo parlando di uno dei massimi ricercatori esperti dei temi della socialità e del lavoro, un’Autorità del settore che a vario titolo ha esplorato il recente dogma del “LAVORO FLESSIBILE”, predicato dai nostri giovani politici tuttologi – anche dai rampolli della rampante pseudosinistra – come una   nuova frontiera obbligata e necessitata nella società globalizzata, tecnologizzata e “mutante”.

I mass-media e la stampa internazionale e nostrana vanno pappagallescamente predicando da decenni il Nuovo Verbo, travestendolo e contrabbandandolo come stimolante modalità esistenziale, come desiderabile stile di vita capace di smantellare il “mito” pigro e declinante del cosiddetto “posto fisso”. A ciò saremmo comunque indotti dall’impellente necessità imposta dalla mobilità dei ruoli sociali e dall’incalzante DELOCALIZZAZIONE di industrie, di fabbriche e perfino di “servizi”(Sennet riporta l’esempio dei call-canter) verso il Sud del mondo, ormai pronto ad offrire lavoro e manodopera a più basso costo di quanto non sia possibile nell’Occidente di più antico e consolidato benessere; un Occidente attestatosi sui parametri di una “società del welfare” che finisce fortemente col limitare i profitti del Capitale. In più, osserva Sennet, la fuga non è più condizionata o limitata dalla sola disponibilità di manodopera a basso costo poiché l’India , la Cina e le altre potenze emergenti possono ormai offrire operatori laureati ed altamente qualificati a prezzo concorrenziale. Certamente la sua diagnosi è esatta ma si lega, come è evidente, all’attuale modello di sviluppo legato alla produttività ed al profitto inteso a beneficio di pochi . Ciò nell’ottica di un Capitalismo senza più freni né confini, né regole se non quelle arbitrarie del Mercato e della massimizzazione dei guadagni di ristrettissime oligarchie e che si trova liberato e sganciato da ogni antico asservimento alla Politica: una politica impotente e teatrale “che fa del cittadino uno spettatore-consumatore indotto ad assumere atteggiamenti passivi e rinunciatari” (pag.119 in “La Cultura del nuovo capitalismo”). Fatto sta che questo modello di sviluppo non è il solo possibile o auspicabile e lo stesso Sennet ha ben chiare le idee quando scrive che “L’ECONOMIA da sola non risolve tutto e NON E’ UN DESTINO”.

Su questa consapevolezza, che assolutamente condividiamo, il sociologo tuttavia si spinge ad interrogarsi sulle alternative possibili e si chiede quali antidoti adottare, nella situazione data, per ricondurre anche il lavoro flessibile (che egli stesso mostra di criticare) nell’alveo di una eventuale e sempre più improbabile società del WELFARE.

Ed è a questo livello che segnaliamo il nostro dissenso e giudichiamo le sue intelligenti osservazioni, che esamineremo di qui a poco, assolutamente insufficienti ad una sia pure parziale modifica. A Sennet, uomo incardinato nel Sistema, sfugge (e non potrebbe essere altrimenti) l’inconciliabilità dei termini per cui non può esistere quel CAPITALISMO SOCIALE di cui discute nell’ultimo capitolo dell’opera già citata.

Il sistema capitalistico tende, per sua stessa natura, a privilegiare l’accumulo delle risorse economiche a spese del lavoro, sottopagandolo il più possibile. Negli ultimi decenni , peraltro, i capitali di cui discutiamo non hanno più alimentato gli investimenti produttivi ed il vecchio capitalismo industriale s’è trasformato in capitalismo finanziario e parassitario che ha ridotto le opportunità occupazionali. E, secondo Sennet, vale a poco aver puntato su una “economia fondata sulle qualifiche” al punto che « il Sistema scolastico produce ormai un gran numero di giovani istruiti che non trovano impiego nei settori per i quali erano stati formati…Nella “Società del sapere”, in effetti, molti disoccupati hanno una buona formazione scolastica e professionale , eppure il lavoro che cercano è emigrato in altre parti del mondo dove la manodopera qualificata è meno cara». Si profila dunque lo SPETTRO DELLA INUTILITA’ (Cap.II- Op. cit.) per molti giovani, che trae origine da una triplice minaccia moderna: l’offerta mondiale di forza lavoro; l’automazione e il prolungamento delle prospettive di vita.

