da La Repubblica
Autismo, cure negate ai maggiorenni
Raccontata da diversi libri e film di successo, è in realtà una delle malattie meno conosciute e meno indagate. Secondo alcune stime in Italia le persone colpite sono circa mezzo milione. Lo Stato si occupa di loro in maniera adeguata solo fino ai 18 anni, poi tutto il peso ricade sulle famiglie. “Perdiamo l’assistenza sanitaria e manca un servizio per adulti: il rischio è di vanificare tutti i traguardi raggiunti”, si lamentano. Ora le cose potrebbero però finalmente migliorare grazie all’approvazione della prima legge specifica
di PAOLA ROSA ADRAGNA. Video FRANCESCO COLLINA
Così dopo i 18 anni le famiglie restano sole
Il faticoso salto nel mondo dei grandi
Un lavoro part time, il progetto di Civitavecchia
Così dopo i 18 anni le famiglie restano sole
di PAOLA ROSA ADRAGNA
ROMA – “Nella Costituzione americana c’è il diritto alla felicità. Nella nostra no, ma non abbiamo comunque diritto a essere un po’ felici? Non ne hanno diritto anche le persone come mio figlio?”. Giovanni Rigon è il papà di Lorenzo, 23 anni, autistico. La sua vita non è mai stata semplice e da quando ha finito la scuola le difficoltà sono aumentate.
Dal caso letterario “Se ti abbraccio non avere paura”, il libro autobiografico che racconta la storia di Franco e Andrea Antonello, padre e figlio autistico, fino a Chiara Ferraro, venticinquenne autistica candidata alle primarie del Pd per il sindaco di Roma, di autismo si è parlato tanto. Resta però una sindrome poco conosciuta: non si ha certezza delle cause, dei numeri (almeno mezzo milione in Italia secondo alcune stime), delle terapie. Inoltre la maggior parte degli studi e delle ricerche parla di autismo infantile. Ma i bambini crescono, diventano adulti. E l’autismo? Resta. Non sparisce con il raggiungimento della maggiore età. Anzi, è a quel punto che se possibile le difficoltà diventano ancora più grandi perché lo Stato non è pronto a questo passaggio e la società ancora non è preparata ad accoglierli. Un problema su cui il noto conduttore radiofonico Gianluca Nicoletti ha voluto richiamare l’attenzione qualche settimana fa con una provocatoria “festa” pubblica per il diciottesimo compleanno di suo figlio.
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Il nocciolo della questione lo spiega la mamma di un altro ragazzo autistico, Mariella Ferri di Ferrara: “Gianluca – racconta – ha compiuto 18 anni e ha smesso di esistere per le istituzioni. Quando ho scoperto che non avrei più avuto un medico referente del Dipartimento di Salute Mentale che si prendesse cura di lui mi sono sentita come se non avessi difeso sufficientemente la sua dignità. Chi nega un diritto a un ragazzo che non parla, che comunica con poche modalità non sempre socialmente accettabili, compie un tentato omicidio”. Danilo Catania, il papà di Marta, aggiunge: “Vorrei che mi figlia fosse in grado di essere quello che io chiamo le quattro A: abile, autonoma, autodeterminata, accolta. Sulle prime tre ci lavoriamo con la terapia, la scuola, la famiglia, ma la quarta dipende molto dal mondo esterno. Se la società non si forma Marta non verrà mai accettata”.
L’autismo è una disabilità comportamentale e relazionale che impedisce un’integrazione nella società. “Però se diagnosticato in tempo e trattato nel modo migliore ha un margine di miglioramento altissimo”, spiega Carlo Hanau, docente di Programmazione e organizzazione dei servizi sociali e sanitari all’Università di Modena e Reggio Emilia e membro del comitato scientifico dell’Angsa (Associazione nazionale genitori soggetti autistici). Ma a causa della mancanza di formazione dei medici la diagnosi non è sempre facile: ci sono genitori che hanno capito la patologia dei figli guardando Dustin Hoffman in Rain Man o una puntata dedicata all’autismo da Quark di Piero Angela.
