Spread, art. 18 e vecchi merletti

Spread, art. 18 e vecchi merletti

di Vincenzo Andraous

Ci sono guerre dimenticate, alcune sottilmente retrocesse, altre spettacolarmente pubblicizzate.

Guerre appena fuori l’uscio, ma lontane dalle nostre tavole ben imbandite di sapori e di colori vivaci.

Eppure c’è un’altra guerra con la residenza a fianco della nostra dimora, che deruba vite,  che recide esistenze, che rapina umanità nel silenzio più malato di illegalità.

Mentre tutti, quindi nessuno, giocano a fare dello spread, dell’art. 18, il grimaldello intangibile per ogni eventuale crescita possibile, continua la sequela dei morti accatastati uno sull’altro, morti insignificanti di ieri, di oggi e di domani, morti che non parlano, che non possono dettare i tempi alla giustizia disattenta.

Sono morti e basta.

Morti meno importanti di quelli dell’emergenza mafia, terrorismo, criminalità, infatti quelli, sebbene con il ritardo assassino della storia, hanno imposto il risveglio delle coscienze.

Questi altri invece sono morti che vengono da prima della vittoria su ogni mafia, e  continuano a dispetto di ogni tragedia, di ogni solitudine, soprattutto a causa di ogni smemorata ingiustizia.

Sono i morti che ogni giorno inzuppano di lacrime di coccodrillo i tanti contratti di lavoro fantasma, nei cantieri, nei luoghi destinati alla  fatica ma privi di ogni sicurezza.

Sono troppi questi morti che gridano vendetta, lo fanno senza armi, ma con la richiesta feroce di una ingerenza umanitaria,  dal momento che quella sindacale rimane inevasa alla coscienza.

Sono questi i morti che indicano una tradizione, diventata infame malcostume, quale accondiscendenza della sciagura già prossima.

Nel bel paese si ode il corpo a corpo  con la mafia, il terrorismo, la politica corrotta, la corruzione capillare, c’è frastuono di colpi, c’è lotta, c’è vita, c’è speranza.

Invece per questi morti senza lode né medaglie scintillanti, c’è ad attendere il prossimo sventurato, la postura composta del giuda di turno, di quello e di quell’altro che racconterà una verità disconnessa dall’altra, da quella che è per davvero causa di tante dipartite sconosciute.

Italia, Italia, è sempre Italia,  quella del pallone d’oro mondiale e quella per l’inciucio nazionale, è Italia che si barrica, che si offende, che carica a testa bassa, che marcia per le strade, che prende le botte e le restituisce, è Italia che rimbrotta e si intestardisce,  ma non si impunta per l’ennesimo innocente caduto dall’impalcatura perché sprovvisto della necessaria  imbracatura.

C’è chi imputa questa cecità diffusa alla strategia furba e alla pressione opulenta esercitata dagli interessi di categoria, dalle lobby solitamente ignote.

Sono tante le inefficienze, altrettante le inefficaci soluzioni mostrate alla fiera degli stolti, esse inciampano sovente con la disonestà intellettuale  insita nel profitto quale fine, che inventa e costruisce il potere della politica, quella politica che non fa servizio, perché opera per alcuni, e non per tutti, tanto meno per quei morti  in lista di attesa, e comunque tutti finiti in serie B.

Ricerca come metodo per la formazione dei giovani

Ricerca come metodo per la formazione dei giovani

di  Anna  Marra  Barone

 

Cosa si intende per “ricerca

Il termine “ricerca “ in senso generico significa indagine, investigazione,  analisì  sistematica che persegue il fine di accrescere e verificare il complesso di conoscenze,  documenti,  teorie e leggi generali inerenti ad una data disciplina. Al termine ricerca, sotto il profilo pedagogico, si possono attribuire almeno due significati: ricerca sull’educazione o ricerca pedagogica e ricerca nell’ educazione o ricerca didattica. Nel primo caso si tratta di attività sistematiche di studio che si propongono di indagare intorno a fatti e fenomeni collegati in maggiore o minore misura con i vari sistemi educativi e che possono coinvolgere, oltre ai docenti, gli operatori culturali e sociali più svariati. Nel secondo caso, invece, si tratta di un’attività investigativa che mira a facilitare l’apprendimento e a sviluppare la formazione della mente. Si tratta, dunque, di un metodo educativo che tende a migliorare il processo di insegnamento-apprendimento e che rientra, pertanto, nell’ area di competenza professionale dei docenti e che vede coinvolti, quali protagonisti principali, gli stessi allievi.

Ricerca didattica, quindi, intesa come metodo di apprendimento per l’allievo e come tecnica d’insegnamento per il docente. Uno strumento didattico innovativo, quindi,  da usare non tanto in alternativa alle tecniche tradizionali d’insegnamento quanto piuttosto ad integrazione delle stesse in un processo di profondo rinnovamento del rapporto educativo. È ovvio che la stessa ricerca didattica può rientrare nel campo d’indagine della ricerca pedagogica, il che sta a significare che i due tipi di ricerca, per quanto distinti, possono coesistere ed integrarsi reciprocamente.