1- L’offerta mondiale di forza-lavoro si traduce nella corsa economica al salario più basso e genera , come detto, una forte delocalizzazione. Ciò induce un fondato timore nei nostri Paesi del più opulento Nord del mondo :«Qui lo spettro dell’inutilità si collega alla paura dello straniero …ed il timore ha un certo fondamento nella realtà. Il concetto di “globalizzazione” designa, tra l’altro, la sensazione che le fonti dell’energia umana si stiano spostando e che perciò chi si trova nel mondo già sviluppato possa essere lasciato fuori…»

2- L’automazione costituisce la seconda minaccia che non insidia soltanto il lavoro di fabbrica ma si spinge a cambiare anche il settore dei servizi con computer e microprocessori; il che vanifica le ottimistiche previsioni di Touraine e di Bell che leggevano come positiva l’introduzione di macchine nel lavoro, preconizzando una “società post-industriale” che avrebbe visto la positiva ridistribuzione del lavoro col passaggio dal campo dalle mansioni manuali al campo dell’amministrazione e dei servizi.

3- L’allungamento delle vite, con l’innalzamento dell’età, rappresenta un terzo problema che lo “Stato Sociale” non mostra di saper affrontare. Lo sviluppo dei sistemi pensionistici e sanitari pubblici del ventesimo secolo può esser inteso come una redistribuzione della ricchezza che sposta risorse dalla popolazione più giovane a quella più anziana. Almeno, così è stato finora, ma…Ma , osserva l’Autore, nell’attuale situazione l’ethos del nuovo capitalismo svolge un ruolo particolare: riduce la legittimazione dei bisognosi ed i lavoratori giovani mal sopportano di dover pagare per i più anziani. Gli orientamenti culturali oggi prevalenti stanno dettando nuove regole anche nel settore pubblico puntando sul paradigma della responsabilità individuale . Così, i novelli “riformatori dello Stato sociale” si mostrano convinti del fatto che «ognuno deve essere il consulente sanitario di se stesso e il gestore dei propri fondi pensionistici». Questa logica del disimpegno istituzionale trova ampie sponde nel mondo politico attuale, al punto che , «come affermava Hannah Arendt,il politico di professione, il tecnico del potere, è un “nemico del cittadino” poiché non si dovrebbe applicare ovunque il criterio di praticità e di utilità, in quanto questo criterio si concentra solo su ciò che è, anziché su ciò che dovrebbe essere».

Non possiamo non concordare con queste convinzioni che, detto alla nostra maniera, spiegano l’acquiescenza d’una Politica, asservita all’Economia, alla presente situazione storica , senza spingersi ad immaginare un mondo diverso e migliore che pure è possibile…

In effetti, secondo Sennet, il primo Capitalismo Sociale era stato reso possibile dalla forza militaresca di Istituzioni piramidali e di burocrazie weberiane che legavano insieme Potere ed Autorità. Ciò aveva consentito l’affermarsi di un’organizzazione burocratizzata e pianificatrice capace di regolare gli assetti di vita e l’economia collettiva. I Sindacati si erano così resi interpreti di una tutela allora ritenuta doverosa dei diritti di cittadini e dei lavoratori in una cornice temporale stabile che dava continuità e significato ai racconti di vita individuale.

A partire dagli anni ’70 (Bretton Woods) e per tutti gli anni ’80 e ’90 l’economia mondiale però ha accelerato ed il Capitalismo, “svincolatosi” da ogni sorta di lacciuolo, ha affermato la sua provocatoria cultura di liberazione da ogni vincolo, orientando perfino la coscienza collettiva ad apprezzare le presunte “libertà” guadagnate in senso individualistico e facendo del cittadino un semplice consumatore passivo, non più protagonista di scelte politiche. La Politica stessa si vede oggi ridimensionata nelle sue pretese e possibilità reali di governo in un mondo globalizzato ed il Potere (che è sempre più esercitato dal decisore economico) si trova tragicamente separato dall’Autorità , svuotando la forza delle stesse Istituzioni. La precarietà che dunque viviamo e che ci viene truffaldinamente contrabbandata come libertà di autodeterminazione è figlia di questa storia e di quella che, a parere nostro, si configura come una vera e propria truffa socio-culturale.

Ebbene, data per buona l’analisi di Sennet, quali sono le sue proposte?

Si tratta di tre suggerimenti illuminanti che, a nostro giudizio, non possono valere da soli a mutare l’architettura di un Sistema iniquo da smantellare.

