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Perplessità sulla “valutazione reputazionale” dei docenti

Perplessità sulla “valutazione reputazionale” dei docenti

di Matteo Veronesi

 

Pare ormai invalsa, fra i dirigenti scolastici, la cosiddetta “valutazione reputazionale” degli insegnanti, basata sui giudizi e sulle opinioni che il dirigente ha (o crede o pensa o sostiene di avere) recepito da alunni, colleghi, famiglie.

Il criterio non può che apparire vago, ambiguo e insidioso. Non è detto che la vox populi sia sempre e comunque vox Dei. Andrebbe semmai attentamente contemplata la botticelliana (ma già classica) Allegoria della Calunnia. La Nuda Veritas ben poco può contro la nera, feroce triade di Insidia, Calunnia e Frode. Il purissimo azzurro della verità e, per usare un termine ormai caro anche alla burocrazia, della “trasparenza” – resta uno sfondo lontano e irraggiungibile.

Si sa che, purtroppo (e spiace doverlo dire), l’ambiente della scuola, al pari del resto di tutti gli altri ambienti, professionali o culturali, non è certo immune dal vento velenoso dell’invidia, della maldicenza, dell’astio personale, della semplice, gratuita malignità, della menzogna fine a se stessa, spesso figlia di nient’altro che della stupidità tutte macchie che possono inquinare, e rendere tutt’altro che oggettiva, una valutazione basata su opinioni correnti carpite non si sa in che modo, e sulla base di quali fonti, e che alcuni dirigenti potrebbero interpretare, a loro volta, in modo arbitrario, condizionati da pregiudizi, o da simpatie e antipatie personali.

Né la svogliatezza, l’indisciplina o l’ostilità degli studenti andranno sempre e solo imputate all’insegnante.

Sembra, peraltro, che la normativa vigente sia sparita, o venga eclissata.

Secondo il Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di istruzione, art. 448, comma 3 (comma che, per quanto ne so, non è mai stato abrogato da disposizioni successive), la valutazione degli insegnanti è fra l’altro «motivata tenendo conto delle qualità intellettuali, della preparazione culturale e professionale, anche con riferimento a eventuali pubblicazioni».

Com’è ovvio, le pubblicazioni non sono tutto. Ci sono ottimi ricercatori incapaci di insegnare, e non tutte le pubblicazioni, per il solo fatto di aver visto la luce, sono degne di nota, o rappresentano un motivo di merito per i loro autori e di arricchimento per i loro lettori. Ci sono, certo, persone coltissime che non hanno mai pubblicato una riga, e, dall’altra parte, implacabili imbrattacarte del tutto privi di gusto e di cultura.

Ma le pubblicazioni, e in generale i titoli e la preparazione culturale, sono pur sempre qualcosa di tangibile, di realmente verificabile, e di cui la scuola stessa dovrebbe sostenere, difendere e trasmettere il valore; un “possesso perenne”, avrebbe detto un Antico, da contrapporre, precisamente, alla liquidità strisciante e insidiosa del chiacchiericcio più o meno malevolo.

E forse anche su di essi, oltre e più che su vaghe e indeterminate voci di corridoio còlte e liberamente interpretate da un dirigente, dovrebbero basarsi (non interamente, ma almeno in parte) valutazione e carriera di un insegnante.

La valutazione esterna incontra l’inclusione

La valutazione esterna incontra l’inclusione

di Mavina Pietraforte

 

La pratica dell’inclusione

L’inclusione l’ho vista nelle lacrime che affioravano negli occhi miti di una docente, mentre parlava della sua fatica quotidiana, che le dava gioia e dolore,:“è un bel bambino, dottoressa”.

Una vicinanza totale a quel bambino, un far da tramite con la classe per metterlo a suo agio lui e gli altri, che ormai lo conoscono e gli vogliono bene, fino a giustificare loro stessi con i docenti i momenti di difficoltà del loro compagno. Il bambino l’aveva già immaginata come sua insegnante, perché la madre così gliela aveva indicata, quando si incontravano casualmente in giro per il paese.

Così lei era stata il suo traino sicuro verso il mondo nuovo della scuola, e amorevolmente lo aveva accolto e coinvolto con gli altri bambini.

L’inclusione è per questa docente la sua ragione di vita, non risparmiandosi neanche nel dispensare le cure necessarie per il controllo continuo sul suo stato di salute, adattandosi dunque a pratiche infermieristiche, pur di garantire il benessere del bambino.

 

La tecnica dell’inclusione

L’inclusione era pure nelle parole sapienti di una giovane docente che sciorinava teorie inerenti ai Bes e dava mostra di conoscere tutto il formulario occorrente a garantire il dominio delle   pratiche inclusive, come un kit a disposizione pronto per l’uso.

Una tecnica che se seguita in maniera pedestre, al massimo rimane un artigianato di buona fattura, ma non diventa arte umana.

Insegnare ed educare è un atto umano, e come tale necessita di una intenzionalità e di un non tirarsi indietro rispetto al prevaricante bisogno dell’alunno di essere riconosciuto e valorizzato come persona unica. La prima competenza di un insegnante sta nel non sottrarsi a questo legame educativo e chi sa trovare il giusto equilibrio in questa complessiva svolge di per sé un’azione inclusiva, anche e non solo con alunni Bes, o certificati con disabilità.

Mentre padroneggiare “tecniche inclusive” non necessariamente si risolve in una istanza di giustizia e di riconoscimento della diversità che il concetto di inclusività presuppone.

La prima competenza di un insegnante è di riconoscere i non-detti del mestiere, le zone d’ombra, le difficoltà di sapere in quale storia personale si ancora il suo desiderio di insegnare.

Se nel contempo l’insegnante deve padroneggiare “tecniche” codificate, saranno i suoi alunni a riconoscere che fa del suo meglio.

Ma solo il saper analizzare ed esplicitare la propria pratica consente quella riflessione necessaria che conduce ad una formazione esperta, personale, ad una lucidità professionale che rimanda alla capacità dell’individuo di narrare la propria storia e dunque il proprio percorso, astraendo dalla routine.

 

La valutazione esterna

La valutazione delle scuole è operazione complessa perché all’interno di essa risalta anche una valutazione intrinseca dei docenti, che rimane nella coscienza di colui che valuta, e può accadere che si tocchi con mano come la pratica professionale sia altro da una mera corrispondenza a un agire codificato. Alcuni formatori non arrivano al cuore della pratica, ignorando di fatto ciò che si fa veramente in classe, e dunque ciò che fanno gli insegnanti che essi stessi formano.

La distanza fra ciò che è proposto dai formatori e ciò che è la pratica reale degli insegnanti si può intravedere nell’ambito di una valutazione esterna delle scuole che riesca a sbirciare tra le varie modalità operative della scuola, e può accadere di lasciarsi avvincere dalla storia raccontata con l’umanità del cuore, anziché dalla rassicurazione che si segue con impegno un percorso definito con l’annessa doverosa documentazione.

Innegabile è il fatto che nei testi di riferimento, in materia di inclusione, ma non solo, vi è sempre una costrizione, dovuta al fatto che ogni testo elaborato in un quadro istituzionale é negoziato tra molti attori, testimoniando un compromesso tra logiche diverse, se non opposti interessi.

