Il bonus maturità

Il bonus maturità.
E’ un peccato che il riconoscimento del voto di “maturità” ai fini dell’ammissione ai corsi di laurea a numero programmato rischi di essere vanificato dopo essere stato atteso per sei lunghi anni (la legge che lo prevedeva è la n.1 del 2007). A gran voce, infatti, viene chiesto il congelamento del decreto che lo istituisce. Le ragioni sono le più disparate, ma molte riguardano la novità dello strumento statistico utilizzato perché discrimina i voti a seconda della scuola dove sono stati assegnati. La stessa tabella fornita dal Ministero ha generato perplessità e critiche di non correttezza. Certamente è mancata l’informazione necessaria ad interpretarle correttamente a partire dall’elenco delle 6573 “scuole” e alla presenza dello stesso voto in più caselle, ad esempio 100 nei 4 percentili previsti, dovuta ad una precisa scelta, quella, cioè, di assegnare, in questo caso, la media aritmetica dei punteggi e non il punteggio minimo. Mancanza di informazione dunque e mancanza di discussione sulle scelte. Ma uno strumento è pur sempre uno strumento: si può affinare e rendere più adeguato allo scopo. Quello che ci si augura è che si trovi il modo per chiarire e migliorare e non per affossare un provvedimento normativo che riconoscendo – anche se in misura minima, solo 10 punti! – il percorso scolastico, costituisce un modo concreto per legare maggiormente scuola e università. Un legame che il punteggio attribuito al voto di “maturità” abbozzerebbe solamente e che invece è necessario rendere più forte saldandole culturalmente e pedagogicamente, in ciò che si studia e si apprende a scuola e in ciò che è richiesto per l’accesso ai corsi universitari. E’ questa, peraltro, la parte più significativa del decreto n.334 del 24 aprile in particolare laddove fissa i contenuti delle prove di accesso in un modo che appare non tener conto di ciò che si fa a scuola e dei risultati di apprendimento che essa persegue. Ma questa è, sorprendentemente, la parte meno discussa, su cui meno si riflette

Il “bonus maturità” nei percentili pubblicati il 31 maggio. I conti non tornano.
La tabella pubblicata sul sito http://www.universitaly.it/index.php/accessoprogrammato/lista  sembra già aver sollecitato molti dubbi circa la sua correttezza. Studenti e genitori interessati chiedono spiegazioni. Nelle quattro colonne della tabella – P80, P85, P90, P95 – figurano voti inferiori a 80/100 che sarebbero valutati 4, 6, 8 o 10 punti. In alcune scuole i voti 100/100 figurano tanto nella colonna P90 (8 punti) quanto nella colonna P95 (dieci punti). Quale è il punteggio? Al solo scopo di fornire uno strumento di calcolo circa la novità dei “percentili” si offre la possibilità di utilizzare il foglio excel qui accessibile (elaborato dal prof. Maurizio Vichi) che consente, nota la distribuzione dei voti nella scuola, nella sessione d’esame 2012, di ottenere il punteggio da assegnare. E’ sufficiente sostituire nella colonna B (numero studenti) i dati riguardanti la scuola interessata.

ANNULLAMENTO SANZIONE DISCIPLINARE: LIBERTA’ D’ESPRESSIONE VINCE

SCUOLA, GILDA INCASSA ANNULLAMENTO SANZIONE DISCIPLINARE: LIBERTA’ D’ESPRESSIONE VINCE
SU CENSURA

“E’ una vittoria contro la censura ma, al tempo stesso, è preoccupante l’esistenza di
disposizioni concepite in maniera tale da indurre l’amministrazione scolastica
a comprimere la libertà di espressione”. Il coordinatore nazionale della Gilda
degli Insegnanti, Rino Di Meglio, commenta così l’annullamento da parte del
giudice del lavoro di Potenza, con una sentenza depositata il 28 maggio scorso,
di una sanzione disciplinare inflitta a una docente dall’ufficio preposto del
capoluogo lucano.

L’insegnante aveva espresso pubblicamente, durante un convegno, una critica nei confronti
dell’Amministrazione scolastica. Da qui la censura, peraltro diversi giorni
dopo il decorso del termine (oltre il quale il potere disciplinare doveva
considerarsi esaurito) e, quindi, il ricorso alle vie legali da parte della
docente, poi accolto dal giudice.
“Un biasimo (peraltro contenuto e civile) nei confronti dell’amministrazione
scolastica locale non integra alcuna violazione, ma rientra nella libertà di
espressione del pensiero”. E’ quanto si legge nel verdetto che ha dato ragione
alla Gilda.

“Il giudice ha accolto il ricorso sia sul piano procedurale che nel merito – evidenzia con
soddisfazione Di Meglio – e ha condannato l’Amministrazione scolastica a pagare
oltre 2100 euro di spese legali. E’ triste, però, che una docente con una busta
paga di 1500 euro abbia dovuto sobbarcarsi le spese per un avvocato. E lo è
ancora di più il fatto che chi sbagli al vertice non paghi mai”.
Secondo il sindacalista, infatti, “in casi del genere, la sanzione spetterebbe al
funzionario che ha disposto il procedimento. Tuttavia ciò non accade – conclude
– ed è questo il vero problema”.

Le competenze… sottintese!

Le competenze… sottintese!

di Maurizio Tiriticco

In seguito al mio ultimo “pezzo” sull’obbligo di istruzione in chiave europea, alcuni amici mi hanno posto, implicitamente o esplicitamente, il problema del “che fare”, oggi – o meglio al termine del presente anno scolastico – e domani, per ciò che riguarda la certificazione delle competenze di fine obbligo. Fino a ieri, in assenza di una presa di posizione certa della nostra amministrazione circa la necessità di dichiarare a quali livelli europei corrispondano i nostri titoli di studio, la certificazione operata dalle istituzioni scolastiche ha sempre avuto più un carattere formale che sostanziale: come fosse uno dei tanti adempimenti burocratici a cui bisogna attendere!!! Così in effetti è stata letta e sentita da una gran parte dei nostri insegnanti del biennio! Oggi, le cose sono cambiate! O dovrebbero cambiare! Lo studente che assolve all’obbligo di istruzione sa – o dovrebbe sapere… sperando che qualcuno lo informi – che il suo titolo di studio corrisponde al secondo livello europeo, riconosciuto in ciascuno dei Paesi dell’Unione e che ha conseguito – o avrebbe dovuto conseguire – i seguenti livelli di apprendimento:

conoscenze: conoscenze pratiche di base in un ambito di lavoro e di studio;

abilità: abilità cognitive e pratiche di base necessarie per utilizzare le informazioni rilevanti al fine di svolgere compiti e risolvere problemi di routine, utilizzando regole e strumenti semplici;

competenze: lavorare o studiare sotto supervisione diretta con una certa autonomia [1].

E ciò sta scritto – nero su bianco – nell’“Accordo sulla referenziazione del sistema italiano delle qualificazioni al Quadro Europeo delle Qualifiche per l’apprendimento permanente (EQF), di cui alla Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008. Accordo ai sensi dell’articolo 4, comma 1 del dlgs 28 agosto 1997, n. 281, n. 252”, che è stato firmato dalle nostre Autorità il 20 dicembre 2012.