Tre proposte dunque che lo studioso sintetizza nell’esigenza di un TRIPLICE RECUPERO : – della continuità biografica; – del senso individuale dell’utilità; – dell’ abilità artigianale.

1-Al primo livello si tratta di assicurare la tranquillità personale di poter restare produttivi e tutelati per tutta una vita, anche se con modalità flessibili. Sennet cita la trasformazione subita dai Sindacati Americani, trasformatisi in “Istituzioni parallele” che cercano di garantire ai lavoratori la continuità e la durevolezza che mancano nelle organizzazioni flessibili, orientate sul lavoro a breve termine. In tal senso essi funzionano ormai come agenzie di impiego, uffici di collocamento che si fanno carico anche della previdenza e dell’assistenza sanitaria per fornire quell’esperienza comunitaria che manca sul posto di lavoro. In tal senso i Sindacati non privilegiano più ,come avveniva nel vecchio capitalismo sociale, il servizio e le anzianità di servizio. Essi tendono oggi a riportare ad un continuum biografico chi non ha ancora i capelli bianchi. Ed è il caso dell’esperienza olandese del JOB SHARING che ha progettato un sistema nel quale il lavoro disponibile viene ripartito in due o tre impieghi a tempo parziale: il che consente di potere svolgere più lavori part-time,recuperando tempo per le esigenze della vita familiare e comunque occupandosi a lungo termine senza grosse interruzioni ed evitando la paura del cambiamento continuo, tipica dei contratti a breve termine.

2- Per il secondo aspetto si tratta di assicurare a ciascuno di poter conservare il senso della propria UTILITÀ SOCIALE, sull’assunto che ci si sente utili solo quando si fa qualcosa di utile per gli altri. In tal senso va rivisto anche il consenso fin qui accordato al pur prezioso Volontariato che crea alibi e tuttavia sostituisce quello che potrebbe essere un impegno delle Istituzioni che dovrebbero preoccuparsi di gestire con mano pubblica anche le attività di cura e di assistenza rivolta alle famiglie (anche le proprie) ed agli anziani. Qui si pone dunque la questione di retribuire il lavoro familiare e domestico, principalmente per dare dignità di status ad un’attività diffusa, vitale e colpevolmente sottostimata

3- L’abilità artigianale, da valorizzare anch’essa seriamente, potrebbe fare ugualmente da contrappeso alla cultura del nuovo capitalismo, soprattutto per l’ispirazione che l’ anima e che porta l’artigiano a fare bene il proprio lavoro, con un impegno disinteressato e concentrato che trovi gratificazione in se stesso. Al contrario, oggi il “riformatore politico” si limita ad imitare la cultura delle istituzioni private alla costante ricerca del nuovo. Occorre invece «recuperare il gusto di fare bene una cosa per se stessa» e non unicamente in vista d’una remunerazione solo economica, come viene sempre più imposto dalla «moderna cultura sempre più superficiale».

Con queste CONCLUSIONI Sennet chiude la sua opera, fra le sue più celebri (La cultura del nuovo capitalismo- Ed. Il Mulino) e chiaramente mi riporta alla mente e restituisce validità alle antiche intuizioni di Maslow sulla funzione dell’autostima oltre che alle lezioni di E.Mayo sulla motivazione sociale  e sulle dinamiche di integrazione nel gruppo e di cooperazione alla base della elevata performance…

Il che non è poco in questa epoca tormentata che rinnega il valore della stabilità emotiva, della solidarietà, della socialità e che, in nome di un individualismo egoistico , forsennato ed insensato pretende di trasformare, alla luce delle metafore illuminanti di un Bauman, il fiume lento delle esistenze individuali in tante frammentate e fangose pozzanghere e piscine, con serio rischio per l’equilibrio della personalità.

E se avete avuto la pazienza di seguirmi fin qui , dovrebbe esservi chiaro il motivo per cui il Job Act Renziano mi lascia profondamente perplesso. Troppo semplicisticamente sembra voler condividere la superficiale ed avventuristica visione anglosassone d’una vita “rassegnata” all’inquietudine che per sempre abbandoni il mito del “posto fisso”.

Ma chi mai l’ha detto, chi l’ha deciso?

Siamo proprio certi di dover accettare il paradigma d’una mentalità estranea alla nostra cultura mediterranea? Siamo certi di doverci piegare al diktat del Dio Mercato che vuole porci al suo servizio? Io non lo penso e Voi nemmeno. Cerchiamo di restare almeno artefici del nostro destino !!