 

L’auto formazione

La professionalità di un insegnante non passa dunque dal saper dimostrare ad un interlocutore che sono state analizzate le situazioni problematiche secondo quanto indicato dai documenti ministeriali di riferimento, ma nel riuscire a far emergere quanto si è tentato di fare, di fronte agli alunni, con gli alunni e in quelle circostanze,

Il pedagogista, come il terapeuta, non ha l’obbligo di riuscire, ma deve poter rendere conto del suo percorso, dei suoi tentativi, della relazione educativa che ha saputo costruire, senza sottrarsi ad un abbraccio educativo che può implicare seduzione, ricatto affettivo, narcisismo, paure ed angosce, ma che costituisce la vera essenza della relazione pedagogica.

Ecco, a volte può accadere, indagando sulle pratiche inclusive di una scuola, di scorgere tutto questo e non sapere neanche se quell’insegnante abbia avuto il riconoscimento “del merito”.

Ma non è importante.


 

Bibliografia:

Cifali, M., Le lien éducatif: contre-jour psychanalytique,Paris, 1994.

Perrenoud, P., Einseigner: agir dans l’urgence, décider dans l’incertitude. Savoirs et compétences dando un métier complexe, Paris, 1996.

Perrenoud, P., Dieci nuove competenze per insegnare, ed. Anicia, 2010.

Dare un’anima alla collegialità

Dare un’anima alla collegialità

di Giuseppe Adernò

 

Nei giorni conclusivi del mese di ottobre si rinnova in tutte le scuole il rito delle operazioni di voto per il rinnovo degli Organi di democrazia partecipativa. Si eleggono i rappresentanti dei genitori nei consigli di classe, si rinnovano i Consigli d’Istituto, si rendono attivi i consigli di classe redigendo le programmazioni e presentandole ai genitori.

La collegialità nella scuola si consuma nella ritualità delle formule e delle prassi di urne, seggi elettorali, schede e verbali, ma resta molto lontana dalla reale e vitale collegialità che sollecita la coesione, la convergenza nei comuni ideali educativi e nell’impegno volto alla costruzione della personalità dello studente attraverso lo studio e lo sviluppo delle competenze, proiettate al futuro inserimento sociale.

Quanto auspicato e disegnato dalla Legge della “Buona scuola” ha necessità urgente e prioritaria di rinnovamento e modifica degli Organi collegiali, norme e disposizioni che meritavano una riforma anticipata rispetto alla stessa Legge 107/2015.

Operare nella direzione del “nuovo”, utilizzando ancora strumenti e modelli inadeguati e ormai privi di significato e di valenza anche democratica, rende vana l’azione rinnovatrice dell’impianto organizzativo della scuola che vorrebbe tendere all’apertura verso il mondo del lavoro e allo sviluppo di reali competenze per i singoli studenti.

Il collegio docente, cuore della progettualità del Piano Triennale dell’Offerta Formativa si riduce spesso ad una parata di formale approvazione di quanto deliberato da un piccolo gruppo e non dà vita all’auspicata democrazia partecipativa.

Il Consiglio di classe si limita ad un’elencazione dei casi difficili o problematici e non diventa il luogo privilegiato della progettazione didattica secondo i bisogni della classe e dei singoli studenti

Il Consiglio d’Istituto si blinda nella ritualità delle approvazioni di atti già deliberati, di progetti già avviati e non opera come specifico ambito d’indirizzo della politica scolastica, in risposta ai bisogni del territorio e dell’utenza.

Se questa è la radiografia dell’esistente, serve ben poco adempiere formali disposizioni di legge e lasciare la collegialità priva di vita e senza un’anima pulsante.

Oggi, poi, la nuova cultura di rete e l’operare per ambiti territoriali sollecita una nuova dimensione di apertura mentale alla cooperazione tra le scuole, al superamento delle barriere e degli ostacoli che finora hanno costretto le scuole a vivere di autoreferenzialità, chiuse nel recinto del proprio singolo istituto.

Operare in rete e in maniera collegiale con le altre realtà scolastiche significa aprirsi al cambiamento e guardare oltre, valorizzare le risorse interne e metterle a servizio degli altri per eliminare sprechi di tempo e di energie e dare maggiore efficacia ai servizi da offrire.

Un nuovo orizzonte disegna e colora la collegialità della “buona scuola” aperta e dinamica, moderna e attiva, propositiva ed efficiente.

La presenza negli ambiti territoriali delle scuole paritarie dovrebbe costituire inoltre una positiva opportunità di dialogo e di coinvolgimento nel comune intento educativo di un servizio pubblico.

Tempo di compiti, tempo di vita

Tempo di compiti, tempo di vita

di Giovanni Fioravanti

 

Oltre oceano sono gli homework, da noi i compiti a casa. Un tormentone di questo scorcio d’inizio d’anno scolastico che fa dibattere non solo i nostri genitori e insegnanti, ma anche quelli degli Stati Uniti. Tutto il mondo è paese, dunque. Il Time del 30 agosto riporta i dati di una ricerca su pregi e difetti dei compiti a casa condotta dal professor Harris Cooper, psicologo della Duke University.

C’è da notare che oltre oceano sono più virtuosi di noialtri, perché da tempo il National PTA e la National Education Association hanno dettato le linee standard per l’assegnazione dei compiti a casa. Sostanzialmente dieci minuti al giorno per gli alunni della scuola primaria, venti per quelli della scuola media di primo grado, per poi passare a due ore per gli studenti delle superiori. Ciò nonostante alcune scuole elementari dal Massachusetts a New York hanno deliberato di abolire i compiti a casa. Sulla decisione non è che tutti i genitori siano concordi, soprattutto preoccupati che il non fare i compiti a casa possa compromettere l’accesso dei loro figli al college.

Di tutta questa vicenda fa sorridere la conclusione pilatesca della tanto sbandierata ricerca del professor Cooper per il quale i compiti a casa sono come le medicine e le diete, se ne prendi troppo poche sono inefficaci, se ne prendi troppe possono uccidere, se ne prendi la giusta dose non possono che far bene.

Se qualcuno pensava di ottenere suggerimenti per la risoluzione della diatriba dagli amici americani non può che rimanere deluso e continuare ad arrovellarsi sulla necessità o meno dei compiti a casa.

Compito è qualcosa che deve essere compiuto, portato a compimento. Nel caso specifico il luogo del compimento non è più la scuola, luogo da cui nasce la consegna, ma la casa, quindi un impegno disancorato dal suo ambiente originario, che deve essere eseguito in un altro contesto, un compito generalmente di apprendimento al difuori dell’ambiente consueto. È come uscire dall’ospedale e proseguire la cura a casa, senza però avere la certezza di prendere le medicine nelle giuste dosi.

Esercizio, memorizzazione, consolidamento di solito sono le prescrizioni dei compiti a casa, attività squisitamente scolastiche, se ancora non vigesse la consuetudine di fare dell’aula un luogo preminentemente di ascolto della lezione e di esecuzione dei compiti che lì non si chiamano più “compiti a casa”, e come potrebbe essere altrimenti, ma “compiti in classe” che sono la sintesi giudicante dell’efficacia delle lezioni più i compiti a casa.

