Tecnologie e metodologie nel mondo che cambia

Tecnologie e metodologie nel mondo che cambia

di Stefano Stefanel

         Due recenti interventi apparsi su educationduepuntozero.it hanno messo l’accento sull’utilizzo delle tecnologie nella didattica ordinaria della scuola italiana. Sia Cellulari per l’apprendimento di Daniele Pauletto (18 marzo 2013), sia La sfida dei nativi digitali di Arturo Marcello Allega (6 marzo 2013) vanno nella stessa direzione che in più parti ho avuto modo di evidenziare (a cominciare da Chi paga le classi 2.0 pubblicato su Dirigere la scuola n° 12/2012), ma che  continua a rimanere minoritaria nonostante l’evolversi tumultuoso dei tempi. Credo non sia più in  discussione l’importanza di armonizzare nelle scuole italiane l’utilizzo della carta con quello delle tecnologie, ma sta diventando sempre più necessario velocizzare il rapporto organico con le tecnologie. Sia pure con lentezza le scuole si stanno adeguando all’evolversi dei tempi, molto tumultuosi anche per l’estrema velocità con cui le trasformazioni travolgono le tecnologie. Tutto diventa obsoleto in fretta ed il commercio fa scendere i prezzi per far salire la domanda. In tutto questo muoversi della tecnologia diventa difficile tenere immobile la metodologia.

Il punto cruciale del percorso che stiamo vivendo è un punto che in Italia non vogliamo affrontare in  forma sistematica e che sta penalizzando il nostro sistema dell’istruzione rispetto a quelli di altri paesi dell’area Ocse. Riguarda l’utilizzo della tecnologia di proprietà dello studente o del docente in forma ordinaria nell’ambito dell’attività didattica. Su questo argomento ci si sta interrogando in varie parti del mondo perché propone problematiche non da poco in relazione all’influenza che le tecnologie non controllate possono portare ad ogni corretta metodologia di apprendimento.

Le forme persecutorie sull’utilizzo personale dei messi di comunicazione durante l’orario scolastico spesso sfociano nel patetico tentativo di fermare il tempo e di contrastare l’espandersi dell’uso della tecnologia nella vita sociale attraverso meccanismi di controllo che da un certo momento storico in poi non sono stati più padroneggiati neppure dalla Stasi o dal Kgb o dalla Cia. Il sorvegliare e punire applicato alla tecnologia mostra la sua debolezza, perché la massa di azioni (twet, post, sms, ecc.) che sfuggono ad ogni controllo è proporzionale all’assoluta mancanza di interesse di moltissime di queste. Perché controllare tutto quello che viene scritto e lanciato nel web se quasi sempre è privo di alcun interesse? Il mondo della comunicazione è diventato una sorta di pattumiera delle frasi fatte e dei messaggi privi di lettori, in una sorta di quaderno generale dei sentimenti esercitati senza mediazione. Tutto questo incide e si intromette con l’apprendimento dei ragazzi, ma sta fuori dall’insegnamento. Ed è un problema grave, perché l’insegnamento troppo lontano dalla realtà è un apprendimento non efficace.

Quello che stupisce è constatare come venga ritenuto normale utilizzare quaderni, diari o altra carta di proprietà personale, mentre venga ritenuto pericoloso organizzare una forma ordinaria di utilizzo della multimedialità di proprietà. Per far diventare la Scuola 2.0 lo stato dovrebbe acquistare almeno otto milioni di tablet o smartphone diventando proprietario di tecnologia di dare in comodato che dopo poco sarebbe già obsoleta.  Ritengo che la soluzione più semplice sia quella di prendere atto che i nativi digitali hanno bisogno di imparare a utilizzare il web in forma didattica e a gestire un archivio on-line. In questo momento, infatti, la cosa che stupisce maggiormente è questo “statalismo di ritorno” che unisce docenti e studenti, per cui si ritiene che sia lo stato a dover acquistare e distribuire tecnologie che già ognuno possiede. Anche il ragionamento sulle disparità sociali che nascono dalla tecnologia ormai non può più avere cittadinanza, perché un soggetto che non è in grado di connettersi sempre e con facilità ha problemi di socialità elevati, che non possono non ripercuotersi sul suo curricolo scolastico. La mancanza di connettività è un grave ostacolo anche per il mondo del lavoro, sia quello che già c’è, sia quello che deve essere inventato. Come può la scuola far credere che al giorno d’oggi si può vivere ed avere delle possibilità lavorative anche senza potersi connettere? Sarebbe importante stimolare le connessioni positive, far capire ai ragazzi gli spazi del web, cementare una vera cultura archivistica, costruire strutture solide di dati e conoscenze. E tutto questo rende ancora più necessaria la scuola, ma proprio quella 2.0.

Il rapporto tra tecnologia e metodologia non può essere considerato come un elemento extra-curricolare o addirittura extra-scolastico, in quanto quel rapporto condiziona tutto il meccanismo degli apprendimenti. Non siamo di fronte a semplici opzioni metodologiche, ma al tentativo implicito di ritardare l’avvento delle tecnologie nella didattica attraverso metodi repressivi inefficaci e privi di consistenza. Invece di insegnare a utilizzare lo strumento, se ne vieta il “possesso” durante una parte della giornata, creando un’altra scissione tra la vita e la scuola. Con esiti sempre più deludenti. E’ necessario integrare tecnologia e didattica dentro il curricolo ed evitare che il mare di carta da cui siamo sommersi si trasformi a breve in PDF illeggibili perché troppo dilatati. Nell’ambito della tecnologia utilizzata per l’apprendimento diventa fondamentale l’ambiente, che non è mai neutro e che con l’ingresso del web nella scuola assume connotazioni sempre più complesse. Franco De Anna ha redatto di recente un rapporto molto interessante sui primi tre anni di esperienza italiana di classi 2.0 (Monitoraggio progetto cl@ssi 2.0. 2009-2012). Credo che il rapporto della sua esperienza di ispettore sia ancora anonimo, mentre penso dovrebbe essere letto da tutti quelli che stanno lavorando in questa direzione.

 

Sezioni Primavera- Finanziamenti

COORDINAMENTO NAZIONALE PER LE POLITICHE DELL’INFANZIA E DELLA SUA SCUOLA

Al Dottor Ugo Filisetti
Direttore generale per il bilancio
Alla Dott.ssa Carmela Palumbo
Direttore generale per gli ordinamenti scolastici

Oggetto: Sezioni Primavera- Finanziamenti

Roma, 25 marzo 2013

Lo scrivente Coordinamento Nazionale per le Politiche dell’infanzia e della sua Scuola, formato dalle rappresentanze delle quattro organizzazioni sindacali, CISL Scuola, FLC-CGIL, SNALS- CONFSAL e UIL Scuola, e da cinque storiche associazioni professionali, AIMC, ANDIS, CIDI, FNISM ed MCE intende richiamare l’attenzione sul quadro assai problematico che è venuto a crearsi nei territori a causa del mancato finanziamento alle sezioni primavera per l’anno 2011/2012.
Questo rischia di peggiorare in modo irrecuperabile, ove non si procedesse nel più breve tempo possibile alla messa a disposizione delle risorse stanziate per il triennio 2013- 2015, relativamente alla prima annualità.
In un apposito documento il Coordinamento si è espresso affinché i soggetti competenti procedano alla definizione delle Intese che declinano l’accordo siglato a suo tempo in sede di Conferenza Unificata Stato-Regioni, per la piena regolamentazione del servizio a livello regionale.
Con la finalità di garantire la prosecuzione dei servizi ed evitare che il poco che ne è rimasto venga definitivamente travolto dalla mancanza di mezzi, il Coordinamento invita i competenti uffici del MIUR ad emettere gli ordini di accredito, nel più breve tempo possibile e direttamente alle scuole cui le sezioni primavera sono allocate evitando l’assegnazione ad impropri centri di spesa che avrebbero il solo effetto di allungare inutili passaggi burocratici.