E come qualcuno va dicendo inascoltato da qualche tempo: un altro mondo è possibile…Anzi, secondo me , è doveroso.

C. Repetti, Il ponte di Picaflor

Repetti scrittore

di Antonio Stanca

repettiNato a Genova nel 1947, Carlo Repetti ha sessantotto anni ed è stato direttore del Teatro Stabile di Genova, dove ha collaborato a mettere in scena opere teatrali sue o di altri autori a volte stranieri e da lui tradotti. Ancora per il Teatro Stabile di Genova dal 1983 al 1986 ha organizzato un ciclo di letture della Divina Commedia, dal 1988 al 1989 delle poesie di Eugenio Montale e in seguito di altre importanti opere. Negli anni ’90 è stato assessore alla cultura del Comune di Genova e come tale ha promosso una serie di iniziative di carattere culturale e artistico. Un animatore lo si potrebbe definire poiché sempre impegnato ad avviare programmi, ad organizzare manifestazioni che facessero giungere al pubblico quanto era avvenuto o stava avvenendo in quella cultura, in quell’arte dalle quali era rimasto lontano. Repetti vuole coinvolgere, far partecipare tutti di ciò che finora è stato di pochi. Un’operazione di sensibilizzazione, di diffusione vuole essere la sua. Un organizzatore e pure un autore è Repetti e non solo di teatro ma anche di narrativa. Nel 2011 pubblicò il primo romanzo, Insolita storia di una vita normale, nel quale, tramite un linguaggio molto semplice e chiaro, narra della vita di un giovane figlio di emigrati europei nell’America del Sud durante il secolo scorso. Il giovane vive diviso tra molti propositi e con il pensiero costante del continente dove stabilirsi. Quando torna in patria soffre per una contrastata vocazione religiosa, compie l’esperienza della Seconda Guerra Mondiale, si cura delle persone bisognose, continua a sentirsi diviso tra Europa e America e così trascorre la sua vita durante l’arco del ‘900 senza che niente di definitivo avvenga o sia da lui cercato o fatto.

Anche ne Il ponte di Picaflor, secondo romanzo del Repetti pubblicato da Einaudi a Maggio del 2015, l’autore dice di un figlio di emigrati italiani nell’America Meridionale. Lui, Giorgio, vive una vita disagiata, si separa dalla moglie che lo tradisce e, sollecitato da alcune lettere che riceve da una misteriosa signora di Picaflor, piccolo paese peruviano tra Cuzco e Lima dove anni prima erano emigrati ed erano rimasti i suoi nonni, decide di compiere un viaggio di pochi giorni per conoscere la mittente delle lettere e sapere cosa gli vuole dire come appunto scrive. Giunge a Picaflor dopo un viaggio compiuto con diversi mezzi di trasporto, aereo, treno, corriera, battello, perché sperduto è il posto tra le foreste peruviane intorno alle Ande. Un viaggio difficile, complicato, faticoso che porterà spesso Giorgio a ripensare, che lo farà dubitare di quel che sta facendo. Questo stato d’incertezza si aggraverà una volta giunto a Picaflor e trovata morta ammazzata la signora delle lettere. Si vedrà tra persone, case, strade, usanze, ambienti che andavano oltre la realtà, che sembravano di fantasia. Di nuovo sarà assalito dal pensiero di tornare a casa ma subito dopo i primi contatti con alcune persone del posto si scoprirà coinvolto in una serie di circostanze che si succederanno, si combineranno, si complicheranno senza che lui ne sia al corrente, senza che lo voglia. Le persone, le situazioni che intorno a lui si alterneranno non gli faranno più pensare di tornare in patria, non gliene lasceranno il tempo, lo faranno rimanere a Picaflor oltre quanto previsto, faranno di lui uno dei suoi abitanti e di quelli più in vista perché straniero e perché divenuto, senza alcuna intenzione, responsabile della ricostruzione di un ponte che era crollato per un passato terremoto, che collegava Picaflor al resto del Perù e ne favoriva gli scambi, i commerci, la vita. Senza quel ponte Picaflor aveva perso, negli anni, ogni possibilità di sostentamento, ogni futuro e stava conoscendo la miseria, la fame, la morte. Giorgio provvederà a ricostruire il ponte e nel paese torneranno il movimento, l’entusiasmo, la gioia di prima, la volontà di fare, di vivere si diffonderanno ovunque, in qualsiasi strato della popolazione. Ma a differenza del passato ora col ponte, con le comunicazioni che permette, oltre ai vantaggi arriveranno pure i problemi propri dei tempi moderni, cioè il malcostume, la corruzione. Le regole saranno stabilite dal denaro, dal guadagno, i valori morali, ideali saranno messi da parte e sostituiti dall’astuzia, dall’inganno, dalla frode e Giorgio tornerà a sentirsi incerto, confuso, a chiedersi se non sarebbe stato preferibile abbandonare il progetto del ponte e tornare nella propria casa.