Ma! Ed ecco il “ma”!!! Le conoscenze, abilità e competenze di cui sopra sono state debitamente certificate alla conclusione del biennio obbligatorio? Assolutamente no! Sono state certificate competenze culturali relative a quattro assi pluridisciplinari! E in nessuno dei relativi indicatori figurano le conoscenze, le abilità e le competenze di cui all’Accordo italiano e alla Raccomandazione europea!

Poi lo studente va a vedere ciò che c’è scritto in calce al documento di certificazione e legge quanto segue: “Le competenze di base relative agli assi culturali sopra richiamati sono state acquisite dallo studente con riferimento alle competenze chiave di cittadinanza di cui all’allegato 2 del regolamento citato in premessa (1. imparare ad imparare; 2; progettare; 3. comunicare; 4. collaborare e partecipare; 5 agire in modo autonomo e responsabile; 6 risolvere problemi; 7. individuare collegamenti e relazioni; 8. acquisire e interpretare l’informazione)”. E si chiederà che cosa significa questa postilla; e che cosa significa il rinvio all’allegato 2… E dove lo va a trovare questo allegato 2? E si chiederà anche che cosa sono quei verbi scritti tra parentesi! Forse qualche insegnante volenteroso gliene avrà parlato, ma… è una cosa importante o no? E, se è importante, perché è scritta tra parentesi? Mah!

Tutto ciò che cosa comporta? Che l’amministrazione deve assolutamente farsi carico del fatto che l’obbligo di istruzione è stato innalzato di due anni e che alla fine di questo percorso le competenze di cittadinanza attiva, essenziali ai fini dell’apprendimento permanente e per misurarsi con quanto accede nei Paesi membri dell’Unione europea, non sono affatto da sottovalutare.

Nell’allegato 2 al dm 139/07, istitutivo dell’obbligo di istruzione decennale, quelle competenze, che poi sono malamente finite nel documento di certificazione tra parentesi, costituivano – e costituiscono – una necessaria premessa alle competenze culturali e non possono essere indicate in nota e tra parentesi. In effetti, nell’allegato 2 al citato dm, queste competenze non solo sono debitamente dettagliate, ma sono introdotte dalla seguente premessa: “L’elevamento dell’obbligo di istruzione a dieci anni intende favorire il pieno sviluppo della persona nella costruzione del sé, di corrette e significative relazioni con gli altri e di una positiva interazione con la realtà naturale e sociale”. In effetti:

– “imparare ad imparare” e “progettare” afferiscono alla FORMAZIONE del Sé, della persona;

– “comunicare”, “collaborare e partecipare”, “agire in modo autonomo e responsabile” afferiscono all’EDUCAZIONE del Sé con l’Altro, alla collaborazione, alla cittadinanza attiva;

– “risolvere problemi”, “individuare collegamenti e relazioni”, “acquisire e interpretare l’informazione” afferiscono all’area dell’ISTRUZIONE, finalizzata all’acquisizione di quei saperi che poi serviranno nel mondo dl lavoro.

Si tratta di tre vettori che sono chiaramente enunciati nell’articolo 1, comma 2, del dpr 275/99, il Regolamento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche: “L’autonomia delle istituzioni scolastiche è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di EDUCAZIONE, FORMAZIONE e ISTRUZIONE mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il SUCCESSO FORMMATIVO, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento”.

Le considerazioni fin qui condotte intendono sottolineare che l’Accordo delle scorso dicembre non può risolversi nell’ennesima operazione formale! E’ bene che l’amministrazione ne tragga le debite conseguenze e si adoperi per riscrivere il modello della certificazione delle competenze di base. Infatti, le competenze culturali non implicano quelle di cittadinanza! I corrotti di cui il nostro Paese, purtroppo, abbonda, sono più che competenti in materia di economia e di finanza, ma assolutamente… incompetenti, se si può dir così, per ciò che riguarda i loro doveri civili!



[1] Com’è noto, la competenza relativa al lavoro non riguarda il nostro ordinamento, in quanto “l’età minima di ammissione al lavoro è fissata al momento in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria” (dlgs 345/99, art. 5), quindi dopo il compimento dei 16 anni di età. E’ opportuno ricordare che ai 15 anni di età è possibile accedere all’apprendistato di primo livello, finalizzato al compimento dell’obbligo di istruzione, al conseguimento di una qualifica di primo livello e a un diploma professionale (si veda il Testo Unico sull’apprendistato, dlgs 167/2011).

INCONTRO AL MIUR CON LE ASSOCIAZIONI DEL FORUM

INCONTRO AL MIUR CON LE ASSOCIAZIONI DEL FORUM

Nuove sinergie per l’attuazione delle Indicazioni per il I ciclo
Il 4 giugno 2013, si è svolto al MIUR un incontro per individuare le possibili linee di
intervento e di pianificazione delle attività per il prossimo a.s., ai fini dell’attuazione nelle
Scuole delle Indicazioni nazionali nel primo ciclo di istruzione.
Erano presenti le Associazioni del Forum: ADi, AIMC, ANDIS, APEF, CIDI, DIESSE,
DISAL, FNISM, LEGAMBIENTEscuola e formazione, MCE, ProteoFareSapere, UCIIM.
Assenti quelle collegate ai sindacati IRASE e IRSED- IRFED.
Alla riunione, presieduta dal Direttore Generale Carmela Palumbo, erano presenti il prof.
Italo Fiorin coordinatore del Comitato scientifico nazionale, il sottosegretario Marco Rossi
Doria, il dirigente Paolo Mazzoli e l’ispettore Cerini.
Scopo dell’incontro, come sottolineato dal prof. Fiorin, è stato quello di presentare
Comitato scientifico nazionale, nominato dal Ministro Profumo il 19 marzo scorso, le sue
finalità e di dare un formale riconoscimento alle Associazioni professionali, contenute nel
decreto nella loro capacità di sostegno alla Scuole: le intenzioni sono, infatti, quelle di non
considerare le Indicazioni in modo rigido ma di effettuare nel tempo una manutenzione del
testo “attraverso un grande Laboratorio tra le Scuole, le Associazioni professionali e
Amministrazione”, con il compito di correggerne i punti critici.
Il Comitato avrà la funzione di “indirizzare, sostenere e valorizzare le iniziative di
formazione e di ricerca per aumentare l’efficacia dell’insegnamento in coerenza con le
finalità e i traguardi previsti nelle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola
dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione”, come ricordato nel decreto istitutivo. Il Direttore
Palumbo ha rappresentato anche le intenzioni dell’Amministrazione di attuare
gradualmente delle azioni formative, prioritariamente per Reti di Scuole, a partire dal
prossimo mese di Settembre, compatibilmente con i fondi che sono stati reperiti allo
scopo.
L’elemento significativo del decreto sta nel fatto che il Comitato può avvalersi della
consulenza delle Associazioni professionali del Forum presso il MIUR. Tutte le
associazioni presenti sono intervenute in modo propositivo e con dei suggerimenti.
L’Apef ha puntato l’attenzione sulla questione degli insegnanti: dalle condizioni
organizzative e di coordinamento pedagogico, cui fa riferimento lo stesso D. M., e le
possibili soluzioni per rendere più efficace il loro lavoro.
Questo incontro ha rappresentato sicuramente un riconoscimento per il lavoro svolto fin
qui dalle Associazioni professionali ma anche, come sottolineato dal prof. Fiorin, “un
capitale da non disperdere” considerata anche la disponibilità di collaborazione offerta
dalle Associazioni presenti e come ribadito anche dal sottosegretario Rossi Doria.
E’ previsto un successivo incontro che avverrà dopo quello previsto tra Il MIUR e i
Direttori degli Uffici Scolastici Regionali.