Ovviamente, in una scuola  dove si verifichi da parte del docente la pura e semplice trasmissione di cultura e da parte del discente la passiva acquisizione di conoscenze accettate come verità indiscutibili ed assolute, il metodo della ricerca incontrerà naturalmente  resistenza alla sua attuazione.  La ricerca didattica, infatti, potrà trovare condizioni favorevoli al suo sviluppo soltanto in una scuola disponibile al cambiamento ed alla innovazione, in una scuola  che sappia rispondere alle esigenze di una società complessa che richiede doti quali il continuo autoapprendimento,  la cooperazione, la solidarietà, la partecipazione attiva, la capacità di scelte autonome e responsabili. Ed erano proprio questi gli obiettivi che ci si proponeva di raggiungere con i decreti delegati del ’74, che intendevano  apportare profonde innovazioni sia nel ruolo della scuola, intesa come centro permanente di cultura, sia nella funzione docente, di cui veniva  messa in risalto tutta la responsabilità professionale, morale e sociale. All’art. 2 del DPR 417/74, infatti, si recita testualmente  che “la funzione docente è intesa come esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura, di contributo alla elaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tale processo ed alla formazione umana e critica della loro personalità”

Purtroppo, sembra che in genere si attui nella scuola solamente trasmissione di contenuti, che poco incidono sulla formazione dei giovani i quali, al termine dei loro studi, si trovano molto spesso a dover confrontarsi, ed a volte scontrarsi, con una realtà per molti aspetti sconosciuta, perché essi nella scuola hanno vissuto una realtà completamente diversa, asettica e priva di significato, come se l’individuo che studia fosse diverso dall’ individuo che vive. Ed in questo confronto, i giovani mettono in luce tutta la loro incapacità ad affrontare e a risolvere i problemi più disparati, sia personali che ambientali, naturali o indotti, e tutta la loro fragilità nei confronti dei mass-media e dei messaggi pubblicitari che, sempre più frequenti ed ingannevoli, tendono a plagiare le loro coscienze ed a massificare i loro comportamenti.

Che cosa, dunque, manca nella formazione di questi giovani? Quali capacità non sono state potenziate sufficientemente? Quali  responsabilità morali e sociali ricadono sulla scuola che non ha saputo curare in modo adeguato l’aspetto critico della loro formazione? Se nella società del passato era sufficiente il possesso di un bagaglio più o meno considerevole di contenuti culturali per affrontare i molteplici problemi della vita, oggi questo non basta più.  ln  una società tecnologicamente sempre più avanzata ed in continua e profonda trasformazione, quale è la nostra, non può bastare l’ avere acquisito dei contenuti, ma è sempre più necessario avere sviluppato determinate capacità, abilità, competenze.

Parte integrante del Regolamento sull’obbligo scolastico, innalzato a 16 anni, è rappresentata dal   Documento tecnico nel quale  sono riportate  le Otto  competenze chiave di cittadinanza da acquisire al termine dell’istruzione obbligatoria. Le predette competenze, che  sono considerate essenziali per favorire il successo formativo e, soprattutto, per prevenire e contrastare la dispersione scolastica sono le seguenti:

1) Imparare ad imparare; 2) Progettare; 3) Comunicare; 4)Collaborare e partecipare; 5) Agire in modo autonomo e responsabile; 6) Risolvere problemi; 7) Individuare collegamenti e relazioni; 8)  Acquisire ed interpretare l’informazione). 

La cornice delle  Competenze-chiave  per l’apprendimento permanente, che sono state  indicate dalla Raccomandazione del Parlamento europeo  e del Consiglio del 18 dicembre 2006, stanno a rappresentare  la soglia culturale comune necessaria per preparare i giovani  alla vita adulta e per offrire  loro  un  metodo da seguire per continuare ad apprendere per tutto il corso della loro vita.

Lo spiriro di ricerca auspicato dal De Sanctis

Obiettivi importanti della formazione dei giovani  si rivelano  essere  oggi, soprattutto,  la capacità di ricerca,  intesa come manifestazione di uno spirito euristico e critico, e la creatività che della ricerca rappresenta forse la nota più qualificante e produttiva, sia sotto il profilo personale che sotto quello sociale. Creatività, dunque, intesa come capacità di porsi, in maniera autonoma e sempre diversa, di fronte a problemi nuovi e di saperli affrontare e risolvere inventando strategie e procedimenti adeguati.

In questo senso Francesco De Sanctis, che oltre ad essere uno dei più grandi critici letterari italiani fu anche un appassionato studioso di problemi educativi in funzione soprattutto della realtà politica italiana del tempo, si può considerare, a buon diritto, un autentico anticipatore delle più avanzate concezioni moderne sulla scuola e sui sistemi educativi nel loro complesso. Le sue concezioni pedagogiche, racchiuse per la maggior parte nelle sue prose autobiografiche e nelle sue numerose lettere, furono il frutto delle sue esperienze di insegnante. Quale uomo di scuola, era fermamente convinto che alla base dell’apprendimento di qualsiasi disciplina ci dovesse essere innanzitutto l’interesse, quale stimolo per l’allievo  ad intraprendere attività autonome. Al riguardo,facendo riferimento all’alunno, affermava testualmente «che lo scibile è lui che deve conquistarlo, se vuole che sia veraménte cosa sua». E di qui ne derivava la sua avanzatissima concezione  della scuola  intesa «come laboratorio dove tutti siano compagni di lavoro, maestri e discepoli, ed il maestro non esponga solo e dimostri, ma cerchi ed osservi insieme con loro, sicché attori siano tutti, e tutti siano come un solo essere organico, animato dallo stesso spirito».