Come il protagonista del primo romanzo del Repetti anche questo del secondo finirà col non sapersi orientare, decidere su come, su dove vivere, su quale continente stabilirsi, col rimanere sospeso tra tanti pensieri.

La stessa figura è ricorsa per due ampie narrazioni, gli stessi luoghi le hanno caratterizzate, lo stesso ambiente tra reale e immaginario, vero e inventato le ha segnate, lo stesso linguaggio semplice le ha espresse: è il modo col quale Repetti vuol essere scrittore.

G. Sartori, La corsa verso il nulla

LA CORSA VERSO IL NULLA di Giovanni  Sartori
(Dieci lezioni sulla nostra società in pericolo)

di Luigi Manfrecola

la corsa verso il nullaE noi siamo d’accordo senz’altro su alcuni dei  “pericoli” che Sartori individua ma la sua  “lezione” non ci convince, malgrado  come insegnante sia particolarmente autorevole perché, come l’Editore (MONDADORI) spiega nel risvolto di copertina, si tratta non solo di un politologo apprezzato dalle TV di Stato, ma addirittura d’un Professore emerito della Columbia University, dell’università di Firenze e Accademico dei Lincei.

Ed è proprio questo che dovrebbe preoccupare, in quanto gli intellettuali di questo tipo finiscono col disporre dell’arma d’una dialettica sottile, supportata da una addomesticata competenza storica, per veicolare pensieri e convincimenti discutibilissimi : ma in  maniera soft, che quasi non te ne accorgi.

Il rischio qui c’è tutto, ma quasi non te ne avvedi. Sartori è “a destra” con tutta la barra ed ha buon gioco a suscitare consensi e simpatie denunziando l’evidente cecità d’una certa classe politica attuale autoproclamatasi “democratica” che ha tuttavia smarrito la bussola e la propria identità in nome di un universalismo senza futuro che pretende di convivere con un capitalismo senz’anima.

Cominciando dai “pericoli”, lo Zibaldone (così definito dall’Autore ed articolato in dieci capitoletti), ne individua alcuni che sono di tutta evidenza.

1- La difesa tout court dell’ “EMBRIONE” umano  da parte della Chiesa che pretende di asserire che la scienza ha ormai dimostrato che l’embrione è individuo umano e , come tale, non uccidibile;

2-Il “facilismo” col quale i “sinistri” ( testuale) parlano dell’INTEGRAZIONE , erroneamente ritenuta sempre possibile , fermandosi ad un’inconcludente “ETICA DELL’INTENZIONE” che NON si accompagna ad una parallela “ETICA DELLA RESPONSABILITÀ” che, come sarebbe  doveroso,  valuti le conseguenze concrete di un tale retorico  auspicio (citando addirittura Max Weber).