Edilizia scolastica

Edilizia scolastica: la posizione dell’Associazione Nazionale Dirigenti Scolastici


Ancora troppe le criticità che affliggono il settore dell’edilizia scolastica, una situazione di stallo in cui i nodi storici rimangono tutti irrisolti. Una vera e propria emergenza nazionale, se si considera che le 10.219 istituzioni del sistema scolastico nazionale sono ospitate in circa 40.000 edifici, dove studiano e lavorano oltre 10 milioni di persone.

I dati forniti dall ’Anagrafe dell’edilizia scolastica del MIUR e dai Rapporti di Legambiente e di Cittadinanzattiva fotografano una situazione veramente preoccupante:

il 50% degli edifici scolastici italiani non possiede la certificazione di agibilità
il 65% non ha il certificato di prevenzione incendi (CPI)
il 36% ha bisogno di interventi urgenti di manutenzione
il 50% si trova in aree a rischio sismico
l’11% in aree ad alto rischio idrogeologico
il 15% non è stato costruito per uso scolastico
solo il 49% dispone di una scala esterna di sicurezza
solo il 66% possiede un impianto idrico antincendio
il 61% possiede la dichiarazione di conformità dell’impianto elettrico
il 63% dispone di un impianto di allarme
il 90% degli edifici ha il Documento di Valutazione dei Rischi

Se consideriamo poi l’epoca di costruzione degli edifici, preoccupa il dato fornito dal MIUR che il 4% degli edifici è stato costruito prima del 1900 e che il 44% è stato costruito in un periodo che va dal 1961 al 1980.

Al Sud e nelle Isole le maggiori criticità: il 45% delle scuole necessita di urgenti interventi di manutenzione. Una situazione drammatica, dove a fronte di un territorio fragile e problematico (con il 14% delle scuole situate in aree a elevato rischio idrogeologico, il 63% in aree a rischio sismico e il 12% in aree a rischio vulcanico) la media degli investimenti resta nettamente al di sotto di quella nazionale.

Negli ultimi due anni il calo degli investimenti in edilizia scolastica ha interessato tutte le aree del Paese. Anche in quelle regioni virtuose come la Toscana, il Piemonte e l’Emilia Romagna, la spesa per manutenzione straordinaria e ordinaria dal 2008 ad oggi si è quasi dimezzata.

L’emergenza non riguarda soltanto i mancati investimenti in manutenzione da parte degli Enti Locali, ma anche la scarsa attenzione al monitoraggio del radon e delle fonti d’inquinamento ambientale come elettrodotti, antenne dei cellulari, emittenti radio televisive.

Che fare allora?

L’edilizia scolastica e la messa in sicurezza delle scuole deve entrare nell’agenda di spesa delle politiche pubbliche. Come hanno sostenuto in questi giorni i presidenti di ANCI e UPI, e come l’ANDIS da tempo rivendica, serve un allentamento del Patto di Stabilità per le spese relative all’istruzione, al fine di mettere i Comuni e le Province nella condizione di investire le risorse di cui dispongono. Un piano nazionale può consentire la programmazione nel tempo degli interventi di risanamento, messa in sicurezza e rinnovo dell’edilizia scolastica.

L’ANDIS ancora una volta esprime preoccupazione e sconcerto per la condizione di abbandono in cui da anni sono stati lasciati i dirigenti scolastici. Individuati dalla legge quali datori di lavoro, essi sono stati chiamati in questi anni ad esercitare responsabilità esclusiva riguardo all’utilizzazione dei locali, l’organizzazione del lavoro, le attrezzature e gli arredi, le sostanze utilizzate, l’uso dei dispositivi di protezione individuale, la gestione delle emergenze, la sorveglianza sanitaria, la formazione e l’informazione dei lavoratori. Di fronte alla frequente latitanza degli Enti locali, aggravata ulteriormente dai tagli della spending rewiew, i dirigenti scolastici avvertono tutta la drammaticità della situazione attuale, consapevoli dell’impossibilità di garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori in servizio presso i loro istituti e degli studenti equiparati ai lavoratori stessi. Ecco perché l’ANDIS apprezza l’impegno assunto dal Ministro Carrozza di mettere al primo posto dell’agenda del Governo l’investimento nell’edilizia scolastica. Si auspica che alle promesse possano seguire rapidamente i fatti! A partire dall’ammodernamento del patrimonio edilizio. Le vecchie strutture, soprattutto quelle costruite tra gli anni ’60 e ’80 secondo standard ormai superati, vanno abbattute e sostituite da edifici nuovi, che rispettino i requisiti delle attuali normative. Le scuole del futuro devono essere sicure, belle, attraenti, a basso consumo energetico, dotate di attrezzature sportive e ricreative, aperte al territorio.

Il Presidente Nazionale

Gregorio Iannaccone

Omesessualità, i tabù della scuola

da Il Fatto Quotidiano

Omesessualità, i tabù della scuola

di Alex Corlazzoli

Ancora un ragazzo che tenta di farla finita perché gay. Un sedicenne che si lancia dal balcone della scuola durante l’intervallo. Forse non ha scelto a caso quel luogo che lo avrebbe dovuto accogliere, comprendere. E’ accaduto nei giorni scorsi a Roma all’istituto nautico Colonna. Prima di lanciarsi nel vuoto ha detto all’amica del cuore: “Solo tu e mia madre mi capite, ma io non posso andare avanti così. Voglio morire”. Qualche giorno prima su Facebook aveva scritto: “Basta, non ce la faccio più davvero. Adesso mi prendono in giro anche sulla metropolitana”. Ma nessuno sembra essersi accorto. Il preside dell’istituto ha detto che il ragazzo non ha mai mostrato segnali di disagio e per i compagni del ragazzo ha previsto l’arrivo in classe dello psicologo di turno. Qualche giorno fa un 17enne aveva scritto una lettera a La Repubblica: “Io sono gay, ho 17 anni e questa lettera è la mia ultima alternativa al suicidio in una società troglodita, in un mondo che non mi accetta sebbene io sia nato così”.

Ora mi chiedo: ma dov’è la scuola? Dov’erano gli insegnanti del ragazzo di Roma per non vedere il disagio di quel sedicenne? Perché in quella scuola non si è mai affrontato questo tema? Nelle classi parlare di gay resta un tabù. Vietato. Le parola sesso e ancor più omosessuale sono vietate. Qualche anno fa in una classe quinta della primaria lessi un articolo che parlava di uno studente americano che si era gettato dalla finestra perché l’amico l’aveva sorpreso a baciarsi con un compagno e l’aveva fotografato. Il giorno seguente mi ritrovai a scuola otto mamme: “La prego non parli più di queste cose. Sono troppo piccoli”. Ricordo che dopo aver spiegato a queste donne che proprio i loro figli si prendevano in giro con parole come finocchio, gay, ricchione, feci una provocazione lasciandole attonite: “Ma voi sapete che uno dei vostri figli potrebbe essere omosessuale?”. Al giorno d’oggi la stima dell’ “uno su venti” è stata adottata dall’Organizzazione mondiale della sanità. Abbiamo tremendamente bisogno di cambiare il dizionario della scuola: dobbiamo iniziare a parlare di omosessualità già alla scuola primaria dove secondo una ricerca condotta sull’indice della presenza reale del fenomeno del bullismo omofobico il 13,9 % dei ragazzi della primaria si è sentito preso in giro con parole come frocio; mentre nella secondaria di primo grado il 9,5% e alle superiori il 2,9%.