Una volta accertato il disturbo il bambino ha diritto a cure socio-sanitarie e socio-assistenziali: viene preso in carica da un neuropsichiatra infantile; ha un educatore pagato dal Comune; un insegnante di sostegno fornito dalla scuola; un Assistente educativo culturale pagato dal Comune fino alle medie; un Assistente speciale alle superiori pagato dalla Provincia. “Un grande numero di risorse – continua Hanau – che viene sprecato. Il vero problema nell’età dello sviluppo non è l’assenza di assistenza, ma la sua qualità. Abbiamo una marea di operatori che non sanno cosa fare e come farlo”.
Al compimento dei 18 anni il neuropsichiatra non è più incaricato di seguire il suo paziente e può essere sostituito da uno psichiatra o da un neurologo. “Nessuno dei due ha le competenze necessarie. Essendo definito infantile, l’autismo non rientra nemmeno nei loro piani di studio all’università”, denuncia ancora Hanau. Nel migliore dei casi il paziente viene scaricato, nel peggiore la sua diagnosi diventa quella di una qualsiasi malattia psichica e viene ipermedicato con farmaci inadatti. Con danni che non possono essere quantificati perché non esistono studi che dimostrino l’effetto sul lungo periodo.
Finita la scuola l’inserimento lavorativo sembra un’utopia e i Comuni offrono solo i cosiddetti diurni, centri che durante il giorno accolgono i disabili adulti e che dovrebbero svolgere attività volte allo sviluppo delle capacità personali e all’integrazione. Ma la maggior parte non offre i programmi abilititativi personalizzati di cui gli autistici hanno bisogno per non peggiorare. Le famiglie si trovano a vivere un paradosso. “Perdiamo l’assistenza sanitaria e manca un servizio autismo per adulti: il rischio è di vanificare tutti i traguardi raggiunti. È insensato. Perché non esiste uno specialista che possa seguire i ragazzi come mio figlio per tutto l’arco della vita?”, si chiede Noemi Cornacchia, mamma di Alessandro e presidente di Angsa Ravenna.
Per seguire i propri figli molti genitori sono costretti a lasciare il lavoro. Secondo un’indagine svolta da Censis e Fondazione Cesare Serono nel 2011, nel 62,6 per cento dei casi le mamme hanno sperimentato un peggioramento delle condizioni lavorative e il 25,9 per cento ha perso o lasciato il lavoro. Chi non può permettersi di stare a casa o di pagare un operatore privato ha un’unica soluzione: le residenze sanitarie assistenziali. Queste strutture accolgono persone disabili non autosufficienti ma quasi mai offrono programmi adatti o un personale con una formazione adeguata. “Abbiamo chiuso i manicomi – sospira Noemi – ma queste non sono altro che una forma diversa di segregazione. Ecco la grande lacerazione dei genitori: la consapevolezza che alla nostra morte loro saranno abbandonati e destinati a regredire”.
Una prima risposta per cercare di cambiare questo stato di cose è arrivata qualche mese fa, con l’approvazione nell’agosto scorso della legge 134, la prima in Italia specifica sull’autismo alla quale si è aggiunta ora una proposta di legge per l’inserimento lavorativo degli autistici a cui il governo ha assicurato il suo sostegno per bocca della ministra Maria Elena Boschi. Si tratta però di un ddl che sta muovendo ora i primi passi in Parlamento, mentre la norma già in vigore introduce i livelli essenziali di assistenza (Lea) anche per questa sindrome e ogni prestazione sanitaria che rientra nei Lea viene finanziata con il fondo sanitario nazionale, anno per anno. E’ presto però per capire se può essere la soluzione alle sofferenze delle famiglie dei ragazzi autistici visto che i primi fondi, 5 milioni di euro da ripartire tra le Regioni e destinati a progetti di diagnosi, cura e integrazione delle persone autistiche, sono stati messi a disposizione dalla legge di Stabilità 2016. Come spiega Davide Faraone, sottosegretario al ministero dell’Istruzione e presidente della Fondazione Italiana per l’Autismo (Fia), “è un segnale importante di inversione di tendenza. La legge è stata la risposta a un buco normativo e mette fine alla differenza di interventi tra Regioni. Ma siamo soltanto all’inizio. Ora bisogna spingere ancora di più perché il livello di abbandono in cui sono state lasciate le famiglie non è certo da paese civile”.