3- il pio desiderio di poter integrare chi non lo cerca e non lo vuole.
In effetti, in ben tre dei restanti capitoli (Cristianesimo ed Islam, laicismo e Religione – Jus sanguinis, jus soli e residenza- Integrazione, assimilazione e rifiuto) la tematica sviluppata resta sempre la medesima, anche se da diverse angolazioni. La tesi è che l’Islam è, per sua natura, «una religione forte» ,come una volta lo era il Cristianesimo, poiché entrambe le Religioni disegnano una società teocratica . Tale caratteristica è stata, poi, persa soltanto dal Cristianesimo in quanto convertitosi ad una sorta di ecumenismo aperto, per effetto della sopraggiunta affermazione d’una società pluralistica e democratica che pratica il laicismo e la tolleranza.
Ne deriva:
– che il monoteismo islamico è fin dall’origine il più forte;
– che nel Corano è possibile trovare, nelle diverse Sure, tanto l’invito ad uccidere i miscredenti quanto l’invito a risparmiarne le vite ove si convertano (La violenza, dunque,  ne è sempre parte costitutiva malgrado ciò che dicono i musulmani occidentalizzati);
– che l’islam estremista e fondamentalista , rigido e sclerotizzato, odia l’Occidente e non tollererà mai “l’integrazione” (quell’integrazione che comunque mai si traduce in vera “assimilazione” come testimoniato dagli ebrei che mantengono la propria identità ovunque si siano insediati o come i musulmani di seconda generazione che, con cittadinanza europea, ingrossano le fila dei terroristi);
-che , non potendosi sostenere l’urto economico e sociale delle attuali invasioni bibliche, avremmo dovuto affondare, con i droni, i barconi prima ancora che salpassero e c’è da chiedersi perché mai non  lo si sia fatto…posto che siamo di fronte ad una vera guerra di religione e «in guerra non c’é un mare territorialmente protetto»;
– che bisogna restituire alle parole il loro giusto significato e capire che siamo in guerra con l’Islam perché ” chi non dice «guerra» quando c’è, è chi quella guerra la perde. Dunque il punto è che chi usa la parola guerra vede una cosa, mentre chi non la usa ne vede un’altra… (dal Cap. IV – Guerra terroristica e guerra al terrorismo»”

Penso di non poter dissentire da tali preoccupazioni e dalle motivazioni poste a base.
Ad esempio, per quanto al punto 1, Sartori ha ragione quando afferma  che “se l’embrione  SARA’ una persona, ciò vuol dire che ancora non lo è, e quindi resta un embrione” sprovvisto di quella consapevolezza che è la condizione perché possa parlarsi autenticamente di “vita UMANA”, ancora mancando quella anima razionale alla quale lo stesso San Tommaso legava l’alito divino che è  infuso da Dio SOLO DOPO che sono emerse l’anima vegetativa (che condividiamo con le piante) e l’anima sensitiva (che appartiene anche all’animale). Tant’è che fono alla Legge 40 in diritto si sosteneva che la capacità giuridica si acquista solo con la nascita.
Anche per il secondo punto riteniamo che non vi sia molto da eccepire poiché non bastano  buone e pie intenzioni che non facciano i conti con la realtà e con la fattibilità dei propositi. Salvo ricordare al Sartori che non tutti i “sinistri” (pur cogliendo il doppio senso ostile attribuito al vocabolo) sono tanto sprovveduti. Tant’è che di recente lo stesso Cacciari ha sostenuto che non ha senso pretendere di  tollerare un’accoglienza indiscriminata che non faccia i conti con le risorse reali. Trovando d’accordo anche ME, pur nella mia umile e misera (si fa per dire) consapevolezza di non possedere altrettanto prestigiose onorificenze.

E mi spingo a definirmi d’accordo anche per il terzo punto, comprendendo che non si possa e non si debba pretendere d’integrare chi ci è culturalmente e dichiaratamente ostile.

Per il resto il mio DISSENSO non può che essere totale, e mi riferisco agli altri due pericoli segnalati dal politologo il quale continua sostenendo:

4- che sussiste il rischio che si affermi definitivamente una (per Sartori “distorta ed intollerabile “) DEMOCRAZIA DISTRIBUTIVA invece della DEMOCRAZIA PROTETTIVA che, sempre per il cavilloso vaneggiamento dell’illustre Professore,  è l’unica tollerabile, visto che il Sartori afferma e ribadisce più volte che ha sempre combattuto e sempre combatterà il cosiddetto  «perfezionismo democratico» , diversamente definito da Berlin «libertà positiva», laddove per il nostro Giovannino  è accettabile solo il concetto di una  «libertà negativa» posta a difesa della singola individualità… tant’è che sostiene che sempre «la politica è stata la forza a disposizione del più forte, del più potente finché non è stata inventata la LIBERAL-DEMOCRAZIA (la sua bestia nera) a partire dalla fine del ‘600 con >Locke e poi con Constant;