Ecco perché l’altro giorno ho letto con i miei ragazzi l’articolo che parlava di questo ragazzo che ha tentato il suicidio. Le prime volte che ho parlato di gay anche nella mia classe spuntavano i sorrisetti: nessuno aveva mai parlato loro di questi argomenti. Ora non capita più.

Un’Italia che aspira ad avere una legislazione che assicuri il diritto al  matrimonio gay e le adozioni per le coppie omosessuali deve partire dalla scuola.

Bonus maturità, i rettori chiedono lo stop. Ecco quanto pesano i nuovi punti sui test

da Repubblica.it

Bonus maturità, i rettori chiedono lo stop. Ecco quanto pesano i nuovi punti sui test

“Meglio congelare”, la Crui interviene sul caso della disparità nelle valutazioni. Abbiamo simulato quanto il “pacchetto” da 4 a 10 punti  a disposizione dei più bravi avrebbe influito su alcune graduatorie lo scorso anno: Si possono fare salti di centinaia di posti

di SALVO INTRAVAIA

Si congeli il provvedimento relativo al “bonus maturità” in vista di una revisione. Lo suggerisce il Presidente della Crui (Conferenza dei rettori), Marco Mancini, esprimendo la “più viva preoccupazione” in merito alla vicenda dei test d’ingresso per i corsi di laurea a numero programmato, sulla cui valutazione ‘pesa’ anche il voto conseguito all’esame di Stato che chiude il ciclo delle superiori.
Così scendono in campo anche le Università nel “caso bonus”, il problema nato dalla norma voluta dal precedente ministro che per la prima volta permette di aggiungere da 4 a 10 punti ottenuti con un voto di maturità di almeno 80 centesimi a quelli dei test di ammissione per l’accesso alle facoltà a numero chiuso. Il problema è che – come anticipato giorni fa da Repubblica.it – il meccanismo di calcolo crea evidenti disparità tra scuola e scuola. Sono fioccate le proteste e anche lo stesso ministro Carrozza ha creato una commissione per un parere, di fatto un momento di riflessione in vista di una decisione.
Alcune simulazioni. E, usando i risultati dello scorso anno, abbiamo provato a simulare come il nuovo meccanismo avrebbe modificato alcuni test di ammissione. Alcuni esempi usando le graduatorie dei test di ammissione a Medicina e Odontoiatria del 2012/2013. I 10 punti di bonus di quest’anno valgono il 10 per cento del punteggio complessivo dell’ammissione all’università, visto che il test verrà valutato in novantesimi. E’ come se l’anno scorso il bonus fosse variato da 3,2 punti a 8 punti. Quanto pesano 8 punti in una graduatoria come quella del test di Medicina, dove in alcuni casi si può essere esclusi per un quarto di punto?
Iniziamo da come verrà attribuito il bonus quest’anno. Prendiamo ad esempio due studenti di Pavia: uno del liceo scientifico statale Copernico e l’altro dello scientifico Paritario Olivelli. Supponiamo che quest’anno si diplomino entrambi con 85 centesimi e che decidano di tentare il test di Medicina. Secondo le tabelle pubblicate venerdì scorso dal Ministero, essendo diversa da scuola a scuola l’attribuzione del bonus, nel primo caso il ragazzo non avrà neppure un punto di bonus, mentre lo studente dell’istituto paritario riuscirà a strappare ben 10 punti di bonus, che tradotti nella graduatoria di medicina dello scorso anno corrispondono a 8 punti.
Cosa sarebbe accaduto con 8 punti in più o in meno nella graduatoria di accesso a Medicina e Odontoiatria della macroarea Brescia-Pavia-Verona dell’anno scorso? Nel 2012/2013, tra Medicina e Odontoiatria, il ministero ha messo in palio 680 posti nei tre atenei in questione. L’ultimo classificato  –  il 680°  –  ha totalizzato 42 punti. Con 8 punti in meno si sarebbe piazzato al 1.515° posto: ben 835 posti al di sotto del proprio piazzamento. Mentre con 8 punti in più avrebbe fatto un balzo in avanti al 213° posto. Si tratta, ovviamente, di un esempio limite ma che dà l’idea dell’impatto sulle graduatorie in questione di una quota pari al dieci per cento del punteggio complessivo del test.
Chi si aggiudicherà 4 punti potrà saltare di 100 o 200 posti in avanti o indietro giocandosi l’ammissione. E se ci sono studenti disposti ad andare in Albania in Romania pur di inseguire il sogno del camice bianco, ci saranno sicuramente studenti disposti ad inondare i tribunali amministrativi e lo stesso ministero per denunciare le disparità di trattamento tra studenti che hanno conseguito il diploma con lo stesso punteggio o con punteggi diversi, ma che hanno ottenuto bonus opposti ai voti della maturità.
Un altro esempio. Scendendo nella macroarea Firenze-Parma-Pisa-Siena le disparità si accentuano. L’anno scorso, nei tre atenei toscani e in quello emiliano, il ministero a messo in palio 1.225 posti per Medicina e Odontoiatria. Lo studente piazzatosi al 1.225° posto ha ottenuto 39 punti nel test. Con 8 punti in più sarebbe salito al 366° posto: ben 859 posti sopra il suo. Con 8 punti in meno sarebbe precipitato al 2.681° posto, senza nessuna speranza di essere ripescato per qualche rinuncia.
Anche al Sud non sarebbe cambiato molto. Tra Bari-Foggia e l’università del Molise, l’anno scorso, furono messi a disposizione degli studenti 505 posti. L’ultimo classificato in posizione utile  –  il 505°  –  totalizzò 38,5 punti. Una posizione che con otto punti in più lo avrebbe collocato al 146° posto che si sarebbe trasformato nel 1.295° posto con otto punti in meno.
E se i punti di distacco fossero soltanto due, cosa accadrebbe? Nell’area tosco-emiliana si precipiterebbe in graduatoria di 309 posti. In quella lombardo-veneta due punti in meno di 203 posti verso il basso e in quella meridionale presa in considerazione  –  Bari-Foggia-del Molise  –  si scenderebbe di 120 posizioni.

Maturità, quanto mi costi

da LaStampa.it

Maturità, quanto mi costi

 Spese fino a 500 euro
roma

A giugno in arrivo un carico di spese  extra per i genitori con i figli che devo affrontare l’esame di Maturità. Tra ripetizioni, acquisto di vocabolari, “temari”, app per studiare e contributi scolastici non dovuti, il conto può andare da poche decine di euro fino a un massimo stimabile in 500 euro.

Il pesante bilancio emerge da una ricerca di Skuola.net svolta nel mese passato e alla quale hanno partecipato circa 1.500 maturandi. Un conto ancora più salato per i privatisti, che in alcune scuole statali italiane pagano cifre superiori ai 200 euro per il contributo scolastico.

La voce principale di costo riguarda le ripetizioni private: stando ai dati, un maturando su tre si affiderà alle lezioni individuali private pur di migliorare la sua preparazione. Al costo medio di 33 euro (dato Codacons 2011), per quel 9% che ne prenderà oltre 6 ore, stiamo parlando di una spesa di almeno 200 euro. Tuttavia si può salire fino a 400 euro per quel 7% che si rivolgerà alle lezioni private per più di 12 ore. Sono casi disperati, ma che in fondo equivalgono a 2-3 pomeriggi di studio a settimana da qui alla Maturità. Ma a ricorrere alle ripetizioni non sono solo gli studenti che hanno un debito da recuperare, ovvero il 40% dei partecipanti alla ricerca: anche chi galleggia sopra la sufficienza, si sottoporrà alla pratica pur di essere pronto.