In attesa di cortese riscontro si porgono

Cordiali saluti
Antonietta D’episcopo AIMC
Paola Farina FNISM
Carmen Lanni ANDIS
Diana Cesarin FLC- CGIL
Angela Petrone CIDI
Rosa Mongillo CISL SCUOLA
Simonetta Fasoli MCE
Silvana De Luca SNALS-Confsal
Noemi Ranieri UILSCUOLA

SEZIONI PRIMAVERA: DA SERVIZI A OPPORTUNITÀ EDUCATIVA
L’attività del Coordinamento, formato da cinque associazioni professionali e quattro organizzazioni sindacali della scuola, si muove da quasi vent’anni intorno alle politiche di qualificazione della scuola dell’ infanzia e degli operatori che nel settore tengono viva una tradizione educativa tra le più apprezzate al mondo.
Il Coordinamento, fin dal 2007, ha seguito con grande attenzione l’istituzione e l’avvio delle Sezioni Primavera, insieme ai passaggi in tutti i livelli istituzionali previsti, nella speranza che esse potessero rappresentare una risposta qualificata alla richiesta sempre più pressante di servizi educativi per l’ infanzia e nella convinzione che per questa via si potesse superare l’anomalia dell’ inserimento di bambini anticipatari nella scuola dell’infanzia.
Quella degli anticipi costituisce una realtà in evidente contrasto con l’indirizzo europeo di garantire tempi di apprendimento e socializzazione coerenti con le fasi di maturazione e sviluppo di ciascun bambino, con l’innalzamento dell’ obbligo di istruzione, con l’ attenzione rivolta ai primi anni di scolarizzazione quali fondamento per un approccio attivo al long life learning, infine per garantire uno dei fondamentali diritti dell’infanzia sancito dalla Carta del 1989. La generalizzazione della scuola dell’infanzia, misura fissata dal decreto 59 e dalla legge 53 del 2003, se attuata avrebbe rappresentato una valida risposta alle esigenze dei bambini e delle loro famiglie, ma ciò non è avvenuto. Anzi, la generalizzazione, nonostante la facilità della portata, appare ancora oggi come una vera chimera.
Il monitoraggio nazionale, presentato nel maggio 2012, ha confermato contraddizioni e perplessità da tempo evidenziate: l’assenza di un progetto forte, eticamente connotato, sostituito con una descrizione di indicazioni e criteri organizzativi, in prima battuta vincolanti per l’acquisizione dei finanziamenti pubblici, via via scemati con il diminuire delle risorse, una logica assistenzialistica, che li ha caratterizzati, ha portato alla frequenza di bambini con meno di due anni, per una quota pari al 7,2% del totale.
Il carattere sperimentale del progetto, quando si e’ tentato di darvi forma, si è arenato di fronte alle difficoltà gestionali e a logiche differenziate a seconda della tipologia dei gestori. Fattori di qualità strategici sono stati ignorati e bypassati. Si è così giunti alla stipula frammentata e frammentaria di almeno sei tipologie contrattuali diverse per il personale, ad assunzioni di personale senza possesso di titoli specifici (nella misura di un operatore su quattro), e all’affidamento a servizi esterni per più del 17% dei casi. In tale situazione non può certo meravigliare il mancato insediamento di un comitato tecnico scientifico, le difficoltà di funzionamento di una cabina di regia, l’assenza di una riflessione pedagogica condivisa.
In questo quadro assai problematico, è venuto a cadere il mancato finanziamento da parte del MIUR per l’anno 2011/2012. E a tutt’oggi risulta bloccato quello per l’anno in corso. Una situazione da risolvere in termini immediati, pena, il venir meno, sic et simpliciter, del servizio in molte realtà.
C’è da segnalare inoltre che in molte Regioni non si è ancora provveduto a varare le Intese che declinano l’Accordo siglato a suo tempo in sede di Conferenza Unificata Stato-Regioni. Anche su questo versante è necessario procedere in tempi rapidissimi, tanto più se si considera che l’esistenza e la vigenza delle Intese regionali è condizione necessaria per l’accesso ai fondi previsti per servizi quali le sezioni primavera nell’ambito del Piano di Azione e Coesione.
Nella consapevolezza che nell’ infanzia di oggi e’ riposto il futuro del nostro Paese, che all’infanzia dobbiamo cura, attenzione e risposte educative all’altezza delle sfide del presente, il Coordinamento ribadisce alcune proposte di buon senso e chiama coloro che ne avvertano l’urgenza a sottoscrivere l’ appello per la prosecuzione della esperienza delle Sezioni Primavera tramite una profonda revisione dei modelli organizzativi fin qui posti in essere, in modo che, incontrovertibilmente, si connotino come luoghi di socializzazione educazione accoglienza e assistenza dei bambini dai 24 ai 36 mesi. Soluzioni adeguate all’età ed ai bisogni dei bambini più piccoli vanno ricercate e sperimentate tramite impegni ad hoc.
Va messo a punto un percorso sperimentale fondato su un progetto pedagogico ampiamente condiviso, socialmente rendicontabile, scientificamente presidiato e, in itinere, sistematicamente monitorato per gli aspetti organizzativi e gestionali. Vanno individuate e rese disponibili risorse logistiche, finanziarie e professionali tali da garantire qualità e stabilità dell’offerta per il periodo definito, anche attraverso interventi ricorrenti di formazione in servizio per il personale che già in ingresso deve essere in possesso di adeguata qualificazione.
Per procedere in questa direzione è necessario precisare che il rapporto di lavoro del personale è di natura subordinato e che di conseguenza a questo personale si applicano i relativi CCNL di categoria.

AIMC, ANDIS, CIDI, CISL SCUOLA, FLC-CGIL, FNISM, MCE, SNALS-CONFSAL, UIL SCUOLA
Per contattare il Coordinamento coord-infanzia@gmail.com

 

Alti tassi di abbandono scolastico e preparazione sotto la media: così va la scuola al Sud

Alti tassi di abbandono scolastico e preparazione sotto la media: così va la scuola al Sud

Il 35,2% dei giovani campani di 18-24 anni non studia e non lavora

Napoli, 25 marzo 2013 – In Campania il 35,2% dei giovani di età compresa tra i 18 e i 24 anni non studia e non lavora, e va a gonfiare le fila dei disoccupati di lunga durata, costituendo così una facile preda per l’arruolamento da parte della criminalità organizzata. Si tratta di un dato molto più alto rispetto alla media nazionale (pari al 22,7%) e superiore anche alla media del Sud (31,9%).