5-che ancora c’è il pericolo che si continui a perseverare nell’equivoca attesa d’una rivoluzione di stampo ideologico marxista che miri ad abbattere lo Stato capitalistico-borghese, mentre non può esistere -come teorizzato dal marxismo- una rivoluzione che mai abbia fine in quanto ogni rivoluzione deve poi tendere ad una stabilizzazione degli assetti sociopolitici (ma al di là del profluvio di parole e di argomentazioni fumose ed insistite sui danni e sulle utopie del da lui  odiato marxismo, meglio avrebbe fatto a richiamare il pensiero di un certo Popper che sen’altro conosce e che meglio di lui  sostiene d’essere un riformista perché ogni rivoluzionario, prima o poi, dovrà sempre e comunque fare poi i conti con la parte “costruens” di quegli assetti sociali che ha contribuito a smantellare) .
Ma tant’è, Sartori non può abdicare, pur con mente assai lucida, a quella formazione che lo porta ad essere visceralmente anticomunista ed antiegalitarista a prescindere, forse perché avverte il rischio che  ciò potrebbe intaccare e mettere in discussione il suo orgoglioso individualismo. La sua visione d’una società che non può e non  deve aspirare alla fumosa giustizia sociale affiora continuamente (vedi cap. “Rivoluzioni vere e Rivoluzioni false”) e lo spinge a dichiarare che proprio “il marxismo è riuscito ad interpolare nella nozione di rivoluzione due aggiunte .La prima è che “le rivoluzioni che non sono di sinistra non sono vere rivoluzioni”…La seconda è che “essa rivoluzione non può cessare con l’impianto di un nuovo ordine politico poiché «la vera rivoluzione» deve anche impiantare un nuovo ordine economico-sociale, il che è impossibile e quindi  “configura una rivoluzione che non finisce mai”.
Ma è così lontana dalla mente del vecchio saggio che un nuovo ordine sociale sia doveroso , oltre che possibile, realizzarlo? E cosa sarebbero dunque per lui le rivoluzioni? Un semplice cambio degli assetti di potere fini a se stessi , di Governi forti che non debbono né possono pretendere di fare i conti con le “utopie” di una democrazia egualitaria?  E ciò solo perché  Lui ritiene un errore storico la liberal-democrazia…
A dimostrare l’insensatezza di tale posizione basta rileggere la sua pretestuosa distinzione fra la “democrazia protettiva” da lui propugnata (a difesa del singolo individuo) e la  “democrazia distributiva” da lui fieramente avversata. Mentre è evidente che la democrazia presuppone un concetto di sostanziale parità di diritti fra i consociati, il che esclude ogni forma di diseguaglianza feroce ed implica la limitazione dei diritti individuali non primari.
Ma da tutti i capitoli traspare una medesima impostazione antidemocratica e una sorta di cecità per la devastata situazione sociale attuale che lo spinge a dire che il Vaticano rappresenta anch’esso un rischio nella misura in cui Papa Francesco  esordisce, come ha fatto, “dichiarando che «il denaro è lo sterco del diavolo»ì(pag.74). Sarà, ma questa non è la priorità del momento…”
E a noi viene perciò spontaneo chiedere al buon Sartori quale mai è, invece, la priorità del momento?
E dire che in un mio  precedente intervento avevo citato proprio la lucida denunzia di Sartori che in un’intervista affermava «L’Europa è un disastro. È il trionfo della finanza. Si è azzerata l’economia della produzione a tutto profitto di denari finti, scollegati dal lavoro. Soldi che vanno e vengono e non corrispondono al sudore della fronte di qualcuno, ma sono frutto dell’astuzia degli speculatori. I leader europei non capiscono, o fanno finta di non capire, che c’è differenza tra produrre qualcosa e fare soldi. Il risultato è che abbiamo tassi di disoccupazione mostruosi, e una crescita ridicola. Per dirlo in sintesi abbiamo creato un’Europa indifesa. Tutti subiscono, e nessuno può farci niente».
C’è da interrogarsi seriamente sulla coerenza di certuni…Quasi sembrava che l’illustre analista avesse a cuore la sorte dei cittadini. Come è noto da secoli non bisogna fermarsi mai all’apparenza e non basta dire “…ma mi sembrava così convincente…”
Perciò intendo scusarmi con i miei lettori per la citazione che ebbi a pubblicare senza avere ben chiaro il profilo cultural-politico dello scrittore.
Con le guance arrossate dalla vergogna e con sincero pentimento…mi firmo

Prof. Luigi Manfrecola

C. Wolf, Cassandra

Il tempo superato

di Antonio Stanca

 

«…ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
le fea parlar di Troia il dì mortale,
venne…» Foscolo, Dei Sepolcri.

