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L’arte come mezzo?

L’arte come mezzo?

di Antonio Stanca

fotoE’ una tendenza che si sta diffondendo, della quale si parla sempre più nei convegni, nelle mostre, nelle rassegne cinematografiche, nelle ricorrenze e durante manifestazioni culturali, è quella di indicare nell’arte il modo, la possibilità, il mezzo per ritrovarsi vicini, per riscoprirsi uniti, per recuperare quei rapporti umani, sociali, quei principi morali, quei valori spirituali che facevano parte della vita, della storia dell’uomo e che ai nostri giorni sembrano irrimediabilmente perduti. L’arte, poiché depositaria, espressione di tali valori, viene vista come un importante strumento per recuperarli e diffonderli. Una funzione didattica dovrebbe assumere l’arte se si pensa di affidare ad essa il compito di comunicare, trasmettere quella voce dell’anima, dello spirito che serve alla sua creazione. A tutti dovrebbe giungere questa voce, di tutti dovrebbero diventare i significati delle opere artistiche, per tutti dovrebbero valere.

Non è una novità se si pensa che fino a non molti anni addietro, fin quando, cioè, erano ancora valide istituzioni come la famiglia, la religione, la scuola, l’arte improntava di sé gran parte del pensare, del sentire pubblico. Non disgiunti erano allora i valori artistici da quelli religiosi per l’altezza del loro livello, per l’idealità che li caratterizzava e la scuola, tramite i giovani ai quali li trasmetteva, li faceva giungere nelle case, nelle famiglie, li diffondeva, educava ad essi. Ci si faceva educare ad essi, lo si voleva, lo volevano i ragazzi, lo volevano i loro ambienti, lo voleva la società della quale sarebbero entrati a far parte. Quelli dell’idea erano valori fondamentali, riferimenti essenziali.

Poi i tempi nuovi, quelli contemporanei, hanno fatto assistere a grossi cambiamenti: la materia è tanto sopravanzata da annullare lo spirito, la macchina si è così perfezionata da sostituire l’uomo, la comunicazione si è tanto estesa da riguardare tutti, da diventare di tutti, di massa. Pure l’arte ha risentito di questa mercificazione della vita ma anche se ridotta ad un numero minore di autori ed opere ha continuato ad esistere, ad essere perseguita. Ha dovuto rassegnarsi, però, ad essere di pochi e a valere per pochi, a vedere il suo ambito sempre più ristretto. La scuola ha continuato a parlarne, ad insegnarla, ma diversi, più immediati, più concreti erano ormai gli interessi di chi ascoltava e molto difficile diventava far rientrare tra essi quelli artistici. Né in aiuto di questi c’erano più i valori religiosi poiché richiamavano alla trascendenza persone che avevano ormai bisogno di essere reali. Si è giunti, così, ai nostri giorni, ad un tempo, cioè, ad un mondo che per aver seguito regole diverse da quelle tradizionali ha perso ogni riferimento, ogni certezza e non sa più cosa valga, in cosa credere se non nella macchina che corre, nell’immagine che abbaglia, nel suono che stordisce. Un mondo che ha fatto dell’irregolare, dell’illecito le sue nuove regole fino a farvi rientrare il sopruso, la violenza, la guerra, la morte.

Di fronte ad un simile disastro tante volte, in tanti modi si è cercato di porre riparo ma non si è mai riusciti. Ora si sta pensando di farlo con l’arte dal momento che è l’attività, l’espressione umana che ha conservato intatti i valori dello spirito. Ma con molta probabilità anche questo programma si vedrà costretto a rimanere a livello d’intenzione. Molti, infatti, sarebbero i problemi, i contrasti che sorgerebbero nel cercare di realizzarlo. Innanzitutto non si sta tenendo conto che, come si è detto, l’arte ha avuto questa funzione e poi l’ha persa perché è diventata una manifestazione limitata, isolata, che di arte ormai si parla solo in circostanze particolari e che solo allora ci si accorge che ancora esiste. L’artista è fuggito da un mondo che gli è diventato sempre più ostile e nelle sue opere lo ha accusato e continua a farlo. Pertanto non si può pensare che in nome dell’arte cambi una situazione, una vita che non ha più il tempo, il modo per accettarla, per riconoscerla. Non si può credere di trarre un messaggio valido per tutti da ciò che non riesce più ad interessare. Non si può invitare ad ascoltare chi non vuole farlo. Non si può pensare di procedere verso un nuovo umanesimo tramite quanto dell’uomo rimane nascosto, sconosciuto.

Affascinante, suggestiva sarebbe l’impresa di un mondo risanato, salvato dall’arte ma anche se con rammarico si è costretti a constatare la sua impossibilità.

L. De Crescenzo, Stammi felice

“Statti felice”

di Luigi Manfrecola

  Non è il solito De Crescenzo, ma ne vale comunque la pena. L’arguzia divertita è quella sua solita, la battuta bruciante ed autoironica è presente come sempre, la saggezza bonaria ti incanta ancora col vigore della sintesi bozzettistica. L’umanità calorosa, saggia e lenta dello scrittore-poeta ti seduce ancora. E tuttavia avverti una certa fatica, una stanchezza ed una frettolosità addebitabile agli anni, ma che tuttavia il “mestiere” riesce a camuffare.

E’ un libricino godibile quello dato alle stampe recentemente dal mio conterraneo che, negli anni, ha saputo divenire l’immagine della Napoli più vera , testimone di una “cultura” non paludata e noiosa ma capace di una profondità e di una levità sorprendente, capace di attrarre i non addetti ai lavori anche quando si è accostata ai Maestri del pensiero. L’ha fatto con umiltà e modestia, senza pretese, ma con una efficacia comunicativa e divulgativa che nessuno mai aveva ottenuto. E’ evidente che questo non può bastare ai barbosi cultori della materia se non posseggono quella napoletanità dissacrante che sa avvicinarti al mondo ed alla grandezza di alcuni suoi figli con uno sguardo disincantato ed ironico. Quella stessa grandezza che fu di un Vico o di un Croce, maestri del Pensiero inarrivabili oppure di un De Filippo o di un Viviani quali sociologi e poeti insuperabili. Non a caso, alla grandezza di Eduardo ho infatti in animo di dedicare molti dei miei futuri spazi di riflessione.

Allora, purché non si immagini di trovarvi quello che non può né deve esserci, consiglio a tutti gli amici la lettura della rapidissima ed ultima fatica dell’Ingegnere che discute di “Felicità” immaginando un simposio con convitati degni di considerazione : da Socrate a Platone, passando per Nietzsche e per Schopenhauer. Chiaramente il nocciolo del messaggio dei filosofi è solo sfiorato per divenire pretesto di arguto commento , ma tanto può bastarci.

Due sono le ragioni principali da cui muove questo mio invito. La prima si lega all’esigenza di riscoprire quella speranza di felicità che questi tempi sventurati rischiano di minare. La seconda, molto più banale, si lega alla forza di una citazione che intendo già qui riportare per coloro che il libricino non vorranno comprarlo. A pagina 44 lo scrittore afferma :

“Volete sapere cos’è realmente una “bella catastrofe”?E’ un terremoto che non ammazza nessuno e fa riscoprire il senso delle cose. Volete sapere cosa è la NAPOLETANITA’? Secondo me è la capacità di riuscire a scoprire il senso delle cose senza aver bisogno di un terremoto.

T. Montefusco, La didattica laboratoriale

Tommaso Montefusco
LA DIDATTICA LABORATORIALE
Manuale di buone pratiche. Cosa fare, come fare

Brochure La didattica laboratoriale_Pagina_1Il libro presenta, oltre al saggio di Tommaso Montefusco intorno alle motivazioni di vario ordine che sono alla base della necessità di adottare la didattica laboratoriale nella scuola di massa e di qualità del XXI secolo, 16 sperimentazioni di didattica laboratoriale, realizzate in classi di vario ordine e grado, relative a diverse discipline e finalizzate all’apprendimento delle competenze.
I docenti che le hanno realizzate le raccontano, ne illustrano passo dopo passo tutte le fasi e mettono a disposizione del lettore tutta la documentazione.
In alcuni casi, le pratiche si contaminano, si intersecano: lavoro cooperativo, peer education, webquest, wikispace, flipped classroom, Problem Based Learning (PBL) e Inquiry Based Science Education (IBSE).
Nel saggio iniziale, inoltre, cenni sono dedicati al role playing e alla classe scomposta.
Il report dei docenti lo si può leggere nelle pagine del volume, mentre i materiali relativi a tali report, come le schede di valutazione, di autovalutazione e di osservazione, le varie griglie, le UDA relative alle attività svolte, i materiali prodotti dai docenti e dagli alunni, le sitografie specifiche, i commenti, gli strumenti, i tutorial per la costruzione di siti e piattaforme interattive, come Altervista, per la raccolta dei materiali sono visionabili nel CD allegato al volume.

Alla realizzazione del volume hanno collaborato:

Gabriella Baccelliere, I.C. “Giovanni XXIII” – Grumo-Binetto (Bari)
Simonetta Baldari,  I.C. Aradeo (Lecce)
Giacoma Burdi, 3° C.D. “Don Milani” – Modugno (Bari)
Zoraide  Cappabianca, I.T.E. “Vivante” – Bari
Anna  Chiusolo, 3° C.D. “Don Milani” – Modugno
Anna D’Agostino, 3° C.D. “Don Milani” – Modugno
Francesco Mario Pio Damiani, Licei “Cartesio” – Triggiano (Bari)
Concetta  De Feo, I.T.E. “V.V. Lenoci” – Bari
Alessandra Iacobelli, I.T.T. “Elena di Savoia” – Bari
Antonia Loverre, I.C. “Giovanni XXIII” – Grumo-Binetto
Maria Emma Lozito, I.C. “Giovanni XXIII” – Grumo-Binetto
Maria Giovanna Nanna, Licei “Cartesio”  – Triggiano
Grazia Pollicoro, I.C. “Diaz” –  Laterza (Taranto)
Grazia Priore, 3° C.D. “Don Milani” – Modugno
Vincenza Prisciandaro, 3° C.D. “Don Milani” – Modugno
Margherita Sivo, I.C. “Capozzi-Galilei” – Valenzano (Bari)

B. O’ Carroll, Agnes Browne mamma

La “mamma” di tutti

di Antonio Stanca

ocarrolAd aprile del 2015 dalla casa editrice BEAT è stato ristampato il romanzo Agnes Browne mamma del sessantenne scrittore irlandese Brendan O’Carroll (pp.167, € 9,00). La traduzione dall’inglese è di Gaja Cenciarelli.

O’Carroll, nato a Finglas nel 1955, lo scrisse nel 1994, quando aveva trentanove anni e dopo aver tenuto un dramma alla radio. Fu il suo esordio letterario ed ebbe tanto successo da indurre l’autore a farlo seguire da altri tre romanzi incentrati sul personaggio di Agnes Browne, I marmocchi di Agnes, Agnes Browne nonna, Agnes Browne ragazza. Una saga familiare avrebbe prodotto O’Carroll ed avrebbe anche esteso la sua attività, sarebbe entrato a far parte del mondo dello spettacolo, del cinema, del teatro, della televisione non solo come autore ma anche come regista, sceneggiatore, attore. Nel 1999 avrebbe collaborato alla riduzione cinematografica di Agnes Browne mamma che procurerà al romanzo ulteriore successo, lo farà tradurre in molte lingue e renderà O’Carroll un autore internazionale.

“Una delle opere migliori della letteratura irlandese contemporanea” è stato definito per l’umorismo che lo attraversa e per la capacità mostrata da O’Carroll nel creare una figura femminile come Agnes Browne, nel rappresentarla in modo così autentico, così ricco di valori e significati da farla diventare un personaggio emblematico, un “caso” letterario, un classico della modernità.