Il compito a casa è una attività passiva, condotta in solitudine. Non esiste altro luogo capace di coltivare la solitudine collettiva, la solitudine dei tanti, come la scuola. Ognuno di fronte al sapere è da solo, è da solo che si deve misurare con il sapere e con la sua capacità di padroneggiarlo. Che il sapere e la conoscenza non siano una impresa collettiva è solo una convinzione delle nostre scuole, dove i nostri giovani se la devono sempre vedere in solitaria con le discipline. A scuola almeno puoi scorgere dall’espressione del volto di un compagno o di una compagna come se la sta cavando e così sentirti un po’ meno diverso, ma a casa che fai? Chiedi a mamma e papà, al fratello o alla sorella maggiori, ma allora cosa serve portare a compimento un compito che non sai compiere?

L’assurdità esercitante dei compiti, l’assurdità di prolungare a casa la scuola, che non c’è, è qualcosa che sa di seminario, di stanzoni dei collegi di una volta, con i ragazzi chini a fare i compiti in silenzio sotto la vigilanza di un chierico in cattedra. È l’aria mefitica di cui respirano ancora le nostre scuole incapaci di rinnovarsi, incapaci di dimostrarsi autosufficienti, concluse in sé agli occhi dei giovani. Di scuole totalizzanti, per le quali non c’è altro apprendimento al di fuori di esse, come se il tempo extrascolastico non fosse già colmo di compiti, di apprendimenti, che non avranno il blasone della formalità, che solo la scuola pretende di detenere, ma più modestamente hanno tutta l’importanza dell’esperienza personale propria degli apprendimenti informali e non formali.

Mentre l’Europa, dalla strategia di Lisbona del 2000 in poi, ha scoperto e rilanciato il valore e la necessità degli apprendimenti informali e non formali, la nostra scuola, quella dei compiti a casa, denuncia tutta la sua ignoranza e arretratezza. Ignoranza e arretratezza che le impediscono di dialogare e valorizzare le esperienze extrascolastiche dei suoi giovani, di integrarle ai propri curricoli e progetti, valorizzando l’iniziativa di ragazze e ragazzi anziché mortificarli nella impersonale solitudine dei compiti a casa.

Scuola e territorio ancora non hanno appreso a dialogare ed a integrarsi a favore dei giovani, del loro tempo di vita che viene prima di qualunque altro compito. Siamo ancora in attesa delle scuole aperte, tanto proclamate, anziché delle scuole chiuse e dei compiti a casa.

Sarebbe opportuno che prima di tutti fossero le famiglie e gli insegnanti a uscire dall’angustia dei loro argomenti e ragionassero seriamente del tempo di vita dei giovani, soprattutto come qualificarlo ed arricchirlo di esperienze utili alla loro realizzazione e ai progetti che ognuno di loro coltiva per sé.

Compiti sì, compiti no o compiti come?

Compiti sì, compiti no o compiti come?
L’importanza di recuperare il patto di collaborazione scuola-famiglie

di Domenico Sarracino

Nei giorni appena trascorsi la questione dei compiti a casa ha suscitato una vivace discussione che si è svolta su vari mezzi di informazione e particolarmente  su Fb dove le caratteristiche del mezzo se da un lato conferiscono spontaneità e immediatezza, dall’altro non sempre consentono  la necessaria riflessività e l’esplicitazione della complessità delle situazioni.
Credo, perciò,  che essa dovrebbe continuare perché chiama in causa punti nevralgici del nostro sistema scolastico
Non ci vuole molto  a rilevare  che la questione  riguarda  non solo tutte le istituzioni scolastiche, gli alunni e loro famiglie  ma anche la più  vasta platea  dell’opinione pubblica a cui non  deve sfuggire quanto sia importante, in questo momento di disorientamento valoriale, ripensare  la “questione educativa”,  e dunque i diritti-doveri,  la responsabilità , l’impegno, le regole di cittadinanza che messe insieme costituiranno il profilo qualitativo del nostro Paese.
E per entrare subito nel merito osservo innanzitutto che il discorso va articolato a seconda dei livelli scolastici e dell’età degli alunni, dei modelli orari ed anche dei contesti scolastici. Una cosa è l’impegno  a casa che si deve chiedere ad uno studente delle Superiori, altra cosa  è quello che riguarda un bambino della Primaria; una cosa è se siamo di fronte a modelli di scuola a “tempo pieno” o “prolungato” altra cosa sono gli  orari ridotti all’osso e magari anche con l’ora di lezione contratta a 50 0 45 minuti.
Non mi appartiene l’idea di una scuola “leggera” tutta risolta all’interno degli orari e spazi scolastici e di una socializzazione non adeguatamente  nutrita da conoscenze e saperi. Si può e si deve continuare a migliorare sempre di più il rapporto  tra il soggetto che apprende, ciò che si deve apprendere (le materie – discipline )  e la capacità di mediazione esercitata dalla figura del docente,  di modo che il ponte tra il soggetto e l’oggetto dell’apprendimento sia il più naturale possibile e fondato sulla più avanzata ricerca socio-psico-pedagogica.