Il faticoso salto nel mondo dei grandi
di PAOLA ROSA ADRAGNA
ROMA – Suonata l’ultima campanella, sui ragazzi autistici cala il sipario. Quale sarà il loro futuro ora che non andranno più a scuola? Le opzioni sono poche, ogni famiglia si arrangia come può. A Lorenzo piace nuotare e stare all’aria aperta, ma da quando è finita la scuola passa le sue giornate nel centro diurno dell’Anffas (Associanzione nazionale famiglie di persone con disabilità intellettiva e/o relazionale) di Roma, dalle 9 alle 15, dove le attività non lo soddisfano. E intanto il papà Giovanni Rigon studia qualche idea per il futuro. Come Maurizio Sterpone, il papà di Edoardo, che a Torino vorrebbe fondare una cooperativa con alcuni soci e comprare una casa in campagna, con terreno coltivabile e animali, dove suo figlio e altri ragazzi come lui, con le sue stesse passioni ma anche con disabilità diverse, possano trovare la loro dimensione: “Edo ha 19 anni e va ancora a scuola, ma bisogna iniziare a pensarci”.
Chi non può permettersi un investimento lotta con quello che lo Stato può offrire. A Ravenna Noemi Cornacchia, mamma di Alessandro, ha barattato la frequenza presso un centro diurno con 20 ore di assistenza a settimana da parte di un educatore che accompagna il figlio a fare lavoro di back office in una biblioteca con cui lei stessa ha preso accordi e in una cooperativa in cui i ragazzi autistici sistemano libri usati, fanno l’inventario, li prezzano e li vendono al pubblico. Nicola invece ha 25 anni, vive a Cento, in provincia di Ferrara, e da marzo ha iniziato a lavorare, affiancato da una educatrice, in un vero ufficio di grafica per quattro ore alla settimana. “Ma non è stato facile”, racconta la mamma, Cristina Sitta. “Ci sono voluti sei anni per ottenere qualcosa. A scuola Nicola si è appassionato alla pittura e alla grafica, imparando anche a utilizzare programmi come Photoshop. Da quando si è diplomato nel 2010 fino a qualche mese fa era impossibile renderlo partecipe di un progetto che tenesse conto delle sue attitudini. Quelli offerti dal Comune erano inadatti e le mie proposte non venivano mai accolte per mancanza di fondi o di un educatore con rapporto uno a uno”.
Anche Pino Suplizi ha provato la via dell’inserimento lavorativo, ma senza successo. Finite le medie, ha iscritto suo figlio all’istituto alberghiero: “Superate le prime resistenze del preside, che temeva non l’avrebbero voluto, Adriano ha fatto gli stage previsti dal percorso di studi, in alberghi e ristoranti rinomati, anche con un discreto successo. Ma finita la scuola non c’è stato niente”. Per ben due volte ha trovato un lavoro per Adriano, ma è stato sopraffatto dalla burocrazia. La prima volta ha atteso inutilmente che il Comune di Roma desse l’autorizzazione e garantisse un’assicurazione per iniziare un lavoro da magazziniere in un centro commerciale. La seconda un accompagnatore di viaggi voleva Adriano come animatore nel suo villaggio in Calabria, ma la Regione Lazio non poteva garantire un educatore in una regione diversa. Un altro buco nell’acqua: “Non ho mai chiesto che venisse trovato un lavoro a mio figlio, il lavoro c’era, ma non c’era l’appoggio delle istituzioni. Ormai Adriano ha 39 anni, me ne occupo io 24 ore su 24. Ma quando io non ce la farò più, che ne sarà di lui?”.
Secondo il rapporto Censis del 2011, frequentano un diurno il 50 per cento dei ragazzi autistici oltre i 20 anni, il 21,7 per cento sta a casa o in una residenza e solo il 10 per cento lavora. Il punto su cui insistono i genitori è uno: questi ragazzi hanno attitudini che possono essere messe a disposizione della comunità. Potrebbero contribuire in qualche modo alla produzione, con un lavoro adatto alle necessità individuali. Senza considerare che più progressi fanno, più sono inseriti nella società, meno pesano sul welfare dello Stato. “Altro che diurni e residenze, questo è un approccio innovativo”, sostiene Noemi Cornacchia.