Tramite O’Carroll dalla lontana e solitaria Irlanda è provenuta un’immagine femminile ovunque ammirata, un esempio di donna a tutti gradita. E ancor più sorprende questo fenomeno se si pensa che Agnes non è una donna fuori dal comune, non ha qualità eccezionali, non è una persona eletta ma una semplice fruttivendola che ha il suo piccolo banco al mercato del Jarro, un quartiere popolare della Dublino degli anni ’70, sette figli e un marito, Rosso, che non vuole saperne di lavorare e che la maltratta. Rosso morirà lasciandola con i figli ancora piccoli che Agnes, tramite espedienti di ogni genere, riuscirà a far crescere, ad istruire, a far diventare adulti senza che le difficoltà della condizione familiare pesino su di loro poiché in esse saprà coinvolgerli, di esse li saprà rendere responsabili al punto che le sentiranno non come una limitazione, come un motivo d’inferiorità ma come un aspetto tra gli altri della loro vita.

Anche Marion, la migliore amica di Agnes, morirà. Anche lei faceva mercato, aveva un banco di frutta accanto al suo e tra loro si era creata una tale intimità che non c’era pensiero, azione di una che non fosse anche dell’altra. Insieme vendevano la loro merce, insieme facevano la pausa per la colazione, insieme chiacchieravano su quanto di nuovo ogni mattina si veniva a sapere, insieme si trovavano a dire dei problemi, dei bisogni delle loro famiglie. Ci volle molto tempo perché Agnes si adattasse all’idea di essere rimasta senza Marion. Dopo la sua morte non avrà più la coetanea con la quale dire di tutto ed unico, esclusivo diventerà il pensiero della famiglia, dei figli, dei problemi legati alla loro crescita, delle risposte da dare alle loro incessanti domande, del lavoro suo e di quello di alcuni dei figli ormai adulti, dell’economia familiare sempre ridotta e del suo impegno a non farla apparire un impedimento ad essere felici nella loro modesta casa e a guardare al futuro. Tutto questo saprà fare Agnes, questo ambiente sarà capace di creare e mantenere nella sua famiglia. Un esempio di donna forte, coraggiosa, eroica ha voluto offrire con lei O’Carroll, un caso di donna tipicamente irlandese capace di procedere tra molte difficoltà, tra molti pericoli, di muoversi tra le persone, le case, le strade di una Dublino così affollata, così movimentata, di non smettere mai di occuparsi, di affaccendarsi. L’intera vita della città fa conoscere lo scrittore tramite quella di Agnes poiché in essa si svolge, in essa è lei sempre alla ricerca di una soluzione per i suoi tanti problemi.

Anche la madre di O’Carroll era stata una donna forte, anche lei aveva perso il marito quando lui e le cinque sorelle erano ancora piccoli. Tutti, prima dei quattordici anni, avevano dovuto abbandonare la scuola e arrangiarsi nel mondo del lavoro. A dodici anni O’ Carroll era cameriere poi lattaio e dalla vita sua e della sua famiglia gli era venuta l’idea del romanzo, da sua madre quella di Agnes Browne, della “mamma” che avrebbe conquistato il pubblico di ogni parte del mondo, che sarebbe diventata di tutti.

La sua scrittura semplice, chiara, facile gli avrebbe procurato altra ammirazione. E’ una scrittura capace di attirare, coinvolgere come sempre succede quando di cose semplici si dice con parole semplici. Non è il linguaggio delle favole quello di O’Carroll ma delle favole ha quel tono che non finisce mai di piacere, dalle favole deriva quella morale nella quale tutti possono ritrovarsi poiché per tutti vale.

“Qualcosa di buono” di George C. Wolf

“Qualcosa di buono” un film di George C. Wolf

di Mario Coviello

 

qualcosa_di_buonoEsce oggi in tutta Italia nelle sale un film da non perdere “ Qualcosa di buono” , di George C. Wolf, basato sul romanzo di Michelle Wildgen., che ha lo stesso titolo ed è pubblicato in Italia da Vallardi

Kate (Hilary Swank) è una pianista di musica classica , donna in carriera di successo, sposata e dai modi garbati, a cui è stata diagnostica la SLA (più nota con il nome di malattia di Lou Gehrig). Bec (Emmy Rossum) è un’estroversa studentessa universitaria e aspirante cantante rock che riesce a malapena a destreggiarsi in una vita estremamente caotica e confusionaria Eppure quando Bec decide di accettare la disperata proposta di lavoro come assistente di Kate, proprio quando il matrimonio di Kate con Evan (Josh Duhamel) comincia a entrare in crisi, le due donne si affidano a ciò che diventerà un legame non convenzionale, a volte conflittuale e ferocemente onesto. Senza una meta chiara nella vita, Bec è decisa a diventare l’ombra di Kate accompagnandola e traducendo per lei le situazioni più sconcertanti e goffamente comiche. Il risultato è un cameratismo ridotto all’ essenziale, fatto di sostentamento quotidiano e confessioni a notte fonda. Quando la meticolosa e ostinata Kate comincia a influire sulla confusa, spontanea e inafferrabile Bec e viceversa, entrambe le donne si trovano faccia a faccia con i rispettivi rimpianti, esplorando nuovi territori ed espandendo la propria idea su chi in realtà vogliono essere. Il film, che può essere considerato la versione femminile di “Quasi amici” (i protagonisti erano un nobile tetraplegico e il suo badante pregiudicato) parla di handicap, di amicizia, di destino attraverso un impianto a cavallo fra dramma e commedia con molti momenti di umorismo.

Come ha interpretato il suo ruolo? «Mi sono documentata scrupolosamente frequentando dei veri malati», racconta Hilary Swank, «mi sono fatta raccontare la loro vita quotidiana, ho esplorato i loro sentimenti. E’ stata una prova fisicamente ed emotivamente molto faticosa, ma sono felicissima di aver interpretato questo film che regala molte emozioni. Su di me ha avuto un effetto molto potente».Ho pensato che questa storia fosse un’ottima opportunità per raccontare il legame d’amicizia tra due donne che, nonostante siano antitetiche in tutto, si conoscono e riescono a volersi bene rispettandosi a vicenda”, Della stessa idea anche Emmy Rossum “E’ la storia di due donne completamente diverse che s’incontrano e, inaspettatamente, cambiano l’una la vita dell’altra. Con il tempo imparano a conoscersi e a rispettarsi e, soprattutto, capiscono che non c’è niente di sbagliato nell’essere diversi dagli altri”.

Kate è affetta da SLA e nel film assistiamo al progressivo e inesorabile degenerarsi di una vita fin lì normale. L’attenzione nei confronti della malattia si attiene al rispetto del dettaglio per conferire autenticità alla storia, ma, sia l’autrice del libro che il regista, hanno scelto di evitare ogni possibile scadimento della narrazione nel pietismo o nella temibile lacrima facile. E’ affidato al personaggio di Bec, la ribelle studentessa, un ruolo dissacrante: le sue parole sono un invito diretto, e a volte brutale, ad affrontare la malattia e a vivere fuori dagli schemi. Kate era una donna sicura di sé, bella e soddisfatta della sua vita agiata accanto a un marito innamorato; la malattia, però, con il suo orizzonte di sofferenza e di perdita progressiva di ciò che faticosamente ha costruito, la spingono a lasciarsi andare. Solo l’aiuto di Bec e del suo spirito goffo e irriverente modificheranno il modo in cui Kate guarda se stessa, sino a rimpiangere di non avere, in passato, preferito costruire il suo vero Io anziché aderire alle aspettative di altri .Kate e Bec nel film dimostrano che la vita ci pone di fronte a sfide insormontabili, al dolore più lacerante, ma l’amicizia dona la possibilità insostituibile di poter contare su qualcuno. Non sarà la cura miracolosa ai piccoli grandi drammi che ci colpiscono, ma sì un rifugio accogliente in cui poter ancora coltivare la speranza. Abbiamo sempre pensato che le amiche vere fossero tali in virtù della somiglianza, ignorando che le differenze ci rendono complementari, e possono essere un’opportunità di crescita. Proprio come è stato per Kate e Bec.Questo film approfondisce il tema della malattia, delle scelte e delle relazioni: una malattia degenerativa, contro cui non si può combattere e non si può vincere, getta un’ombra d’impotenza e di angoscia disarmante in tutti coloro che hanno a che farci. In un certo senso mi ricorda Still Alice,che vi ho consigliato in una mia precedente recensione, in cui si parla di una donna brillante, giovane e forte che si vede lentamente divorare la mente dall’Alzheimer pur continuando a lottare, pur sapendo che non ci sono speranze. Hilary Swank, riuscirà con questo film a conquistare premi e pubblico come ha fatto nelle precedenti interpretazione in  “Boys don’t cry” e “Million Dollar Baby”?

L. Gruber, Eredità

Eredità: Una storia della mia famiglia tra l’Impero e il fascismo di Lilli Gruber
Rizzoli, 2012

di Mario Coviello

gruber“´Dovete sapere da dove venite, per potere andare lontano’” è quello che i genitori di Lilli Gruber hanno sempre ripetuto ai loro figli. Il romanzo ha richiesto oltre due anni di lavoro di documentazione da parte della giornalista de La7. Gli eventi storici raccontati, protagonista il Sȕdtirol, sono realmente accaduti e i personaggi sono esistiti. “Una storia della mia famiglia tra l’Impero e il fascismo” è il sottotitolo del volume arricchito da una galleria di ritratti di famiglia che sintetizza il senso di questo racconto storico e romanzo autobiografico nel quale s’intreccia pubblico e privato. Partendo dalle pagine del diario della bisnonna Rosa Tiefenthaler Rizzolli (il diario si apre nel 1902 e si interrompe nel Natale del 1939) ritrovato nella grande casa avita di Pinzol “minuscolo villaggio del Sudtirolo” situato sulle alture che dominano l’Adige, l’autrice compie un viaggio nel passato per gettare una nuova luce su avvenimenti nodali e importanti. La Gruber non ha mai conosciuto la nonna “dal viso aperto e generoso, illuminato dagli occhi azzurri”, ricca possidente terriera, donna colta, una figura leggendaria all’interno del clan famigliare. Dietlinde, soprannominata Lilli, dalla sua ava ha certamente ereditato la passione per la scrittura, la tenacia e una grande curiosità intellettuale, qualità fondamentale per chi fa il giornalista. Nelle prime pagine del libro Rosa seduta allo scrittoio apre il diario rivestito di pelle marrone al quale confida i suoi pensieri più intimi. La donna prende una penna la intinge nell’inchiostro nero e con la sua bella calligrafia scrive nel suo antico corsivo tedesco contemplando gli alberi che ricoprono di un verde intenso i fianchi della montagna dove ha ancorato la sua vita. “Novembre 1918”. Il mondo di Rosa è crollato e niente sarà mai più come prima. “Si è concordato l’armistizio con l’esercito italiano” e dal 3 novembre del 1918 gli abitanti del Sȕdtirol, sudditi fedeli dell’ex Impero Austro-Ungarico, sono diventati sudditi del Regno d’Italia. Uomini e donne come Rosa, la cui terra è l’Heimat, vivono tutto ciò come un’occupazione straniera e la divisione del Tirolo è vista come un’amputazione e il distacco dall’Austria come un’ingiusta separazione dall’amata madrepatria. La popolazione non solo parla il tedesco ma è legata da sempre all’impero asburgico da secoli di storia e di cultura condivisa precisa la Gruber. Il simbolo di questa lacerazione è la garitta, una barriera di legno che viene eretta, nei giorni che seguono l’arrivo degli italiani al Brennero, attraverso la strada principale, tra l’Italia e l’Austria.Basandosi rigorosamente sulle informazioni famigliari, sulle lettere, su alcune testimonianze scritte, su libri di storia locale e documenti narrativi l’autrice ha ricostruito “alcune circostanze in modo narrativo”, sullo sfondo le rivendicazioni di una regione di cultura e tradizione tedesca, la quale dopo il crollo dell’Impero asburgico si trovò molto restia all’annessione all’Italia. La famiglia di Lilli Gruber viene quindi usata come lente attraverso cui guardare le cruciali vicende europee che vanno dall’inizio del Novecento fino alle soglie della II Guerra Mondiale. “Sono arrivati i giorni più turbolenti della guerra”.

