Rispetto

Rispetto

di Claudia Fanti

Francamente non capisco dove condurrà il sistema di valutazione che si va profilando all’orizzonte prossimo.

Mi si consenta il dubitare del successo pratico su vasta scala dell’iniziativa. Mi interesso di altro, di ciò che riguarda il rispetto dei modi di apprendere di bambine e bambini.

Noi abbiamo una scuola tagliata, umiliata da continue recriminatorie di varia tipologia. Sorvolo perché credo non ne valga la pena e poi ritengo che i docenti ne abbiano abbastanza di meditare sui tentativi che ogni ministero mette in atto per monitorare il loro lavoro e la riuscita della loro scuola. Ci sono scuole che  vengono magnificate sulle pagine dei maggiori quotidiani per la loro capacità di attirare l’utenza con soluzioni d’impatto mediatico e credo stia bene a tutti leggerne le mirabilia. Eppure ce ne sono tante che fanno i conti con difficoltà pratiche ed economiche.

Non sta qui il punto. Il punto sta invece sul come fare a dare il massimo in ogni condizione realisticamente. La scuola elementare, in particolare, dovrebbe essere tenuta in considerazione per ciò che ha subito negli ultimi anni: tempo pieno destrutturato, moduli eliminati insieme con il progetto alto che li aveva fatti crescere in competenza didattica e metodologica nei vari ambiti disciplinari, introduzione del maestro unico (di fatto più che unico, semplicemente responsabile di una classe, ma attorniato da numerosi insegnanti privati delle compresenze del tempo pieno, a tappare i buchi dell’orario eccedente le 24 ore fino alle 30-32 ore!).

La lettura spassionata, ma anche appassionata, del contesto scolastico (e della società che lo attornia) in cui si opera dovrebbe essere molto più attenta e ponderata sia per i decisori politici-tecnici sia, e soprattutto, per chi opera in prima fila  proprio per non cedere allo sconforto e per produrre soluzioni possibili.

Lo studio delle teorie pedagogiche, dei testi di filosofi dell’educazione e della modernità  è sicuramente la base da cui partire per operare delle scelte di valore, ma poi le scelte vanno rese operative e per queste bisogna essere disposti a battersi senza badare a spese e senza continuare a destrutturare quello che con fatica era stato costruito.

Se credo che bambine e bambini vivano in un contesto che non  tiene in considerazione il loro estremo bisogno di esserci con il corpo e con la mente, devo partire da loro. Devo iniziare con il fornire loro gli strumenti per far fronte al futuro, non a quello pensato dalla finanza.

Ci si deve assumere la responsabilità di non accelerarne il percorso cognitivo ricorrendo a scorciatoie di alcun tipo (vedi per esempio la questione dell’anticipo o la tendenza all’addestramento), si deve dar loro il tempo dei giochi, dell’esperienza diretta nelle relazioni e nel contatto con l’ambiente naturale;  agli insegnanti si devono offrire risorse, si deve lasciare loro il tempo di educare, di prendersi cura, di formare  e istruire per una vita in cui la stima in se stessi dei bambini e delle bambine sia la base per produrre pensiero e azione. Una vita nella quale, la voglia di conoscere del soggetto abbia un peso determinante così come la predisposizione a pensarsi come un essere che partecipa ai destini dell’umanità tutta,  qualunque ruolo abbia nel mondo. Un universo-mondo complesso le cui sfide ogni attimo si svelano a chiunque lo sappia osservare e studiare…un insieme di sfide: ecologiche economiche, teologiche, filosofiche, antropologiche, scientifiche, tecnologiche…

Le bambine e i bambini entrano in classe la mattina per dialogare sugli argomenti più disparati. Per giocare con le cose in modo protetto ma anche inquieto di pericoli da superare con la propria intelligenza e l’acume. Essi portano con sé la loro infanzia curiosa e assetata, l’entusiasmo per un pezzetto di corteccia caduta da un vecchio tronco, per un sassolino trovato in bagno, per un pezzetto di vetro limato dalle intemperie…per un brano di musica classica,  per l’hip hop… per confrontarsi coi pari che sempre meno frequentano al di fuori dell’aula. Essi sono proiettati con la gestualità, con gli sguardi, con la parola verso i pari. Hanno un estremo bisogno di collaborare, di raccontarsi, di misurarsi con se stessi, non certo con un voto o un giudizio sul loro operato, sotto una guida sapiente e non invadente che lasci loro il tempo di organizzare i saperi.