A ciascuno la sua parte
Ma sono anche altrettanto convinto che l’apprendimento, affinché possa consolidarsi e diventare una padronanza,  non possa sottrarsi ad uno sforzo che chiami in causa  la volontà del soggetto e che implica capacità di disciplinarsi (o essere disciplinato)   e anche  una certa fatica e sacrificio. Il che significa impegno di riflessione  e rielaborazione personale, se volete di rafforzamento e riorganizzazione in un dialogo con sé e dentro di sé, in cui rafforzando e rielaborando le conoscenze acquisite, si prende coscienza di  ciò che si è appreso o che ancora non è chiaro,  per poi riportarlo nella classe, per parlarne con l’insegnante e/o con i compagni. È esperienza di noi tutti che l’apprendere una cosa nuova, grande  o piccola che sia, costituisce  sempre una conquista, e come tale è sempre il frutto di impegno e volontà individuali  che  legano dialetticamente il dialogo con sé allo scambio collaborativo – cooperativo con gli altri, che siano  i compagni di classe o, ad altri livelli,  il gruppo di lavoro o di ricerca al quale partecipiamo.
Ma qui occorre ricordare che la discussione a cui ci riferiamo partiva dalla protesta , secondo me fondata,  di una mamma che lamentava il fatto che la figlia, tornata dalla scuola alle 5 del pomeriggio,  aveva ancora da svolgere compiti a casa per altre due – tre ore..
Ora situazioni del genere sono inaccettabili e direi inspiegabili, eppure accadono e perciò non possono non  richiamare l’attenzione innanzitutto delle scuole e dei suoi responsabili.  Il fatto è che nonostante tutto, tanti ammodernamenti restano di facciata e i vecchi modelli di insegnamento stanno sempre dietro l’angolo a rivelarci  che da tempo ci siamo messi sulla triste strada che tende a dare quasi per scontato e come cosa normale  la differenza che corre tra la scuola praticata e quella dichiarata.  E’ evidente che una doppiezza di tale portata è alla base , insieme ad altre ataviche questioni irrisolte, di buona parte del malessere che si sta vivendo nelle scuole e   tra  le famiglie con punte di asprezze, talvolta sfociate in episodi davvero raccapriccianti. Sarebbe bene perciò se questa problematica, dopo i fuochi d’artificio di qualche giorno fa,  non la si lasciasse cadere, e che le scuole , tutte, cogliessero l’occasione  per una buona e seria riflessione sulla qualità delle relazioni che pratichiamo, sulla questione educativa nel nostro tempo, su un ripensamento e rilancio  del rapporto scuola-famiglie.
I Pof o Ptof, le programmazioni, i vari piani di valutazione, i Pdm, etc.,  da soli non possono bastare a cambiare le vecchie pratiche didattiche perché poi certe abitudini, certi modi di lavorare  spesso ritornano, anche perché  certi ostacoli sono reali: il tempo è poco, le classi sono numerose e sempre più complesse, e gli adempimenti burocratici –firme, giustificazioni, comunicazioni, controlli- sono tanti ed implicano responsabilità non trascurabili. E buona cosa sarebbe quella di elaborare documenti meno ampollosi, più stringati, più realistici e per questo più veri ed attuabili, meno per l’apparire e più per l’agire.
Ed è in questo quadro che spesso il passato vince sul presente-futuro finendo con il rimandare alla famiglia – all’alunno da solo o aiutato dalla mamma -papà, quando possono-  pezzi importanti degli apprendimenti, che non sono quelli circoscritti e fattibili del ripasso-rinforzo  e della rielaborazione personale,  ma sono veri compiti di comprensione e apprendimento che dovrebbero  aprirsi e chiudersi  anzitutto a scuola, sotto la guida e l’aiuto dell’insegnante. Insomma si tratta di rimettere a fuoco in modo più chiaro il che cosa si debba fare a scuola e che cosa  a casa, in rapporto anche al tempo scuola che si è scelto.
Quando si demanda all’alunno ed alla mamma-papà pezzi di apprendimento, su cui non si è già lavorato e non ci si è  esercitati prima in classe, vuol dire che siamo di fronte  ad una scuola che non risponde adeguatamente al suo compito, che la sua azione è incompleta  ed ingiusta, che dichiara di essere scuola di tutti e di ciascuno, operativa e laboratoriale,  ma poi nei fatti è ancora appesa alla vecchia triade dei tempi passati, statica e rigida: verifica-interrogazione sui compiti fatti a casa e, nel poco tempo che rimane,  spiegazione frontale e , in fretta, l’”assegno” dei nuovi compiti da fare a casa …
Appare chiaro, in situazioni siffatte, quanto risultino declamatorie e fuorvianti le suggestive  auto-dichiarazioni di scuola flessibile e attiva,  che intende  mettere al centro degli apprendimenti gli alunni e  le loro diversità, peculiarità e bisogni. Né ci può mettere in pace più di tanto il fatto che  il quadro delle situazioni è differenziato e che accanto a sacche di arretratezza esistono realtà educative pregevoli, e che  il modello vecchio stile, pur senza generalizzare,  è  meno presente nella scuola di base.
Anzi sarebbe tempo  che i decisori politici del sistema scuola si impegnassero ad intercettare e contrastare : i segnali di crescente differenziazione nei “modus operandi” prodotti da variabili “casuali”  che rendono incerti i diritti-doveri; la divaricazione tra le scuole  anch’essa crescente, inerente la qualità dei servizi scolastici e che rispecchia passivamente gli squilibri territoriali, sociali e culturali esistenti: divaricazione  che si subisce troppo passivamente e verso cui bisognerebbe  intervenire con supporti e rafforzamenti tali da invertire la rotta, stimolare  processi  di riqualificazione, accorciare le distanze e  rendere più omogeneo  il sistema scolastico e con esso  il sistema-Paese.

Ripensare “la questione educativa” e il patto di collaborazione scuola-famiglie
A questa situazione difficile in sé si aggiunge il clima generale,  e in esso le trasformazioni che stanno riguardando le famiglie e i genitori, spesso accompagnate da disorientamento ed  eccessi di lassismo, a cui da parte delle scuole  si finisce con il rispondere talvolta con facili cedimenti, talvolta con chiusure ingiustificate o  con nette ed improduttive contrapposizioni.
Per tutto questo urge veramente che la “questione educativa” venga posta all’attenzione dell’intera società, di tutti noi e non solo delle scuole e delle famiglie per ripensare insieme  i diritti e i doveri, la responsabilità, gli impegni piccoli o grandi in rapporto all’età entro cui debba svolgersi la vita delle nuove generazioni.
Ricostruire un nuovo tessuto educativo non è impresa da poco e richiede necessariamente tempo  e “ritrovamento” di noi stessi in una società che corre tanto, ma non sa  bene in che direzione…
Ciò che è certo , comunque,  è che non si può rimanere a lungo con le mani in mano. Qualcosa si può cominciare a fare, ora e subito.
Nelle scuole esiste da tempo uno strumento che viene elaborato dai Consigli di Istituto con la componente genitori ed è  “Il Patto di corresponsabilità educativa”  – richiamato opportunamente in qualche intervento  sulla discussione in corso.  Ma quanto esso è veramente divulgato, rivisitato e reso vivo nella pratica quotidiana?  Eppure la querelle dei compiti sì, dei compiti no o, meglio, dei  “compiti come” dovrebbe trovare un momento di chiarificazione, accordo e condivisione proprio in esso. Certo i casi estremi, quelli deprecabilissimi riportati tristemente dalle cronache , non finiranno ma per essi ci sono le leggi che vanno richiamate ed applicate. Insomma il patto di collaborazione con le famiglie è davvero uno strumento irrinunciabile, a lla cui stesura coinvolgere non solo i genitori del C.I., ma anche i rappresentanti di classe, gli studenti, le associazioni  dei genitori laddove presenti e le stesse comunità locali. Ma la condizione indispensabile è che in esso si creda davvero,  investendo il  tempo e le  energie necessarie. Le scuole e le famiglie ne otterrebbero  certamente un ritorno positivo, recuperando fiducia reciproca, riducendo incomprensioni e contrasti e l’aria sarebbe per tutti più respirabile. Non risolveremmo tutto, ma qualche passo in avanti lo faremmo.

Lettera di una professoressa

Lettera di una professoressa

di Patricia Tozzi

Sono una “vecchia” docente di matematica e scienze e ho letto con molta attenzione l’articolo “Basta compiti, dopo scuola si deve giocare”: la giustificazione di una mamma di Milano fa discutere

Ho sentito la necessità di fare anche io,come insegnante, una riflessione. Non sempre assegno compiti per casa. Quando succede sono pochissimi e mai per giorni consecutivi. Sono sempre esercizi di riflessione, di consolidamento di una conoscenza già appresa a scuola e chiedo loro di farli da soli perché solo cosi potrò capire quanto hanno veramente assimilato e quali errori hanno invece commesso. E li correggo sempre! I miei alunni sanno che, se assegno compiti, non possono non farli! E si dimostrano maturi e responsabili perché sanno che ho fiducia nella loro capacità di gestirne l’organizzazione, e che, se ci sono compiti, sono pochi ma necessari a mettersi alla prova con se stessi! Sono solita dire ai miei alunni: non vi assegno compiti a casa ma lavoriamo tanto a scuola senza perdere tempo! Lavoro con i gruppi ,faccio moltissima didattica laboratoriale e uso pochissimo quei libri di testo enciclopedici, nozionistici, emblematici della scuola dei “programmi ministeriali” che, invece, dovrebbe essere ormai archiviata. E invece i libri di testo sono sempre più voluminosi, nonostante le espansioni sul web, i contenuti digitali integrativi, il libro sfogliabile, l’ebook… ecc.!!!