Il 40% degli studenti batterà poi cassa dai genitori per finanziare l’acquisto di strumenti finalizzati a migliorare la preparazione: si va dai classici bignami e temari, fino alle app per smartphone, ma anche nuovi vocabolari. Infatti per la terza prova sono ammessi solo dizionari monolingue, di cui gli studenti sono spesso sprovvisti perché in genere non si usano durante l’anno. Il 27% dei maturandi ha confessato che destineranno a tale proposito fino a 30 euro, il 6% promette di non spenderne più di 60 mentre quasi altrettanti supereranno questa soglia.

Dall’indagine è emerso pure un altro balzello: il contributo, non previsto dalla normativa se non in forma volontaria, da versare direttamente nelle casse delle scuole. Circa un terzo degli studenti intervistati ha versato per il contributo fino a 30 euro, mentre uno su quattro ha superato questo importo.

Non vanno poi dimenticati – sottolinea Skuola.net – i contributi volontari record che alcune scuole statali richiedono ai privatisti: tra esami preliminari e Maturità al Niccolò Braucci di Caivano (NA) servono 280 euro, 250 al Natta come anche al Feltrinelli di Milano, sempre a Milano si chiedono 300 euro al Liceo Agnesi (di cui 100 di cauzione), 250 al Vendramin Corner di Venezia, 160 al Piaget di Roma e via dicendo.

«Sommando tutte queste voci di spesa, uno studente può ritrovarsi a spendere una cifra stimabile intorno ai 500 euro. Inoltre – dichiara Daniele Grassucci, Responsabile delle Relazioni Esterne del portale – non dobbiamo dimenticare lo scandalo di cui si macchiano alcuni istituti, che richiedono ai privatisti cifre ben superiori ai 200 euro per sostenere l’esame quando lo Stato, per norma, impone solo un risarcimento di eventuali spese di materiali se le prove di Maturità contemplano esercitazioni pratiche».

Basta con il blocco degli stipendi

da ItaliaOggi

Basta con il blocco degli stipendi

Lo chiede la commissione istruzione del Senato nel parere al Dpr sulla contrattazione. La scuola è stata utilizzata come luogo di prelievo forzoso

Antimo Di Geronimo

No al blocco della contrattazione, dei gradoni e dell’indennità di vacanza contrattuale. La scuola è stata utilizzata troppo spesso «come luogo di prelievo forzoso di risorse». E un altro blocco degli incrementi stipendiali finirebbe per aggravare ulteriormente la sofferenza di un comparto, che negli ultimi anni è stato già duramente colpito dai tagli.

Il monito viene dalla VII commissione istruzione del Senato, presieduta dal pd Andrea Marcucci, che lo ha formalizzato in un parere approvato il 29 maggio scorso.

Le osservazioni del collegio senatoriale riguardano lo schema di decreto del Presidente della Repubblica, recante il regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti. E sono state trasmesse alla commissione affari costituzionale di palazzo Madama. Che esaminerà la bozza di provvedimento oggi dalle 14.30 in poi con eventuale prosieguo domani alla stessa ora.

La commissione istruzione ha fatto presente, inoltre, che il governo dovrebbe riqualificare le spese per tutto il comparto pubblico della conoscenza, tenuto conto che, secondo le conclusioni del Consiglio europeo del 28-29 giugno 2012, esse sono da considerarsi quali investimenti in capitale umano.

Quanto allo specifico del provvedimento, se l’ipotesi di regolamento andrà in vigore così com’è, l’effetto sarà quello di un’ulteriore perdita del potere d’acquisto degli stipendi dei dipendenti pubblici. In modo particolare per la scuola. Per questo comparto, infatti, oltre al blocco della contrattazione collettiva e degli incrementi dell’indennità di vacanza contrattuale per il 2013 e il 2014, è prevista anche la cancellazione dell’utilità del 2013 ai fini della progressione economica di carriera (i cosiddetti gradoni).

E gli effetti più devastanti si avrebbero soprattutto per quest’ultima previsione. Il perché è presto detto. Il blocco della contrattazione collettiva per altri due anni avrebbe come effetto immediato la preclusione dell’adeguamento delle retribuzioni al costo della vita nel biennio. Ma tale effetto verrebbe, per così dire, «attutito» dall’applicazione dell’indennità di vacanza contrattuale. Che consente di recuperare annualmente circa la metà del tasso di inflazione programmata.

E comunque, eventuali rinnovi contrattuali, per quanto tardivi, non precluderebbero il recupero totale, di fatto, di quanto è andato perduto finora. Perlomeno in via meramente teorica. Anche il blocco del ricalcolo dell’indennità di vacanza contrattuale, in seguito, potrebbe essere comunque sanato.

Non così, invece, per la cancellazione dell’utilità del 2013, che comporterebbe un ulteriore ritardo di un anno nella maturazione della progressione stipendiale. Il tutto con danni strutturali nell’ordine di circa 1000 euro mensili, circa 4mila euro in meno sulla liquidazione ed effetti sull’importo della pensione.

Va detto, inoltre, che sebbene governo e sindacati abbiano già trovato una soluzione per la reintegrazione dell’utilità del 2010 e del 2011, la strada per il recupero del 2012 appare tutta in salita. E la cancellazione del 2013 complicherebbe ulteriormente le cose. Tanto più che saremmo di fronte ad una progressiva decontrattualizzazione dell’unica materia che non era stata rilegificata dal governo Berlusconi con la legge 15/2009 e con il decreto Brunetta.

La cancellazione dell’utilità del quadriennio 2010-2013 ai fini dei gradoni (il triennio 2010-2012 con il decreto legge 78/2010 e il 2013 con il regolamento al vaglio del senato) costituisce, infatti, una vera e propria riduzione dell’importo delle retribuzioni. Perché nel comparto scuola la progressione economica di carriera non corrisponde a mutamenti di qualifica. Quanto, invece, ad una diversa quantificazione degli importi stipendiali diretta a valorizzare l’esperienza accumulata sul campo.

Bloccare i gradoni significa, quindi, ridurre i fondi complessivamente spettanti all’intera categoria e, di conseguenza, ridurre l’importo delle retribuzioni dovute secondo il contratto attualmente in vigore. Il tutto lasciando intatti i fondi destinati all’accessorio. In altre parole, il governo, anziché ridurre i fondi da destinare alla copertura del lavoro straordinario, che per loro natura sono previsti per la copertura finanziaria di prestazioni solo eventuali, ha tagliato e sta per tagliare risorse necessarie ad onorare debiti retribuitivi derivanti dall’erogazione del lavoro ordinario. E cioè derivanti dall’adempimento della prestazione obbligatoria ordinariamente connessa alla realizzazione della funzione

Ricostruzione della carriera, via al riconoscimento dei gradoni

da ItaliaOggi

Ricostruzione della carriera, via al riconoscimento dei gradoni

Operativo il sistema informativo dell’istruzione aggiornato con nuove funzioni

Antimo Di Geronimo

Al  via il riconoscimento dei gradoni nelle ricostruzioni di carriera. A partire dal 22 maggio scorso, infatti, il sistema informativo dell’istruzione (Sidi) è stato aggiornato con delle nuove funzioni che consentono di applicare il contratto del 13 marzo. E cioè, l’accordo che dispone il recupero dell’utilità del 2011 ai fini della progressione di carriera.