Se le mani non rispondono subito ai comandi, se le gambe non sono scattanti, se la mamma ha paura che si facciano male e non li manda in gita, se nessuno li rimprovera mai o se, al contrario, vengono rimproverati per un nonnulla, se sono soggetti a un tipo di educazione che  non fa loro distinguere fra comportamenti adeguati e inadeguati, se mangiano con le mani o picchiano per difendersi, se se la fanno addosso, ecc. noi che facciamo?

Puniamo? Non puniamo? Fermiamo il mondo e ci adombriamo?

Penso che si possa scegliere di esserci con tutta la nostra forza pedagogica e onestà intellettuale proprio adottando la via della ragione. Per cui vorrei che si creassero le condizioni affinché ogni docente possa   adottare una metodica che porti a un ritorno di ciò che un tempo veniva chiamato un procedere per prove ed errori su ogni versante dell’insegnamento/apprendimento e delle relazioni. Una lenta costruzione-educazione alla ragione, nella quale gli alunni possano costantemente divenire maestri di se stessi.

Su tutto i bambini pongono domande. E il problema non è rispondere a tutte, accumulare quantità di informazioni le une scollegate dalle altre, bensì lasciare che il dispiegarsi delle ipotesi, delle argomentazioni, delle idee che fluiscono, a un certo punto, trovi le risposte in un dipinto, in un libro, per mezzo di internet, in un erbario antico…ovunque.

E tutto ciò, nella scuola di base, è assolutamente essenziale avvenga con serenità, senza ansie da misurazione, senza che i docenti vivano dentro di sé il conflitto tra il dover essere per i loro alunni e il dover essere per l’istituzione e ciò che essa pretende in termini di far mostra di sé, di produzione di rendicontazioni dotte, utile più a chi dirige che non all’azione in situazione.

Temo però che l’ansia da prestazione dei ministri che si susseguono implacabili supererà l’esigenza di fermare il tempo per una sana riflessione pedagogica e preferirà le mirabolanti mirabilia delle  RIFORME e VALUTAZIONI di sistema! Mai nessuno che sollevi il problema vero della scuola, dall’ infanzia all’università, e cioè puntare sulla ricerca scientifica e sulle modalità di insegnamento/apprendimento con uno studio continuo e costante, un confronto serio fra tutti gli ordini di scuola organizzato e pagato dal Ministero, nel quale si affrontino in itinere e sempre i nodi dell’insegnare nella “Modernità liquida”.

Scuole in Rete o Reti di Scuole

SCUOLE IN RETE O RETI DI SCUOLE

di Gian Carlo Sacchi

 

“Le istituzioni scolastiche possono promuovere accordi di rete o aderire ad essi per il raggiungimento delle proprie finalità istituzionali. L’accordo può prevedere lo scambio temporaneo di docenti, che liberamente vi consentano. L’accordo individua l’organo responsabile della gestione delle risorse e del raggiungimento delle finalità del progetto. Nell’ambito della rete, possono essere istituiti laboratori finalizzati tra l’altro a: la ricerca didattica e la sperimentazione, la documentazione…, la formazione in servizio del personale scolastico.

Quando sono istituite reti di scuole, gli organici funzionali di istituto possono essere definiti in modo da consentire l’affidamento a personale dotato di specifiche esperienze e competenze di compiti organizzativi e di raccordo istituzionale e di gestione dei (suddetti)laboratori”.  (art. 7 DPR 275/1999).

“….potenziamento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche…; definizione per ciascuna istituzione scolastica di un organico dell’autonomia, funzionale all’ordinaria attività didattica…..; costituzione, previa intesa con la Conferenza unificata (stato- regioni…), di reti territoriali tra istituzioni scolastiche, al fine di conseguire la gestione ottimale delle risorse umane, strumentali e finanziarie; definizione di un organico di rete…… (art. 50 DL 5/2012).

