di Massimo Firpo
Sul «Sole 24 Ore» di domenica 23 dicembre, Sergio Luzzatto ha duramente attaccato il ministro dei Beni culturali, Lorenzo Ornaghi per la spocchiosa evasività con cui ha ritenuto lecito esercitare il suo ruolo istituzionale nel rispondere a un’accorata e giustificatissima lettera dei direttori di alcuni dei massimi musei italiani.
Lo aveva fatto con altrettanta durezza qualche tempo prima Salvatore Settis. Critiche sacrosante, che si potrebbero estendere a tutta la politica culturale del dimissionario Governo Monti. Certo, il suo compito era quello di abbassare lo spread e cercare di riportare qualche ordine nei conti pubblici, mentre la cultura non rientrava tra i suoi compiti primari. Forse per questo al ministero dei Beni culturali è stato preposto un politologo e a quello dell’Istruzione un professore di azionamenti elettrici: rettore della Cattolica l’uno e del Politecnico di Torino l’altro, niente da dire, curricula ineccepibili, ma sembra che entrambi abbiano interpretato il loro ruolo esclusivamente come terminali esecutivi dell’obiettivo primario di ridurre la spesa pubblica. Un qualche progetto in positivo per i beni culturali, per la scuola, per l’università, per la ricerca proprio non si è intravisto né probabilmente è mai esistito. Né i Ministri sono parsi assillati dal fatto che Pompei cada a pezzi, che il direttore degli Uffizi guadagni poco più di 1.70o euro al mese, che gli enti di ricerca non sappiano come sopravvivere, che gli atenei agonizzano per i continui tagli e il blocco delle assunzioni.
A molti non è sfuggita la meschina figura fatta qualche settimana fa dal ministro Profumo alla trasmissione di Fabio Fazio, dove al fuoco di fila dei problemi sollevati ancora da Salvatore Settis, pronto a snocciolare fatti e cifre, rispondeva con distratta lontananza, quasi spaesato, come se si trattasse di questioni importanti sì, sulle quali però è inutile perdere troppo tempo perché non c’è nulla da fare, i soldi sono finiti e quindi, per dirla col Manzoni, non c’è trippa per gatti e buonanotte al secchio.
Non voglio insegnare a nessuno il suo mestiere, per carità, ma come cittadino mi piacerebbe vedere il ministro dell’Istruzione impegnato con tutte le sue energie a difendere la ricerca, la scuola, l’università, consapevole che non sono optional inutili e costosi, ma strutture portanti della società, nelle quali si forma la capacità dei cittadini di convivere, di comunicare, di acquisire un’identità storica e culturale, si sviluppa la consapevolezza dei diritti e dei doveri sociali e politici, si offrono ai giovani canali di formazione generale e professionale, si garantisce il ricambio della classe dirigente, si aprono prospettive al merito e alla creatività, si premiano le eccellenze, si sostiene la capacità competitiva del Paese.
Una capacità che dipende anche dall’impegno dello Stato a finanziare la ricerca di base, a tutelare la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale come risorsa e non solo come costo (e tanto più in un Paese come l’Italia che ne detiene la massima fetta mondiale), a preservare la propria tradizione culturale anche come strumento di coesione sociale. Un tema, quest’ultimo, che dovrebbe essere ritenuto di cruciale rilevanza per affrontare con serietà il problema dell’immigrazione, coni figli di gente proveniente da ogni parte del mondo che affollano le nostre scuole, e non riservarlo solo a opportunistiche militanze ideologiche quando si rivendicano a gran voce le radici cristiane dell’Europa.