La brutalità con cui  poche righe di un Trattato decisero il destino e cambiarono radicalmente la vita di migliaia di persone, l’assimilazione coatta, violenta, imposta alla popolazione tedesca del Sud Tirolo esercitata dal Regno d’Italia e dal Fascio attraverso divieti, persecuzioni, emarginazioni, discriminazioni ed aberranti tentativi di deprivare un’intera popolazione della propria lingua (il tedesco), tradizioni, radici, della propria Heimat mi ha lasciato esterrefatto anche per l’imbecillità e la miopia di un metodo che non poteva che accentuare le resistenze e — cosa ancora peggiore — spingere molti sudtirolesi a diventare filonazisti Indimenticabili le pagine in cui di fronte al divieto assoluto di utilizzare sia in pubblico che in privato ed anche durante le funzioni religiose la lingua tedesca viene descritta l’organizzazione di un sistema alternativo di istruzione della lingua e cultura tedesca, una vera e propria rete di “classi clandestine” (le Katakombenschulen, scuole delle catacombe) in cui maestre e maestri prestano la propria opera di insegnamento per far sì che i bambini non perdano il legame con la loro lingua madre.

“Questo non è un libro di storia. E’ un libro di memoria e di recupero di ‘ memoria familiare e culturale che mi appartiene” scrive la Gruber.Una verità semplice: il passato resiste, ma la memoria è sempre troppo corta” . E lei, Lilli Gruber, come si pone oggi di fronte a quella che comunque è una doppia appartenenza?´Ma tu ti senti più italiana o più tedesca?» è tutta la vita che me lo chiedono e non sarò mai abbastanza grata ai padri fondatori dell’Unione Europea perchè oggi posso affermare: ´Sono e mi sento cittadina d’Europa’, una soluzione che trovo perfetta. C’è però anche un’altra risposta, altrettanto vera: sono sudtirolese. E in quanto tale ho vissuto confrontandomi ogni momento, su qualunque questione, con un problema: c’era sempre un punto di vista tedesco e uno italiano su tutto. E ovviamente ognuna delle due comunità perpetuava i più vieti stereotipi sull’altra.

Lilli Gruber,nata a Bolzano, è giornalista e scrittrice. È stata prima donna a presentare un telegiornale in prima serata e dal 1988 ha seguito come inviata per la RAI tutti i principali avvenimenti internazionali. Dal 2004 al 2008 è stata parlamentare europea.  Gli ultimi suoi bestseller pubblicati con Rizzoli sono Chador (2005), America anno zero (2006), Figlie dell’Islam (2007), Streghe (2008), tutti disponibili anche in Bur, e Ritorno a Berlino (2009). Dal 2008 conduce su La7 il programma di approfondimento Otto e mezzo e, oltre ad essere stata il primo volto femminile del telegiornale Rai delle ore 20, ha seguito da inviata Rai i principali eventi internazionali, dalla caduta del Muro di Berlino, ai conflitti in Iraq. Ha viaggiato praticamente in tutto il mondo ma non hai mai dimenticato le sue radici, ben salde in Alto Adige, regione splendida e travagliata che essendo terra di confine è stata teatro di tensioni e contraddizioni.

A. Moore, La moglie dell’albergatore

Il posto che non c’è

di Antonio Stanca

  A Maggio del 2015, nella serie “Le Piccole Varianti” della casa editrice Bollati Boringhieri di Torino, è stato pubblicato il romanzo La moglie dell’albergatore della scrittrice inglese Alison Moore. La traduzione è di Carlo Prosperi (pp.169, € 9,50). La Moore ha quarantaquattro anni, è nata a Manchester nel 1971 e vive nei pressi di Nottingham col marito e un figlio. Ha scritto questo romanzo nel 2012 dopo aver scritto dei racconti che ha pubblicato su riviste o in antologie tra le quali Best British Short Stories. La moglie dell’albergatore è il suo romanzo d’esordio e nel 2012 è stato selezionato per il Man Booker Prize e per il Book Awards National. Nel 2013 ha vinto il Premio Mckiherick.

   Quello della fantascienza, dell’horror è il genere nel quale la scrittrice viene fatta rientrare specie per i suoi racconti mentre nei romanzi si mostra incline a rappresentare situazioni particolari, a scandagliare l’animo di chi le vive, a mostrare le complicazioni dei suoi pensieri, i disturbi della sua mente. Di vite insolite dice la Moore nei romanzi e così fa pure ne La moglie dell’albergatore dove il giovane protagonista Futh decide di recarsi per una settimana dall’Inghilterra in Germania al fine di liberarsi dei problemi che lo assillano. In casa egli ha vissuto una triste esperienza soprattutto da quando la madre se n’è andata lasciandolo solo col padre. Non sopportava più quanto doveva subire, la superficialità con la quale il marito la trattava, i continui tradimenti ai quali la esponeva. Neanche a Futh piacevano i modi, i vizi del padre e per questo era stato più vicino alla madre fin da quando era bambino. Presso di lei aveva trovato conforto per le sue inquietudini, le sue ansie, con lei aveva stabilito un rapporto fatto di rivelazioni, confidenze, intimità. Era stata lei a capire i suoi pensieri, a cogliere i suoi problemi, a soddisfare i suoi bisogni. Rimasto senza la madre Futh aveva sofferto la sua assenza e aveva creduto di colmare quel vuoto sposando Angela, sua vecchia compagna di scuola. Ma questa non si era mostrata disposta a capirlo completamente, a dedicargli molto tempo perché presa da altri interessi, attirata da altre esperienze comprese quelle sessuali. Si separerà da Angela e intanto aggravata si è la condizione del suo spirito. Paure, ossessioni sono diventate le sue ansie. Tra l’altro teme sempre che possa accadere improvvisamente qualcosa di molto grave e che non riesca a mettersi in salvo. Per questo si è legato ad oggetti che è convinto gli portino fortuna, che ha sempre con sé ed ai quali è arrivato ad attribuire un valore sacro. Per questo ambisce ad un luogo sicuro, ad una vita tranquilla, ad una casa che lo accolga, ad una persona che lo ascolti, quelle che aveva pensato di trovare, che si era costruito in seguito ai lunghi dialoghi con la madre.

   Erano ambizioni semplici quelle di Futh, esprimevano i bisogni di uno spirito umile, pacifico. Erano state quelle a farlo andare in Germania, lontano dai luoghi, dalle persone che vedeva all’origine dei suoi problemi. Ma neanche qui riuscirà a realizzarle, a liberarsi dei pensieri, dei ricordi che ormai lo perseguitano e lo portano a ripercorrere la vita passata in ogni particolare, nei momenti più gravi, nelle circostanze più dolorose. Ne uscirà indebolito, fiaccato nello spirito e nel corpo. E’ ancora giovane ma ha assunto l’aspetto, l’atteggiamento di una persona incerta, confusa che con facilità sbaglia l’autobus da prendere, la fermata da usare, l’albergo dove alloggiare e molta strada è costretta a percorrere con i piedi che gli bruciano. Un viandante solitario, dolorante, un ramingo diventerà Futh una volta in Germania, non una vacanza sarà la sua ma una peregrinazione tra posti che non conosce, persone che non capisce, immagini, visioni che lo rincorrono. E sempre lontana rimane quella tanto sospirata quiete che aveva creduto possibile. Non c’è posto per Futh in una vita che altro chiede da quello che lui può dare.

   Il ricordo della madre, delle sue parole, delle sue cose, ritornerà nella mente di Futh, l’attraverserà a volte improvvisamente, inaspettatamente e abile sarà la Moore a mostrare tale movimento, a spostare in continuazione i tempi, i luoghi della narrazione, a saper stare tra passato e presente, Inghilterra e Germania, seguendo quanto avviene nel suo personaggio. Molto ha fatto rientrare nell’opera la scrittrice, tanti elementi, tanti tempi, tanti luoghi, tante persone, senza mai riuscire complicata, difficile nella scrittura. Ha mostrato come i pensieri di Futh passano da quanto è avvenuto a quanto sta avvenendo, da come si è comportato a come si sta comportando, dalle prime persone della sua vita alle altre, da quel che avrebbe voluto a quel che ha ottenuto, dall’idea alla realtà, dal sogno alla verità, dalla speranza alla delusione.

   Non è un romanzo psicologico questo della Moore ma niente trascura della complessa psicologia del protagonista e niente della realtà che lo ha circondato e lo circonda. Dal confronto con questa fa emergere i suoi problemi. Non divisa è l’opera tra l’interno e l’esterno di Futh, tra il suo passato e il suo presente, tra lui e gli altri, tra la sua e la loro vita, ma comprensiva di tutto, ampia, estesa. Questo la rende nuova rispetto ai molti echi letterari, ai molti luoghi comuni, quelli del giovane incompreso, solitario, del viaggio come evasione, fuga o ricerca d’altro, che in essa si possono rintracciare. Nuova è la Moore perché il suo sguardo comprende tutto ciò che è stato ed è del suo personaggio, tutta la vita che intorno a lui si è svolta e si svolge e che ne ha fatto un “diverso”.

A. Kourouma, Allah non è mica obbligato

Bambini d’Africa

di Antonio Stanca

kouroumaAhmadou Kourouma è stato uno dei maggiori scrittori africani contemporanei. E’ nato nel 1927 in Costa d’Avorio ed è morto a Lione nel 2003. Aveva settantasei anni e tante esperienze aveva vissuto: dal 1950 al 1954 aveva preso parte, nelle file dell’esercito francese, alla guerra d’Indocina, in seguito si era trasferito in Francia, a Lione, per studiare matematica e qui aveva conosciuto la donna che sarebbe diventata sua moglie. Nel 1960, quando la Costa d’Avorio si era liberata dalla colonizzazione francese ed aveva acquistato l’indipendenza, Kourouma vi era tornato ma, accusato falsamente dal nuovo governo di essere membro di una congiura ad esso contraria, era stato costretto ad andare in esilio. Dopo molti anni trascorsi tra l’Algeria, il Camerun e il Togo, tornerà in Costa d’Avorio. Qui nel 2002 scoppierà la guerra civile e Kourouma si mostrerà contrario a tanta ostilità tra connazionali. Perciò sarà di nuovo accusato di complottare contro il governo e di nuovo dovrà lasciare il suo paese.

Era bastato che Kourouma non si mostrasse convinto di quanto stava succedendo in Costa d’Avorio perché la sua posizione diventasse motivo di accusa.

