E anche questa è fatta

E anche questa è fatta

I docenti precari con tre anni di servizio hanno affrontato l’esame dei PAS, i Percorsi Abilitanti Speciali. Le riflessione di un dirigente scolastico componente di commissioni d’esame presso l’Università degli Studi della Basilicata.

 di Mario Coviello

Dopo i corsi per il conseguimento del TFA, Tirocinio Formativo Attivo, quest’anno, sempre entro la fine di luglio si concludono in tutte le università italiane i PAS.

Ho fatto parte, per due giorni in questa terza settimana di un luglio incerto e in crisi come la nostra Italia, presso l’Università di Basilicata, di due commissioni per gli esami finali dei PAS, Percorsi Abilitanti Speciali, corsi di abilitazione all’insegnamento riservati a docenti delle scuole di primo e secondo grado con almeno tre anni di precariato.

Gli addetti ai lavori sono a conoscenza delle lotte tra docenti precari che hanno superato gli ultimi concorsi e sono in attesa di incarico a tempo indeterminato, docenti che hanno frequentato e superato il Tirocinio Formativo Attivo, e i docenti con più di tre anni di insegnamento che chiedevano questi PAS che alla fine di questo difficile anno scolastico sono finalmente partiti.

In qualità di dirigente scolastico ho dovuto superare le difficoltà che le assenze di questi docenti nel pomeriggio e non solo hanno creato soprattutto nelle classi a tempo pieno, a tempo prolungato e per l’insegnamento degli strumenti musicali.

Durante le due giornate di esami ho conosciuto docenti precari di elettronica,matematica applicata , matematica e fisica, educazione artistica, storia dell’arte, tecnologia, operatori dei servizi sociosanitari. Ognuno di essi si è presentato con il suo vissuto, le sue esperienze e ha raccontato se stesso e la scuola italiana di questi anni difficili.

Ho esaminato con gli altri membri delle commissioni, tutti docenti dell’Università di Basilicata, in qualità di rappresentante della Direzione Regionale di Basilicata del Ministero dell’istruzione 20 candidati, 19 della Basilicata e una docente proveniente dalla provincia di Salerno. Già nel mese di luglio dello scorso avevo fatto parte di una commissione per gli esami finali dei corsi di Tirocinio Formativo Attivo.

In prevalenza docenti donne, quasi tutte laureate con in media cinque anni di insegnamento.

Un docente vive la condizione di precario da 20 anni .

L’esame si svolge con la presentazione di un “ elaborato originale “, così recita l’ordinanza, nel quale i candidati illustrano le loro esperienze pregresse, sintetizzano i contenuti dei corsi frequentati , per ciascuno dei quali hanno sostenuto un esame con relativa valutazione, e presentano una unità di apprendimento che ha lo scopo di dimostrare il possesso dei contenuti disciplinari e di competenze didattiche.

Sfido i miei lettori a presentarsi con disinvoltura davanti ad una commissione per sostenere un esame. Tutti i candidati erano visibilmente emozionati , hanno gestito e quasi sempre l’hanno padroneggiata.

I candidati avevano a disposizione 10 minuti e li hanno utilizzati presentando quasi tutti in Power Point i loro lavori.

Abbiamo ascoltato con attenzione partecipata le loro relazioni perché molti hanno presentato quanto fanno in classe con i loro alunni e i volti sorridenti dei ragazzi e delle ragazze che fino ai primi di giugno hanno dato senso alle nostre aule con il loro sorriso ci hanno ricordato che la scuola pubblica italiana ha un compito difficile ed esaltante educare e formare il nostro futuro.

E ho imparato che si può visitare una chiesa ricca di affreschi da poco restaurati a Tricarico con un tour virtuale , ho conosciuto una terza media di Corleto che ha preparato una guida del paese, una classe di Paestum che ha costrito un gioco per conoscere l’area degli cavi della cittadina in provincia di Salerno.

Ho potuto apprendere che la relazione agli operatori socio sanitari si insegna anche osservando i cani e riflettendo sulle differenze nel comunicare tra l’uomo e l’animale.

Tutti i candidati, soprattutto i laureati in ingegneria, hanno scritto che il corso è stato utile perché ha dato loro la possibilità di riflettere insieme sulla scuola pubblica di oggi e sulle giovani generazioni e sul loro modo di costruire il sapere.