Messi a confronto questi due enunciati sollevano non pochi interrogativi, a cominciare dal fatto che nel 1999 si dava per scontata l’esistenza dell’organico funzionale di istituto e a tutt’oggi si tratta di prevederne ancora l’attuazione, ma quello che è forse più inquietante è che sotto la stessa parola, autonomia, si nascondono due visioni che si potrebbero anche intendere come opposte nel dar vita alle reti di scuole. La prima muove dalle istituzioni scolastiche autonome che possono promuovere accordi di rete per realizzare una serie di azioni decise dai contraenti e di cui si assumono la responsabilità, l’altra fa capo ad un decreto ministeriale, d’intesa con la Conferenza unificata. L’una è un’opportunità, l’altra sarà un obbligo; da una parte la costituzione avviene dopo aver valutato la convenienza ed i contenuti, con anche la possibilità dello scambio dei docenti tra i diversi istituti in rete, dall’altra la finalità prevalente sarà l’organizzazione del personale per attività già in qualche modo individuate. Si potrebbe continuare dicendo che la preoccupazione nel 1999 era di avvicinare le scuole alla ricerca con la documentazione, l’individuazione di nuove figure professionali, anche attraverso laboratori territoriali, nel 2012 prevale di nuovo la gestione che sarà perlopiù amministrativa; i poteri e le governance delle reti rimangono in un’ottica di tipo centralistico, con una delega conferita dall’alto, anziché un’azione democratica voluta da chi dà vita a tale aggregazione, con buona pace del nuovo Titolo Quinto della Costituzione che voleva fare salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche proprio nel momento in cui si dovevano mettere in atto le competenze esclusive e concorrenti di stato e regioni.

E non si può nemmeno dire che una rete che compare quasi come una sovrastruttura possa stare in un provvedimento che vuole semplificare, così come è fuorviante temere una polverizzazione delle autonomie scolastiche dopo le recenti disposizioni che richiedono almeno mille alunni per ognuna di esse: gli istituti comprensivi e gli ISI….sono già reti.

 

L’AUTONOMIA DEBOLE

 

Per istituire le reti si invoca la debolezza delle scuole autonome, che dal punto di vista numerico, come si è detto, è sempre meno vera, ma ciò che è decisamente debole è la visione politica della stessa autonomia, sul versante del centralismo ministeriale: attendiamo ancora il decentramento previsto dal DL 112/1998, e non si parla, nemmeno con il nuovo governo, di applicazione del predetto Titolo Quinto della Costituzione, che riorganizza i poteri dello Stato ed inaugura un nuovo ruolo del ministero centrale verso un’azione più di indirizzo e di controllo che di gestione.

Senza autonomia vera sarà puramente cosmetico tanto accanimento sulla valutazione (le richieste europee fanno leva su sistemi più decentrati del nostro), ma anche tra stato e regioni  l’autonomia delle scuole è vista come una sorta di terzo incomodo (gli assessori talvolta provano fastidio a doversi rapportare con “tanti” dirigenti scolastici), senza contare che proprio in una logica di complessiva riorganizzazione degli enti locali dovrà essere messa in atto per effetto dei risparmi imposti l’unione di comuni e diminuzione delle province (prendiamo atto con soddisfazione che l’UPI, magari per difendere i propri enti, ha messo sul piatto la soppressione degli uffici periferici dell’amministrazione, di cui si parlava già nel citato DL 112, che però il ministro Profumo non ha citato ad esempio nell’istituzione delle reti). Forse sarebbe il caso di inserire il riordino della rete di scuole in un processo di rigoverno del territorio, assieme agli altri servizi alla persona.