È questo l’esito di percorsi scolastici accidentati, fatti di conflitti tra insegnanti e studenti, bocciature ripetute, entrate e uscite dai cicli formativi, che spesso cominciano sin dai primi anni di scuola, ma si manifestano in maniera più evidente durante le superiori.

Nonostante i miglioramenti degli indici di dispersione scolastica registrati negli ultimi anni, resta ancora molto da fare. In Italia l’11,9% degli iscritti al primo anno delle scuole superiori abbandona gli studi. Se il tasso di abbandono scolastico in Calabria è solo del 6,6%, in Campania la percentuale sale al 13,8% e in Sicilia al 14,6%.

Se si guarda all’intero quinquennio, in Italia si ha una media del 26% di studenti che non arrivano alla maturità, con punte massime del 30,7% negli istituti tecnici. Il valore riferito al Mezzogiorno nell’insieme è nella media, con il 27% di abbandoni alle scuole superiori, ma si registrano situazioni più critiche in Campania (29,9%) e Sicilia (30,7%), dove si va delineando uno stato di vera e propria emergenza educativa.

Dall’indagine Ocse-Pisa emerge anche un ritardo nelle competenze di base possedute dai quindicenni italiani che si fa più grave per i ragazzi meridionali. In Italia il 21% dei quindicenni ha competenze solo minime nella lettura (ma al Sud il dato sale al 25,2% e nelle isole è pari al 30,2%), il 25% in matematica (il 31% al Sud e il 35,9% nelle isole) e il 20,6% in scienze (il 26,6% al Sud e il 31,5% nelle isole). Particolarmente critica la situazione in Calabria, dove i livelli di competenze sono anche inferiori rispetto a quelli dei coetanei meridionali.

Tenere a scuola i ragazzi «difficili», aiutarli nei percorsi di riavvicinamento alle istituzioni e di recupero scolastico, farli sentire comunque parte di un gruppo, sono alcuni degli obiettivi che si è posto il progetto «Abbandono scolastico e bullismo: quali rischi tra i giovani?» promosso dal Ministero dell’Interno nell’ambito del Pon Sicurezza per lo Sviluppo-Obiettivo Convergenza 2007-2013 e realizzato da un raggruppamento di imprese con capofila il Censis. Il progetto, che ha avuto una durata di due anni, ha coinvolto oltre 5.000 studenti di 9 istituti scolastici collocati nelle 4 regioni più critiche del Mezzogiorno (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia), con attività di ascolto e sostegno, recupero e aiuto allo studio, rivolte a studenti, famiglie, docenti, attraverso l’impiego di una équipe territoriale con competenze socio-psico-pedagogiche, rappresentando così una buona pratica esportabile in altre scuole e in altri contesti.

Dei risultati conseguiti nell’ambito del progetto si è parlato oggi nel corso del convegno conclusivo tenutosi a Napoli presso l’Iis Sannino-Petriccione, cui hanno partecipato, tra gli altri, il Prefetto di Napoli Francesco Musolino, l’Autorità di Gestione del Pon Sicurezza Emanuela Garroni, l’Assessore all’Istruzione del Comune di Napoli Annamaria Palmieri, il Direttore Generale del Censis Giuseppe Roma e i dirigenti scolastici di tutti gli istituti coinvolti.                                                        

 

L’istruzione nel pacchetto delle riforme istituzionali?

da TuttoscuolaNews

L’istruzione nel pacchetto delle riforme istituzionali?

Una delle ipotesi sulle quali si sta sviluppando il confronto politico, e che anche Bersani proverà verosimilmente a esplorare, è quella di una distinzione tra il piano delle riforme istituzionali-costituzionali, sul quale cercare ‘larghe intese’ anche col Pdl, e quello dell’azione di governo nelle politiche di settore, piano sul quale la maggioranza sarebbe più ristretta, ma potrebbe sui singoli provvedimenti ottenere di volta in volta un consenso parlamentare più ampio, compreso quello del M5S.

Gli investimenti in istruzione (parliamo ovviamente di investimenti, non di spesa: di innovazione digitale, ricerca e sviluppo, formazione, valutazione, incentivi al miglioramento della qualità e dell’equità del sistema, ivi incluse le spese di funzionamento essenziali delle scuole; non di mera espansione degli organici e di aumenti indifferenziati delle retribuzioni) rientrano nel primo o nel secondo piano? Fanno parte del ridisegno delle regole generali di funzionamento del sistema-Paese o delle politiche di settore?

A nostro avviso, e sempre che si tratti davvero di investimenti nel senso sopra richiamato, l’aumento della spesa per l’istruzione, dopo anni di durissimi tagli al budget del Miur, potrebbe far parte degli interventi che si collocano sul piano istituzionale e che potrebbero essere sostenuti da una maggioranza allargata. Sugli interventi di sostegno all’informatizzazione (banda larga, e-learning, scuola digitale) potrebbe addirittura esserci un consenso parlamentare praticamente unanime, considerata la grande importanza attribuita a tale tematica nel programma elettorale presentato dal partito di Beppe Grillo.

Sapremo presto se alla politica scolastica (meglio: di investimento nel capitale umano) sarà assegnato uno spazio-ruolo finalmente importante e strategico, o se continuerà ad essere la Cenerentola che è stata per tanti, troppi anni.

Scuola digitale: tra “dire” e “fare” è questione anche di coerenza di posizioni

da TuttoscuolaNews

Scuola digitale: tra “dire” e “fare” è questione anche di coerenza di posizioni

Basteranno i bandi del Piano Scuola 2.0 per realizzare la scuola del futuro? Certamente no. Grazie a quei finanziamenti solo pochissime scuole in Italia potranno realizzare il sogno e l’ottica con cui il Ministero dell’istruzione guarda alla scuola del futuro. Che è ancora di tipo sperimentale, il che significa perdere tempo prezioso. La scuola descritta dall’inserto “La Domenica di Repubblica” è già realtà nel mondo e quando in Italia poche scuole elette l’avranno sperimentata, nel momento in cui dovesse essere messa a regime sarebbe forse già obsoleta perché, come si sa, la società liquida corre veloce.

Si ripropone, inoltre, la questione dei contributi delle famiglie, oggi volontari e in tutta Italia proprio in questi giorni al centro di una polemica che sta mettendo in ginocchio le scuole, che senza questi contributi non potranno sopravvivere.  L’ultima circolare del MIUR ribadisce la volontarietà dei contributi pur riconoscendone l’essenzialità per un’offerta formativa di qualità. Una posizione che lascia le scuole autonome sole e disarmate, senza non solo chiarire ad esempio con quali fonti esse debbano far fronte a spese vive obbligatorie, come l’assicurazione per gli alunni, ma esponendole a generiche proteste e a situazioni difficili dalle quali non si riesce ad uscire.