Lo ha fatto sapere il ministero dell’istruzione, con una nota emanata il 22 maggio scorso (AOODGSSSI n.1211). Il provvedimento è stato inviato alle scuole, perché le ricostruzioni di carriera rientrano tra gli adempimenti a carico delle istituzioni scolastiche (tra le tante, si veda la circolare 9 maggio 2001, n.86). Fatte salve le ricostruzioni le cui domande siano state presentate prima del 1°settembre 2000. Per tutte le altre la competenza è delle scuole. Che devono provvedere direttamente a determinare gli importi derivanti dal riconoscimento dei servizi per il ruolo. E cioè dei servizi prestati dai lavoratori interessati prima dell’accesso al ruolo di appartenenza. Riconoscimento che determina, a sua volta, la collocazione nella classe stipendiale corrispondente al numero di anni di servizio effettivamente prestati, anche se non di ruolo.

Questi ultimi, però, non vengono valutati per intero: i primi 4 valgono al 100%, gli altri valgono 2/3. Per essere considerati valutabili i servizi pre-ruolo devono essere stati prestati in possesso del titolo di studio previsto per l’accesso alla qualifica e il periodo di riferimento non deve essere stato inferiore a 180 giorni.

È prevista però un’eccezione: se il servizio è stato prestato ininterrottamente dal 1° febbraio fino al termine delle operazioni di scrutinio finale, ai sensi dell’art. 11, comma 14, della legge 3 maggio 1999, n. 124, il periodo viene comunque considerato valido, come se si trattasse di un intero anno di scuola. Il beneficio viene attribuito a domanda del lavoratore interessato.

Il diritto al riconoscimento dei servizi e, dunque, alla ricostruzione di carriera, si prescrive in 10 anni. Il diritto agli eventuali arretrati decade invece dopo 5 anni. Nell’imminenza del decorso del termine è opportuno presentare una diffida ad adempiere con costituzione in mora, che ha l’effetto di interrompere il termine della prescrizione. Che decorrerà nuovamente a far data dalla presentazione della diffida. Quanto agli effetti in busta paga, l’accordo del 13 marzo comporta il recupero del 2011. In soldoni: 1000 euro in più a testa a regime e circa 4mila sulla cosiddetta liquidazione. Che spettano a tutti, ma la cui applicazione varia da persona a persona, a seconda dell’anzianità di servizio.

I gradoni, infatti, vengono maturati al compiersi di determinati periodi di anzianità, attualmente corrispondenti alle seguenti fasce stipendiali: 9, 15, 21, 28, 35. Il numero a cui fa riferimento la fascia corrisponde al superamento di un traguardo individuato in un determinato numero di anni di servizio. Per esempio, il lavoratore che è in fascia 21 è un soggetto che ha superato i 20 anni di servizio e a tale anzianità corrisponde anche un determinato importo dello stipendio. Importo che varia e a seconda della qualifica: più alto per i docenti, più basso per gli Ata (con la sola eccezione dei direttori dei servizi generali e amministrativi, che mediamente guadagnano più dei docenti).

Resta il fatto, però, che l’art. 9, comma 23, del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78 ha disposto che: «Per il personale docente, amministrativo, tecnico ed ausiliario (Ata) della scuola, gli anni 2010, 2011 e 2012 non sono utili ai fini» dei gradoni. Il 2010 è stato recuperato con il decreto interministeriale n. 3 del 14/01/2011. Decreto con il quale il governo ha destinato parte dei risparmi dovuti ai tagli agli organici degli ultimi anni a rifinanziare i gradoni. E il 2011 è stato recuperato con l’accordo del 13 gennaio, che utilizza i rimanenti soldi dei tagli e una parte dei soldi del fondo di istituto. Dunque, il 2012 non è stato ancora recuperato.

L’e-book a scuola può attendere

da ItaliaOggi

L’e-book a scuola può attendere

Ricorso al Tar dell’Assocazione degli editori contro il decreto Profumo sui libri elettronici

Mario D’Adamo

Gli ultimi provvedimenti del ministro Profumo, quando era in carica per il disbrigo degli affari correnti, hanno scontentato molti tra utenti e operatori.

Tra questi l’associazione italiana degli editori, Aie, che ha presentato ricorso al Tar del Lazio contro il decreto n. 209 del 26 marzo scorso sull’introduzione dall’anno scolastico 2014/2015 dei libri di testo in versione interamente digitale o mista, costituita quest’ultima da un testo cartaceo e da contenuti integrativi digitali, sia per l’eliminazione della gradualità prevista dalla legge sia per l’arbitraria riduzione dei limiti, entro i quali i collegi docenti delle scuole secondarie devono contenere la spesa a carico delle famiglie per l’acquisito dei libri di testo.

Nell’attesa di conoscere la posizione di Maria Chiara Carrozza, nuovo ministro dell’istruzione, gli editori non hanno ancora diffuso il ricorso ma fanno sapere, tramite il presidente del gruppo educativo dell’associazione, Giorgio Palumbo, sentito da ItaliaOggi, e il comunicato del 27 maggio scorso di avere contestato il precedente ministro per essersi, se così si può dire, un po’ allargato nel dare attuazione alle misure urgenti per la crescita del governo Monti (decreto legge n. 179 del 2012) e per avere ridotto i tetti di spesa «senza alcuna istruttoria sui costi reali di produzione».

Le due questioni, per altro, sembrerebbero anche connesse. Il decreto legge 179 del 2012 prevede una gradualità nell’introduzione di libri interamente digitali o misti, giacché stabilisce che il relativo obbligo sia «progressivamente» operativo solo a partire dal 2014/2015, solo per le nuove adozioni e solo per le classi prima e quarta della scuola primaria, prima della scuola secondaria di primo grado e prima e terza della scuola secondaria di secondo grado. In questo modo occorrono tre anni scolastici perché l’obbligo sia generalizzato a tutte le classi di tutti gli ordini di scuola, andando quindi a regime dal 2016/2017.

Invece l’art. 1 del decreto Profumo, mentre conferma che l’obbligo di adozione di libri in versione interamente digitale o mista decorre per le anzidette classi dal 2014/2015, ridurrebbe la progressività di un anno, con la conseguenza che la sua generalizzazione a tutte le classi verrebbe anticipata all’anno scolastico 2015/2016. Gli editori saranno così costretti ad «annullare (…) [gli] investimenti e a macerare i (…) magazzini, costituiti in base alla legge dei blocchi delle adozioni e calcolati secondo le ragionevoli aspettative del graduale passaggio al digitale, così come definito dal testo della legge votato in Parlamento».

Già, perché la legge, cui gli editori fanno riferimento, è quella che ha istituito l’obbligo quinquennale e sessennale delle adozioni, sulla base del quale sono state costituite le scorte di magazzino, che ora dovrebbero andare al macero. Il blocco quinquennale e sessennale delle adozioni è stato abrogato dal decreto legge n. 179 del 2012 ma la sua eliminazione non può non andare di pari passo con l’introduzione graduale delle nuove versioni di libri prevista dallo stesso decreto, proprio per evitare gli inconvenienti lamentati.