Pur tra queste difficoltà politiche le scuole si sono costituite in rete, ma evidentemente sono deboli e non riescono a consolidarsi perché le stesse non hanno reale autonomia amministrativa e finanziaria, non possono gestire il personale (forse se avessero avuto l’organico funzionale dal 1999 sarebbe stato diverso ?), devono sottostare ad ordinamenti vincolanti, non hanno una rappresentanza riconosciuta. Perché adesso di rappresentanza si parla solo per le reti: potrà essere così anche per le unioni dei comuni o l’ANCI continuerà ad esistere ? E non si potrebbe costituire dal basso, come avvenne nel 1900 a Parma (natali dell’ANCI) un ANCI delle scuole autonome ? Sono nate quasi ovunque, sia a livello provinciale che regionale, le Associazioni di Scuole Autonome, vanno sostenute attraverso le leggi regionali, la dove è necessario indicare le modalità partecipate per le programmazione dell’offerta formativa territoriale. Anche per quanto riguarda la rappresentanza saranno le scuole attraverso i propri meccanismi di autoregolazione ad individuarne le modalità, senza nulla togliere alla funzione legale del dirigente scolastico che però non può diventare politica rispetto alle intenzioni democraticamente espresse dalla comunità scolastica.

La scuola non è un patrimonio della comunità, ma un terminale dello stato nazionale e quindi se è vincolata, poi si abitua, a guardare in su, verso il ministero, sorvegliata dai funzionari, fa fatica a guardarsi attorno, nei confronti  delle altre scuole e della realtà in cui è inserita: ora arriverà la valutazione, meno autoritaria dell’ispezione, ma la logica centralistica rimane quella. E’ difficile fare paragoni tra le performance della nostra scuola e quella ad esempio dei paesi nel nord Europa senza cogliere la profonda appartenenza di quest’ultima al territorio.

Invece del “regio”Provveditorato agli Studi avremo l’Azienda Scolastica Locale (magari una rete provinciale, come si dice nel decreto Profumo), con a capo un dirigente di nomina politica/ministeriale.

L’autonomia è ancor più sfida culturale e pedagogica, a partire dalle scuole stesse, che valorizza processi partecipativi e di coesione sociale: ma questo ha ancora consenso nella pubblica opinione o prevale la logica dello stakeholder? Perché stato e regioni non si intendono sui “Livelli Essenziali delle Prestazioni” che garantiscono i diritti dei cittadini a cui tutto il “sistema nazionale” (L. 62/2000) deve fare riferimento, dove sono le autonomie a realizzare un’offerta di qualità con il controllo pubblico.

Le reti dunque possono essere un ulteriore passaggio per il rafforzamento dell’autonomia o ne possono essere l’abbattimento, un disinvolto passaggio gattopardesco del centralismo burocratico, che se trovasse difficoltà nella conversione dell’attuale decreto legge avrebbe sempre qualche altro santo in Parlamento.

Parliamo di una recente proposta di legge che usa l’indicativo presente: “ciascuna istituzione scolastica autonoma appartiene ad una rete istituzionale di scuole, con una scuola polo a servizio di tutti i compiti e le attività della rete”. Sappiamo bene che la logica delle scuole polo non si è rivelata altruistica, ma vien da chiedersi con quale personale essa affronterà i compiti per conto di tutti gli aderenti. “Contiene non meno di dieci istituzioni scolastiche e non più di cinquanta”: esattamente il numero medio di una ex provincia. “Sono le Regioni ad individuare le dimensioni ed il ministero le istituisce. La rete ha personalità giuridica”: la scuola polo così ha due personalità giuridiche ? “E’ la rete che interagisce con le altre istituzioni del territorio”: un nuovo soggetto che prende il posto delle autonomie scolastiche che sono espressamente indicate dal titolo quinto della Costituzione.

E qui si inserisce un elemento decisamente innovativo, che troviamo anche nel decreto governativo: l’organico di rete. Ma come viene formato ? La proposta parlamentare prevede che sia la rete ad assumere, anche per conto delle scuole che ne fanno parte, e direttamente per quei docenti finalizzati ai bisogni educativi speciali. A questo riguardo esperienze sono già in atto nella provincia autonoma di Trento e si parla di “concorsi differenziati”, addirittura per ogni singola scuola, in una proposta di legge della regione Lombardia. Sono le reti e non le scuole, come prevede il DPR 275/1999, a costituire consorzi, associazioni, fondazioni, ecc.