La presa di posizione del Miur ha ricadute sull’autorevolezza dei Consigli di Istituto e delle loro delibere con le quali, con occhio attento ai propri bilanci, hanno stabilito cifre minime e massime di contribuzione, spesso anche articolandole con attenzione per fasce di reddito e prevedendo anche l’esenzione dal contributo in situazioni di particolare difficoltà. Non va sottovalutato che il ricorso a forme di contribuzioni volontarie era anche determinato dal ritardato pagamento dei crediti che le scuole vantano nei confronti dello Stato (si stima per oltre 1 miliardo di euro di residui attivi iscritti a bilancio) per spese obbligatorie come supplenze ed Esami di Stato. Il mancato pagamento del credito da parte del Miur ha costretto le scuole ad anticipare con operazioni di cassa, utilizzando per lo più i contributi delle famiglie, denari annunciati, impegnati ma mai versati alle scuole. In fatto di coerenza non è il massimo!

Sì ai cellulari in classe La svolta «fai da te» della scuola americana

da Corriere della sera

Sì ai cellulari in classe La svolta «fai da te» della scuola americana

di CARLO FORMENTI

Fino a poco fa all’ingresso di molte scuole americane era affisso il seguente avviso: vietato introdurre cellulari. Al suo posto campeggia ora la sigla BYOT — bring your own technology — che sarebbe scorretto tradurre con «portate pure i vostri gadget», perché non si tratta di una concessione, bensì di una direttiva: agli studenti viene esplicitamente prescritto di entrare in classe corredati di smartphone, tablet e, nel caso — improbabile, vista l’enorme diffusione di questi dispositivi fra i giovanissimi — ne fossero sprovvisti, sono ammesse perfino le play station. Perché questa svolta di centottanta gradi? La ragione di fondo è — banalmente ma non troppo, visti i tempi di crisi in cui viviamo — economica: molte scuole non hanno fondi sufficienti per ottemperare alle nuove direttive didattiche, le quali prevedono che ogni studente sia dotato di dispositivi per potersi connettere, fare ricerche in rete, interagire con i docenti e i compagni, ecc. Com’è noto, questa conversione della scuola alle tecnologie digitali ha suscitato vivaci polemiche (non solo negli Stati Uniti, dove la svolta è in atto da tempo, ma anche da noi, dove si prospetta imminente) fra favorevoli e contrari. I primi si dicono convinti che non abbia senso affliggere i giovani con metodi di apprendimento obsoleti e del tutto estranei al loro modo di interagire e comunicare. I contrari — che fra gli insegnanti sono la maggioranza, secondo due ricerche condotte qualche mese fa dalle società Pew Internet Project e Common Sense Media — sostengono che la massiccia immersione dei ragazzi in ambienti digitali ne ha drasticamente ridotto le facoltà di memorizzazione e concentrazione e, quel che è peggio, la capacità di analizzare criticamente e in profondità la realtà. Molti si sono lamentati del fatto che, ormai, per riuscire a catturare un minimo di attenzione dai propri allievi, sono costretti a compiere vere e proprie performance attoriali. Gli ottimisti ribattono che, in compenso, grazie all’uso dei nuovi media, gli studenti hanno enormemente potenziato la capacità di cercare e trovare autonomamente le informazioni e le conoscenze necessarie a risolvere i compiti e i problemi che vengono loro assegnati. Tenuto conto di quest’ultima considerazione, l’idea di delegare al «fai da te» di ragazzi e famiglie il compito di aggiornare gli strumenti tecnologici della didattica sembrerebbe destinata a incontrare non solo l’approvazione degli amministrativi — attenti ai problemi di bilancio — ma anche quella del corpo docente. Invece le cose non stanno così; al contrario: questa novità genera non poche perplessità anche da parte dei fautori dell’innovazione. Una cosa, hanno argomentato alcuni docenti universitari di computer science e scienze della formazione intervistati dal New York Times, è far lavorare gli studenti su programmi di apprendimento standard, appositamente studiati per consentire di misurare e mettere a confronto i risultati, altra cosa è lasciare che si arrangino usando strumenti e applicazioni diverse. Ne potrebbero derivare non poche insidie: sconvolgimento dei curricula, difficoltà di appurare se gli obiettivi vengono raggiunti, possibilità che l’uso di tecnologie differenti generi sperequazioni, per tacere del rischio che il gioco si sostituisca del tutto all’apprendimento, invece che agevolarlo. Il succo di questi ammonimenti è che l’imperativo a risparmiare a ogni costo può causare pesanti effetti negativi, quando sono in ballo interessi vitali come la formazione delle nuove generazioni; una lezione che le università italiane, sottoposte a ripetuti tagli di risorse, hanno imparato a loro spese.

“Scelte molto concrete Ora le opportunità valgono più del liceo”

da LaStampa.it

“Scelte molto concrete Ora le opportunità valgono più del liceo”

ROSARIA TALARICO ROMA

Ivanhoe Lo Bello, vicepresidente per l’education di Confindustria, i dati delle iscrizioni online alle scuole superiori mostrano un calo per i licei e un aumento per gli istituti linguistici.

«I dati non sorprendono, nel senso che ci sono alcuni trend abbastanza interessanti. Il calo del liceo classico è limitato e fisiologico. Con i linguistici si presta maggiore attenzione al futuro. La conoscenza della lingua inglese è fondamentale per l’accesso al mercato del lavoro, anche per percorsi formativi di grande qualità. Altrimenti si viene penalizzati. Purtroppo nei corsi ordinari dei licei la possibilità di avere un buon approfondimento della lingua inglese è molto basso».
Si registra poi un aumento dell’istruzione tecnica dello 0,4%.
«C’è una fortissima diversificazione geografica, legata ai distretti industriali. Nelle aree in cui è meno rilevante la presenza industriale, si assiste invece a un calo. Abbiamo una fortissima vocazione manifatturiera, ma da questi dati si capisce come il Paese sia diversificato e come in alcune parti occorra spingere di più sulla presenza imprenditoriale. I dati, inoltre, sono molto legati a una prospettiva immediata di entrare nel mondo del lavoro, anche se poi il 50% di questi ragazzi si iscrive all’università».
Poi c’è il tema dei corsi professionali.
«Nelle statistiche le iscrizioni diminuiscono. Ma anche qui i dati sono differenziati a seconda delle regioni. Sono settori comunque più legati all’impresa e le iscrizioni variano anche in ragione di questo. Ad esempio in Lombardia sono aumentate anche significativamente. L’istruzione professionale è delegata alle regioni e spesso la sua qualità dipende dall’efficienza degli enti locali e al rapporto tra istruzione professionale e mondo del lavoro. Quindi non stupisce che la Lombardia cresca e altre regioni abbiano un calo».
Cosa pensa nel complesso del trend che mostrano i dati?
«I dati rappresentano un trend di scelte molto concrete da parte delle famiglie dei ragazzi. È un orientamento che guarda alla possibilità di trovare un’opportunità di lavoro dopo il percorso scolastico. Prima si pensava che la liceizzazione fosse l’unico sbocco possibile. Oggi la prospettiva è più equilibrata e spero si consolidi».
Meno laureati e più lavoratori?
«In realtà abbiamo un numero di laureati ancora basso rispetto alla media dei paesi Ocse e molti ragazzi continuano a iscriversi a percorsi universitari che, nella situazione attuale, non garantiscono opportunità di lavoro. La domanda è concentrata su materie tecniche, dal comparto scientifico a quello economico finanziario».
Un ragazzo però avrà il diritto di studiare quello che gli piace e non quello che richiede il mercato?
«Ci mancherebbe. Ognuno deve seguire il suo percorso e la sua vocazione, guai a valutare solo il lato utilitaristico. bisogna però tenere presente che molti percorsi di studio erano indirizzati all’accesso alla pubblica amministrazione, nazionale e locale, che oggi ha una domanda limitatissima di posti di lavoro. Il filosofo o il grecista servono a preservare culture importanti nel paese, ma bisogna avere una passione vera e non ricercare solo un titolo di studio purché sia».