E quanto ai tetti di spesa il decreto Profumo prevede una riduzione del 30%, libri in versione interamente digitale, e del venti per cento, libri in versione mista. Poiché attualmente la spesa delle prime classi di scuola secondaria si aggira sui trecento euro, il risparmio per le famiglie varierebbe dai 60 ai 90 euro, che è illusorio pensare bastino per acquistare e rinnovare la dotazione tecnologica per l’utilizzazione dei libri digitali.

La legge istitutiva dei tetti di spesa, la finanziaria del 1999, fortemente voluta da Luigi Berlinguer, ministro dell’istruzione nel governo Prodi, attribuisce al ministero dell’istruzione il potere di regolamentare annualmente la materia ma tale potere non può essere esercitato, per principi generali di buon andamento dell’attività amministrativa, senza ancorarlo a dati di fatto oggettivi, analiticamente consultati e valutati, pena la contestazione per eccesso di potere. Ed è ciò che sarebbe mancato, secondo l’Aie, secondo la quale non è vero che il passaggio al digitale comporta un abbattimento dei costi di produzione: «al contrario esso richiede altre professionalità e altri costi e sconta un’Iva di 17 punti percentuali (forse da luglio di 18) in più rispetto ai libri di carta. Il danno per (_) [gli editori] e per tutta la filiera è ancora maggiore se si considera che (_) [devono] stare in questi tetti di spesa non solo per i nuovi libri digitali ma anche per tutti gli altri già in utilizzo». E tutto ciò, senza entrare nel merito delle altre questioni implicate, la formazione degli insegnanti, assolutamente da generalizzare, e le dotazioni tecniche, la cui estensione a tutte le scuole richiederebbe agli attuali ritmi ancora altri quindici anni, stando al parere dell’Ocse, richiesto con uno spettacolare autogoal dallo stesso ministero e reso pubblico il 5 marzo scorso. Senza contare che non sono pochi coloro che ritengono insostituibile la versione cartacea dei libri per i pregi che possono ancora vantare rispetto alle corrispondenti versioni digitali.

Mobilità secondaria II grado: molto probabile slittamento dei termini

da Tecnica della Scuola

Mobilità secondaria II grado: molto probabile slittamento dei termini
di L.F.
Nel corso della procedura si sono accumulati diversi ritardi che rendono improbabile il rispetto della scadenza prevista dal CCNI dell’11 marzo scorso.
Considerata la complessità delle operazioni dei trasferimenti del personale della scuola secondaria di secondo grado, soprattutto per quanto riguarda l’applicazione dell’articolo 20 del CCNI dell’11 marzo 2013, che ricordiamo è propedeutica a tutte le fasi della mobilità, è molto probabile pensare ad uno slittamento dei termini per la comunicazione al SIDI delle domande di mobilità e dei posti disponibili e di conseguenza della pubblicazione dei movimenti.  Ricordiamo ai nostri lettori che l’O.M. n. 9 del 13 marzo 2013 all’art. 2, fissava questi termini al 20 giugno 2013 per la comunicazione delle domande di mobilità e dei posti disponibili al Sidi, e al 6 luglio la pubblicazione dei trasferimenti.  Ricordiamo ancora, come già fatto in un altro recente articolo, che la data di revoca delle domande di mobilità è fissata al 10 giugno 2013. Ma da alcune segnalazioni pervenute dagli uffici scolastici regionali, che monitorizzano lo stato dell’arte della mobilità, interfacciandosi con i vari ambiti territoriali, si apprende che non si è ancora provveduto, ai sensi dell’art. 20 del CCNI sulla mobilità, all’assegnazione dei docenti che hanno esercitato l’opzione per passare dal vecchio al nuovo ordinamento.  Di cosa si tratta concretamente? Si ricorda che qualora negli istituti di scuola secondaria di II grado dotati di un unico organico si fossero costituiti organici distinti per effetto della trasformazione di precedenti corsi, anche sperimentali, in nuovi percorsi di studio a seguito del riordino del secondo ciclo di istruzione, l’Ufficio territoriale prima delle operazioni di mobilità avrebbe dovuto provvedere, a domanda, in ordine di graduatoria e in base alla preferenza espressa, all’assegnazione dei docenti del preesistente istituto sull’organico del nuovo percorso.  Quanto detto ovviamente è propedeutico a tutto il seguito della mobilità a cominciare appunto dalle eventuali revoche delle domande già effettuate. Poiché l’opzione prevista ai sensi dell’art. 20 comma 2 del Ccni sulla mobilità si esercita ogni anno fino alla messa a regime anche nelle quarte e quinte classi del riordino della scuola secondaria di secondo grado e non è una cosa che capita sporadicamente, ma è una prassi diffusa in ogni provincia, il fatto che ad oggi, molti ambiti territoriali, non abbiano ancora provveduto a queste assegnazioni, determinerà un inevitabile slittamento dei termini su citati.  Risulta anche in ritardo l’individuazione dei docenti soprannumerari, che ovviamente, una volta individuati, dovranno avere i tempi necessari e concessi dal contratto, per presentare la domanda di mobilità, in modo da trovare una nuova sede di titolarità. Visto che ormai il 10 giugno è vicino, presto sapremo se realmente, le segnalazioni pervenute dai vari uffici scolastici, determineranno uno slittamento delle scadenze della mobilità della scuola secondaria di secondo grado.

Blocco contratti: forse slitta il parere del Senato

da Tecnica della Scuola

Blocco contratti: forse slitta il parere del Senato
di R.P.
Dovrebbe essere espresso nella seduta del 5 giugno dalla Commissione Affari Costituzionali dove però, nella giornata del 4, è stata ventilata la possibilità di una rinvio.
La vicenda del Regolamento sul blocco dei contratti e degli stipendi pubblici potrebbe subire una battuta di arresto: in Commissione Affari Costituzionali del Senato sta infatti emergendo l’ipotesi di chiedere al Governo una proroga di qualche giorno per la formulazione del parere finale. Il ritardo sarebbe dovuto soprattutto al fatto che la Commissione Bilancio non si è ancora espressa, ma forse al Senato si stanno anche facendo i conti con un diffuso malessere politico perché nessuno, in questa fase, vuole assumersi la responsabilità diretta di prorogare di un anno i contratti e gli stipendi pubblici. Per dovere di cronaca va anche detto che nella seduta del 4 giugno, in Commissione Affari Costituzionale sono stati già presentati due pareri sul provvedimento, uno contrario del M5S e uno favorevole (per la precisione “non ostativo”) del relatore di maggioranza Pierantonio Zanettin (PdL). La Commissione, nello schema di parere, “auspica che la presente proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali costituisca l’ultimo intervento di contenimento di spesa a discapito di una categoria sociale – quella dei dipendenti pubblici – già fortemente colpita da un progressivo processo di oggettivo impoverimento”.
E invita il Governo
“ad attivarsi affinché, ove vi siano le condizioni finanziarie compatibili, con il primo avanzo utile di bilancio, provveda a revocare tale regime”. Il tono appare quello della rassegnazione e della ineludibilità della decisione, anche se nel corso del dibattito il senatore Pagliari (PD) ha invitato i colleghi a tenere conto delle osservazioni fortemente critiche formulate dalla Commissione Istruzione.
Nella giornata del 5 giugno la Commissione Affari Costituzionali dovrebbe prendere una decisione, ma è possibile che i tempi slittino, in attesa di trovare un accordo solido.