E non parliamo poi del fatto che molti editori cambiano titolo, copertina e codici identificativi lasciando l’interno più o meno invariato, costringendo così ignari genitori con più figli nella stessa scuola a ricomprare il testo! Pagine, pagine, pagine di esercizi che non si faranno mai! Quanto è più veloce l’apprendimento quando l’insegnante costruisce insieme agli alunni le mappe concettuali, le fa ripetere a gruppi, le fa approfondire attraverso ricerche fatte a scuola, insieme, in gruppi,che poi si ascoltano vicendevolmente…

L’apprendimento attivo è un cardine fondamentale di una buona didattica e, se l’insegnante legge il libro o parla, parla, parla… è chiaro che perderà l’attenzione di moltissimi alunni! Di fatto, gli alunni sono tutti diversi, ma, se lavorano insieme e fanno ricerca e si costruiscono le conoscenze insieme, diventano poi anche competenti! Sanno parlare, sanno spiegare, sanno condividere e convivere!

Io non ho mai dato ricerche da fare a casa: le trovo inutili e distraenti. Le fanno con me a scuola! Abbiamo biblioteca, lim,laboratorio di informatica. E sono curiosi,motivati,attenti a rispettare regole e tempi! Lavorando molto a scuola, non è necessario dare sempre i compiti.

E immaginate sei/otto ore di lezione con materie diverse i cui insegnanti ogni giorno assegnano compiti! Sei/otto ore seduti ad ascoltare, anche a fare esercizi dai libri, senza costruire un proprio percorso. E poi a casa, altre ore seduti a fare i compiti per il giorno successivo! Altre ore seduti…

C’è chi dice che i compiti servono ad imparare a far da soli… ma allora la scuola a che serve?

Gli studenti finlandesi, che sono considerati dai test OCSE-PISA i migliori d’Europa, studiano meno della metà delle ore che studiamo noi…

E poi i docenti dovrebbero sapere che i compiti a casa spesso vengono passati su whatsapp tra gli studenti… E allora facciamoli lavorare tanto a scuola, saremo più contenti anche noi docenti vedendo il loro interesse, il loro impegno,le loro capacità/abilità – come si suol dire – messe a frutto! E che diventeranno Competenze.

Monitoraggio certificazione competenze I ciclo

Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione
Direzione generale per gli ordinamenti scolastici e la valutazione del sistema nazionale di istruzione

Rapporto di monitoraggio secondo anno di sperimentazione dei modelli di certificazione delle competenze per il primo ciclo di istruzione

Si è appena concluso il secondo anno di sperimentazione dei modelli di certificazione delle competenze nelle scuole del primo ciclo di istruzione avviato con la CM 3 del 2015 dalla Direzione Generale per gli Ordinamenti scolastici e per la Valutazione del Sistema Nazionale d’Istruzione, con la supervisione del Comitato scientifico nazionale per le Indicazioni 2012.

Sono stati due anni di intenso lavoro da parte di oltre 2000 scuole che hanno studiato, sperimentato ed attuato i modelli proposti, apparsi coerenti con l’impostazione pedagogica delle Indicazioni e con la cultura della valutazione formativa: dall’individuazione dei livelli di competenza con assenza di un livello negativo, al superamento del codice numerico, al riferimento alle competenze chiave europee. La sperimentazione si è rivelata la naturale evoluzione delle misure di accompagnamento, che hanno fatto seguito all’introduzione delle Indicazioni per il curricolo/2012 nella scuola di base italiana e le scuole l’hanno percepita come opportunità per approfondire il tema delle competenze con interessanti effetti a ritroso sulle pratiche valutative, sulle didattiche coerenti da realizzare in classe, sugli stili e le modalità di programmazione didattica.

A supporto delle scuole impegnate nei processi di ricerca e adozione dei modelli sperimentali sono state organizzate, a cura degli staff regionali, iniziative di sensibilizzazione e di informazione, seminari di approfondimento e giornate formative.
Anche per il secondo anno di sperimentazione le osservazioni e le riflessioni emerse dal monitoraggio sono sintetizzate nel presente Rapporto sulla rilevazione effettuata nei mesi di giugno e luglio 2016, documento che potrà costituire un utile riferimento nel vivace dibattito sui temi della valutazione, sollecitato anche dalla delega legislativa di cui al comma 181, lettera i) dell’articolo 1 della legge 107 del 2015.

Rapporto sulla rilevazione effettuata nel giugno – luglio 2016

Il Direttore Generale
Carmela Palumbo

La buona scuola: striscioni per la contestazione

La buona scuola: striscioni per la contestazione

Enrico Maranzana

La ministra Giannini, commentando lo sciopero degli studenti ha detto: “Di questi tempi, tutti gli anni, c’è una comprensibile e tradizionale voce degli studenti. Non mi pare che ci siano obiettivi precisi, mi sembra che sia una richiesta di attenzione” [Capri, 7 ottobre].

Come si può pretendere che gli studenti abbiano la maturità e la competenza per formulare obiettivi precisi se nemmeno il parlamento è stato capace di elencare gli “obiettivi formativi prioritari”? Il comma 7 della legge 107/2015 li stravolge, sostituendoli con alcune modalità operative.

Come potrebbero essere gli striscioni “precisi” per un corteo studentesco?

 

Qui devi correre più che puoi per restare nello stesso posto.

Se vuoi andare da qualche parte devi correre almeno il doppio

Alice nel paese delle meraviglie

Il mondo corre e la scuola sta a guardare, ferma agli inizi del ‘900, quando la sua funzione era l’integrazione degli studenti in un contesto socio-economico-culturale in lentissima evoluzione. Oggi, che tutto cambia e si ristruttura velocemente la questione relativa “al cosa e al come insegnare” si complica a dismisura: privilegiare il rapporto con il mondo del lavoro banalizza la questione.

 

La conoscenza è cosa morta. La scuola serve per vivere

Albert Einstein            

Intendere le discipline come corpo organizzato di conoscenze non è più sufficiente: è necessario arricchirne l’immagine sia con i problemi che hanno dato il via alle ricerche, sia con i metodi applicati.

La didattica fondata sui metodi disciplinari, via maestra del coordinamento interdisciplinare, favorisce la convergenza degli insegnamenti verso traguardi comuni [CFR in rete “La professionalità dei docenti, un campo inesplorato”]

 

Homo erectus – Homo faber – Homo sapiens – Homo gubernator

Le conoscenze raddoppiano in pochi anni: l’uomo contemporaneo, che può dominare solo una minuscola parte del conosciuto, deve essere in grado di controllare processi attraverso la comparazione dei risultati attesi con gli esiti, capitalizzandone gli scostamenti.

 

La buona scuola enuncia il concetto “sistema”, senza praticarlo

L’assegnazione del premio al singolo docente è inequivocabile sintomo dell’assenza della necessaria cultura sistemica, indizio sufficiente per motivare il giudizio.