Lingue e laboratori ecco che cosa vogliono gli studenti del futuro

da LaStampa.it

Lingue e laboratori ecco che cosa vogliono gli studenti del futuro

Le iscrizioni alle superiori per il prossimo anno vedono in testa licei linguistici e scientifici applicati (senza latino). Il ministro Profumo: “C’è un aspetto positivo della crisi, il territorio e la ricerca fanno emergere le nuove specializzazioni”
flavia amabile
roma

Materie scientifiche, lingue, manualità: è questo che hanno scelto buona parte delle famiglie e degli studenti italiani alle prese con le iscrizioni alle scuole superiori per l’anno scolastico 2013/2014 ,dopo un anno di crisi durissima che ha portato altri tagli anche alle speranze oltre che ai posti di lavoro.

È lì che gli italiani immaginano che esista ancora un futuro: nei numeri o nella scienza, nella fuga all’estero o in un’attività manuale. Finita l’epoca degli italiani popolo di umanisti e letterati, quasi azzerate le possibilità di guadagnare qualcosa con le parole, i nuovi adolescenti si affidano ad altro.

Calano quindi le iscrizioni al liceo classico: sono in 31591 ragazzi a sceglierlo, ma dal 6,6 per cento del totale dello scorso anno sono scesi al 6,1 per cento del totale. Calano anche gli iscritti al liceo scientifico: sono 85008 ad averlo scelto, il 16,5 per cento del totale contro il 18,1 per cento dello scorso anno. Inarrestabile invece, l’ascesa di licei linguistici e scientifici applicati. Il primo è stato scelto da 43172 ragazzi, l’8,4 per cento del totale rispetto al 7,2 per cento dello scorso anno. E in 32431 si sono orientati verso il liceo scientifico applicato, uno scientifico senza latino ma con tante ore di laboratorio e di materie scientifiche. Sono il 6,3 per cento del totale degli iscritti contro il 4,1 per cento dello scorso anno.

Una nuova Italia si sta formando e il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo ha preparato un corposo dossier con mappe, grafici e tabelle che la racconta con la precisione dei dati. «Le famiglie hanno reagito ancora una volta molto bene – spiega il ministro – Non si sono fatte spaventare dai dati negativi sulla cassa integrazione, nè dagli scenari foschi. Hanno avuto fiducia nella parte industriale del nostro Paese, considerando che è solida e che conviene investire proprio sulle industrie per costruire il futuro dei loro figli. È la conferma di un Paese che funziona, che risponde con concretezza alle difficoltà».

La concretezza è molto evidente quando si va a considerare le scelte nel dettaglio, e ci si rende conto che le scelte degli studenti italiani seguono logiche molto precise. In Lombardia, ad esempio, a scegliere gli istituti alberghieri sono poco più di 4mila giovani, la metà di quelli che si sono iscritti a un tecnico con indirizzo amministrazione, finanza e marketing. In regioni del Sud come Calabria, Sicilia, Sardegna o Campania, invece, è il contrario, perché di sicuro chi intende restare ha maggiori possibilità di trovare lavoro nel settore turistico che in quello della finanza.

Il dossier mostra anche nel dettaglio i settori di specializzazione scelti nelle diverse aree italiane. Piemonte, Lombardia, Lazio, Campania e Puglia sono le regioni dove c’è stato il maggior numero di iscritti nei tecnici con indirizzo trasporti e logistica, quello che poi permette una specializzazione nell’aerospaziale. E sono proprio le regioni dove esistono concrete possibilità di lavorare nel settore. Nel mondo dei Beni Culturali ad offrire opportunità sono soprattutto regioni come Lazio, Campania e Sicilia, le stesse in cui si concentra il maggior numero di iscritti nei licei artistici. Lo stesso vale per le start up introdotte dal governo Monti con il decreto sviluppo. Dopo pochi mesi ne sono state create già più di 300. Il Piemonte è la regione con il maggior numero di iniziative imprenditoriali innovative, quasi cinquanta, seguita dalla Lombardia e dal Veneto.

E di sicuro non è un caso – come sottolinea anche il ministro Profumo – che i ragazzi che si sono iscritti agli istituti dove si occupano di Ict, tecnologie per «Smart communities», siano in particolare quelli del Piemonte, della Lombardia, del Veneto. del Friuli Venezia Giulia, dell’Emilia Romagna. «L’altro aspetto positivo di questa crisi – continua infatti il ministro – è che esistono attori lungimiranti che stanno non solo creando lavoro ma anche aggregando il Paese, unendolo in nome di un obiettivo comune. Un tempo si decideva dall’alto dove si doveva creare sviluppo industriale, adesso sono il territorio e la ricerca a far emergere le specializzazioni settoriali. Mi auguro che il prossimo governo vada avanti lungo questa strada, mettendo in atto una politica capace di guardare a medio termine, perché soltanto sapendo e programmando si riesce a dare alle famiglie e ai ragazzi quello che chiedono in termini di formazione».