Ecco che il coordinamento regionale e nazionale delle reti di scuole, sempre dalla suddetta proposta, sostituisce l’ormai obsoleto e in parte abrogato sistema degli organi collegiali territoriali previsto dai decreti del 1974, ma continua a garantire la rete periferica dell’amministrazione scolastica.

 

COSA FANNO LE RETI

 

Tra le ricerche in campo si evidenzia che le reti, quelle spontanee, producono fiducia e responsabilità e sono in grado di creare positive interconnessioni con le istituzioni del territorio, per promuovere azioni di sussidiarietà orizzontale e verticale. Si vuole mantenere la visione di “auto sostegno solidale” e si teme la burocratizzazione; la forma giuridica non è considerata cruciale per il funzionamento e la motivazione ad agire in un’ottica di rete: le regole devono essere costruite dal basso. Qui l’indicazione di una scuola capofila ha motivazioni molto diverse da quelle enunciate nel precedente progetto.

I confini e i modi della rete sono variabili e possono modificarsi nel tempo in funzione dell’obiettivo da realizzare e non devono passare attraverso faticose prassi burocratiche.

Dall’alto si chiedono incentivi, così come accade nel campo delle autonomie territoriali, nell’ambito di una efficace azione di programmazione.

Si vuole dare maggiore forza al DPR 275 senza ingessare il sistema. Viene ripetuto che più che a livello normativo occorre incidere sulla dimensione culturale affinché le reti vengano percepite come un’opportunità. Il successo di queste ultime infatti dipende molto dalla condivisione dei bisogni,  obiettivi e risultati, in modo che ciascun aderente possa conferire senso al suo esserne parte.

Non vi è dubbio che per questioni di efficienza la rete sia un passaggio per certi versi obbligato, ma non può essere obbligatorio. Mentre a livello legislativo il focus, come si è detto, è la gestione, nella pratica si fa riferimento a “centri servizi” e “laboratori territoriali” per supporti in termini di ricerca, documentazione e formazione.

La rete non implica pertanto la nascita di un nuovo soggetto, è soprattutto strumento e progetto ed aiuta a promuovere la cultura organizzativa.

In Veneto il 23%delle scuole paritarie partecipa alle reti e oltre il 30% coinvolge persone esterne nella gestione.

Il concetto di rete richiama una struttura orizzontale in cui i poteri dei singoli componenti non sono attribuiti con azioni di decentramento, bensì individuati tramite un’organizzazione funzionale. Non sono le reti a segnare il passo della riorganizzazione del sistema delle autonomie; pur essendo necessaria una cultura del “sistema formativo”è a livello locale che si costruiscono  condizioni, strutture  e processi per coinvolgere le autonomie scolastiche nello sviluppo dei territori.

Le ricerche evidenziano tuttavia un problema vero: le scuole autonome non fanno sistema. E sappiamo che questo è grave prima di tutto perché è il sistema scolastico che garantisce i diritti sociali, le singole scuole godono di un’autonomia funzionale e quindi non sono soggetti di per sé esaustivi, oltre al fatto che operando singolarmente rischiano la marginalità e l’impoverimento, specialmente nelle zone più degradate.

Ma qui si tratta di ritornare all’impianto nazionale: le scuole non sanno, ma forse non possono, perché il ministero non assume il nuovo ruolo indicato dal predetto Titolo Quinto e mantiene ben salda la gestione degli aspetti strategici per la vita delle stesse: il personale e i finanziamenti, seppure pochi, invece di definire le condizioni generali e controllare i risultati.

Anziché esercitare correttamente la sussidiarietà verticale nei confronti di coloro che non riescono a svolgere con efficacia il proprio ruolo autonomo, si preferisce accettare surrettiziamente quella orizzontale, verso la graduale privatizzazione del servizio, creando così ancora maggiori squilibri.

La rete deve mantenere la sua vocazione, che rimane, come si è detto, funzionale, senza assumere una connotazione di rappresentanza politica delle autonomie scolastiche.