Il suo ideale educativo appare ancora più evidente in uno scritto del 1872 intitolato «La scuola)) in cui  affermava: «Cominciai la scuola con questo disegno, di associare giovani al mio lavoro, e far sì che ciascuna lezione fosse il prodotto di un lavoro collettivo. Spiegherò il soggetto di una lezione, indicherò le indagini, le analisi, i libri da consultare, i materiali da raccogliere, e poi li comporremo, li formeremo,  et  lux facta est  e la lezione è fatta. Avremo forse una sola lezione  in un mese, ma sarà il frutto del lavoro collettivo di tutto il mese. Ciascuna lezione sarebbe stata un avvenimento. I giovani l’avrebbero veduta nascere, formarsi, acquistare colore. Questo è il laboratorio come io l’intendo”

La lezione, dunque, concepita dal De Sanctis come attività di ricerca programmata, il tema di studio inteso come unità di lavoro da sviluppare in una successione di attività collettive e l’insegnante, infine, raffigurato come guida e ricercatore insieme ai suoi alunni, impegnato non tanto a svolgere il suo corso, quanto piuttosto a scoprirlo con i suoi alunni in un continuo processo di comprensione e di reciproco confronto di esperienze, di conoscenze, di capacità. Purtroppo il De Sanctis dovette accontentarsi di far lezione secondo il modello tradizionale, in quanto i suoi allievi, immaturi per questo suo progetto, desideravano ascoltare il maestro piuttosto che lavorare loro. Egli riuscì soltanto a mantenere viva, nel corso delle sue lezioni, la discussione sugli argomenti da lui presentati.

Ancora oggi, a distanza di più di un secolo, la nostra scuola difetta di quello spirito comunitario di ricerca tanto auspicato dal De Sanctis e che si rivela oggi, a tutti i livelli, necessario per un reale rinnovamento della scuola e per la formazione critica della personalità dei giovani.

La situazione reale

E dobbiamo constatare con amarezza che,  nonostante le numerose e profonde innovazioni introdotte in questi ultimi anni in campo educativo, quali l’individualizzazione e la socializzazione, le attività integrative, il tempo pieno, la programmazione educativa e didattica, il lavoro di gruppo, l’autonomia scolastica, il nuovo modello  di valutazione ecc.,  permane in genere nella scuola, prevalentemente,  la lezione di tipo tradizionale in cui primeggia la posizione frontale del docente e viene trascurato l’altro importante termine del rapporto educativo che è l’allievo, il quale, privato di qualsiasi iniziativa culturale autonoma, non riesce  a  qualificarsi come protagonista della lezione stessa. «C’è un grosso divario» afferma il De Bartolomeis «tra ciò che gli allievi sarebbero in grado di produrre se fossero utilizzate le loro potenzialità e ciò che attualmente producono. La ricerca è una delle vie per ridurre progressivamente tale divario».

A cosa tende, infatti, la ricerca se non a far sviluppare le capacità critiche e di decisione autonoma degli alunni e a far emergere gradualmente le loro energie intellettuali latenti? La ricerca, del resto, rappresenta la forma più autentica e vera di qualsiasi esperienza umana, la via più naturale e spontanea seguita dall’uomo nel corso del suo sviluppo per accumulare conoscenze, la base più salda e sicura di qualsiasi apprendimento. Il sapere conquistato dall’alunno mediante un iter programmato di ricerca ha il sapore di una verità scoperta, a differenza del sapere appreso direttamente dal libro o dall’insegnante che ha il sapore di una semplice informazione  molto spesso avulsa dalla realtà e priva, pertanto, di significato e di utilità pratica. La ricerca, essendo tesa essenzialmente a stimolare le capacità intellettive dell’alunno e a risvegliare in lui autonomia di giudizio e di risposta personale, potrà assumere il significato di un’ autentica operazione culturale  capace d’ incidere profondamente sul comportamento dei giovani e sul loro modo di vivere e di adattarsi alla realtà esterna.

Ma la ricerca è metodo, ed in quanto tale, ha bisogno di guida e di consulenza. Il docente, coinvolto direttamente nel processo di ricerca, deve saper guidare i propri alunni ad individuare e a selezionare problemi, chiarendone gli ambiti ed i limiti d’indagine, e a progettare itinerari  in cui si  possano   individuare le fasi operative e precisare gli strumenti idonei all’espletamento delle stesse. La funzione del docente nella lezione/ricerca assume una importanza fondamentale e decisiva, ed il suo lavoro si presenta impegnativo e non privo di difficoltà. Indubbiamente, insegnare nel modo tradizionale è più semplice e meno laborioso; la lezione di tipo classico non richiede mutamenti negli schemi didattici prefissati dal docente e non comporta variazioni nella disposizione strutturale della classe. Tale tipo d’insegnamento, inoltre, è più sicuro per l’insegnante stesso, perché la sua lezione, il più delle volte, si riduce ad un monologo che non riesce a solleticare la curiosità degli alunni, né tanto meno a promuoverne l’interesse, non avendo essi partecipato minimamente  all’impostazione della stessa ed al suo successivo svolgimento.

Il metodo della ricerca, invece, tende a mettere continuamènte in crisi l’insegnante, sul quale agisce da stimolo positivo proprio l’iniziativa culturale degli alunni che, impegnati in una forma di apprendimento attivo, non vengono più a trovarsi in uno stato di passività e di arrendevolezza nei confronti del libro e dell’insegnante. Le stesse parole dell’insegnante ed il contenuto del libro di testo possono venire messi in discussione  in quanto non sono più visti dagli alunni come fonti assolute di verità da imparare, ma come materiale da analizzare, da consultare, da interpretare. Il docente è costretto, così, a rivedere continuamente le sue posizioni e a rimettere in discussione, in ogni momento, il proprio operato e le sue convinzioni. Egli è spinto, altresì, a confrontarsi e ad aggiornarsi costantemente al fine di corrispondere ai bisogni sempre emergenti dei suoi allievi che, sotto la sua guida ed in un rapporto di autentica collaborazione, si trovano di fronte ad un processo di costruzione del proprio mondo culturale e della propria personalità. In questo modo, con l’impiego cioè del metodo della ricerca correttamente impostato e razionalmente usato, docenti ed allievi potranno produrre  veramente cultura.