Tagli all’istruzione, l’Ue contro l’Italia

da Repubblica.it

Tagli all’istruzione, l’Ue contro l’Italia

Uno studio della Commissione europea rivela che tra i 27 il nostro è il Paese che ha ridotto di più i bilanci del settore: -10,4% tra il 2010 e il 2012. “C’è bisogno di un approccio coerente, questa è la chiave del futuro dei nostri giovani e della ripresa economica”

di SALVO INTRAVAIA

L’Italia ha tagliato più di qualsiasi altro Stato europeo sull’istruzione e da Bruxelles arriva una autentica strigliata. “Sono tempi difficili per le finanze nazionali ma abbiamo bisogno di un approccio coerente in tema di investimenti pubblici nell’istruzione e nella formazione poiché questa è la chiave per il futuro dei nostri giovani e per la ripresa di un’economia sostenibile nel lungo periodo”. Come dire: la crisi c’è ma occorre capire cosa tagliare. La tirata di orecchie all’Italia arriva direttamente dalla Commissione europea che ha passato in rassegna i bilanci dei 27 Paesi membri scoprendo che negli ultimi tre anno soltanto otto hanno tagliato sull’istruzione. E l’Italia è la prima.
“Se gli Stati membri non investono adeguatamente nella modernizzazione dell’istruzione e delle abilità – ha affermato Androulla Vassiliou, commissario europeo responsabile per l’istruzione, la cultura, il multilinguismo e la gioventù – ci troveremo sempre più arretrati rispetto ai nostri concorrenti globali e avremo difficoltà ad affrontare il problema della disoccupazione giovanile”. Un vero e proprio avvertimento neppure troppo velato al nostro Paese che soprattutto dopo il 2008 – con le riforme Gelmini – ha cominciato a tagliare su scuola e università senza troppi scrupoli e che adesso trova mille difficoltà a gestire e ad uscire dalla crisi economica globale degli ultimi tre anni.
Ma non tutti i Paesi alle prese con la crisi hanno tagliato sull’istruzione. Lussemburgo, Danimarca, Austria, Finlandia, Svezia e Turchia – solo per citare alcuni Stati dell’Ue o candidati a farne parte –  nonostante le difficoltà hanno scommesso sulla scuola incrementando le risorse. In testa la Turchia che fa registrare un più 16,5 per cento, seguita dal Lussemburgo col 7,4 per cento in più in appena due anni. Grecia, Italia e Inghilterra in coda. Col nostro Paese che dal 2010 al 2012 ha tagliato il bilancio della scuola – dalla materna alle superiori – del 10,4 per cento. Una sforbiciata accompagnata dal taglio di quasi 100mila cattedre e da un alleggerimento dei conti anche dell’università: meno 9,2 per cento in 24 mesi.
Lo studio della Commissione europea prende in considerazione anche l’impatto dei tagli sul numero di insegnanti, che in Italia – dal 2000 al 2010 – è calato dell’11,1 per cento mentre in Germania si è incrementato del 13,0 per cento. Così com’è avvenuto in Finlandia (più 12,9 per cento), in Svezia (più 21,9 per cento) e Norvegia. L’esecutivo Ue stigmatizza anche gli effetti della crisi sulle buste paga degli insegnanti – che pesano per il 70 per cento della spesa scolastica – congelate o addirittura ridotte in 11 Paesi, Italia compresa. 

Profumo, via ai tirocini per i supplenti: tre decreti sul caos dei “precari invisibili”

da Repubblica.it

Profumo, via ai tirocini per i supplenti: tre decreti sul caos dei “precari invisibili”

Il ministro dà l’ok in extremis ai Tfa speciali previsti dalla Gelmini per far accedere all’insegnamento chi avesse almeno tre anni di supplenza. Circa ottantamila persone che si sentono “di serie B” 

di SALVO INTRAVAIA

Il ministro Profumo apre la strada dell’insegnamento ai “precari invisibili”. A pochi giorni dal suo presumibile cambio, l’inquilino di viale Trastevere firma tre diversi decreti per istituire i cosiddetti Tfa speciali: i tirocini formativi attivi  –  previsti dalla riforma Gelmini sulla formazione iniziale per accedere all’insegnamento  –  riservati a quei precari che hanno insegnato per almeno tre anni come supplenti ma sono ancora sprovvisti di abilitazione all’insegnamento. Si tratta, secondo le prime stime ministeriali, di 75/80mila precari di “serie B” come si definiscono loro stessi per via dell’annunciata differenziazione dei punteggi previsti dai decreti sottoscritti oggi da Profumo.
Per comprendere la questione è bene fare un passo indietro. Nel 2010 l’allora ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, varò il Regolamento sulla formazione iniziale degli insegnanti, che rivoluzionava le modalità di accesso all’insegnamento. Per diventare docenti di scuola media e superiore è previsto un percorso di studi universitario quinquennale (laurea breve triennale più laurea magistrale biennale ad indirizzo specifico per l’insegnamento) più un anno di tirocinio formativo attivo presso una scuola. In fase di prima applicazione, è stato previsto una selezione per l’ammissione al Tfa per coloro che al momento in cui è stata varata la norma erano già in possesso della laurea quinquennale.
La selezione iniziò l’anno scorso e fu a numero chiuso: 20mila posti per circa 115mila aspiranti insegnanti di scuola media e superiore. Da quella selezione tuttavia rimasero fuori tantissimi soggetti che non poterono partecipare alla selezione per i Tfa ordinari  –  svolti soltanto per alcune discipline della scuola media e superiore  –  la totalità dei “supplenti invisibili” della scuola materna ed elementare  –  per i quali il Tfa ordinario non era previsto  –  e coloro che, pur avendo già insegnato per anni, non riuscirono a superare i contestatissimi test pieni di errori e domande ambigue. Così parti la richiesta di una procedura speciale per coloro che la scuola aveva comunque utilizzato per le fare le supplenze anche senza abilitazione.
E, dopo un tira e molla durato mesi, in extremis Profumo dà la possibilità a tutti coloro che tra gli anni scolastici 1999/2000 e 2011/12 hanno effettuato almeno tre anni di supplenza di partecipare alla selezione per accedere ai Tfa speciali. Il percorso prevede tre momenti: una prova nazionale come quella del concorsone  –  test di logica, comprensione del testo informatica e lingua straniera  –  per stabilire la graduatoria che stabilirà l’accesso ai corsi universitari di un anno e una prova finale. Il quizzone  –  di 50 domande a risposta multipla in 50 minuti  –  servirà a scaglionare in un triennio  – 2012/13, 2013/14 e 2014/15  –  i 75/80 mila partecipanti attesi.
Il primo dei tre decreti firmati oggi da Profumo integra quello sui Tfa ordinari emesso l’anno scorso. Il secondo decreto regolamenta il percorso speciale per i supplenti invisibili e il terzo rivede la tabella di valutazione dei titoli per essere inseriti nelle graduatorie provinciali ad esaurimento. Ma con una differenza: l’abilitazione acquisita col Tfa “speciale” varrà meno di quella acquisita con il Tfa ordinario. Una circostanza che ha fatto andare su tutte le furie gli interessati che si sentono trattati da “supplenti di serie B”.