Anche i suoi romanzi, che gli sarebbero stati ispirati dalle tristi vicende attraversate, avrebbero sofferto di molti divieti prima di essere pubblicati. Il sole delle indipendenze, il suo romanzo d’esordio scritto nel 1968, avrebbe visto la pubblicazione dopo molto tempo e soltanto in seguito ad un premio ottenuto da Kourouma presso l’Università di Montreal. Da allora le sue narrazioni avrebbero conquistato il mercato francese e poi quello inglese, avrebbero avuto molti riconoscimenti. Il romanzo Aspettando il voto delle bestie selvagge, del 1998, avrebbe vinto in quell’anno il Prix Tropiques e nel 1999 il Grand Prix de la Societé des gens de lettres e il Premio Livre Inter. Il romanzo Allah non è mica obbligato, che risale al 2000, ha vinto il Prix Renadout 2000 e il Prix Goncourt des lycéens. Quest’opera è comparsa per la prima volta in Italia nel 2002 presso le Edizioni E/O di Roma e da queste è stata recentemente ristampata. La traduzione è della Scuola Europea di Traduzione Letteraria.

Anche per il teatro e per i bambini ha scritto Kourouma ma soprattutto nei romanzi ha espresso le sue migliori qualità e sono stati questi a farlo conoscere ed apprezzare. La loro lingua non è raffinata poiché impegnata a dire delle gravi realtà dell’Africa, a far emergere, tramite quanto rappresentato, la posizione dell’autore, la sua condanna di tutto quanto, tra passato e presente, si è opposto al desiderio, al bisogno di libertà del popolo africano, delle ingiustizie, delle sopraffazioni, delle rivalità, delle crudeltà, degli orrori, della violenza di ogni genere che percorre ancora oggi l’Africa e fa apparire come unica, inevitabile, necessaria la sua condizione di miseria, di fame, di morte. Premiato è stato Kourouma per i suoi romanzi perché con essi ha avuto il coraggio di denunciare una situazione tragica, di proclamare ad alta voce che anche i negri hanno diritto alla vita, che anche i poveri devono mangiare.

In Allah non è mica obbligato attraverso i pensieri, i sentimenti, le emozioni, le azioni, le esperienze, la vita del bambino Birahima lo scrittore dice dell’Africa, di quanto negli ultimi anni del secolo scorso succedeva in particolar modo in Liberia e in Sierra Leone, dove erano in corso due guerre civili che si erano trasformate in guerre tribali tante erano le fazioni che miravano al potere, tanti i capi che le comandavano e che si alternavano.

Birahima è un bambino povero che vive con la madre molto malata e che dopo la morte di questa è costretto, per assicurarsi il minimo necessario alla vita, a lasciare la scuola e diventare bambino soldato, a mettersi al servizio del capo di una delle fazioni in lotta prima in Liberia poi in Sierra Leone, a cambiarlo se fosse stato necessario e a combattere contro i suoi nemici, contro altri bambini soldati che per altri motivi lo erano diventati, ad uccidere, a veder uccidere, ad assistere a tante stragi, a tante torture, a tante esecuzioni, a tanta ferocia in quell’Africa dove “Allah non è mica obbligato ad essere sempre buono, a provvedere, cioè, che non si verifichino situazioni sanguinarie”. La guerra e quanto essa comporta di attentati, complotti, inganni, tradimenti, crudeltà, diventeranno gli aspetti quotidiani della vita di Birahima, con essi s’identificherà la sua esistenza, con un’interminabile peregrinazione tra luoghi, persone, cose sempre nuove, sempre ostili, sempre pericolose. Attraverso le peregrinazioni di Birahima lo scrittore farà comparire tante altre tristi verità d’Africa, farà vedere come sono sfruttati i suoi abitanti, le sue regioni, le sue ricchezze, come è percorsa da ladri, banditi, falsari, furfanti di ogni tipo. E tutto dirà con un linguaggio semplice, spontaneo, quello appunto del bambino Birahima, che Kourouma mostrerà come l’autore del romanzo, al quale farà dire di averlo voluto scrivere per narrare le gravi esperienze vissute in Africa da lui e da tanti altri bambini. E’ un espediente che consente allo scrittore di muoversi liberamente tra pensieri e ricordi, realtà e fantasia, magia, leggenda e religione, superstizione e mito. Meglio che in altre opere è riuscito stavolta Kourouma perché immediato, naturale come un bambino è stato, di più ha aderito a quanto voleva dire, più vero, più autentico, più africano è risultato.

Z. Bauman – E. Mauro, Babel

Una conversazione di alto profilo sulla babele del mondo contemporaneo

di Maurizio Tiriticco

 

Zygmunt Bauman, Ezio Mauro, Babel, Laterza, Bari, 2015, pp. 166, € 16,00

“Un tempo, in alcuni regimi, bisognava difendere l’autonomia dell’individuo davanti alla totalità pervasiva del sistema che lo annullava. Oggi bisogna dare un valore alla solitudine del singolo, renderla intelligente, consapevole: anche in questo caso autonoma, sia pure per un processo inverso. Conservare la libertà di scegliere significa tenere aperte opzioni diverse, cioè lo spazio dell’azione, dell’azione politica. Il problema sembra addirittura fisico, è invece culturale” (p. 152).

 

babelIl volume raccoglie una lunga, articolata e documentata conversazione sui problemi del mondo contemporaneo tra un autorevole “lettore” della società di oggi e un giornalista di alto profilo. Il focus è la complessa fenomenologia di un mondo che nel giro di qualche decennio ha subito mutamenti radicali nell’economia, nella politica, nei comportamenti di ciascuno di noi, e soprattutto nei processi di comunicazione.

Il processo di globalizzazione e tutti quei fenomeni che rendono la nostra società sempre più “liquida” non solo sembrano essere irreversibili, ma subiscono giorno dopo giorno sempre più sensibili accelerazioni. In effetti sono le stesse coordinate spazio/temporali, su cui si intrecciano da sempre le relazioni interpersonali, a subire profonde modifiche, le quali si ripercuotono sui campi di comunicazione e sui comportamenti. E’ ozioso alludere ai cellulari e ai social network, che costituiscono i terminali tecnologici di un sistema di relazioni assolutamente nuovo. Ciò che conta e che costituisce spunti di analisi interessanti nella conversazione di Babel è l’insieme delle profonde ricadute che i sempre più veloci cambiamenti a livello planetario impongono sull’economia, sul lavoro, sulla politica, sui modi stessi di pensare e di essere – soprattutto di essere – di noi tutti, cittadini del terzo millennio.

L’accelerazione sempre più intensa delle comunicazioni fisiche – i trasporti – e delle informazioni sta modificando profondamente le coordinate stesse dello spazio e del tempo e della percezione che ciascuno di noi ne ha. E’ come se fossimo “schiacciati” su uno spazio sempre più piccolo e su un tempo sempre più ravvicinato. Il “lontano” non sembra più esistere e il futuro è letteralmente schiacciato su di un presente che sembra ignorare lo stesso passato.

Quando Romolo tracciava il solco a due passi dal Tevere ignorava l’esistenza stessa di un Po e il futuro del suo regno era legato al volo augurale di dodici avvoltoi. Il gruppo degli allevatori e degli agricoltori delle origini della nostra storia viveva e operava nel suo piccolo spazio, e nel tempo si scandivano le regole dei comportamenti che garantivano la coesione e la continuità del gruppo. La trasmissione costante e continua delle leggende – era il ruolo delle mamme e delle nonne – e il culto degli antenati garantivano l’identità e la coesione del gruppo, il suo presente e il suo futuro: un piccolo spazio, ma un tempo estremamente dilatato. Oggi il grande gruppo planetario non conosce più confini e limiti spaziali, ma il tempo si restringe al semplice succedersi delle giornate. Non c’è passato e il futuro è solo quello del giorno dopo. E troppo spesso l’Ecstasy lo suggella per sempre.

E’ una fenomenologia assolutamente nuova e complessa, nella quale e per la quale si allentano anche i vincoli che in genere sono, anzi, erano dati dalla necessità dello “stare” insieme” e insieme garantire la sopravvivenza e il futuro del gruppo.

E le funzioni stesse della comunicazione interpersonale subiscono profonde modifiche. Jakobson ci ha insegnato che le funzioni del comunicare sono sei, che qui non è il caso di ricordare, ma… solo una, purtroppo, è oggi quella dominante, quella fàtica: si ha quando ci si preoccupa soltanto che l’interlocutore ci sia, qualsiasi cosa si dica o si ascolti! L’importante è esserci, inviare e ricevere messaggini a iosa, faccette e altri emoticon, marcare il territorio, possiamo dire. Di qui le centinaia di “amici” sempre nuovi, come scalpi da aggiungere alla propria cintura. Gli oggetti del comunicare diventano sempre più poveri, ma i soggetti che comunicano sul nulla e di nulla sono sempre più numerosi.

In parallelo si va sempre più perdendo la dimensione sociale dello stare insieme e del comunicare; si allenta lo spirito pubblico e si logora la stessa democrazia. Il numero sempre più basso di votanti – fenomeno non solo italiano – è indicativo di un ripiegarsi di ciascuno sul proprio Io. “In questo strappo del patto tra Stato e cittadino c’è una condanna, come se la democrazia fosse una forma temporale della costruzione umana e non riuscisse a governare il nuovo secolo appena incominciato, arenata nel Novecento” (p. 19). Questa instabilità politica e sociale si coniuga con un’altra instabilità, che riguarda il lavoro.

“In passato i lavoratori potevano combattere con un minimo di successo contro gli attacchi dei capitali fissi al loro standard di vita; oggi sono del tutto disarmati di fronte a ‘investitori’ straordinariamente mobili, ondeggianti, capricciosi, inquieti e imprevedibili, continuamente a caccia di più alti profitti e pronti a volare dove la pubblicità fa intravedere fugaci opportunità favorevoli”. Così, assistiamo impotenti a un costante e progressivo logorio dei rapporti sociali e, purtroppo, anche di quelli interpersonali. A valori che si stanno perdendo non corrispondono valori nuovi. E il futuro ci si presenta sempre più liquido, stando all’ultima pubblicazione di Bauman, “Il futuro liquido”, edito da Feltrinelli.

Concludendo, Babel è un libro molto molto amaro: “Viviamo in mare aperto, sotto l’onda continua, senza un punto fermo che misuri il peso e la distanza delle cose” (risvolto di copertina). Forse può fargli da controcanto l’ultimo libro di Edgar Morin, “Insegnare a vivere, manifesto per cambiare l’educazione”, Raffaello Cortina, 2014. Ma in un mondo liquido o che si sta liquefacendo, è possibile un rilancio dell’educazione? Come se questa potesse essere immune dall’assalto della marea liquida? Chissà!

Il volume lascia il lettore abbastanza sconcertato. Possibile che anche la politica sia essa stessa soggetto di liquidità? Le recenti vicende di una Grecia al tappeto in effetti non sono confortanti. Sono un fenomeno a sé, oppure una pericolosa linea di tendenza? Una deriva dalla quale nessuno potrà uscire?

Il libro che ho letto è veramente sconcertante. Le seguenti osservazioni di Ezio Mauro, a mio vedere, costituiscono il senso e il significato dell’intero volume: “Siamo arrivati a Mefistofele: la parola prende completamente il posto del pensiero. In realtà anche la parola viene sempre più spesso ridotta a segno, o almeno a segnale: pensa all’abuso di acronimi. Se ieri il medium era il messaggio, ora il medium può fare a meno del messaggio. I ragazzi si scambiano col cellulare segnali vuoti per salutare, sollecitare, confermare, e l’impulso riassume definitivamente la parola e il vuoto, sostituendoli. D’altra parte, se la tua identità è quella di un punto in una rete e il tuo sistema è fatto a nodi, la questione vitale diventa quella di pulsare, partecipare al grande battito più che al vecchio dibattito, non perdere il ritmo, non uscire dal cerchio. Sentire è necessario più che capire, è una facoltà e non uno sforzo. Al centro della rete – ognuno è al centro e alla periferia del web – io vivo connesso alle emozioni altrui, alle sensazioni degli amici, alle reazioni di sconosciuti, alle informazioni del flusso, alle selezioni prodotte dai social network, alla ‘folla delle impressioni vaganti e volatili’, come dici tu. Io sento, dunque sono. Io sono in rete, dunque sento” (p. 117).