Fare ricerca, inoltre, non significa procedere alla cieca e non strutturare il progetto.La ricerca, intesa come procedimento sistematico di risoluzione di problemi, non è mai un processo di acquisizione accidentale e casuale, ed anche quando essa prende il via da interessi occasionali e contingenti, deve sempre inserirsi in un processo di apprendimento ben preciso e seguire un iter ben definito sul piano operativo. In ogni attività di ricerca, inerente ad un problema o ad un tema di studio bene individuato e delimitato, si possono distinguere, in linea di massima, almeno tre momenti: 1) Un momento iniziale dedicato essenzialmente alla progettazione ed alla programmazione dell’itinerario didattico-metodologico da seguire sia sul piano teorico che su quello pratico; 2) Un momento centrale di esecuzione dedicato allo svolgimento delle attività programmate; 3)Un momento conclusivo dedicato, in particolar modo, alla discussione, al confronto, alla valutazione dei risultati conseguiti. Ogni attività di ricerca, poi,  presenta una sua particolare ed inconfondibile fisionomia, per cui seguirà modalità di svolgimento diverse a seconda del campo disciplinare interessato. Una ricerca scientifica, per esempio, anche se condotta a livello elementare, non potrà non rispettare la prassi del metodo scientifico ed esigere, quindi, la massima accuratezza nelle operazioni di osservazione e di misurazione, la formulazione di ipotesi per la risoluzione provvisoria del problema affrontato, la verifica delle ipotesi avanzate.

Inoltre,  bisogna tener presente che la  scuola non è un ambiente distinto dalla società ed in cui si svolgono attività particolari atte a preparare il fanciullo alla vita adulta, ma rappresenta invece una società in miniatura in cui il fanciullo può dispiegare  tutte le sue potenzialità naturali. La stessa lezione, pertanto, assume il significato di esperienza integrale e l’esperienza vissuta dal fanciullo costituisce la radice della sua formazione culturale di base. La realtà, in effetti, è rappresentata dalla vita di tutti i giorni, sia quella che viviamo direttamente, sia quella di cui veniamo a conoscenza dai discorsi degli amici, degli insegnanti, delle persone che frequentiamo normalmente ed occasionalmente, oppure dalla radio, dalla televisione, dai giornali. E la realtà (naturale, sociale, economica, politica, ecc.) ci provoca continuamente e ci pone problemi, anche se non ce ne accorgiamo, e di ogni fatto o fenomeno accaduto, qualunque sia la sua natura, ci potremmo sempre porre un «come” ed un «perché», tenendo ben presente che le esperienze, vissute realmente dagli alunni o semplicemente conosciute, costituiscono occasioni di formazione che il docente dovrebbe saper sfruttare per fini educativi e culturali, facendone scoprire il significato agli alunni  mediante l’esercizio delle loro capacità intellettive e critiche..

Concorsi nazionali indetti per  studenti del settore scientifico

A questo punto è doveroso da parte mia affermare che se è vero che è necessario che gli insegnanti incoraggino ed orientino sempre più i propri alunni verso processi d’indagine e di ricerca, è altrettanto vero che anche lo spirito sperimentale degli insegnanti ha bisogno di essere alimentato, potenziato, incoraggiato.

Per questo motivo sono meritevoli di particolare considerazione ed apprezzamento tutte quelle iniziative a tal fine promosse da Enti e Società varie e  che,  sebbene rivolte in particolar modo agli studenti, riescono a coinvolgere nei progetti di ricerca gli stessi insegnanti.

Ricordo, per esempio, il concorso nazionale “Premio Cesare Bonacini», indetto dall’ A.L F., che  prese il via dal 1977 e che era destinato ad intere classi delle scuole secondarie superiori e finalizzate al miglioramento ed alla rivalutazione dell’ insegnamento della fisica. Cito ancora il Concorso Esso “I giovani e la scienza» il cui scopo principale era quello di stimolare l’interesse degli studenti  e dei docenti  al fine di contribuire, concretamente,  al miglioramento dei metodi d’insegnamento. Ricordo ancora il Concorso “Ricerchiamo insieme» indetto.nel 1979 dalla rivista “Le scienze,  la matematica ed il loro insègnamento», finalizzato alla raccolta delle varie iniziative didattiche svolte in campo nazionale  a livello di scuola media e nel settore scientifico-tecnologico. E ancora  il Concorso “Philips » per giovani inventori e ricercatori, al quale aderivano organizzazioni Philips di 15 nazioni europee e  il cui scopo non era tanto di ricercare o premiare degli specialisti, quanto piuttosto quello di stimolare nei giovani l’interesse per la realtà alla cui base fossero posti il metodo scientifico e i fondamenti programmatici della ricerca. Ed infine, particolare menzione meritano i Concorsi a premi indetti dal 1973, ogni due anni, dalla Sips ( Società Italiana per il Progresso delle Scienze), aperti a tutti gli insegnanti della scuola secondaria di 1 e  II grado e finalizzati al miglioramento dell’insegnamento in generale e di quello scientifico in particolare.

Allo stato attuale,  particolare apprezzamento merita l’Associazione Nazionale Insegnanti Scienze Naturale (A.N.I.S.N.), che, fin dal 2001,  ha organizzato ogni anno  le “Olimpiadi delle Scienze Naturali”  rivolte a tutti gli indirizzi della scuola secondaria superiore e  che vengono patrocinate dal M:P:I:, Direzione generale per gli Ordinamenti scolastici.