Tutti sono prontissimi a riconoscere che le spese in ricerca, formazione e cultura non sono denaro buttato al vento, ma un investimento di lunga durata, perché un Paese si sviluppa solo se ci sono forze giovani e capaci di progettare e innovare, di affrontare problemi complessi, di guardare al resto del mondo senza paura, di dare qualità al proprio lavoro, di mantenere a livelli d’eccellenza la ricerca (senza dover fuggire all’estero, come oggi è quasi obbligatorio), e magari udite, udite di pensare alla politica come impegno civile. Peccato poi che tagli sempre più massacranti si abbattano su cultura e istruzione, i cui costi sembrano comprimibili all’infinito (a differenza di quelli intangibili della politica). Altri 300 milioni sono stati portati via all’università dalla legge di stabilità appena votata (mentre si continuano a finanziare improbabili atenei privati), per un totale di un miliardo circa nell’arco della legislatura,’e ulteriori sforbiciate hanno colpito il diritto allo studio e i finanziamenti alla ricerca. Nel frattempo prosegue la drastica riduzione del numero dei professori e l’università continua ad affondare nell’inarrestabile degrado inaugurato dalla sciagurata riforma Berlinguer e dalla sua capacità di consentire alle peggiori corporazioni accademiche l’esercizio dei loro inestinguibíli vizi.
Ne offre una riprova il calo nel numero degli iscritti, che è a sua volta un segno macroscopico del declino italiano. il Ministro allarga le braccia: non c’è trippa per gatti. Un analogo degrado colpisce la scuola media, ed ecco il Ministro avanzare la brillante idea che gli insegnanti (tra i peggio pagati d’Europa) si aumentino l’orario di lavoro, e così se ne dovranno pagare di meno. In realtà il deplorevole slogan berlusconiano di internet, inglese e impresa come fondamenti di una scuola subordinata a presunte esigenze produttive sembra duro a morire e, seppur con formulazioni meno brutali, trova ascolto anche ai piani alti della elefantiaca macchina burocratica dell’Europa.
Nel programma per la ricerca e l’innovazione della Commissione europea per gli anni 2o14-ao, il cosiddetto “Horizon 2020”, si prevedono finanziamenti per oltre 75 miliardi di euro, una cifra enorme, di cui un terzo destinato a garantire il primato dell’Europa nel settore scientifico, poco meno di 20 dedicati al sostegno dell’innovazione industriale e poco più di 3o alle grandi sfide nei settori della salute, dell’alimentazione, dell’agricoltura sostenibile, dell’energia pulita, dei trasporti, del clima. Poco o nulla per la ricerca di base, quella che più necessita del finanziamento pubblico, e niente dì niente per la ricerca nel campo delle scienze umane e sociali, della cultura umanistica.
Qualcosa sulla difesa del patrimonio culturale potrà forse passare dalla porta di servizio del mutamento climatico e qualcosetta si potrà forse rosicchiare nel mare magnum del social change europeo. Briciole, insomma, Resta però difficile capire come la creazione di “una società inclusiva, innovativa e sicura”, e cioè l’obiettivo generale del progetto “Horizon”, possa fare a meno della cultura tout court, quasi si trattasse di un residuato bellico da rottamare.
Si ritiene davvero che un futuro migliore dipenda solo dalle umane sorti e progressive della green economy, delle smart cities, dell’Ict (per i pochi derelitti che ancora non lo sapessero, si tratta della mitica Information and communication technology)? Tutto bello, utile e giusto, vivaddio, ma forse c’è anche altro. O davvero si pensa che il confronto con le immense e sempre più potenti civiltà asiatiche avverrà solo sul terreno del Pil, dei prezzi dell’acciaio, delle risorse petrolifere, dimenticando che anch’esse sono dotate di storia, dì cultura, di religioni, di arte, di identità? Può darsi, come penava Karl Man, che a fare la storia del mondo siano solo le dure leggi dell’economia, ma troppe e amare esperienze dovrebbero aver insegnato almeno a non confonderle con quelle degli economisti. Speriamo che se ne accorgano anche i Ministri che vigilano (o dovrebbero vigilare) su cultura e scuola, su università e ricerca. E speriamo che quelli di domani siano un po’ meglio di quelli di ieri.