E’ il rovesciamento del “cogito” cartesiano! Dall’affermazione del Sé al suo rovinoso declino…

Donna Tartt, Il cardellino

Donna Tartt, Il cardellino
Rizzoli Vintage

di Mario Coviello

 

tarttLa gente muore, questo è un dato di fatto” dice una madre al figlio, dentro al Metropolitan Museum Of Art “ma il modo in cui perdiamo le cose è insensato e terribile […]. Tutto ciò che sopravvive alla Storia dovrebbe essere considerato un miracolo”. Undici anni dopo Il piccolo amico, Donna Tartt torna con il suo terzo lavoro, Il cardellino, un’opera di 892 pagine, con la storia di Theodore Decker e della detonazione nel museo newyorchese, in cui perde la madre e da cui si salva per caso, per aver seguito i capelli rossi di una ragazza, per noia, per coincidenza. È il caso a essere protagonista di questo romanzo: quello stesso caso per cui anche lei, Pippa, si trova là con l’anziano Welty che, prima di morire, consegna a Theo un anello e il compito di riportarlo al suo socio di affari, l’antiquario Hobart. Prima di uscire dal museo, come richiamato dallo stesso quadro, Il cardellino del titolo, Theo si avvicina alla parete e lo porta via: la tela del 1654 di Carel Fabritius, allievo di Rembrandt, è una delle poche ad essersi salvata dall’esplosione in cui ha trovato la morte, giovanissimo, lo stesso pittore, secoli prima; ancora il caso, le ripetizioni.

“Cosa sarebbe successo se quel particolare cardellino (ed è molto particolare) non fosse mai stato catturato o nato in cattività, esibito in una casa dove il pittore Fabritius potesse vederlo? Non può aver compreso perché sia stato costretto a vivere in una tale tristezza, spaventato dai rumori (così immagino), stressato dal fumo, dai cani che abbaiavano, dagli odori di cucina, importunato dagli ubriachi e dai bambini, impedito a volare dalla più corta delle catene.”

Basta tenerlo tra le mani per cogliere la prima fondamentale componente di questo libro: è una lettura imponente, quasi 900 pagine, che mi ha fatto compagnia nel mio viaggio in Grecia e non poteva avere una cornice migliore. Se a questo aggiungiamo che l’autrice ha impiegato circa dieci anni per scriverlo, così come era successo per i suoi due romanzi precedenti Dio di illusioni e Il piccolo amico, allora si comprende il motivo per cui questo romanzo, Il cardellino, sia nato come un successo annunciato e abbia vinto il premio Pulitzer nel 2014.

Tra le sue pagine scorre la storia della letteratura americana, buona parte della storia dell’arte europea, la frantumazione della società contemporanea e un leggero filo dorato capace di tenere insieme ciascuna di queste grandi tematiche. Come un’ossessione.
Il protagonista della storia è  un adolescente di Manhattan tremendamente intelligente e conseguentemente vessato dai compagni di scuola, molto legato a sua madre, una donna colta e solitaria, e scontroso nei confronti del padre, un ex attore di Broadway, alcolizzato e assente.

Seguiremo Theo durante i primi mesi a New York, solo senza famiglia, ospite nella ricca casa di un suo compagno di scuola, e poi lo ritroveremo quasi catapultato in una realtà a lui completamente avulsa, a Las Vegas, insieme a suo padre, o a quel che ne resta, e alla sua nuova compagna, Xandra, barista al Casinò, spacciatrice di coca e anfetamine. È nelle strade deserte di Las Vegas che il romanzo di formazione che abbiamo letto nella prima parte, ambientato tra Park Avenue e Down Town, si trasforma in un romanzo on the road della Beat Generation. Tra sbronze, fughe, furti, sballo e stordimenti, Theo conoscerà uno dei suoi più grandi amici, Boris, in parte russo in parte polacco, cosmopolita, figlio di un minatore, che gli farà scoprire il lato più oscuro della vita e di se stesso.
Sarà ancora una volta a causa un incidente che Theo, dopo due anni, ormai quindicenne, tornerà a New York e andrà a bussare ancora una volta alla porta del suo amico Hobie, il gigante buono, l’antiquario del Village, da cui era già stato salvato una volta, subito dopo l’esplosione. Il legame tra Hobie, Il cardellino e Theo lo scoprirete immergendovi nella lettura di questo intrigante romanzo. Un libro che si legge ossessivamente fino alle ultime pagine in cui, in una Amsterdam decadente, l’azione e il thriller prendono il posto del racconto di formazione. Un romanzo poderoso, complesso, scritto magistralmente e capace di trasformarsi sotto i nostri occhi, proprio come un capolavoro dell’arte fiamminga che rivela parti di sé in base al punto di osservazione. La voce narrante di questo libro seduce, ci commuove e ci ferisce, è una di quelle voci che continuerà a parlarci anche dopo che avremo letto l’ultima pagina. Perché da un luogo all’altro Theo si porta addosso la stessa condanna, quel rumore sordo della solitudine che si può solo attutire, per un po’, con la sostanza giusta.

Inno all’America e inno a New York, città mondo bellissima e crudele, piena di segreti come in Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick, Il cardellino è un catalogo delle paure e dei traumi dell’Occidente post 11 settembre. E una preghiera sul potere che ha l’arte. Non certo di salvarci, ma di rendere più lieve il nostro passaggio su questa Terra.

La vicenda di Theo è una discesa agli inferi a cui fino alla fine speriamo tenacemente corrisponda una risalita ma ciò che è certo è il peso del passato e il senso di colpa che condiziona tutta la sua vita di adolescente e poi di uomo. È l’incapacità di accettare la perdita e superare un trauma così terribile e l’attentato terroristico, con quel boato che non smette mai di risuonare nella mente dei sopravvissuti, è raccontato in pagine così riccamente dettagliate da richiamare immediatamente quelle immagini tristemente note; è la perdita dell’innocenza, è distruzione che spezza quel legame e quella vita che ancora sembrava possibile.

E il senso di colpa – per la morte della madre, per il furto del dipinto, per le truffe- è il veleno che rovina l’esistenza di Theo. Anche l’amicizia, imperfetta e complicata, è un filo sottilissimo che tiene Theo alla vita, lo strappa alla solitudine pur non riuscendo a colmare la profonda infelicità che lo opprime. Boris è l’unico vero amico di Theo, con lui litiga furiosamente, prova ogni tipo di droga, si azzuffa e si confida, in un rapporto sempre in bilico tra amicizia e amore. Complicato, il confine tra giusto e sbagliato incerto e mobile, innocente e corrotto allo stesso tempo, Boris rappresenta uno dei rapporti più solidi di Theo e un appiglio alla vita.

È, dunque, un romanzo sull’amicizia. Ma è anche un romanzo sulla libertà, sulla solitudine, sul senso della vita. Sulla possibilità di scegliere tra il bene e il male, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Ma anche e soprattutto, si tratta di un romanzo sull’amore. Non solo amore nei confronti di qualcuno. Ma amore come ossessione per un’opera d’arte e in particolare per Il cardellino.

Vi consiglio questo libro perché penso che affezionarsi ai personaggi, giustificarli anche nei momenti peggiori delle loro esperienze, amarli in qualsiasi punto della storia, debba essere una delle prerogative di un buon romanzo.

Z. Bauman – E. Mauro, Babel

La Crisi delle “esauste democrazie” occidentali secondo Bauman

di Luigi Manfrecola

 

babelRitengo estremamente interessante il contributo di riflessione sullo stato di salute delle democrazie occidentali recato al dibattito da parte del solito Bauman, che ha peraltro trovato un puntuale interlocutore in Ezio Mauro, sviluppando una suggestiva disamina della tematica in questione nel Testo “BABEL” – Ed. Laterza.

Voglio riferirne qui in rapida sintesi per sottolineare l’acutezza dell’analisi, pur non evitando di manifestare qualche mia perplessità (segnalata dai punti di domanda) , facendo posto a qualche osservazione finale.

 

 

Interconnessione , Predomino della Finanza e Crisi di governance degli Stati Territoriali

In premessa va osservato che Bauman concorda con Hobbes nel ritenere che ogni Governo dovrebbe disporre della forza necessaria a garantire la sicurezza dei cittadini : una sicurezza che va pagata con la corrispettiva perdita di una certa percentuale di libertà. Ebbene, oggi un tale sacrificio appare mal compensato.

In effetti i Governi non solo non sanno rispondere più alla loro funzione di tutela ma si fanno essi stessi origine e causa dell’ insicurezza globale e rappresentano perfino una minaccia per le rispettive comunità. Non possono e non vogliono arginare la Crisi che sta travolgendo tutta l’impalcatura dell’Occidente : materiale, istituzionale , intellettuale. La democrazia è “esausta” e non basta più a se stessa poiché è messa sotto attacco, con la sconfitta di quel pensiero lungo ed organizzato che l’aveva sorretta e che si va sciogliendo anch’esso nell’attuale “mondo liquido” .

La mutazione è partita nel territorio dell’economia finanziaria, per estendersi poi all’ambito dell’industria e quindi del lavoro, fino a divenire una dinamica sociale e politica. “IL DISORDINE ECONOMICO- FINANZIARIO ha potuto allargarsi a dismisura poiché ha trovato aperti i cancelli della democrazia (?) e si è insinuato comodamente nella debolezza del sistema democratico come ruggine” (E.M.). L’economia finanziaria si è insomma dimostrata una variabile indipendente dal potere politico . Di conseguenza, oggi siamo nell’era della “post-democrazia” originata dall’incontrollabilità di un mondo che vive di interconnessioni globali , tali da scavalcare le possibilità di controllo dei vecchi Stati territoriali nazionali. Quegli Stati “giardinieri” che avevano segnato il felice passaggio dai vecchi Stati monarchici pre-moderni (paragonati a dei “dentisti”, solo pronti ad estorcere risorse dal popolo) agli Stati moderni , capaci invece di raccogliere e di distribuire le risorse a beneficio delle comunità. Ebbene, questi Stati moderni sono ormai impotenti e si dimostrano cattivi conduttori della volontà generale alla quale non sanno più rispondere, anche e soprattutto perché alla lunga, nei sistemi democratici, finisce col prevalere la ferrea “legge dell’oligarchia”, generata dalla mancata partecipazione e dalla distanza che viene a porsi fra eletti ed elettori. In questa “fase di INTERREGNO”(?) e di decadenza che vede la Crisi della Governance, il popolo giustamente si contorce in forme di sterile ribellismo mentre aumenta la distanza fra gli elettori e i loro rappresentanti . Dominano perciò le forme di “neo-populismo” (?), segnate dalla relazione fideistica fra leader e masse, mentre il consenso è banalizzato in “audience” ed il comizio diviene uno show… L’interconnessione globale ha frantumato l’indipendenza dello Stato-Nazione che aveva garantito la libertà dei popoli e viviamo in un mondo che vede il tramonto della cittadinanza solidale, delle Comunità di Vicinato, dell’artigianato.

Vanno dunque indagate le cause storiche d’una tale trasformazione.