Ata, il Miur concede il punteggio per le mancate supplenze annuali

da Tecnica della Scuola

Ata, il Miur concede il punteggio per le mancate supplenze annuali
di Alessandro Giuliani
Viale Trastevere ammette il danno subito da migliaia di precari e collaboratori scolastici di ruolo (che non hanno potuto usufruire dei vantaggi derivanti dall’art. 59 del Ccnl), a causa della situazione di stallo riguardante il personale inidoneo e gli ex Itp degli enti locali. Soddisfazione dai sindacati. La nota Miur di chiarimenti.
Non vi saranno “code” giudiziarie per la vicenda delle mancate supplenze annuali causato dal blocco delle immissioni in ruolo di tutto il personale Ata, derivante a sua volta dalla situazione di stallo riguardante il personale inidoneo e gli ex Itp degli enti locali (che ha trovato soluzione solo in questi giorni). Il 22 marzo il Miur, infatti, ha emesso una nota, la n. 2932 del 2013, che a seguito dei “numerosi quesiti” pervenuti allo stesso dicastero di viale Trastevere, dà il via libera all’opportunità “di riconoscere il servizio ai soli fini giuridici al personale ATA inserito nelle graduatorie, che avrebbe avuto diritto alle nomine su posti attualmente ricoperti, invece, da personale titolare di contratti fino all’avente diritto ex art.40 legge 449/97 e inserito nelle graduatorie di istituto”. Nella nota, il direttore generale Luciano Chiappetta spiega che “in considerazione del ritardo della procedura di transito dei docenti inidonei nel profilo ATA,s i ravvisa l’opportunità che, in sede di conciliazione con gli Uffici scolastici territoriali o presso le Direzioni provinciali del lavoro, venga riconosciuta la validità del servizio, ai soli fini giuridici, a coloro i quali si trovavano in posizione utile per il conferimento di supplenza annuale o temporanea”.
Il Miur ha così di fatto riconosciuto il danno subito da migliaia di precari e collaboratori scolastici di ruolo (che non hanno potuto usufruire dei vantaggi derivanti dall’art. 59 del Ccnl).
La nota si concluda con un’altra concessione: quella riguardante il “personale ATA che abbia avuto una supplenza annuale negli anni scolastici 2008/09, 2009/10 e 2010/11 e non abbia usufruito nell’a.s. 2011/12 dei benefici del salva-precari perché titolare di contratto fino al 30 giugno”: nei loro confronti dovrà “essere riconosciuto il relativo punteggio per i mesi di luglio e agosto 2012”.
L’esito positivo della vicenda è stato accolto con piena soddisfazione dai sindacati. In particolare dall’Anief, che attraverso un comunicato trionfante ricorda di essere stato “l’unico sindacato ad aver depositato in tutti gli ambiti territoriali italiani le richieste di tentativo di conciliazione per il riconoscimento giuridico dell’incarico non assegnato a causa delle nomine all’avente titolo ex art. 40”. Il sindacato autonomo si sofferma sul fatto che “ora, il Miur riconosce la bontà della battaglia sindacale intrapresa e per evitare contenzione al giudice del lavoro invita gli ex-provveditorati a conciliare sul tema del riconoscimento del servizio”. E chiude, pertanto, invitando “tutto il personale che non ha ancora inviato il tentativo di conciliazione a farlo immediatamente”.

Come si dimostra la trasparenza delle buste usate nel concorso DS in Lombardia

da Tecnica della Scuola

Come si dimostra la trasparenza delle buste usate nel concorso DS in Lombardia
di A.D.F.
Il quotidiano milanese il Giorno, che da mesi segue le vicende del ricorso sulle buste trasparenti del concorso per dirigenti scolastici svolto in Lombardia, ha predisposto una simulazione di ciò che accadrà nelle prove peritali disposte dal Consiglio di Stato sulle ormai famose buste che contenevano i dati anagrafici degli aspiranti presidi lombardi
L’esame svolto è stato molto semplice: gli organizzatori della simulazione hanno preso delle buste sia di marca Pigna sia di tipo Sandy e un cartoncino del peso di 140 milligrammi per metro quadrato, ovvero esattamente i materiali richiesti e acquistati nel 2011 dall’Ufficio scolastico lombardo, in quantità di 3mila unità, per lo svolgimento del concorso. A questo punto è stata effettuata la prova scrivendo dei nominativi a caso, in diverse dimensioni e con diversi tipi di penne o biro, su alcuni cartoncini. Successivamente i cartoncini sono stati inseriti all’interno delle buste oggetto della prova.  Il risultato empirico è stato incontrovertibile, in controluce ogni nominativo risultava leggibile. La prova è stata ripetuta ponendo la busta contenente il cartoncino su un tavolo, anche in questo caso si è riscontrato che bastava far pressione con le dita sulla busta appoggia per far trasparire nome e cognome. Le stesse prove di simulazione erano state precedentemente eseguite da alcuni docenti ricorrenti che sono giunti alle stesse conclusioni del quotidiano milanese. Intanto il prof. Teodoro Valente, consulente tecnico dell’Università La Sapienza incaricata da Palazzo Spada della verifica ufficiale sulla trasparenza delle buste, entro il 30 marzo comunicherà il risultato dell’analisi al Consiglio di Stato, la cui sentenza definitiva è prevista per il 30 aprile. Si può vedere la prova fotografica di una simulazione eseguita dai ricorrenti

Il passaggio di ruolo può essere richiesto per un solo ordine d’Istruzione

da Tecnica della Scuola

Il passaggio di ruolo può essere richiesto per un solo ordine d’Istruzione
di L.F.
Chi volesse richiedere il passaggio di ruolo, dall’ordine d’istruzione di titolarità, ad un altro ordine, deve scegliere uno solo tra i seguenti ordini: infanzia, primaria, scuola secondaria di primo grado e scuola secondaria di secondo grado. 
Per cui, per fare un esempio, l’insegnante titolare nella scuola primaria, che possiede abilitazione per l’insegnamento sia alle scuole secondarie di primo grado che alle scuole secondarie di secondo grado, è obbligata, se volesse passare dal ruolo di titolarità ad altro ruolo, ad optare tra il passaggio alla secondaria di primo grado o a quella di secondo grado. Il richiedere, nel passaggio di ruolo, la destinazione in più di un ordine di istruzione, infrangerebbe l’art. 14 dell’O.M. n. 9 del 13 marzo 2013. Qualora venisse disattesa la norma dell’optare tra uno degli ordini precedentemente elencati, si va incontro alla nullità di tutte le domande di passaggio di ruolo. Il passaggio di ruolo, oltre ad essere richiesto per un solo grado di scuola, deve essere richiesto anche per una sola provincia. Solamente il passaggio di ruolo per la scuola secondaria di II grado può essere richiesto anche per più province. Bisogna anche chiarire che nell’ambito del singolo ruolo, il passaggio può essere richiesto per più classi di concorso appartenenti allo stesso ordine e grado di scuola. Nel caso di presentazione di domande di trasferimento, di passaggio di cattedra e di passaggio di ruolo, il conseguimento del passaggio di ruolo rende inefficace la domanda di trasferimento e/o di passaggio di cattedra o il trasferimento o passaggio di cattedra eventualmente già disposto. Ogni singola domanda di passaggio di ruolo è formulata indicando esplicitamente, per ciascuna classe di concorso, l’ordine di preferenza di una domanda rispetto alle altre. Possono richiedere il passaggio di ruolo, se ne hanno i titoli abilitativi, anche i docenti collocati fuori ruolo, come per esempio il personale docente in servizio presso le istituzioni scolastiche e culturali all’estero, il personale della scuola primaria che cessi dal collocamento fuori ruolo disposto ai sensi dell’art. 1 comma 5 della legge 3/8/1998 n. 315, il personale della scuola collocato fuori ruolo ai sensi dell’art. 26, commi 8 e 10, della legge 23/12/1998, n. 448, nonché il personale docente di cui all’art. 35, comma 5, della legge 27/12/2002, n. 289 (finanziaria 2003), a condizione che abbiano presentato domanda di restituzione ai ruoli metropolitani.