 

wolfUn’altra donna, Cassandra, la leggendaria figlia di Priamo, re di Troia, città dell’Asia Minore collocata sulle rive dell’antico Scamandro, è la protagonista di un altro romanzo di Christa Wolf, la scrittrice tedesca di origine polacca, nata nel 1929 e morta nel 2011. Aveva ottantadue anni e non solo aveva scritto tanto, poesie, diari, racconti, romanzi, critica letteraria, ma aveva anche fatto tanto. Era vissuta nella Repubblica Democratica Tedesca, aveva preso parte alla sua formazione dopo gli eventi della Seconda Guerra Mondiale, aveva militato nelle file del partito marxista, non aveva distinto tra il suo impegno letterario e quello politico, sociale, aveva fatto dei problemi suoi e di ogni donna dei suoi tempi, dei suoi ambienti, quelli delle protagoniste di molte sue opere, aveva creduto nella funzione sociale, didattica della letteratura, era stata convinta che l’opera non fosse solo dell’autore ma di tutti perché di tutti doveva dire e a tutti doveva giungere quanto in essa contenuto, quanto da essa significato. Solo così si poteva sperare di avviare quel processo di formazione di una nuova coscienza civile del quale tanto si parlava e al quale erano affidate tante speranze.

Non mancarono le critiche per certe sue convinzioni e per alcuni comportamenti tenuti in pubblico dalla Wolf ma estesi furono anche i riconoscimenti come quando nel 1963 le fu assegnato il premio letterario Heinrich Mann per il suo romanzo d’esordio, Il cielo diviso, che nel 1964 sarebbe diventato un film e che oggi risulta tra i migliori della letteratura contemporanea. La Rita dell’opera che, dopo le alterne vicende vissute col suo Manfred nella Germania divisa, verrà da questo lasciata e si vedrà costretta a tornare a credere solo in sé, nella sua capacità, nella sua volontà, nel suo coraggio, diventerà una figura ricorrente nella Wolf scrittrice. Attraverso essa vorrà dire che la donna deve formarsi, deve prepararsi ad essere sicura, a farsi valere, ad affrontare imprevisti, pericoli anche a rischio di rimanerne vittima dal momento che tutto avviene in un ambiente per secoli permeato da maschilismo. Ma un’isolata femminista risulterà la Wolf e tale rimarrà. Isolata e inascoltata sarà pure la protagonista di Cassandra, romanzo scritto nel 1983 e recentemente ristampato dalla casa editrice E/O di Roma con la traduzione dal tedesco e la postfazione di Anita Raja (pp.143,€10,00).

Nella leggenda, nel mito è andata questa volta la Wolf a trovare il suo esempio di donna sola, destinata a non essere creduta, della troiana Cassandra ha scritto, della sacerdotessa di Apollo da lui investita di poteri profetici ma condannata a non essere ascoltata perché non gli si era concessa. Ne ha fatto la protagonista del romanzo e come negli altri anche in questo la scrittrice non si è solo proposta di mostrare quella femminile come una grave condizione che dura da secoli ma ha pure inteso alludere, tramite quanto rappresentato, ai tempi moderni, ha voluto fare della vicenda narrata la metafora di una più ampia situazione, di un più pericoloso momento storico quale quello attuale. In tal modo la Cassandra che per tutto il romanzo parla di sé e degli altri, della sua e della loro vita, delle sue e delle loro vicende, dei tempi, dei luoghi, dei popoli, degli uomini, degli dei dell’epoca, che scongiura i Troiani di entrare in guerra contro i Greci, che nella guerra vede la rovina della città, che in nessun altro ammonimento, in nessun’altra profezia è stata ascoltata in precedenza, la Cassandra che assiste inerme a Troia che brucia dopo l’inganno del cavallo di legno, rappresenta per la Wolf la voce dei grossi pericoli che corre il mondo d’oggi sospeso tra le ambizioni, le pretese, le rivalità di capi di stato che sono diventati tanto potenti, che si fanno tanto valere da non prestare ascolto a nessun invito alla pace, a non temere la guerra. Un mondo sempre al limite della guerra nucleare è diventato il moderno e la Wolf che lo grida è la Cassandra che ha superato il tempo per predire, senza essere creduta, questo grave pericolo che incombe sull’umanità.

Non poteva trovare esempio migliore! In Cassandra la Wolf ha voluto identificare se stessa anche in nome delle tante difficoltà, dei tanti problemi che le avevano procurato le sue convinzioni, fossero culturali, politiche, morali, religiose, delle tante volte nelle quali non era stata ascoltata. Come Cassandra è stata la Wolf, come quella di Troia sarà la storia del mondo e non c’era modo più idoneo per esprimere entrambe.