 

Il Vecchio Capitalismo

Tali cause, secondo Ezio Mauro, vanno ricondotte alla trasformazione subita dal primo capitalismo moderno che aveva generato benessere collettivo fino a quando era stato interpretato da una classe di artigiani trasformatisi nei primi imprenditori: un capitalismo che si alimentava della “cultura del dare” e non perdeva i legami con la comunità di appartenenza. Era l’epoca in cui le mamme ancora seguivano i figli in azienda e le famiglie si conservavano compatte nei ruoli di sostegno ed ausilio. Proprio la fabbrica e la famiglia rappresentavano, dunque, il tessuto d’una società solidale. Anche secondo Bauman la trasformazione indotta dalla “cultura aziendale del management ha ,però, presto soffocato la fiamma della cooperazione col fumo tossico della competizione”. Ha introdotto la “cultura del prendere” al posto della precedente propensione a dare ed a condividere . Oggi, nell’epoca del Capitalismo finanziario, la società è ridotta ad una “società di consumatori” individualisti. Non abbiamo nemmeno più una vita pubblica che viene sterilmente ridotta ad un gossip incentrato su frammenti di vita spiati dal buco della serratura. La Politica è anch’essa ridotta ad uno show e il cittadino è trasformato in un semplice spettatore.

Ebbene, secondo Ezio Mauro, in un tale scenario il MUTATO RAPPORTO FRA L’UOMO ED IL LAVORO costituirebbe, il tratto distintivo della crisi epocale vissuta dall’Occidente.

 

Il mutato rapporto uomo – lavoro

Riprendendo l’analisi di Rifkin, l’editorialista osserva perfino che già si potrebbero intravvedere le prime avvisaglie d’un mondo “senza lavoro” a causa della SOSTITUZIONE TECNOLOGICA nel settore manifatturiero, con la definitiva rottura del legame fra produttività e occupazione (?). Dunque, come affermato da alcuni ,”se il capitalismo globale vale a dissolvere il nucleo dei valori della società del lavoro, si rompe un’alleanza storica tra capitalismo, Stato sociale e democrazia” poiché, fino ad oggi, il “cittadino doveva guadagnare denaro principalmente per sostenere i suoi diritti politici di libertà”. Si perde, insomma, la storia novecentesca del lavoro come fabbrica di solidarietà e come luogo privilegiato della capacità di passare dagli interessi privati alle questioni pubbliche e viceversa.(?)

Dissentendo da tale impostazione, Bauman non attribuisce solo alle dinamiche della trasformazione produttiva tale situazione. Riprendendo il pensiero di Habermas osserva invece che sono state direttamente LE ISTITUZIONI DEMOCRATICHE a perdere interesse per la gestione di un lavoro che per secoli era stato concepito come un preciso diritto-dovere. In effetti, lo Stato capitalista era venuto molto presto meno a quella sua doverosa funzione di assicurare l’equilibrio e la regolarità nell’ acquisto/vendita fra capitale e lavoro; situazione che solo inizialmente aveva indotto il capitale a pagare un prezzo equo al lavoro , comprendendosi che questo valeva di per sé molto più del capitale impiegato, al punto da essere parzialmente ricompensato – ad integrazione – mediante diritti e prestazioni sociali costituenti il cosiddetto WELFARE. Il compito primario per lo Stato di garantire l’incontro regolare fra capitale e lavoro aveva insomma indotto a ridistribuire le risorse all’interno d’una società che era e restava una società di “produttori”. Mutatasi tale società in una diversa Società di “consumatori”, lo Stato ha poi acquisito l’abitudine a non interpellare più il cittadino, badando alla collettività, ma piuttosto ha fatto principale riferimento al consumatore individualista, lavandosi le mani delle sue responsabilità (?????), unicamente preoccupandosi di garantire l’incontro fra merci e clienti (pag.17).

 

Una Società di consumatori individualisti?

Alla prova dei fatti è stata così sconfessata la tesi di Parsons secondo cui la società vive mantenendo in un suo spontaneo equilibrio interno le varie funzioni . Viceversa, s’è reso evidente che ciascuna Società è un “processo” in dinamica trasformazione e non una struttura omeostatica. La trasformazione subita è visibile nel passaggio da una economia “timotica” ad un’economia “erotica”. La prima era dominata dal timore di non essere apprezzati dagli altri ed induceva ciascuno a rendersi visibile col donarsi e col “dare” agli altri (spinta etica). La seconda ed attuale (economia erotica) è mossa dal desiderio, dalla sensazione di mancanza, dal bisogno di prendere e di possedere. L’attuale società civile propende verso questa seconda dimensione verso la quale viene anche artatamente spinta con la creazione di sempre nuovi e falsi bisogni. Secondo Bauman «Oggi, l’individuo è prima di tutto un consumatore e poi un cittadino».

Fortunatamente però, non mancano studi recenti che dimostrano crescere nel corpo sociale uno spirito comunitario forte, la voglia di dare e di darsi (come appare, ad esempio, dal diffondersi del volontariato- n.d.r.) e si può dire ,con Brower, che «sotto un sottile strato di consumismo giace un Oceano di generosità». Il problema è che un tale atteggiamento non trova un suo prolungamento nella Politica. Su queste premesse Bauman conclude queste prime sue riflessioni riportando un quesito d’un certo Coetzee che si chiede «perché mai la vita debba essere paragonata ad una corsa e perché mai le economie nazionali debbano competere una contro l’altra piuttosto che dedicarsi, insieme, ad una salutare ed amichevole corsetta…»

 

Interrogativi e perplessità

Conclusivamente riprendendo alcune delle idee espresse, non mancano tuttavia delle perplessità.

  • Che senso ha parlare di “Interregno”, quasi a voler prefigurare uno sviluppo futuro della disastrosa situazione sociale, quando è questione, viceversa, di saper recuperare l’antico primato della Politica su un’Economia snaturata, distorta e oltraggiosa.

  • Come è possibile definire “neo-populismo” il richiamo legittimo e doveroso rivolto agli attuali Governi servili affinché perseguano il reale benessere dei cittadini?

  • Chi è stato ad aprire i cancelli della democrazia allo strapotere finanziario, se non qualche idiota incapace di interpretare e di volere il bene collettivo, magari innamoratosi dei salotti buoni e del proprio personale e privatissimo benessere?

  • Il lavoro si traduce, sempre e comunque in un “servizio”, qualunque ne sia la natura, prestato per la comunità di appartenenza. Pertanto l’automazione tecnologica non può che riguardare solo alcune prestazioni, lasciando campo libero alle mille altre forme d’impegno che è possibile spendere per il benessere comune. L’idea espressa nel libro intende, viceversa, il lavoro in un’accezione produttiva limitatamente materiale e costruttiva, com’è tipico della cultura mercificata che sta imperando. Si può invece rendere un servizio alla comunità in mille modi diversi : a livello artistico, culturale, sanitario, di accudienza, di custodia, di tutela …in mille forme differenti, dirottando in quei campi d’impegno le risorse eccedenti che siano state liberate dallo sforzo meccanico o routinario.

In tal senso occupazione e produttività possono comunque e sempre coesistere.

  • Non s’intende, e spiace per Bauman, come possa uno Stato limitarsi a blandire il semplice individuo consumatore . Forse qui il sociologo ha confuso, magari per il caldo eccessivo, l’Azienda e il Mercato per quello che lo Stato è e deve essere, anche e soprattutto in democrazia. Né vale la tesi della distanza fra eletti ed elettori. Un’Oligarchia, comunque costituitasi, non può essere identificata con le Istituzioni democratiche.

  • Malgrado il riferimento a Platone, convince poco anche la distinzione artificiosa fra economia erotica e timotica, fermo restando che ci trova perfettamente d’accordo l’analisi di Bauman sull’ attuale Società di passivi consumatori, plagiati , eterodiretti , smarriti nella precarietà d’un mondo instabile, liquido ed informe.

E si tratta di un mondo liquido, dalle acque agitate solo dai capricci di pochi stolti, di imbecilli avidi che amano solcare questi mari a bordo di yacht osceni, senza mai essersi bagnati nemmeno una volta e senza nemmeno considerare che anche loro varcheranno, alla fine, le Colonne d’Ercole con l’ultimo salto nel vuoto!!!

K. Vonnegut, Un uomo senza patria

Contro la fine del mondo

di Antonio Stanca

vonnegutUna raccolta di brevi saggi dell’americano Kurt Vonnegut, Un uomo senza patria, è uscita a Ottobre del 2014 per conto della casa editrice Minimum Fax di Roma. La traduzione è di Martina Testa. Il Vonnegut la pubblicò nel 2005 quando aveva ottantatré anni e dopo essersi impegnato in una vasta e varia produzione di romanzi, racconti, saggi e opere teatrali. Era nato a Indianapolis nel 1922 e sarebbe morto a New York nel 2007 a ottantacinque anni. Molte esperienze aveva vissuto prima di dedicarsi all’attività letteraria: lasciata l’Università nel 1943 si era arruolato nell’esercito alleato durante la Seconda Guerra Mondiale, nel 1945 era in Germania, a Dresda, rifugiato insieme ad altri prigionieri in una grotta mentre la città veniva bombardata e distrutta dall’aviazione alleata, tornato negli Stati Uniti aveva ripreso gli studi universitari e svolto il lavoro di cronista, poi di pubblicitario ed infine di autore di racconti. Durante questi anni risiede prima a Chicago e in seguito a Barnstable. Nel 1952 pubblica il primo romanzo, Piano meccanico, nel 1959 il secondo, Le sirene di Titano, entrambi di genere fantascientifico anche se nel secondo la fantascienza tende a cedere il posto a contenuti diversi. Dagli anni ’60 agli anni ’70 Vonnegut scrive i romanzi che lo renderanno celebre e faranno di lui uno dei maggiori scrittori americani contemporanei. Quello che ancora oggi è considerato il suo capolavoro è Mattatoio n.5 o la crociata dei bambini pubblicato nel 1969 e nel quale rievoca la drammatica esperienza vissuta a Dresda durante i giorni del bombardamento. In questo e negli altri romanzi di tale periodo lo scrittore non fa più fantascienza e si mostra impegnato in narrazioni che intendono criticare i tempi moderni poiché ritenuti responsabili dei gravi problemi che hanno investito l’umanità e le hanno fatto perdere la sua dimensione naturale. Semplice, chiaro è il linguaggio, lo stile di queste opere. La scrittura s’identifica con la semplicità, con la spontaneità degli argomenti, li fa giungere facilmente a chi legge. Quelle di un amico sembrano le parole dello scrittore e l’umorismo che spesso le accompagna rientra perfettamente nel tipo di discorso che può avvenire tra chi si conosce. A questa dimensione familiare riduce Vonnegut i grossi problemi che affronta e che sono quelli derivati all’individuo, alla sua anima, alla sua vita, alla sua società, alla sua storia dai moderni, inarrestabili processi di industrializzazione, meccanizzazione, dai nuovi costumi, dai nuovi modi di essere, di stare. Partecipi di questi problemi vorrebbe rendere lo scrittore quante più persone possibili, un discorso che coinvolgesse tutti vorrebbe essere il suo. Da qui la semplicità e l’umorismo, le maniere, cioè, che dovrebbero permettere alla sua scrittura di arrivare ovunque.

Come nei romanzi e nei racconti anche nei saggi Vonnegut è facile e divertente, anche qui continua a voler essere un buon amico, a fare satira, polemica contro quanto ha sostituito nell’uomo moderno i bisogni dello spirito con quelli della materia, contro ciò che ha fatto della Terra un pianeta invaso da una tecnologia sempre più diffusa e sempre più pericolosa per l’ambiente, la sua aria, le sue acque, la sua fauna, la sua flora, contro la sete di dominio che si è scatenata tra gli Stati più potenti e che li porta a scontrarsi in continuazione anche se non direttamente, a fare della guerra, della morte uno degli aspetti della modernità, contro la costruzione di arsenali militari nonché di armi atomiche al fine di farsi temere, di creare continue situazioni di allarme, contro tutto ciò che sta portando all’abuso, alla dissipazione, all’esaurimento delle risorse contenute dalla Terra per scopi completamente diversi da quelli del bene pubblico e soprattutto contro l’assurdo comportamento che fa continuare in tali operazioni pur essendo consapevoli dei pericoli che comportano, pur avendone le prove, pur ritenendole la causa della tanto temuta desertificazione del pianeta o fine del mondo.