S. Zweig, Paura

Come l’epoca la vita

di Antonio Stanca

È stata ora ristampata dalla casa editrice Adelphi di Milano, con la traduzione di Ada Vigliani, la novella Paura dello scrittore austriaco di origine ebrea Stefan Zweig (Vienna 1881 – Petrópolis, Rio de Janeiro, 1942). Di agiata famiglia Zweig si diplomò a Vienna e qui iniziò gli studi universitari di filosofia che completò a Berlino. Come gli altri giovani del momento fu attirato dai problemi politici e sociali allora discussi e la sua fu sempre una posizione moderata. Scrisse la novella nel 1925, nel periodo, cioè, del suo maggiore successo letterario, seguito alla prima guerra mondiale e durato fino agli anni ’30. Allora Zweig fu autore molto letto, tradotto e ammirato anche se la sua produzione era cominciata in precedenza, ai primi del ‘900, ed aveva mostrato i generi sui quali egli sarebbe tornato più volte durante la sua non lunga vita. Molto avrebbe scritto e in particolare novelle, poesie, drammi, saggi, biografie romanzate, sarebbe stato traduttore soprattutto di moderni poeti francesi, autore di un romanzo ed infine di un’autobiografia completata nel 1941, un anno prima di darsi la morte insieme alla seconda e più giovane moglie con la quale si era rifugiato in Brasile per sfuggire alle persecuzioni naziste.

Anche molti viaggi farà Zweig in quell’Europa del primo ‘900 che, pur essendo attraversata da tensioni belliche, mostrava di tendere, nella cultura e nell’arte, ad una spiritualità  superiore ai limiti della materia e diffusa oltre i confini delle nazioni e dei popoli. I viaggi permetteranno a Zweig di conoscere i maggiori autori del momento e le più importanti espressioni artistiche, di maturare una sensibilità che lo facesse sentire partecipe di un’anima mitteleuropea, di un’idealità che stava oltre le singole realtà. La voce di Zweig autore sarà anche quella di tutti gli autori che aveva conosciuto, studiato, tradotto o ricostruito nelle biografie e che come lui il conflitto tra realtà e idea avevano risolto a vantaggio della seconda. Si suiciderà Zweig per non rinunciare all’idea, per non assistere alla fine di quel mondo, di quell’epoca, di quella cultura, di quell’arte, di quella vita che della vecchia Europa e soprattutto della vecchia Vienna erano state la migliore espressione.

Anche la Irene di Paura penserà di suicidarsi dopo aver visto distrutto, a causa di una sua colpa, quanto da sempre aveva fatto parte della sua vita, del suo mondo. Anche lei si era convinta che niente fosse più possibile di tutto ciò che le era appartenuto. E invece piccola risulterà quella colpa di fronte alla sua intenzione di recuperare, minimo il suo reato di fronte al perdono che le sarà elargito. È lo Zweig del periodo di successo, lo scrittore che risente della corrente letteraria viennese detta Jungwein, che si distingue, cioè, per la finezza del linguaggio e la sottile analisi dei sentimenti. Mai egli, nella novella, interrompe quell’indagine psicologica volta a mostrare i continui, interminabili risvolti avvenuti nell’animo della protagonista prima di giungere alla soluzione del suo dramma. Profondo conoscitore dell’animo umano si rivela lo scrittore, capace di renderlo nei più remoti riflessi, nei più oscuri momenti. Sempre riesce a chiarire, ad esporre in maniera appropriata, pertinente quanto sta succedendo tra i pensieri, i sentimenti della donna. La salverà, infine, dal pericolo che sta correndo, le perdonerà l’azione negativa compiuta in vista di tante altre positive da compiere, le rimetterà la colpa di adulterio in vista della futura funzione di moglie e di madre.

È lo Zweig che ha “paura” ma ancora spera, ancora crede possibile salvarsi, ancora pensa che la società della Belle Époque non sia finita. Altre opere, racconti, drammi, saggi, biografie, proveranno le qualità dello scrittore e la fiducia dell’uomo nonostante la prima guerra mondiale avesse mostrato le tante debolezze, i tanti pericoli di quella società. In Zweig il pacifismo, l’umanesimo continuavano ad animare la vita, l’opera, lo tenevano legato all’idea di un’Europa multietnica, multiculturale  nella quale i diversi popoli potevano ritrovare i loro tratti comuni. Dovrà insorgere la dittatura nazista, dovranno verificarsi le prime persecuzioni, le prime invasioni perché egli rinunci alle sue aspirazioni, perché si convinca che un’epoca è finita e con questa fine faccia coincidere quella della sua vita.

Nuovo Governo delle Istituzioni scolastiche

Nuovo Governo delle Istituzioni scolastiche
ma l’Autonomia è ancora debole

di Gian Carlo Sacchi

L’autonomia scolastica è l’orizzonte in cui si colloca il governo del sistema scolastico italiano, dopo i decreti delegati del 1974 che istituivano la “partecipazione” della comunità alla vita della scuola e tanti anni di sperimentazione che cercavano di collegare la funzione formativa della stessa con lo sviluppo del territorio.

Questa nuova prospettiva è contenuta nella riforma degli enti locali del 1990 (L. 142), della Pubblica Amministrazione del 1997 (L. 59), che ha iniziato una azione di decentramento delle competenze statali verso gli enti locali (D.Leg.vo 112/1998) e ha dato il via alla costruzione dell’impalcatura della scuola autonoma (DPR 275/1999), con il conferimento della personalità giuridica alle scuole nell’ambito di un’azione di programmazione territoriale (DPR 233/1998).