Profumo: “Sperimentiamo l’abbreviamento del percorso scolastico”

da Tecnica della Scuola

Profumo: “Sperimentiamo l’abbreviamento del percorso scolastico”
di R.P.
Ennesima proposta semplicistica del Ministro che forse non ha neppure fatto una analisi completa della questione. L’idea di “sperimentare” la riduzione del percorso scolastico appare molto contraddittoria e pressochè impossibile da realizzare.
Se non fosse che la proposta arriva direttamente dal ministro dell’Istruzione Francesco Profumo e cioè da un’altissima carica istituzione della Repubblica, l’idea di “sperimentare” l’abbreviamento di un anno del percorso di studi non meriterebbe neppure due righe sugli organi di stampa. Si tratta di una proposta talmente approssimativa e abborracciata che non varrebbe la pena discuterne più di tanto. Ma l’idea è del Ministro, cioè di un rappresentante del Governo e allora il discorso cambia. Ora, è bene chiarire: non si tratta di essere pregiudizialmente contrari ad abbreviare il percorso di studi di un anno: su questa ipotesi si può essere favorevoli o contrari ma credo che varrebbe comunque la pena aprire un ampio confronto politico e soprattutto culturale. Ma la proposta del Ministro è di tutt’altro genere. A quanto riportano le cronache Francesco Profumo ha in mente una sorta di “sperimentazione” molto ampia e diversificata: anticipare l’obbligo scolastico a 5 anni, oppure ridurre di un anno la scuola primaria (tra la classe IV e la classe V), eliminare un anno di secondaria di 1° grado oppure ancora ridurre di un anno la scuola secondaria di 2° grado. Cercando di interpretare le dichiarazioni del Ministro c’è da pensare che l’idea sia quella di “lanciare” un piano nazionale per incentivare la sperimentazione che dovrebbe però essere gestita dalle singole autonomie scolastiche. In pratica ciascuna scuola potrebbe “autorizzare” gruppi di alunni a “saltare” un anno scolastico, magari previo un accertamento delle competenze acquisite. Se così fosse il risparmio di sistema sarebbe tutto da dimostrare: è difficile pensare che il “salto” di classe di piccoli numeri di alunni in ogni scuola possa, in ciascuna scuola, determinare la diminuzione di classi. Senza contare che difficilmente le scuole autorizzeranno gruppi consistenti di alunni a saltare una classe se questo dovesse comportare la perdita di classi e quindi di posti e di insegnanti C’è però una alternativa: la scuola che aderisce alla sperimentazione deve necessariamente estenderla ad almeno una classe. E’ ovvio che questo comporterebbe la “sparizione” di una classe; credo che in un caso del genere le scuole aderenti si conterebbero (forse) sulle dita di una mano. La strada apparentemente meno dolorosa sembrerebbe quella di anticipare l’obbligo a 5 anni. Ma anche questa soluzione presenta ostacoli non da poco: come fare a garantire l’assolvimento dell’obbligo all’interno della scuola dell’infanzia dove molto spesso, per ragioni numeriche, le sezioni sono formate con bambini di età diverse ? A quali insegnanti verrebbero affidati i bambini di 5 anni ? se fossero assegnati a insegnanti di primaria è del tutto evidente che si determinerebbe una eccedenza di docenti di scuola dell’infanzia che verrebbero collocati in soprannumero.  E poi c’è una questione strutturale: che faranno i bambini che anticipano l’obbligo scolastico ? L’anno successivo verebbero iscritti alla seconda classe della primaria ? Ma se così fosse quei bambini continuerebbe a stare a scuola per 13 anni se il modello continuasse ad essere del tipo 5+3+5 ! Insomma, non mi pare proprio che l’idea di Profumo possa riscuotere molto interesse all’interno delle scuole. Forse il Ministro spera di trovare il sostegno dei dirigenti scolastici, ma dimentica che i d.s. devono poi fare direttamente i conti con gli organi collegiali e con le rappresentanze sindacali. Idee assai meno dolorose e forse persino interessanti sul piano pedagogico e organizzativo (il famoso “concorsone” di Berlinguer, tutor e portfolio della Moratti, per esempio) sono state osteggiate con scioperi di massa.  A meno che il ministro Profumo non abbia già scoperto una pozione magica che possa indurre i tacchini a presentarsi spontaneamente nelle cucine e gli insegnanti italiani a offrirsi come soprannumerari per il bene della patria (o dell’Europa).

Istituito il Comitato per l’attuazione delle Indicazioni nazionali

da Tecnica della Scuola

Istituito il Comitato per l’attuazione delle Indicazioni nazionali
di Reginaldo Palermo
Il gruppo di lavoro sarà coordinato dal professor Italo Fiorin e avrà il compito di sostenere le iniziative di formazione e di ricerca connesse con l’applicazione delle nuove Indicazioni per il primo ciclo di istruzione. Nessun compenso per i componenti del Comitato.
Con un decreto firmato il 19 marzo il ministro Francesco Profumo ha designato il Comitato scientifico nazionale per l’attuazione delle Indicazioni nazionali e il miglioramento continuo dell’insegnamento previsto dall’articolo 3 del Regolamento n. 254 sulle Indicazioni nazionali per il primo ciclo di istruzione. Il comitato sarà coordinato dal professore Italo Fiorin (LUMSA di Roma). Ne faranno parte alcuni ex dirigenti dell’Amministrazione scolastica: Gisella Langè (ex dirigente tecnico Usr Lombardia) Aladino Tognon (ex dirigente scolastico a Bassano del Grappa) Carlo Petracca (ex direttore generale Abruzzo). Tre i dirigenti scolastici in servizio: Maria Salvi (Vibo Valentia) Paolo Mazzoli (Roma) Sergio Cicatelli (Miur) e un dirigente tecnico (Giancarlo Cerini, Usr Emilia Romagna). Due i docenti: Daniela Bertocchi (docente, consulente Invalsi) Franco Lorenzoni (docente di scuola primaria a Giove, TR) e altrettanti ricercatori o docenti provenienti dal mondo universitario: Franca Rossi (ricercatore Università Sapienza) Rosetta Zan (università di Pisa)
Il Comitato avrà il compito di “indirizzare, sostenere e valorizzare le iniziative di formazione e di ricerca per aumentare l’efficacia dell’insegnamento in coerenza con le finalità e i traguardi previsti nelle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione”. Il decreto prevede anche che il Comitato possa avvalersi della consulenza delle associazioni professionali costituenti il Forum nazionale delle associazioni oltre che delle reti e delle associazioni di scuole maggiormente rappresentative. Ovviamente ai componenti del gruppo di lavoro non spetterà alcuna forma di compenso, in base all’ormai consolidato principio che nella scuola tutto va fatto se ulteriori oneri per le finanze pubbliche.