Niente “isole isolate” dunque e niente sovrastrutture burocratiche, ma ipotesi di sviluppo nell’ottica della rete delle reti, anche a livello virtuale, iniziative che non restino solo nella sussidiarietà sociale, ma vadano ad incidere sul core-curriculum, nazionale e locale.

Qualsiasi sarà la forma è importante che non venga mortificata la vivacità progettuale delle scuole nei territori, ma la frammentazione/competizione tra le stesse è ancora una volta la mancanza di consapevolezza del ruolo da ricoprire nella promozione di un sistema di qualità che parte dal basso ma non può fermarsi lì, anche in presenza dei più illuminati personaggi locali. La cultura di rete non deve essere imposta, ma se non cresce, dato anche il patrimonio professionale di cui la scuola dispone, allora ne va di mezzo l’autonomia: e non lamentiamoci.

G. Caramuscio – F. De Paola, Φιλοι λογοι

La lezione dei classici

di Antonio Stanca

La collana dei “Quaderni de L’Idomeneo”, diretta da Mario Spedicato (Università del Salento) per la Società di Storia Patria – Sezione di Lecce, si è arricchita dell’ampio volume Φιλοι λογοι – Studi in memoria di Ottorino Specchia a vent’anni dalla scomparsa (1990-2010), EdiPan, Galatina 2011, pagg. 344. L’opera è stata patrocinata dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Curatori sono stati Giuseppe Caramuscio (docente di Storia e Filosofia nei Licei e studioso della storia della scuola tra ‘800 e ‘900) e Francesco De Paola (già docente di Lingue e Letterature Straniere nei Licei, ricercatore presso l’Università del Salento e studioso di problemi sociali e filosofici nei secoli XVI e XVII).

Gli interventi dei due si collocano all’inizio dell’opera. Caramuscio è autore di un’ampia e dettagliata biografia di Ottorino Specchia (Sternatia 1914 – Galatina 1990), illustre umanista salentino che si distinse  per la carriera, fu docente di Latino e Greco e preside nei Licei Classici, collaboratore del Centro Studi “Chora-Ma”, incaricato di Storia della lingua greca nell’Università di Lecce, ispettore centrale del Ministero della Pubblica Istruzione, e per il lavoro di ricerca, fu autore di importanti pubblicazioni di opere classiche da lui indagate nella lingua e arricchite nei contenuti. Oltre ad insegnare studiò e pubblicò Specchia pur tra le difficoltà che potevano derivare da una situazione come quella di un comune, Galatina, dell’Italia meridionale dove visse e dove poche erano le possibilità di disporre dei testi necessari per ricerche e approfondimenti.

De Paola, di seguito, presenta alcune recensioni comparse su riviste e giornali italiani e stranieri ad opera di illustri letterati e riferite in particolare all’edizione dell’Epinomis di Platone curata dallo Specchia e al suo confronto con quelle di altri noti studiosi soprattutto stranieri. Altre testimonianze raccolte e ordinate nel libro si riferiscono allo Specchia docente nei Licei di Lecce, Maglie, Galatina e preside nei due ultimi. Provengono da alunni, colleghi, amici, parenti, estimatori e mostrano come egli fosse dotato di un carattere mite, come a questo fosse improntata la sua attività di docente e di preside, il suo rapporto con gli alunni, con le famiglie, come questo lo predisponesse ad accogliere le novità che, dagli anni dopo la seconda guerra mondiale alla fine della sua carriera, invasero la scuola, a cercare di combinarle con quanto già esisteva, di raggiungere quell’equilibrio tra antico e nuovo che considerava il miglior modo di essere e di fare. La sua mitezza, la sua modestia furono anche le qualità che lo fecero diventare ricercatore, filologo, autore di pubblicazioni, giacché  gli procurarono la pazienza necessaria a svolgere tali lavori in posti isolati. In questi Specchia ha raggiunto risultati eccezionali, ha prodotto opere che lo hanno avvicinato ad altre grandi figure di dotti a lui contemporanei in Italia e all’estero, gli hanno permesso di confrontarsi con essi, d’inserirsi in un contesto culturale più ampio, di ricevere riconoscimenti degni di nota. Nonostante le difficoltà è riuscito egli ad ottenere tanto senza trascurare la sua attività di docente, di preside, di ispettore né gli obblighi della famiglia. Una figura completa è stata la sua, lo studioso che è anche uomo, il dotto che non si esaurisce nella sua dottrina ma partecipa della vita, della storia e in esse agisce.