Questo impianto, anche se ancora lontano dall’essere compiutamente realizzato ha già subito cambiamenti (L. 111/2011), ma comunque non ha perso valore in quanto sancito dalla modifica del titolo quinto della Costituzione (anch’esso però non ancora applicato) (L.C. n. 3/2001) ed è in qualche modo confermato dalla normativa sul così detto federalismo fiscale (L. 42/2009 e D.Leg.vo 68/2011) nonché dai recenti provvedimenti sulla semplificazione (DL 5/2012).

La legislazione richiamata sta cercando, pur non senza contraddizioni, di ricostruire un governo del sistema educativo – scolastico – formativo ai diversi livelli di organizzazione territoriale, che riparta dal basso e cioè dal riconoscimento, secondo quanto indicato dalla predetta norma costituzionale, degli organi della Repubblica tra i quali è “fatta salva” l’autonomia delle istituzioni scolastiche (art. 117 della Costituzione).

L’autonomia dunque non è concessa, in una prospettiva meramente decentralistica dell’ordinamento statale, ma è riconosciuta, e quindi ha bisogno oltre che di avere spazio di darsi  una configurazione istituzionale: autonomia statutaria. La situazione ricalca molto, dicono gli studiosi, quella universitaria, entrambe infatti sono state identificate dalla predetta legge 59 come autonomie funzionali. Per l’università però tale impostazione era già praticata ed è stata riconfermata, mentre per la scuola il centralismo statale ha di fatto sempre impedito di arrivare a soluzioni veramente autonomiste, sia che si tratti di passaggi di competenze agli enti locali/autonomie scolastiche, sia che si voglia valorizzare il “sistema formativo” come una componente veramente autonoma nell’esercizio della funzione culturale ed educativa pur all’interno di un “sistema nazionale dell’istruzione”, anch’esso ridefinito dalla L. 62/2000.

E’ quest’ultimo approccio infatti quello assunto dalla predetta riforma costituzionale, ma, come si è detto, molto resta ancora da fare.

Proprio per rinforzare tale impostazione si deve pensare ad una revisione della governance interna agli istituti, ferma ai decreti del 1974; con la proposta di legge licenziata alla VII Commissione della Camera si cerca dunque di rivedere organi, processi e strumenti nella più recente visione della piena realizzazione di un’autonomia scolastica come parte del sistema nazionale dell’istruzione, ma anche parte inscindibile della comunità locale.

Nell’ambito del “sistema delle autonomie” deve esistere dunque un’autonomia statuaria che dia valore alla personalità giuridica e porti le scuole autonome allo stesso livello di altri enti territoriali. Sono gli statuti delle scuole infatti che devono saper interpretare le “norme generali dell’istruzione” e tradurle in offerta formativa, nell’ambito dei “livelli essenziali delle prestazioni”e per la crescita dei singoli sul piano umano, culturale e professionale, come potrà essere indicato dagli standard nazionali e locali perché sia riconosciuto il diritto alla formazione a tutti i cittadini italiani.

In tale contesto, famiglie, studenti, comunità locali, docenti dovranno potersi muovere autonomamente per garantire un’offerta sempre più qualificata in un’ottica generale ma  che sia aderente alla realtà in cui la scuola opera, per poter incontrare i problemi e le aspettative che tale realtà esprime e nello stesso tempo contribuire a “collocare nel mondo”.

Le scuole autonome sono il punto di riferimento e la loro consistenza deve essere oggetto di un’attenta azione di programmazione territoriale e gestione della spesa secondo un’azione multilivello, come indicato dai predetti provvedimenti sul federalismo fiscale. Reti e consorzi sono strumenti per potenziare l’autonomia e ottimizzare l’uso delle risorse, in vista del raggiungimento di migliori e più qualificati obiettivi.

Gli organi di governo prevedono la distinzione delle funzioni di indirizzo, di quelle professionali in senso stretto e di gestione, pur in una visione e pratica di integrazione tra di loro.

Il dirigente scolastico è il rappresentante legale dell’istituzione, presiede i momenti strategici per l’impostazione della programmazione e risponde dei risultati; i docenti, sul piano individuale e collegiale, hanno “libertà di insegnamento” ma sono responsabili della progettazione e conduzione dell’impianto didattico, nonché della valutazione degli alunni; la comunità locale è corresponsabile, sul piano dei bisogni formativi e delle risorse, e interviene, anche attraverso la compartecipazione alle entrate fiscali, per quanto riguarda il sostegno all’intero sistema: essa deve poter partecipare tenendo presente l’integrazione tra i servizi educativi del territorio.

La presidenza del Consiglio dell’Istituzione Scolastica viene mantenuta ad un membro eletto dalle famiglie, che con il dirigente scolastico ed altre componenti saranno coinvolte nelle modalità di rappresentanza della stessa, sia per intraprendere intese e azioni locali, sia nei processi elettivi di livello regionale e nazionale.

La scuola veramente autonoma non potrà sottrarsi a processi valutativi per corrispondere agli standard indicati a livello di sistema, ma anche come capacità di autoanalisi delle proprie attività, di confronto dei risultati e con le aspettative e su come riesce ad promuovere il successo formativo, anche attraverso una autonomo nucleo di valutazione.

L’autonomia è prima di tutto un processo culturale che oltre a rendere più efficiente il servizio deve migliorare costantemente la consapevolezza di assicurare su tutto il territorio nazionale un sistema di qualità nel quale viene tutelata la libertà di insegnamento. Il tutto verrà demandato ad un “Consiglio delle Autonomie Scolastiche”.

Sono sempre le medesime autonomie scolastiche il riferimento  per le politiche regionali e degli enti locali, i quali devono valorizzare le associazioni tra le scuole che vogliono accrescere l’efficacia della loro presenza e della loro azione insieme ad altri enti e soggetti locali.

