da Unità
Far fuori gli insegnanti giocando con le statistiche. Ecco come...
Marina Boscaino
Esistono alcuni luoghi comuni difficili da sfatare. Uno di questi è certamente che il rapporto docente-alunni nel nostro Paese sia molto più alto che altrove. Da ciò i grilli parlanti (e i detrattori della scuola pubblica) deducono una serie di conseguenze, soprattutto relative ad eventuali sprechi. Non deve dunque stupire che il ministro Gelmini, in un’intervista al "Sole 24 ore" - a commento del decreto n. 112 del 25 giugno, che prevede, secondo stime ufficiose del ministero dell’Economia, un taglio di addirittura 160mila posti nella scuola, pari a 70mila cattedre e 40mila posti di personale Ata (amministrativo, tecnico e ausiliario) - abbia affermato che si tratta di una "cura da cavallo inevitabile per la scuola", poiché questo Governo "è stato eletto per risanare i conti pubblici". Nel Paese delle lobby di potere, delle consulenze milionarie, degli abusi tollerati, della celebrazione dell’evasione fiscale come diritto inalienabile del cittadino, nel Paese di Gomorra, paga la scuola. E Gelmini è facile ostaggio di Tremonti.
Già in autunno il Quaderno Bianco sulla scuola stigmatizzava l’alto numero dei docenti. Come è noto, sia l’ultima Finanziaria che il decreto 112 sono intervenuti in proposito, non inficiando tuttavia il senso del discorso: quella pubblicazione rivelava che su 100 studenti della primaria in Italia ci sono 9.3 docenti, 5.3 nei Paesi Ocse; nella secondaria di I grado 9.7 per l’Italia contro il 7.3 dell’Ocse; nella secondaria superiore, 8.7 Italia e 7.9 Ocse.
Hanno dunque ragione: in Italia ci sono troppi insegnanti rispetto al numero di alunni. Ma una lettura più attenta di alcune specificità del nostro sistema di istruzione rivela una realtà decifrabile in termini diversi. Sulla quale una maggiore buona fede di chi ci governa e di chi interpreta i dati consentirebbe di riflettere con la necessaria attenzione. Nell’anno scolastico 2005-2006 i posti di insegnante statale in Organico di Diritto sono stati complessivamente 737.250, di cui 48.607 di sostegno (fonte MPI). Ed ecco il primo punto: nel resto dell’Europa gli alunni diversamente abili frequentano scuole speciali. Pertanto gli operatori che se ne occupano non vanno ad aumentare il numero dei docenti. Solo in Francia per questi ragazzi viene destinato un organico di 280.000 operatori sociali, che appartengono comunque ad amministrazioni diverse dalla scuola. Ecco come un provvedimento di inclusione, di integrazione e di pari opportunità, nonché una lettura illuminata dell’art. 3 della Costituzione, non solo non viene considerato tale, ma si ritorce contro il sistema scuola. Forse il governo preferirebbe confinare - esattamente come accade, ad esempio, in Germania - bambini e ragazzi diversamente abili in strutture parasanitarie.
Rispetto alla cifra complessiva dei posti in organico di diritto va considerata un’altra "anomalia" - questa volta, al contrario, discutibilissima - del nostro sistema: i 25.679 insegnanti di religione cattolica (di cui 14.670 di ruolo), che altri paesi - in cui l’egemonia politico-culturale della chiesa non è preminente e la laicità della scuola un valore realmente fondante - non hanno l’onore di conteggiare nel numero dei propri insegnanti. L’eterogeneità del nostro territorio, infine, rappresenta un ulteriore elemento che altera il rapporto, ma di cui si continua a non tener conto. Certo, sarebbe forse conveniente lasciare i bambini di Pantelleria, Tremiti, Lampedusa o dei tanti comuni alpestri privi di scuole. Ma, fortunatamente, esiste ancora una norma sull’obbligatorietà dell’istruzione che prevede l’istituzione di scuole e classi in quel tipo di territori. Altro discorso artatamente ignorato è la considerazione del tempo pieno: tale è in Italia la scuola dell’infanzia (8 ore) con un numero doppio di insegnanti rispetto ai paesi con la metà delle ore. Da noi circa il 35% della scuola primaria - finché si riuscirà a resistere agli evidenti tentativi di smantellamento - funziona a tempo pieno (con 70.000 insegnanti in più rispetto al tempo normale), così come una parte importante della scuola media funziona a tempo prolungato: le ricadute in termini sociali, di qualità della vita, di realizzazione professionale delle madri lavoratrici, nonché l’avanzato livello in termini di elaborazione pedagogica e di successo formativo di quelle scuole non sono elementi che sembrano interessare i "contabili" della scuola pubblica, ammesso che ne siano a conoscenza. Grazie a tempo pieno e tempo prolungato, poi, il tempo-scuola degli studenti italiani è - questo sì, realmente - decisamente superiore a quello degli studenti europei. E non bisogna dimenticare che in alcuni sistemi europei dell’istruzione esistono miriadi di figure professionali che - pur svolgendo quella funzione - non sono insegnanti: i bibliotecari delle nostre scuole, ad esempio, sono docenti non idonei per motivi di salute.
Insomma, la peculiarità del rapporto tra alunni e docenti nella scuola italiana - uno dei cavalli di battaglia dei sostenitori dei tagli e del rigore apparente - deriva invece dalla statura etica e dalle battaglie politiche di chi ha pensato la scuola della Costituzione. I tagli e le loro dimensioni sono quindi inaccettabili. Speriamo che tutti - in fase di discussione del decreto - lo ricordino.