 

La ministra Giannini non conosce la scienza dell’organizzazione

La collocazione al vertice dell’organigramma del dirigente scolastico viola le conquiste delle scienze dell’organizzazione che, in presenza di situazioni complesse, prescrive modelli con valenza autoregolativa.

 

Gli ODG di convocazione degli organismi collegiali sono viziati da sistematiche elusioni della legge .. e la Buona scuola applaude

L’attività degli organismi collegiali è stata sterilizzata del mancato inserimento nelle convocazioni, stilate dai dirigenti scolastici, dei previsti adempimenti. L’origine e il senso del lavoro collegiale sono stati celati. Un’orchestrazione che ha scoraggiato la partecipazione, ritenuta dai capi d’istituto lesiva del proprio prestigio.

La valutazione dei dirigenti scolastici

La valutazione dei dirigenti scolastici
Quando la foresta di Birnam viene a Dunsinane

di Stefano Stefanel

Due recenti interessanti articoli hanno cercato di attirare l’attenzione sulla valutazione dei dirigenti scolastici. Franco De Anna con La valutazione dei Dirigenti Scolastici: in attesa delle linee guida e del modello operativo (1 ottobre 2016, www.pavonerisorse.it) e Antonio Valentino con La verità, vi prego, sulla figura del DS in vista delle Linee Guida per la valutazione (17 settembre 2016, www.pavonerisorse.it) hanno tratteggiato in maniera esaustiva e come sempre encomiabile il perimetro dei possibili interventi. Le reazioni sono state modeste e spesso limitate ai social “chiusi” dei dirigenti scolastici dove molti hanno “denunciato” i bassi stipendi, i grandi carichi di lavoro, l’eccesso di reggenze, la poca considerazione dell’amministrazione, l’eliminazione dei vicari, l’attuazione confusa della legge 107/2015, le nomine in ritardo insomma tutto quanto sarebbe più urgente della nostra valutazione.

Inoltre molti – ma in privato cioè lontano dagli occhi dell’opinione pubblica e degli insegnanti – hanno lamentato che il bonus è stato quasi una trappola e la chiamata diretta di diretto ha avuto ben poco. Mentre tra Gae, assegnazioni provvisorie, utilizzi, trasferimenti i diritti dei docenti hanno come e più di sempre prevalso sull’efficienza della scuola. Cose tutte abbastanza risapute in un clima generale in cui le oggettive maggiori risorse sia economiche sia umane non sono state apprezzate come un’ulteriore possibilità, ma spesso vissute come un’ennesima inefficienza da attaccare. Cose tutte già viste in cui la visione dirigenziale va a scontrarsi con l’idea impiegatizia della professione.

Succede però a volte che le cose vengano dette e poi quando avvengono tutti cadono dalle nuvole. La valutazione del dirigente scolastico c’è scritta e a chiare lettere sulla normativa che ci riguarda, ma noi abbiamo sempre pensato che in un modo o nell’altra l’avremmo sempre scampata. E così sono passati quindici anni. Poi però la foresta di Birnam comincia a muoversi e noi a Dunsinane non ci capacitiamo. Ma ce l’avevano detto, come le streghe lo avevano predetto a Macbeth.

PERO’ SE SI VALUTA QUALCUNO VIENE BOCCIATO

Io credo che la questione anche dopo le Linee guida verterà su un solo punto, quello sollevato da Giovenale circa 2000 anni fa: “Quis custodiet ipsos custodes?” Questo è un punto che in Italia ha sempre avuto successo e che credo avrà successo anche questa volta per bloccare qualsiasi valutazione reale. D’altronde un “custode” ci ha messo del suo per avvelenare i pozzi: le minacce dell’ispettore Max Bruschi via Facebook hanno chiarito come l’idea della vendetta privata covi dietro qualunque italica procedura, anche quella di maggiore derivazione anglosassone. Tutto questo ha come elemento finale un solo reale problema: qualcuno viene per forza di cose bocciato. Possiamo inventare tutti i sistemi di valutazione del mondo e cambiare tutti i valutatori: al termine di una valutazione qualcuno viene bocciato e costui o costei ricorrerà ai vari tar disponibili per dimostrare che il valutatore ha avuto torto, che c’è stato un boicottaggio, che non ha potuto raggiungere i risultati perché non ha avuto le risorse e non ha potuto scegliere i docenti. Insomma difficilmente davanti a valutazioni basse qualcuno si dichiarerà d’accordo.

Andiamo poi ancora un po’ di più nel fondo del problema: esiste qualche dirigente scolastico che merita di essere valutato negativamente? Direi proprio di sì. Le Linee guida permetteranno di capire prima chi sarà valutato negativamente? Direi che ciò è impossibile, perché le Linee guide potranno solo prefigurare un percorso in cui tutti potranno esprimere sia al meglio (o al peggio). Dunque “De te fabula narratur”, caro Stefano Stefanel. E dunque Stefano Stefanel si allarma e cerca di correre ai ripari preventivamente cercando di muovere sindacati e associazioni di categoria per fermare una valutazione, che una volta partita porterà a degli esiti che, quando saranno negativi, lasceranno solo una parte dei dirigenti scolastici col “cerino in mano” visto che quelli valutati positivamente saranno contenti e si faranno i fatti propri. Così come è avvenuto col bonus premiante dove gli scandali sono stati vicini allo zero, i ricorsi anche perché chi ha incassato i soldi è stato zitto e contento e chi non li ha incassati ha preferito glissare e agire sotto traccia. Quindi grande scandalo prima perché poi non c’è più spazio per la protesta.

ELEMENTI DI CRITICITA’

Sarà comunque interessante vedere cosa prevedono le Linee guida. Intanto però è possibile fare un breve elenco di alcune criticità della nostra professione partendo dalle varie antinomie rinvenibili in molti comportamenti professionali. Faccio quindi un elenco di condizioni contraddittorie che – se valutate – potrebbero portare ad esiti negativi. Mi limito in questo breve contributo alla discussione (per non lasciare solo l’amico Franco De Anna) ad analizzare cinque antinomie.