Ripercorrendo la sua vita e la sua opera è possibile pure, mediante il libro che si compone di molti contributi, rendersi conto di cosa avveniva ai tempi dello Specchia nella provincia salentina, della situazione scolastica, degli interessi diffusi tra gli intellettuali del momento, dei gruppi di studio che si formavano, della produzione che si verificava in ambito letterario e artistico. Sembra di assistere ad una scoperta, ad una rivelazione giacché non molto conosciuta è ancora l’atmosfera culturale che durante e dopo la seconda guerra mondiale si costituì in  questo posto. La caratterizzò un fervore d’interessi e di studi che la fa somigliare a quelle più note di altre zone della penisola italiana. Quale testo di storia della cultura, della letteratura salentina vale pure l’opera, quale documento di quanto finora mancava di un’adeguata registrazione. Serve a procurare ai luoghi e tempi trattati una loro identità, a collegarli con gli altri del momento.

Fanno ancora più meritorio il lavoro svolto dai curatori del volume i contributi di altri ricercatori e accademici da essi raccolti. Si tratta di studi volti a rilevare la presenza della tradizione greca nella penisola salentina anche attraverso la riscoperta della lingua grika nei luoghi, nei testi, nelle manifestazioni che la continuano (Giovanni Leuzzi – Marina Leuzzi, “Il Salento tra mondo antico e grecità bizantina”; Antonio Dell’Anna, “Le lamentazioni funebri nell’antica Grecia e nel Salento griko”; Diana Costa, I Passiuna tu Christu; Giovanni Leuzzi, “Note linguistiche su una rappresentazione nell’area ellenofona”; Antonio Romano, “La rappresentazione del griko di Sternatia in testi scritti: dalla Novella del re di Cipro a La tramontana e il sole” ).  Altri studi si riferiscono ad autori, opere, avvenimenti del passato più remoto o più prossimo. Sono di argomento giuridico (Giancarlo Vallone, “Andrea da Isernia giurista”), papirologico (Mario Capasso,“I papiri e le letterature greca e latina”; Natascia Pellè, “I papiri e la storiografia antica”), pedagogico (Anna Elisa Carrisi, “Cottalo, un Lucignolo nella letteratura greca”), filosofico (Luigi De Blasi, “Il problema dell’essere della verità in Platone”), filologico (Onofrio Vox, “Audacie poetiche”; Alessandro Capone, “Note al De Pallio di Tertulliano”; Valerio Ugenti, “Note di traduzione”), sociale (Giorgio Laudizi, “Il motivo dell’amicizia e dell’egestas temporis nella lettera 48 di Seneca”), letterario (Mario Monaco, “Echi classici nei Sepolcri di Ugo Foscolo”; Marco Leone, “La poesia latina al tempo di Giuseppe Giannuzzi”; Antonio Brigante – Tommaso Ventura, “Giuseppe Giannuzzi (1841-1915), latinista salentino”).

Sono tutti lavori di notevole impegno ed importanza, parecchi muovono dall’antichità greca e latina e intendono mostrare come possa ancora combinarsi con le esigenze del presente, come la sua possa essere ancora una lezione, come una storia possa dirsi completa solo quando contano tutte le sue parti. Un processo mai smesso è la storia, un processo dove il presente prepara il futuro sulla scorta del passato, dove non c’è frattura ma continuità.

Erano il pensiero, l’insegnamento di Ottorino Specchia e in tale movimento li  mostrano inseriti Caramuscio e De Paola volendoli indicare come esempi tra i più probanti di esso, come prove tra le migliori di una concezione che è stata così importante da valere ancora.