Nei saggi della raccolta Un uomo senza patria ritornano questi temi, ritorna lo stile ironico, polemico dello scrittore arricchito stavolta da disegni, uno per ogni saggio, quasi si volesse raffigurare il significato dello scritto. Vignette le si potrebbe definire anche perché risentono del diffuso umorismo. I saggi sono osservazioni, riflessioni fatte in prima persona, polemiche, denunce che il Vonnegut muove agli eventi, ai fenomeni, alle Nazioni, alla loro politica, alla loro economia, a tutto ciò che vede all’origine della grave crisi nella quale è precipitata l’umanità dei nostri tempi. La sua America, l’imperialismo americano sono i bersagli preferiti dal Vonnegut poiché è convinto che le forze maggiori abbiano comportato i maggiori danni.

Non c’è un posto, non c’è una “patria” dove l’”uomo” possa sentirsi sicuro di poter continuare a vivere, “senza patria” egli è rimasto poiché tutto è stato guastato, ovunque sono giunti i nuovi modi, dappertutto si è perso quanto di semplice, di naturale faceva parte dell’uomo, della sua vita. Una distruzione totale è quella che Vonnegut è costretto a constatare e niente vale appellarsi a quanto ha fatto parte dell’umanità, del suo patrimonio culturale. Molti sono nel libro i riferimenti a personaggi illustri, molte le citazioni di opere fondamentali ma servono soltanto a procurare altro rammarico, a farsi accorgere della loro inutilità.

Addolorato si mostra lo scrittore nelle ultime pagine di fronte a quanto è successo e sta succedendo, deluso nel dover riconoscere che tutto il suo impegno nella vita e nell’opera non è servito, sconfitto insieme a quell’umanità che tanto aveva amato.

W. Siti, Resistere non serve a niente

“Resistere non serve a niente” di Walter Siti,
Rizzoli 2013

di Mario Coviello

 

sitiIn questo luglio infuocato, trovate un posto all’ombra ed immergetevi nella lettura di questo romanzo saggio che ha vinto nel 2013 il premio Strega. La storia racconta di Tommaso Aricò, personaggio dal nome pasoliniano. Tommaso è il nome del protagonista di Una vita violenta. In quel caso si tratta di un sottoproletario, qui di un miliardario, che viene dalle borgate e da una storia umile e amara. Walter Siti, che è conosciuto come uno dei principali “esperti” di Pier Paolo Pasolini, non poteva non portare in questa sua fatica il suo autore più amato. Nel romanzo emerge subito il contrasto tra la concretezza del corpo del protagonista, ex obeso che da piccolo parlava con le proprie feci, («il suo corpo esisteva, non era solo un’idea» pag.64) e la finanza intangibile. Di finanza si occupa Tommaso da grande, i soldi hanno preso il posto del cibo, anche se il bello è non usarli. La vita di Tommaso è la grande metafora dei nostri tempi che viene raccontata da Siti con una piacevole, caustica brillantezza di linguaggio. L’autore sceglie la finzione per indagare la “zona grigia” tra l’alta finanza e la criminalità. Un mondo più che mai reale che viene raccontato attraverso personaggi a tutto tondo, che si muovono come pedine intelligenti sulla scacchiera della politica corrotta e dell’economia internazionale, incarnazione di una società che versa in uno stato di completo deterioramento morale, in cui “opprimere è un piacere, essere primi un imperativo e il possesso è l’unica misura del valore.”

Il romanzo si apre con l’agghiacciante scena di un’ esecuzione di stampo mafioso e con un breve intervento-saggio sul divario tra prostituzione reale e prostituzione percepita nella nostra società. Il lettore viene immediatamente trascinato dentro un mondo dominato da logiche alternative a quelle condivise, nel quale “la fluidità di mercato equipara il corpo a una cedola” e il denaro non è altro che un “necessario passaggio intermedio per una transazione psicologica” attraverso la quale l’escort fa sentire l’uomo padrone, mentre lui la fa sentire libera di usare il proprio corpo come vuole. Si impara, così, a familiarizzare con Tommaso, matematico mancato e oggi broker affermato che tenta con donne, lusso, appartamenti e viaggi di coprire quel senso di inadeguatezza che il suo passato gli ha lasciato in eredità: l’adolescenza vissuta alla periferia del sistema, l’eterna lotta contro la “crudeltà cannibale degli specchi”, un padre di cui deve nascondere l’identità e la storia. Uomo-elefante, uomo-cicatrice che cerca di salvarsi con la leggerezza della sua materia grigia, Tommaso accetta di raccontarsi sul teatro del romanzo, un po’ per vanità un po’ per bisogno di un esame di coscienza “egoistico, affannoso perché in ritardo.” La definizione del personaggio va di pari passo con il racconto della sua storia e con la descrizione del sistema marcio in cui si muove: creatura d’autore, scopre se stesso con la fabulazione e arriva a chiedere allo scrittore “ Devi dirmelo tu chi sono”.La struttura narrativa è complessa, multi-livello: da un lato l’autore fa agire e parlare i personaggi, dall’altro interviene – figura tra le altre – a muovere le fila di un discorso articolato. Come Svevo con il suo Zeno, Siti sa che i suoi personaggi sono bugiardi e spesso omettono le proprie ragioni vergognandosene, e allora racchiude in note il proprio pensiero su di loro, postille di un giudizio che – nonostante tutto – non appare mai insindacabile. Si addentra in un mondo che va osservato senza smettere mai di problematizzare perché i valori assoluti sono definitivamente caduti e la distinzione tra bene e male è quanto mai labile. Ma in fondo i due grandi attori del romanzo sono “utili” l’uno per l’altro: Tommaso racconta i propri tormenti perché “delle ossessioni bisogna toccare il fondo.. e poi risalire a piedi”, Walter dichiara di averlo usato come “stuntman, quello che esegue le scene pericolose”. Si è servito di Tommaso e dei suoi amici/nemici per raccontare il tema che da sempre cattura i lettori: la fascinazione del male. Tommaso, sembra trovarsi di fronte una summa di vite che si scontrano con gli eventi attuali: è una figura complessa: «Come nei romanzi settecenteschi, il mio protagonista-racconta Siti in una intervista- è uno “spostato” socialmente che attraversa la società a lui contemporanea, dandoci l’occasione di vederla nei suoi diversi strati. Portando però con sé uno stigma originario che è la bulimia, trasposta dal fisico allo spirituale. Tommaso a forza di desiderare tutto,finisce per desiderare l’infamia.”

Il problema è che oggi viviamo in una situazione sociale in cui una partita a poker tra amici è illegale, da considerarsi un vero e proprio crimine; al contrario sale scommesse, poker on line ecc. dove gente comune si gioca il proprio stipendio nell’arco di un paio di giorni, sono legali perché gli organi governativi arrivano a riscuotere, in alcuni casi, anche l’85% delle giocate. «Legalità è un concetto legato alla convivenza e all’autorità – è ancora Siti che parla in una intervista sul suo romanzo- spesso l’eccesso di leggi, magari contraddittorie, mostra la crisi dell’autorità e favorisce l’infrazione; molte operazioni finanziarie in grande stile giocano sulle diversità di legislazione tra i vari Stati: in nessuno di essi sono strettamente illegali, ma sarebbero illegali se le considerassimo nel loro complesso. Se sia lecito ribellarsi a leggi ingiuste è un problema che ha duemila anni di storia; dotarsi di un sistema semplice e ordinato di leggi preserverebbe la comunità dalla falsa idea che l’illegalità possa essere una scorciatoia necessaria».

Siti ha uno stile dissacrante e veloce che riesce perfettamente nell’intento di evidenziare i dislivelli sociali e a mettere in mostra un’elite schifosamente oligarchica che impera con cattivo gusto sulle spalle del popolino. Di noi che ancora adottiamo la pratica di contare i soldi che abbiamo in tasca, che tentiamo di non comprare i sentimenti con gli assegni e che tentiamo di dare un senso al nostro agire, tenendo sempre a mente che, anche senza yacht a Porto Cervo, e forse grazie a questa mancanza, un sorriso di serenità riusciremo sempre a concedercelo.

Un senso di fastidio, di disperazione ci avvolge nel leggere quelle pagine, nel rendersi conto di quanto sia reale quel mondo e seppur così lontano dal nostro quotidiano, quanto condizioni ogni nostra azione per renderci schiavi di un padrone invisibile, servi inconsapevoli di colonne colorate negli schermi di un computer.
Un romanzo non solo bello, ma anche importante per capire, con il filtro della finzione, il mondo che ci circonda, il sovvertimento dei valori e allo stesso tempo il bisogno di ridefinirli per poterli vivere. Mentre si leggono le pagien di “Resistere non serve a niente “, oltre a sentirsi minuscoli come formiche, pedine al servizio di altri, non ci si può non interrogare su ciò che facciamo ogni giorno, di come nel nostro piccolo ci comportiamo e chiedersi cosa faremmo se all’improvviso ci trovassimo in quel mondo, quanto la nostra moralità sarebbe forte e quanto non si farebbe seppellire dalla ricchezza prima e dal potere che quella ricchezza compra poi.
Questo romanzo agisce a tantissimi livelli, pone un’infinità di dubbi, si entra nelle pagine sicuri di noi stessi e se ne esce un po’ meno forti, un po’ più dubbiosi, ma di sicuro arricchiti di un’opera che lascia il segno nella letteratura contemporanea. E la grandezza del libro sta nel fatto che lo fa con la letteratura che è rimasta forse “l’unico guardiano che non si lascia corrompere”.

Resistere non serve a niente, «Il titolo è interno alla storia, è adeguato (spero) alla storia che racconto,- è Siti che parla- non ha nessuna pretesa prescrittiva…. È ovvio che resistere serve molte volte, bisogna vedere a che cosa si resiste; la cosa a cui oggi principalmente mi pare che si debba resistere è alle interpretazioni superficiali e consolatorie del mondo».
Ma c’è un passaggio in cui sembra che il senso di questa frase sia da attribuire al contesto economico e finanziario che controlla le nazioni, causa la crisi e continua a dominare anche dopo: «c’è chi teme che, come nel secolo breve, la recessione conduca alla violenza e alle guerre mondiali; ma al tempo delle rivoluzioni russa e fascista l’età media era la metà di oggi e il sangue ribolliva il doppio. Ormai le masse sono atomizzate e disperse, i ragazzi che saccheggiano i negozi rubano gli i Pad e si contemplano compiaciuti in differita; gli striscioni nelle manifestazioni degli indignados dicono “dividiamo la grana”. Nessuno vuole davvero rinunciare al potere salvifico del consumo, le vittime sono invidiose dei carnefici ed è facile ingannarle con l’elemosina di un simulacro anche miserabile» (pag.282).

Jurgen Habermas: la ritrovata tracotanza germanica nell’analisi critica del filosofo

Jurgen Habermas: la ritrovata tracotanza germanica nell’analisi critica del filosofo

di Luigi Manfrecola

HabermasHABERMAS è certamente uno dei più grandi filosofi viventi, in una certa misura legato alla cosiddetta Scuola di Francoforte resa celebre dalle aspre denunzie da essa sviluppate fin dagli anni ’30 nei confronti di quella società mercificata, inautentica, eterodiretta che si andava già allora timidamente delineando.