  1. Dispersione scolastica. La lotta alla dispersione scolastica è uno dei punti di forza di ogni politica di sistema. Supporti allo studente generici, tradizionalismo nelle valutazioni, medie matematiche, alto tasso di bocciature o di sospensione, studenti di quindici o sedici anni nel primo ciclo, falcidie di studenti negli istituti tecnici e professionali contraddicono la sbandierata idea di lotta alla dispersione. Che interventi ha messo in atto il dirigente scolastico e soprattutto in che modo è intervenuto nel processo di dispersione per fermarlo? Queste sono domande che portano a dati certi: soldi spesi, ore effettuate, risultati, ottenuti, personalizzazione dei percorsi, analisi dei risultati in uscita. La difesa delle bocciature nell’ambito di un recupero della dispersione è solo la presa d’atto che il dirigente può anche essere un semplice burocrate controllore che non incide sul processo che costituisce un essenziale obiettivo dello Stato. La criticità in questo caso apparirebbe subito agli occhi di un potenziale valutatore che si trovasse a misurare il rapporto tra “dichiarato” e “agito”.
  2. Innovazione e ricerca didattica. Sia il d.lgs 165/2001, sia la legge 107/2015 mettono l’accento sull’innovazione e la ricerca: a parole tutti noi dirigenti siamo a favore dell’innovazione e della ricerca didattica. Poi però andando a scavare nei fatti ci si trova davanti ad un conservatorismo molto spinto, con la ripetizione di stantii riti che risalgono agli anni settanta del secolo scorso (consigli di classe, collegi docenti, programmazioni, ecc.) in cui l’innovazione viene costretta sotto tutta la restante burocrazia. Per cui si redigono inutili e lunghi curricoli ma poi si programmano “programmi”, si personalizzano a parole gli apprendimenti ma poi si continuano a somministrare compiti in classe tutti uguali, si valuta normativamente ma poi lo si fa con le medie matematiche, si chiamano innovazioni pratiche didattiche obsolete di vent’anni fa o si fanno crescere i progetti lasciando intatti i programmi. Anche qui un’analisi approfondita può portare a qualche sorpresa, perché l’innovazione è per sua natura un elemento di rottura con il passato e la ricerca didattica si fa solo attraverso chiari criteri scientifici.
  3. Gestione dell’organico dell’autonomia. Anche qui al di là delle squinternate esternazioni dell’ispettore Bruschi potrebbe essere interessante verificare come è stato utilizzato l’organico dell’autonomia per la realizzazione del PTOF. Questo comporterebbe la gestione dell’organico attraverso un monte ore annuale programmato plurisettimanalmente (come previsto anche dalle legge 59/97 e dal CCNL del 29/11/2007) per realizzare una vera progettualità di supporto. Anche qui sarebbe interessante verificare quanta incidenza ha l’organico dell’autonomia sulla realizzazione del PTOF e quanto invece viene utilizzato per mantenere intatto un esistente poco innovativo e per nulla progettuale. Anche qui vedo qualche pericolo laddove la valutazione cercasse di approfondire la reale azione dirigenziale.
  4. Gestione economica della scuola. Fondi PON, Progetti Miur, Piano Nazionale Scuola Digitale, Fundraising, contributi delle famiglie e quanto altro la fantasia italica mette in campo costituiscono un’unica grande partita economica delle scuole. La gestione economica è diversa da quella contabile, ma spesso non viene tenuta in grande considerazione, fagocitata dall’inutile rito del Programma Annuale (reso obsoleto dal PTOF, ma pare nessuno se ne sia accorto). Così magari non si partecipa ai progetti PON, ma poi si cavilla sui 100 euro per un po’ di carta. L’idea che la scuola pubblica sia tutta finanziata dallo stato non sta più in piedi e gli interventi economici delle famiglie italiane sono bassi in rapporto a quelli delle famiglie di altri stati europei. In molti colleghi prevale però una mal celata ammirazione nei confronti di Dsga e assistenti amministrativi e in molti altri invece traspare un eccessivo disprezzo: due eccessi che in un corretto sistema di valutazione non potrebbero trovare grandi apprezzamenti positivi. Le segreterie delle scuole sono un sistema inefficiente e burocratizzato all’eccesso attraverso una serie di atti vissuti come adempimenti. La cultura italiana dell’adempimento rende tranquillo chi vuole coprirsi le spalle, ma ha forti tendenze paralizzanti. Potrebbe essere molto interessante vedere quando il dirigente scolastico guida e dirige al sua burocrazia e quando invece ne è schiacciato o le fa guerra. Anche in questo caso al fine di valutare la sua reale competenza dirigenziale.
  5. Rapporti con il territorio. Una valutazione positiva del dirigente scolastico non può che passare da un sinergico rapporto con il territorio. Però poi si sente in giro di dirigenti scolastici che vietano l’ingresso a scuola di attività organizzate dai comuni o dalle associazioni, di feste delle scuole dell’infanzia vietate, di divieto di mangiare le torte nei compleanni, di battaglie sui panini a scuola, di continue lamentele nei confronti di enti locali allo stremo economico ed affiora l’idea che molti colleghi ritengano la scuola una variabile indipendente dalla società e non un’autonomia funzionale dello stato inserita in uno specifico territorio. Anche in questo caso la valutazione è semplice e i rapporti con gli enti locali e i cittadini del proprio territorio di riferimento sono pubblici e trasparenti. Gli enti locali e il tessuto sociale sono soggetti legati a dinamiche proprie dentro logiche sedimentatesi nel tempo in cui le pratiche sono spesso connesse a localismi che non possono essere combattuti da decreti o disposizioni connessi alla semplice legislazione scolastica che spesso confligge con i servizi locali. Ci vuole buon senso nei rapporti col territorio e il buon senso è sempre misurabile. Anche qui sarebbe interessante conoscere cosa ne verrebbe fuori da un’azione valutativa.

La valutazione dei dirigenti scolastici non è un tema che possa scaldare gli animi di qualcuno: noi non andiamo in classe e per genitori e studenti siamo utili solo a risolvere questioni, se le questioni sono risolvibili, sennò tutti sono scontenti. Interessante sapere cosa i docenti pensano di noi, ammesso che siano disponibili a dirlo. Ma di questo magari più avanti.

Gestire la crescita nella scuola dell’autonomia

Gestire la crescita nella scuola dell’autonomia

di Stefano Stefanel

 

La scuola italiana sta vivendo ormai da tempo un forte mutamento i cui esiti si potranno misurare solo fra qualche anno, ma la cui consistenza è sotto gli occhi di tutti. Per la prima volta dopo molti anni i dirigenti scolastici devono gestire strutture di crescita (anche convulsa) e non di contenimento. Le molte difficoltà che incontrano mostrano come spesso la categoria, al di là delle difese d’ufficio dei sindacati di parte e al di là degli attacchi scomposti e troppo spesso volgari degli oppositori in servizio permanente, sia molto legata ad un’idea tradizionale di scuola in cui innovazione e ricerca si fanno solo se proprio non se ne può fare a meno. Ritengo siano da ridiscutere il ruolo del dirigente scolastico in questo grande mutamento, le sue reali competenze dirigenziali, il suo ruolo dentro il processo di mutamento. Su questo probabilmente farà un po’ di chiarezza la prossima valutazione dei dirigenti scolastici, che darà degli indirizzi al Ministero in riferimento ad una categoria che vuole essere al tempo stesso manageriale e protetta. Sempre di più il dirigente scolastico è un ibrido tra dirigente autonomo e impiegato statale e questo lo si vede nelle plurime proteste connesse con il contemporaneo assorbimento di lavori sempre più gravosi in tempistiche sempre più ristrette.

Gli elementi di crescita della scuola di oggi sono però oggettivi:

  • l’organico è cresciuto in maniera consistente, ma il mantenimento in vita di alcuni elementi contraddittori (GAE eliminate ma non abolite e quindi ancora attive; organico dell’autonomia che si interseca con trasferimenti, assegnazioni provvisorie, utilizzi, ecc.) manderà a regime la sua gestione così come pensata dalla legge 107/2015 solo tra qualche anno;
  • i fondi PON stanno portando 3 miliardi di euro nelle scuole, ma troppe scuole non sanno come chiedere o come utilizzare questi fondi;
  • il Piano Nazionale Scuola Digitale e la nuova Formazione docenti introducono enormi elementi di novità;
  • gli Ambiti e le Reti di Ambito fanno intravedere enormi potenzialità anche di utilizzo di risorse didattiche e amministrative capaci di creare un miglioramento progressivo del sistema con la liberazione conseguente di risorse aggiuntive;
  • i Progetti nazionali di grande portata come i Laboratori per l’occupabilità mostrano un diverso modo di organizzare e gestire la spesa;
  • il Bonus premiante il merito ha introdotto nuove risorse e un nuovo rapporto tra dirigente scolastico e docenti;
  • l’Alternanza scuola lavoro anche nei Licei evidenzia la necessità di potenziare il progetto didattico e non le routine consolidate.