Tutti hanno sottolineato che il ruolo del docente non è più quello di un “trasmettitore “ ma di un promotore di conoscenze, abilità e competenze,. Il docente deve imparare ad  aiutare ciascun alunno a costruire il proprio sapere facendo leva sull’ “imparare ad imparare “ , sul lavoro di gruppo, sull’insegnamento laboratoriale

Tutti si sono soffermati sull’insegnamento ai diversabili e agli alunni con bisogni educativi speciali e nelle loro unità di apprendimento hanno raccontato come operare con questi alunni e come valutarli.

Tutti hanno presentato l’alunno della scuola di oggi “nativo digitale” e la frequenza dei PAS ha “ costretto” molti di loro ad affinare le loro competenze sull’uso a fini didattici delle nuove tecnologie.

Nei loro visi ho letto la fatica di tre mesi di corso frequentati ad aprile, maggio e giugno, soprattutto il sabato, la domenica e nei pomeriggi; le centinaia di chilometri percorsi dopo aver cominciato la giornata alle sei di mattina per correre a scuola, insegnare, fare gli scrutini, gli esami di stato e studiare.

Ho letto l’impegno per sostenere esami. E prepare la tesi finale.

So che tutto questo non è semplice, che i corsi potevano essere organizzati meglio, con tempi distesi anche per consentire ai docenti di mettere in pratica in classe quanto apprendevano.

Non so fino a che punto con questi corsi sono state costruisce competenze solide nei docenti.

Ma mi ha commosso in quasi tutti i docenti che ho conosciuto per questi esami la passione per il loro lavoro, la cura, l’impegno, il desiderio di migliorare.

L’esperienza è stata faticosa perché nella seconda giornata abbiamo cominciato alle dieci di mattina e abbiamo lavorato ininterrottamente fino alle 18,00.

Tutti i candidati si sono abilitati e molti con il massimo dei voti, sommando i risultati degli esami disciplinari alla prova finale.A tutti ho raccomandato di coltivare la passione per l’insegnamento, mettendo al primo posto comunque e sempre l’alunno e le sue necessità e possibilità.

Sia l’esperienza dello scorso anno che quella di quest’anno ha rafforzato la mia convinzione sulla necessità dell’aggiornamento continuo a scuola dei docenti.

La nostra società in così continua e rapida trasformazione, definita liquida da Sigmud Bauman nei suoi innumerevoli saggi e “ complessa” da Edgar Morin che chiede per gli alunni non una testa piena ma una “testa ben fatta”; la nostra società che con le scoperte nel campo delle neuroscienze ha dimostrato che l’uomo vive di emozioni e modifica i suoi comportamenti in base ad esse, dando ragione a quanto Daniel Goleman ha scritto, già più di quindici anni fa, di “intelligenza emotiva “ ,ha sempre più bisogno di docenti motivati, esperti e qualificati e, con tutti i loro limiti, i PAS hanno aiutato in questa direzione.

Materna Scuola dell’Infanzia non ti posso scordare

218 MATERNA SCUOLA DELL’INFANZIA NON TI POSSO SCORDARE di Umberto Tenuta

CANTO 218 Nata come accudimento delle madri e, quando queste sono impegnate nei primi telai idraulici, surrogata dagli Asili infantili che il Froebel trasformerà in Giardini dell’infanzia, i quali diventano poi le SCUOLE MATERNE delle Sorelle Agazzi e le Case dei bambini della Montessori, per acquistare infine dignità di SCUOLA DELL’INFANZIA a fine ‘900.

 

CASE DEI BAMBINI le chiamerà Maria Montessori, alla pari delle scuole per i fanciulli.

Certo, dalla Scuola del Grembo Materno di Comenio cammino se ne è fatto, sia per l’infanzia che per la fanciullezza.

Oggi, infanzia, fanciullezza e adolescenza sono scolasticamente accomunate dall’educazione, che è Promotio prolis usque ad perfectum statum hominis in quantum homo est, qui est virtutis status[1].

Noi stiamo parlando di una seconda gestazione del figlio di donna, che è gestazione nel grembo culturale della società tutta.

Atteso che il concetto di linguaggio oggi comprende tutti i linguaggi, e non solo quello verbale, non esiste più una infanzia, come età dell’assenza del linguaggio.

Peraltro, l’umanizzazione del figlio di donna comincia sin dai primi mesi della gestazione materna ed a quattro anni il bambino è già a metà della formazione della sua intelligenza.