Settima corta, scelta o necessità?

da Tecnica della Scuola

Settima corta, scelta o necessità?
di A.G.
Dopo quella di Savona, anche la Provincia di Milano invia una circolare alle scuole superiori: soluzione inevitabile, ma niente drammi perchè nelle primarie e medie l’orario su cinque giorni è già “una consuetudine apprezzata dalle famiglie e che ci mette in linea con i principali stati europei”. Regione e Usr avrebbero già dato il loro assenso. Tuttavia, per alcune tipologie di istituti uno o due “ritorni” pomeridiani sarebbero inevitabili.
Mentre il ministro Carrozza continua ad incontrare delegazioni dell’Anci, l’ultima delle quali guidata dal Presidente facente funzioni, Alessandro Cattaneo, per mettere a punto il piano di buon funzionamento del sistema formativo, soprattutto sul versante dell’edilizia scolastica, dalle province stesse continuano ad arrivare indicazioni preoccupanti sulla gestione del prossimo anno scolastico. Il 4 giugno, in particolare, la Provincia di Milano ha emesso una circolare nella quale spiega che la maggior parte degli studenti andrà a scuola cinque giorni alla settimana su sette. A tal fine la stessa Provincia invita caldamente gli istituti ad adeguarsi entro giugno. Si tratterebbe di una indicazione realizzata in accordo con la Regione Lombardia e la direzione scolastica regionale, che rispetta formalmente l’autonomia dei singoli dirigenti. Ma che, tuttavia, allo lascia ai capi d’istituto davvero pochi margini di manovra: perché l’unica certezza, al momento, è che nel prossimo anno scolastico sono previste “ulteriori forti diminuzioni di spesa” per il riscaldamento. Quindi, per la provincia l’unica soluzione è l’articolazione dell’orario scolastico su cinque giornate settimanali. “Tale possibilità – si legge nella circolare – sarebbe opportunamente consentita dalla riorganizzazione degli orari effettuata dalla recente riforma degli ordinamenti delle superiori che portano a un impegno massimo settimanale di 32 ore limitato a pochi corsi di studio e nella generalità dei casi in un arco di 27-30 ore“. D’altra parte la Provincia osserva che, specialmente a Milano città, nelle scuole primarie e secondarie di primo grado l’orario su cinque giorni è già “una consuetudine apprezzata dalle famiglie e che ci mette in linea con i principali stati europei“.
Non tutte le scuole, per completezza di informazione, potranno però istituire la settimana corta agevolmente: nei licei artistici, in alcuni istituti tecnici e nelle classi terminali degli Ipsia, infatti, le ore sono 34 e anche entrando alle 8 sarebbe inevitabile in questi istituti istituire una o due giornate di didattica con orario pomeridiano. Tra i vantaggi indicati dell’orario su cinque giorni, sempre all’interno della circolare della Provincia di Milano, vi è infine una “più ottimale organizzazione del lavoro del personale” non docente. Non è la prima volta che una provincia, cui è affidata per legge manutenzione e pagamento delle utenze di tutti gli istituti superiori pubblici, si rivolge alle scuole per chiedere di ridurre le spese limitando o “compressando” le giornate di offerta formativa. Circa un mese e mezzo fa anche la Provincia di Savona aveva manifestato l’esigenza di ridurre a 5 giorni i giorni settimanali di lezione. E già in quell’occasione i sindacati manifestarono il loro dissenso. Particolarmente duro fu il commento di Marcello Pacifico, presidente Anief: “le scuole italiane sono ormai abituate ad andare avanti tra mille difficoltà. Tanto è vero che da anni devono fare i conti con mancanze di ogni genere: dalla carta igienica, ai gessetti per le lavagne, dai toner per le stampanti all’assenza di manutenzione ordinaria e straordinaria. Sino a sorteggiare i supplenti per decidere quali pagare con i pochi fondi a disposizione. Se l’indicazione delle province dovesse realizzarsi – concluse il presidente dell’Anief – vorrà dire che si stavolta si organizzeranno per sopravvivere anche al freddo e alla mancanza di luce”.

Settimana corta? Un modo anche per risparmiare in elettricità e riscaldamento

da Tecnica della Scuola

Settimana corta? Un modo anche per risparmiare in elettricità e riscaldamento
di Lucio Ficara
La provincia di Milano ha emanato una circolare invitando le scuole a prendere in seria considerazione l’opportunità condivisa di svolgere le attività didattiche dal lunedì al venerdì. Si risparmia.
Cosa significa “settimana corta”? Significa svolgere l’orario scolastico settimanale spalmato su 5 giorni a settimana invece che sei, anche per le scuole secondarie di primo e secondo grado. Infatti con il riordino dei quadri orari dei licei, tecnici e professionali, le ore settimanali di lezione si sono fortemente ridotte, in modo da consentire, per chi lo desiderasse, di attuare la settimana corta. In tempo di crisi economica l’idea della settimana corta, non è soltanto una tentazione, per molte scuole autonome, di chiudere il sabato, ma, è triste dirlo, è anche la possibilità di risparmiare sulle bollette di luce, acqua e riscaldamento. Una proposta del genere è stata avanzata dalla provincia di Milano, in accordo con la Regione Lombardia e la direzione scolastica regionale. Tra i vantaggi di questa proposta oltre una più lineare organizzazione del lavoro del personale e una maggiore equità dei turni di lavoro, c’è anche da sottolineare il risparmio energetico dovuto ad un minore consumo di luce, acqua e riscaldamento. Per il prossimo anno scolastico (2013-2014), la provincia di Milano ha emanato una circolare, che invita caldamente, nel rispetto dell’autonomia scolastica, le scuole a prendere in seria considerazione l’opportunità condivisa di svolgere le attività didattiche dal lunedì al venerdì. La proposta dell’amministrazione lombarda anche se formalmente rispetta l’autonomia delle singole istituzioni scolastiche, d’altro canto non lascia una vera possibilità di optare, in quanto vincola la scelta della settimana corta alla forte riduzione di spesa per il riscaldamento.
Morale della favola o le scuole si adeguano alla settimana corta oppure saranno costrette a ridurre i consumi legati al riscaldamento. Nella circolare si fa espressamente riferimento alla riforma scolastica, che fra due anni andrà a regime. Si ricorda infatti che tale riforma ha ridotto l’impegno scolastico delle lezioni ad un massimo di 32 ore settimanali, limitato tra l’altro a pochi indirizzi di studio, e che nella generalità dei casi le ore di lezione risultano da un minimo di 27 ad un massimo di 30 ore settimanali. Quindi la proposta potrebbe essere accolta, per ragioni di risparmio di fondi pubblici, da tutte le scuole. La cosa che suona strana è che la circolare in questione, sembrerebbe rivolgersi ai dirigenti scolastici, come se fossero i terminali decisori della questione. Si ricorda che il dirigente scolastico non ha alcun potere decisionale su quanto riguarda la didattica, ma questo afferisce alla decisione del Collegio dei docenti, che potrebbe valutare l’opportunità di svolgere le proprie attività didattiche in 5 giorni piuttosto che 6. Non bisogna scordare che questo argomento ha una ricaduta sia sullo svolgimento dei programmi che sull’apprendimento dei ragazzi, quindi tocca ai docenti decidere e non ai dirigenti scolastici. Per cui ottenere una uniformità di scelta sarà difficile anche se non impossibile, visto che per molti docenti questa potrebbe essere una dolce tentazione