Credo che un punto dirimente dell’attuale dibattito sia quello per cui nelle scuole italiane statali il 1° settembre 2016 ci sono molti più soldi e molti più insegnanti che nelle scuole statali italiane il 1° settembre 2015. Questo è un dato oggettivo di crescita e non capisco che motiva ci sia a negarlo, anche perché continuare a negarlo non fa che spostare più in là i necessari momenti formativi per accompagnare un processo che comunque è stato innescato in forma molto invasiva.

ORGANICO DELL’AUTONOMIA

Ho già avuto modo in precedenti interventi di evidenziare come a fronte di una così forte e convulsa crescita del personale non con un semplice incremento orario o con il ritorno a situazioni di molti anni fa, l’idea di molti dirigenti è ancora piramidale con il mantenimento della figura del Vicario o del Vicepreside che costituisce il secondo punto della piramide dirigenziale. Dietro questa ossessione per il Vicario c’è il retropensiero di molti di noi secondo cui solo noi sappiamo chi può aiutarci a gestire la scuola, partendo dall’idea che il nostro primo obiettivo è fare amministrazione. Carte e burocrazia, insomma, che diciamo di odiare, ma che invece sono spesso la nostra gioia segreta (evidente in chi emana “487 circolari” l’anno).

L’organico dell’autonomia è invece una questione didattica e progettuale, non una questione di supplenze. La progettualità, l’innovazione, la ricerca e l’analisi della propria scuola prevalgono sull’orario e sulle supplenze. O almeno dovrebbero prevalere. La novità è che mentre prima della legge 107/2015 c’era l’orario di cattedra e le ore aggiuntive di tipo progettuale erano volontarie, adesso c’è un Piano triennale dell’offerta formativa e un organico per realizzarlo. Non è un organico perfetto, ma neanche quello di prima lo era: è comunque l’organico che lo stato ci ha dato e dunque quello su cui noi dirigenti scolastici dobbiamo esercitare la nostra professionalità.

E’ abbastanza avvilente constatare come invece spesso viene burocratizzato anche questo, con una critica al Ministero che non ha assegnato quanto richiesto, anche se è noto a tutti che lo svuotamento delle GAE presupponeva un periodo transitorio. In questo periodo transitorio un buon esercizio sarebbe quello di lavorare sulle Reti di ambito e le Reti di scopo per creare quei sistemi di governance comune che il nuovo assetto scolastico richiederà quanto prima. Ma anche in questo settore si assiste al rallentamento di un processo costitutivo che invece avrebbe dovuto procedere spedito con l’avvio dell’anno scolastico e la titolarità di ambito di molti docenti.    Tutto però è rallentato anche perché i dirigenti scolastici e gli uffici periferici del ministero sono attenti ad altre problematiche, connesse con la vecchia idea di scuola. L’organico dell’autonomia molto spesso non è visto come un elemento di oggettivo interesse pedagogico progettuale, ma come un ulteriore impegno da definire non con una progettazione annuale, ma con orari rigidi e settimanali. Cioè con la negazione di ogni reale progettualità connessa ad un Piano Triennale dell’Offerta Formativa.

QUESTIONE DI SOLDI

Un altro sorprendente elemento è l’esistenza di molte risorse aggiuntive, mai gestite prima dalle scuole, che però vanno a scombinare l’idea che l’obiettivo del sistema venga definito dalla singola scuola. Spetta allo Stato definire gli obiettivi generali del sistema e il Miur lo sta facendo centrando la sua attenzione sul Piano Nazionale Scuola Digitale, sui Progetti Nazionali, sui PON, sui Laboratori per l’occupabilità, sul bonus premiante. Tutte attività innovative che trovano la loro definizione e ricaduta nell’ambito della legge 107/2015 laddove si disegnano i contorni dei docenti interessati dal bonus premiante. Il bonus premiante è una cifra aggiuntiva al FIS e agli altri fondi e infatti i docenti nella grande maggioranza delle scuole lo hanno incassato senza alcuna polemica, come invece avrebbero sperato i sindacati. In questo caso i dirigenti scolastici si sono trovati a dover applicare criteri, non a fare i conti delle ore svolte. Questa è una grossa novità alla fine accettata dai docenti e non troverei strano che il FIS contrattato in un futuro sparisse a favore di un bonus “potenziato”. Credo che oggi forse potrebbe nascere nelle parti un dubbio sulla contrattazione e sulla sua reale efficacia, perché non sempre il dirigente scolastico è visto dai docenti che dirige come uno scriteriato incompetente nepotista. I dirigenti scolastici hanno subito lo scorso anno scolastico una reale aggressione mediatica da frange di docenti e sindacati che vorrebbero riportare indietro le lancette del mondo a cinquantenni fa e sono stati dipinti come ebeti con forti tendenze alla corruzione. Le cose non sono andate in quel modo, ma rimane l’idea anche in molti di noi che queste innovazioni potrebbero sparire prima di essere andate a regime e dunque non vale la pena di impegnarsi più di tanto.

C’è però da dire che i soldi sono molti di più, ma nelle scuole prevale lo sconcerto per la loro quantità e per le modalità con cui vengono erogati. Prendiamo i fondi PON: mi ha fatto molta impressione sapere che il primo PON per le Reti Wlan-Lan, che chiedeva solo una banale domanda per ottenere i fondi, abbia visto più di tremila scuola (oltre il 30% del totale) non presentare neppure la domanda. Mentre tutti abbiamo potuto vedere in l’impietoso elenco delle scuole che hanno sbagliato la domanda per il secondo PON (ambienti per l’apprendimento) in una sorta di berlina di cui nessuno ha risposto e per cui nessuno ha chiesto scusa.

Anche la grande progettualità dei Laboratori per l’occupabilità non sta creando quella fibrillazione che progetti di così grande portata (siamo intorno al milione e mezzo di euro per progetto) dovrebbe determinare in territori che devono stringersi attorno alle scuole vincitrici dei progetti gestibili molto più facilmente dentro reti di ambito piuttosto che dentro singole segreteria molte delle quali poco adatte a gestire grandi masse di danaro.

Il dirigente scolastico dovrebbe essere motore e facilitatore del mutamento invece si dedica sempre più spesso a riportare le novità nella routine quotidiana. La scuola è in una fase di turbolenta modificazione, ma questo non viene sempre visto come un’opportunità. Però ci sono più docenti, più soldi e più occasioni di miglioramento e di cambiamento. E questo deve innescare meccanismi di innovazione e di ricerca e nuovi strumenti di governo. Di questo qualche volta si dovrebbe parlare.