Erano in essa rintracciabili i prevalenti filoni critici di quella ricerca sociologica che trovò spazi fecondi di riflessione anche nella lezione di Freud e nelle teorie marxiste .

I nomi di Marcuse, Adorno, Fromm sono ancora ben noti ai giovani del ’68 , quelli tuttora sopravvissuti e portatori di quella cultura contestatrice e movimentista che segnò gli anni ’70 in Europa ed in America.

La critica che venne rivolta , all’epoca, al potere costituito ed asservito alle logiche di un efficientismo senz’anima, denunziava l’ alienazione di un uomo diserotizzato ed incapace di vivere in maniera autentica, rasserenata e fraternamente protesa all’incontro con l’altro.

Alla cultura dell’Avere, portatrice di conflittuali avidità , andava sostituita una Società dell’Essere, capace di rintracciare una dimensione compiutamente umana di realizzazione intima e piena (Fromm).

Con sguardo retrospettivo ci è possibile intravvedere oggi, in quelle analisi ed in quelle antiche denunzie un puntale presagio di ciò che sarebbe avvenuto, di quello che oggi viviamo in termini culturali ed economici di espropriazione delle nostre individualità critiche e dei nostri diritti civili e sociali.

Il Villaggio globale, i mass media, la droga di un consumismo omologante e di un esibizionismo disperato, ricercato come segno di distinzione e di fuga da un anonimato impotente e mortificante -sconsolati connotati dei nostri tempi inquieti- erano già presenti nell’epoca dell’incalzante sviluppo tecnologico ed industriale, prima ancora che il capitalismo fuori controllo generasse quei guasti che oggi viviamo sulla nostra pelle.

Le oligarchie politiche ancora non erano state sostituite e mortificate dalle odierne oligarchie economiche che dettano politiche e pseudo-valori agli odierni governi fantoccio .

Occorreva , dunque, che la cultura ufficiale demolisse quei soprassalti di coscienza critica e solidaristica che si andavano affermando in quegli anni – anni di fiori e di piombo – ed è ciò che è stato fatto da una genìa di pseudo-intellettuali affascinati da quel binomio di denaro-potere che sembrava offrirsi loro in forme sempre più accessibili e remunerative.

Le accresciute occasioni di dibattito e la disponibilità di un palcoscenico mondiale che potesse dare gloria, prestigio, potere a buon mercato hanno consentito di far convergere mille addomesticate voci nelle forme comode d’un coro idiota; un coro che ha giocato la carta d’uno scetticismo erudito, d’un relativismo snobistico che si ammantasse d’un tronfio e finto progresso culturale.

Si è dichiarata guerra ad ogni antica certezza, si sono bollati i VALORI che trovavano la loro radice e ragion d’essere nelle praterie più antiche e profonde dell’essere umano, si è irriso ad ogni etica e ad ogni religiosità, si sono ripudiati i padri – da Socrate fino a Platone, da Cartesio fino a Kant, da Budda fino a Cristo- e si è data voce all’ERMENEUTICA; si sono eretti altari e consumati sacrifici a Giano bifronte, s’è contestata l’idea stessa di una Verità possibile e s’è bestemmiata e bollata come forma di vuota ideologia ogni fede, ogni evidenza, ogni valore.

Così un certo Signor Lyotard s’è inventato, con un termine nuovo, il POST-MODERNO e la finta cultura che l’accompagnava , ha contestato ogni residuo simulacro del passato in nome di un totale RELATIVISMO E SCETTICISMO che pretendeva e pretende di attribuire legittimità ad ogni opinione, in una prospettiva individualistica che inquadra ogni realtà non più in forme prefigurate e stabili , ma come semplici percezioni soggettive.

Tutto diviene ed è soltanto ed unicamente “fenomeno” (quasi riprendendo l’antico “esse est percipi”) e, come tale, può dar luogo a mille e più interpretazioni. Su tale troncone si è andato poi sviluppando il filone di quel “pensiero sistemico” che, riconoscendo le mille connessioni che legano la realtà e le mille possibili prospettive di analisi, giunge a conclusioni non molto dissimili, contestando anch’esso la possibilità d’una visione univoca e certa.

E’ in questa desolante prospettiva che va inquadrata la testimonianza e le ricerca di HABERMAS, uno dei pochi a levarsi CONTRO IL RELATIVISMO CULTURALE ODIERNO contestando alla radice la pretesa post- modernista e smentendo Lyotard stesso per riaffermare la necessità d’un recupero delle certezze e delle verità; sostenendo che proprio la verità/certezza è la premessa necessaria e connaturata ad ogni incontro/ colloquio fra gli uomini che NELL’AGIRE COMUNICATIVO trovano intesa e corrispondenza.

Ed è evidente che tale prospettiva conduce verso una dimensione solidaristica che recupera il valore del dialogo, dell’autenticità, dell’umanità, della dimensione dell’ESSERE per rifondare un “lifeworld” -un mondo delle vita rasserenato ed intimistico- da opporre al “sistemworld”, mondo dell’efficienza, dell’alienazione della performance…cioè quel mondo che oggi siamo indotti a frequentare e a vivere , da automi devoti al profitto ed al materialismo più bieco.

E’ dunque questo l’Habermas di cui stiamo parlando, il filosofo tedesco che non ha esitazioni a denunziare la tracotanza, la meschinità e la miopia del suo stesso popolo, sostenendo che l’attuale politica finto-europeistica praticata dalla Merkel e da Schaeuble smentisce quei buoni propositi e quella voglia di emendarsi che la Germania aveva voluto e saputo dimostrare dopo la vergognosa e colpevole ecatombe scatenata col conflitto mondiale.

Come a dire che il lupo perde il pelo ma non il vizio; come a dire che ancora una volta l’ottusa stupidità tedesca e la sua pretesa ansia di superiorità ha scatenato una terza guerra totale contro i più deboli, vittime incolpevoli di non condividere quella mentalità rigorista e sacrificale che si è voluto imporre alla Grecia e agli altri popoli mediterranei in difesa degli interessi nazionalistici di un rapace Gotha finanziario, senz’anima e senza alibi per un’avidità che non ha senso né alcuna ragione d’essere.

Ciò premesso, basterà lasciare la parola al filosofo stesso il quale,a proposito della Crisi in atto, nell’intervista rilasciata a Repubblica (19/07/2015) , fra l’altro « ha lanciato un veemente attacco alla cancelliera Angela Merkel, accusandola di essersi giocata con la linea dura tenuta nei confronti della Grecia, tutti gli sforzi compiuti dalle precedenti generazioni tedesche per ricostruire la reputazione della Germania nel dopoguerra, compiendo un “atto di punizione” contro il Governo di sinistra guidato da Tsipras.
Fra l’altro, osservando che “questa esautorazione tecnocratica della democrazia è il risultato di un modello neoliberista di politiche di deregolamentazione dei mercati. L’equilibrio tra politica e mercato è andato fuori sincrono, a spese dello Stato Sociale”.

Ogni ulteriore commento è superfluo , come superfluo riuscirebbe ogni tentativo di acculturare quelli che si vanno dimostrando geneticamente degli analfabeti a livello morale, affettivo ed etico; esseri devoti unicamente al paradigma del sadismo, del rigore da esercitare contro il mondo intero asservibile alla FEDE teutonica , necessaria alla Super-razza per dare senso alla Sua povera esistenza ; all’esistenza di chi non riesce a vivere con pienezza la sua misera parabola esistenziale e deve inventare o seguire un Credo di cui si fanno portatori i Potenti del momento.

Che si tratti di Hitler o dei Signori della Finanza internazionale conta poco, ciò che conta è dimostrare a se stessi ed agli altri d’ essere incrollabili testimoni d’una costanza folle e pervicace che può spingere fino al sacrificio estremo, preferibilmente degli altri… poiché “Deutschland uber alles”.

S. Nocera e N. Tagliani, La normativa inclusiva nella nuova legge di riforma sulla “buona scuola”

La casa editrice Key ha pubblicato l’instant book

 

La normativa inclusiva nella nuova legge di riforma sulla “buona scuola”

di Salvatore Nocera e Nicola Tagliani

 

L’OPERA

noceraTrattandosi di una legge appena pubblicata, la cui interpretazione non è ancora sorretta dal supporto di interpretazioni giurisprudenziali, abbiamo tentato di effettuarne una lettura a caldo, basandoci sull’esperienza quotidiana di consulenza a famiglie, dirigenti scolastici e docenti ed operatori di associazioni, enti ed istituzioni territoriali, realizzata presso la sezione legale (Nocera) e psicopedagogica (Tagliani) dell’Osservatorio Scolastico dell’AIPD (Associazione Italiana Persone Down).

Abbiamo voluto offrire nel primo capitolo una mappa di lettura dell’ampia materia ammassata informalmente nei 212 commi dell’unico articolo di cui si compone la legge; ciò al fine di avvicinare i lettori a prendere confidenza con una materia tanto vasta e varia.

Nel secondo capitolo abbiamo evidenziato le principali novità normative introdotte, cercando di accennare al clima culturale e politico in cui tali novità sono state imposte, anche se con qualche compromesso, dal Governo.

Nel terzo capitolo ci siamo concentrati sull’analisi dei possibili contenuti del decreto delegato che la legge prevede debba essere emanato sulla revisione della normativa inclusiva. In applicazione dei principi contenuti nella delega, sono state ipotizzate delle soluzioni, de jure condendo, applicative degli stessi che riteniamo possano migliorare la qualità inclusiva delle scuole italiane, sperando che esse trovino una qualche udienza negli estensori istituzionali dei contenuti del decreto delegato.

Il nostro lavoro espositivo ed interpretativo mira a facilitare l’utilizzo della nuova legge di riforma da parte non solo degli operatori della scuola, ma anche delle famiglie e degli operatori delle organizzazioni del Terzo Settore, al quale la legge fa continuo riferimento, per ottenerne la collaborazione per le attività durante l’apertura pomeridiana delle scuole, durante le vacanze e per l’alternanza scuola-lavoro, fortemente volute dal legislatore.

Anche gli operatori del diritto potranno trovare spunti utili per l’applicazione delle norme contenute nella riforma e nei numerosi decreti applicativi e saremo grati a quanti vorranno fornirci interpretazioni diverse dalle nostre. Se così fosse, saremo lieti di aver positivamente contribuito, con le nostre piccole forze, al dibattito sulla riforma della “buona scuola”.

 

INDICE

Capitolo Primo: OPPORTUNITÀ DI UNA MAPPA DELLA LEGGE

 

Capitolo Secondo: LE NOVITÀ DELLA LEGGE

  1. Rafforzamento dell’autonomia scolastica – 2. Piano triennale dell’offerta formativa – 3. L’organico dell’autonomia – 4. I nuovi poteri del dirigente scolastico – 5. La valutazione dei docenti – 6. Immissioni in ruolo – 7. Obbligo di formazione in servizio – 8. Nuove possibilità per gli studenti. – 9. Benefici economici per le iscrizioni alle scuole paritarie – 10. L’edilizia scolastica – 11. La copertura finanziaria

 

Capitolo Terzo: IL DECRETO DELEGATO SULL’INCLUSIONE SCOLASTICA

  1. Nuove specializzazioni per i docenti per il sostegno – 2. Appositi ruoli per il sostegno – 3. Livelli essenziali – 4. Indicatori per l’autovalutazione e la valutazione – 5. Profilo di funzionamento – 6. Revisione degli organismi territoriali – 7. aggiornamento obbligatorio per dirigenti e docenti – 8. aggiornamento obbligatorio per collaboratori e collaboratrici scolastiche – 9. Istruzione domiciliare – 10. Altre rare norme sull’inclusione

 

Conclusioni