Un risultato importante, raggiunto a livello parlamentare, come non si vedeva da tempo: il potere legislativo che finalmente si riappropria del suo ruolo ed i problemi della scuola non vengono relegati alla sola gestione burocratica. Sarà la nuova tregua politica ? Fatto sta che questo provvedimento, bipartisan, è di buon auspicio, sia per il modo, anche se affrettato, sia per il luogo, che allontana dagli interessi che cercano di prevalere in altri palazzi del governo.

Attraverso questi strumenti l’autonomia cerca di prendere il largo, ma la nave è ancora fragile e rischia di incappare nei pericoli tesi da vecchi e nuovi centralismi; soprattutto è la cultura dell’autonomia ed i protagonisti di questa esperienza che devono portare la scuola all’interno di processi sociali significativi per lo sviluppo del territorio ai diversi livelli, in modo da valorizzare questa funzione non solo secondo la logica della gerarchia delle fonti del diritto, ma della qualità della crescita delle persone, dell’economia, della società.

E qui c’è un problema di cornice istituzionale: senza l’applicazione del Titolo Quinto della Costituzione le pedine non vanno a posto ed alcuni passaggi di questa legge sono scivolosi. Ciò che si mette come norma transitoria, riferita al potere degli Uffici Regionali dell’Amministrazione Scolastica nel controllo degli statuti e del (mal)funzionamento degli organi, rischia di rimanere in eterno se le competenze non vengono definitivamente decentrate agli enti territoriali ed alle scuole stesse. Il riferimento alle norme di contabilità dello stato per la redazione del “programma annuale” diventerà un macigno sulla strada della gestione delle risorse, soprattutto se lo Stato continuerà ad essere pressoché l’unico finanziatore. Abbiamo già avuto esperienza di come un decreto di contabilità (1975) di fatto abbia bloccato la nascente autonomia dei decreti delegati (1974). Più o meno le cose stanno ancora così nonostante l’ammodernamento della redazione del bilancio. Altro che scuole/fondazioni, di cui peraltro si è persa traccia! Anche quando si parla di “regolamento” relativo alle reti ed ai consorzi occorre vigilare, per vedere se sono regole che favoriscono o inibiscono.

Rispetto alle risorse finanziarie si capisce che siano erogate in gran parte dallo Stato ed altri (Fondazioni, privati, e quindi anche le famiglie) possono intervenire in senso integrativo, ma la novità insita nel federalismo fiscale è proprio la modalità con la quale vengono prelevate, non più soltanto a livello di trasferimenti (es: fondo di istituto), ma di compartecipazione ai tributi locali/regionali. Quindi occorre presidiare ora l’altro settore, quello delle norme sulle autonomie locali, in discussione al Senato. E’ per questo che se da un lato occorre che i servizi educativi – scolastici e formativi rientrino (come sono rientrati) tra le “funzioni fondamentali” degli Enti Locali e quindi ciò richiede una efficace azione di questi ultimi sul piano delle programmazione  della organizzazione Es.: unioni di comuni/istituti comprensivi), dall’altro diventerà progressivamente inutile uno stringente riferimento alla contabilità statale, quando magari proprio lo Stato si potrebbe limitare alla retribuzione (con partita di spesa in conto tesoro) del personale. Da notare che l’autonomia finanziaria era già contenuta nell’art. 21 della legge 59/1997.

Compito vero dello Stato fin qui disatteso sono le “norme generali sull’istruzione” e i predetti livelli essenziali delle prestazioni: ma su questo non accade nulla, nemmeno nei più recenti provvedimenti del nuovo Governo. Ed allora forse tocca ancora al Parlamento!?

Anche le disposizioni di questa legge costituiscono norme generali sull’istruzione, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera n), della Costituzione ed in quello spirito sono dunque finalizzate alla piena attuazione dell’autonomia scolastica, come indicata dalla già citata legge n.59 del 15 marzo1997, art. 21 e dal DPR n. 275 del 8 marzo 1999.

La nuova governance degli istituti scolastici fa leva sulla capacità delle scuole stesse di concorrere alla definizione e alla realizzazione degli obiettivi educativi e formativi,  che trovano poi compiuta espressione nel piano dell’offerta formativa, fondato su uno stretto rapporto con la domanda sociale, senza perdere di vista l’efficacia (valutazione) della sua appunto funzione universalistica di crescita personale e culturale. Dovranno quindi essere valorizzati la funzione educativa dei docenti, il diritto all’apprendimento e alla partecipazione degli alunni alla vita della scuola, le scelte dei genitori, il patto educativo tra famiglie e docenti e tra istituzione scolastica e territorio.

Con questa legge lo Stato non deve cercare le modalità per condizionare l’autonomia, è già stato così per più di vent’anni con la sperimentazione, in barba a quanto previsto dall’art. 3 del DPR 419/1974 e dall’art. 11 DPR 275/1999, ma fare la sua parte secondo quanto la costituzione gli affida. E’ ovvio che senza cornice si rischia lo sbandamento, ma con la gestione centralistica siamo già nella paralisi.

Il problema dunque non sta nel prevedere nuove reti di scuole per la gestione degli organici, ma in organici anch’essi funzionali alla popolazione scolastica ed all’offerta formativa dati alle autonomie scolastiche, che per effetto delle varie soluzioni territoriali (istituti comprensivi, ISII, ecc.) sono già reti e possono per effetto di quanto già previsto dall’art. 7 del citato decreto 275 scambiarsi il personale e costituire anche laboratori per la documentazione, la ricerca, l’innovazione. Le reti devono infatti essere convenienti e non obbligatorie e andranno valorizzate associazioni di scuole autonome che si costituiscono per esercitare un migliore coordinamento delle azioni delle stesse ed aumentare l’efficacia dei rapporti con altri enti e realtà territoriali.