Le famiglie chiedono percorsi strutturati che vadano avanti a prescindere dall’intraprendenza delle mamme o dalla bontà d’animo degli operatori che se ne occupano. La legge 328 del 2000 stabilisce la possibilità di richiedere al Comune e alla Asl un progetto individuale per l’integrazione delle persone disabili. Ma i genitori lamentano che questi diritti esistono solo su carta e le risposte che hanno ricevuto vanno dal “non siamo obbligati a seguire i casi di autismo” al “siamo a disposizione di coloro che assumono medicinali per fare le ricette, non siamo certamente esperti di autismo” .
Un lavoro part time, il progetto di Civitavecchia
di PAOLA ROSA ADRAGNA
ROMA – “Credo in una sanità propositiva, che non si fermi ad aspettare la cura. La parola chiave è prevenzione. Se non dell’autismo, ancora impossibile allo stato attuale delle cose, almeno dei peggioramenti”. È questa la motivazione che ha spinto Maurizio Munelli, psicologo e direttore dell’Osservatorio autismo e ADHD (Disturbo da deficit di attenzione) della Asl Roma 4 di Civitavecchia, a dare vita a un progetto di inclusione sociale e lavorativa per giovani adulti autistici tra i 18 e 30 anni. È attivo dal 2011 e oggi coinvolge sei ragazzi ad alto e medio funzionamento.
In cosa consiste il progetto?
“La nostra Asl crea delle partnership con ditte e aziende in cui i ragazzi vanno a lavorare in base alle proprie attitudini. Abbiamo la mensa per chi è più bravo in cucina, magazzini e biblioteche per quelli a cui piace fare inventari e classificare e una ditta di pulizie per chi è più attento all’ordine. Ovviamente l’inserimento è graduale, per abituarli all’ambiente e al contesto, poi i progressi sono eccezionali. Le ore cambiano in base alle loro attitudini e alla mansione: in media sono quattro a settimana ma l’obiettivo è renderli in grado di reggere un normale part-time. Il lavoro è un valore per gli esseri umani, per realizzarsi quotidianamente. Lo è per noi, figuriamoci per loro”.
Da chi è finanziato?
“Abbiamo chiesto i soldi alla fondazione della Cassa di risparmio di Civitavecchia. Ci danno 20mila euro l’anno per coprire tutti i costi del progetto. Con la metà paghiamo i tutor che sostengono nell’inserimento lavorativo le famiglie e i ragazzi. Loro si dividono il resto, proprio come se fosse uno stipendio”.
http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2016/04/01/news/autismo_il_paradosso_delle_cure_solo_per_minorenni-135631616/?ref=HREC1-13
Quali sono i benefici concreti?
“Innanzitutto i ragazzi restano attivi e scongiurano la perdita dei progressi fatti con le terapie durante gli anni della scuola. Poi hanno una possibilità reale di inclusione. Creano un curriculum di esperienze spendibile nel futuro in un collocamento. Con un risparmio sul lungo periodo anche per le casse dello Stato: se non regrediscono non devono essere mandati nelle strutture assistenziali, che hanno un costo di almeno 110 euro al giorno. O non devono restare a carico dei genitori”.
È un progetto replicabile?
“Assolutamente, ma servono soldi. E per il momento lo Stato non finanzia. Ogni istituzione dovrebbe stanziare dei fondi per l’autismo, per aiutare quelle famiglie che, una volta terminato il ciclo scolastico, si trovano a dover accudire al cento per cento i loro figli, che non hanno nessun servizio specifico adatto a loro”.
Qual è l’aspetto più importante per il successo dell’inserimento lavorativo?
“Gli autistici hanno volontà e desideri come tutti noi, quindi bisogna individuare precocemente le predisposizioni personali e coltivarle. Per questo c’è bisogno di azioni di sanità pubblica complessiva: i termini bambino/adolescente/adulto sono definizioni tecniche, ma non sono compartimenti stagni. Sono continuativi ed è proprio la continuità quello che serve nel trattare questa sindrome”.
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