Domanda e offerta, qualità e partecipazione sono ingredienti che lo Statuto deve saper far reagire per la costruzione della comunità scolastica pienamente inserita in quella territoriale, garantendo per studenti e famiglie l’esercizio dei diritti di riunione e di associazione. In quest’ottica si inserisce la necessità di rendere più flessibili curricoli, tempi, gruppi e organizzazione della didattica e quindi di un’adeguata politica del personale.

Sul piano della valutazione resta in piedi il comitato di valutazione del servizio degli insegnanti di cui al DPR 416/1974, in attesa che venga affrontato il tema specifico anche in vista delle ipotizzate diversificazioni di carriera, e viene introdotto, come si è detto, il nucleo di autovalutazione del funzionamento dell’istituto. Esso coinvolge gli operatori scolastici, gli studenti, le famiglie e predispone un rapporto annuale di autovalutazione, anche sulla base dei criteri, degli indicatori nazionali e degli altri strumenti di rilevazione forniti dall’INVALSI. Tale Rapporto è assunto come parametro di riferimento per l’elaborazione del piano dell’offerta formativa e del programma annuale delle attività, nonché della valutazione esterna della scuola realizzata secondo le modalità che saranno previste dallo sviluppo del sistema nazionale di valutazione. La scuola può decidere di rendere pubblico il rapporto, ma in ogni caso deve organizzare annualmente una “conferenza di rendicontazione”.

La “rappresentanza istituzionale delle scuole autonome” viene costituita a livello locale, regionale e nazionale. Quest’ultima con un decreto del ministro si istituisce il predetto Consiglio delle Autonomie Scolastiche, composto da rappresentanti eletti rispettivamente dai dirigenti, dai docenti e dai presidenti dei consigli delle istituzioni scolastiche autonome. E’ presieduto dal Ministro o da un suo delegato e vede la partecipazione anche di rappresentanti della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, delle Associazioni delle Province e dei Comuni e del Presidente dell’INVALSI. E’ un organo di partecipazione e di corresponsabilità tra Stato, Regioni, Enti Locali ed Autonomie Scolastiche nel governo del sistema nazionale di istruzione. E’ altresì organo di tutela della libertà di insegnamento, della qualità della scuola italiana e di garanzia della piena attuazione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche. In questa funzione esprime l’autonomia dell’intero sistema formativo a tutti i suoi livelli.

A livello regionale saranno le rispettive leggi, in attuazione degli art 117, 118 e 119 della Costituzione a prevedere strumenti e modalità di relazione con le autonomie  scolastiche e per la loro rappresentanza in quanto considerate soggetti imprescindibili nell’organizzazione e nella gestione dell’offerta formativa regionale, in  integrazione con i servizi educativi per l’infanzia, la formazione professionale e permanente, in costante confronto con le politiche scolastiche nazionali e prevedendo ogni possibile collegamento con gli altri sistemi scolastici regionali. Le Regioni istituiscono la “conferenza regionale del sistema educativo, scolastico e formativo. Essa svolge attività consultiva e di supporto nelle materie di competenza delle regioni stesse, e su richiesta di queste, esprimendo pareri sui disegni di legge attinenti il sistema regionale. Le Regioni istituiscono altresì Conferenze di ambito territoriale che sono il luogo del coordinamento tra le istituzioni scolastiche, gli Enti locali, i rappresentanti del mondo della cultura, del lavoro e dell’impresa di un determinato territorio. Alle Conferenze partecipano i Comuni, singoli o associati, l’amministrazione scolastica regionale, le Università, le istituzioni scolastiche, singole o in rete, rappresentanti delle realtà professionali, culturali e dell’impresa. Esprimono pareri sui piani di organizzazione della rete scolastica, proposte sulla programmazione dell’offerta formativa, sugli accordi a livello territoriale, sulle reti di scuole e sui consorzi, sulla continuità tra i vari cicli dell’istruzione, sull’integrazione degli alunni diversamente abili, sull’adempimento dell’obbligo di istruzione e formazione.

Come si può vedere in conclusione tanti sono i provvedimenti che debbono essere composti e questo è una parte importante, affinché si possa davvero arrivare a costruire un sistema nazionale a partire dai territori e quindi dalle scuole autonome, assicurando risorse umane e finanziarie nell’ottica del multilivello, in modo che la formazione sia un’occasione di crescita di tutta la comunità nazionale, ma prima di tutto territoriale.

Il riconoscimento dell’autonomia vuol dire innanzitutto che le scuole devono saper svolgere il loro ruolo, ma non lo imparano in un corso di aggiornamento organizzato dall’amministrazione scolastica, bensì in un costante rapporto con la realtà locale/nazionale, alle quali devono corrispondere in termini di ricerca e innovazione. Lo Stato deve fare altro, la cornice e il controllo; alle Regioni la programmazione, senza lasciarsi tentare dal riformare nuovi ministeri.

Il circuito si può veramente chiudere. C’è ormai tutto quel che serve, ora largo alla volontà politica: lo potrebbe fare un governo tecnico anche con costi molto limitati. Ma non vi è nulla di questo nei documenti programmatici: forse possiamo chiederci il perché e darci anche qualche risposta circa un’idea immortale di centralismo: le leggi vi son ma chi pon mano ad esse?

Lavorare sulla governance senza autonomia vera è ammassare anche questo provvedimento nel magazzino già affollato degli attrezzi legislativi.