Anticipata da Froebel ed Aporti, la Scuola dell’infanzia con le Sorelle Agazzi e con la Montessori acquista dignità di vera e propria scuola della piena formazione umana.

Forse più importante della Scuola Primaria, così come questa è più importante della scuola Secondaria, come peraltro ben dice il nome.

Maledettamente ancora pesa sulla scuola italiana il retaggio gentiliano, ancorato ad una classe sociale che già nell’ambito della domus assicurava ai bimbi la piena formazione nei loro primi anni di vita, per cui la scuola vera e propria cominciava col Ginnasio, all’inizio della preadolescenza.

Asili e scuole elementari potevano bastare ai contadini, come perentoriamente affermava il Bottai.

La Seconda guerra mondiale ha cambiato il mondo, anche per quanto riguarda la scuola.

Pietra miliare è la legge 118 del 24 marzo 1968 che segna la nascita di una vera e propria Scuola dell’infanzia.

Questa avrà nei successivi Orientamenti del 1991 la sua piena affermazione come moderna scuola della formazione dei giovani durante la loro infanzia, in piena continuità con l’azione educativa che famiglia e società educante tutta continuano a svolgere in piena continuità.

Gli Orientamenti educativi del 1991 rappresentano una pietra miliare, non solo per la Scuola dell’infanzia, ma per tutta la scuola della formazione dei giovani, primaria e secondaria incluse.

È veramente doloroso constatare che da questo forte impegno formativo ci si allontana a mano a mano che si passa alla Scuola Primaria ed alle Scuole secondarie di Primo e ancor più di Secondo grado.

Più che l’ipoteca gentiliana perdura il nozionismo positivistico e illuministico.

Ma non sono i lumi della ragione che fanno liberi gli uomini, come testimoniano la Rivoluzione francese e le odierne guerre che vedono uomini uccidere altri uomini.

Non basta conoscere i danni secolari di Hiroshima per capire che le radiazioni atomiche ritornano su chi le ha lanciate.

Manca la pascaliana intelligenza del cuore!

E chi se non le madri e le scuole materne possono coltivare questa intelligenza?

Venite, o Gente, venite nella SCUOLA MATERNA e fate che materne siano tutte le vostre scuole, chè superiori a quella materna nessuna è.

Nemmeno il LICEO!

 

[1] Tommaso d’Aquino, SUMMA TH,, Suppl. III P., 41.1

A proposito dell’orario di lavoro dei docenti, per una rivoluzione ragionevole

A proposito dell’orario di lavoro dei docenti, per una rivoluzione ragionevole *

di Andrea Avon

 

Nell’ultima parte della scorsa Legislatura (novembre 2012) è balzata agli onori della cronaca l’ipotesi governativa di aumentare unilateralmente l’orario settimanale di docenza degli insegnanti di Scuola Secondaria, portandolo da 18 a 24 ore. La proposta non ha avuto successo, prefigurando un’intollerabile assegnazione di ben 12 classi ad un insegnante (conseguenza che avrebbe riguardato i docenti di discipline con 2 ore settimanali di lezione), ma ha avuto il merito di inserire nell’agenda della prossima tornata contrattuale la necessaria rielaborazione della disciplina dell’orario di lavoro dei docenti.

La verità inconfessabile: retribuzione senza prestazione

A parere di chi scrive non vi è alcuna necessità di modificare unilateralmente il dettato contrattuale in argomento, essendo sufficiente riprendere in mano il vigente C.C.N.L. per confrontarlo con lo specchio della realtà, in nome degli ordinari principi della logica e della coerenza giuridica in materia di diritto del lavoro.

L’art.28 del Contratto distingue le prestazioni dovute da parte dei docenti per “attività di insegnamento” da quelle “funzionali” all’insegnamento. Le prime vengono quantificate in modo differenziato tra i vari ordini di scuola su base settimanale (25 per la Scuola dell’Infanzia, 22 più 2 di programmazione per la Scuola Primaria, 18 per la Scuola Secondaria di I e II grado). Il C.C.N.L. non precisa per quante settimane all’anno vanno garantite le prestazioni di insegnamento, limitandosi ad inquadrarle “nell’ambito del calendario scolastico” regionale.

Sulla base dei calendari disposti dalle diverse Regioni negli ultimi anni i docenti di Scuola dell’Infanzia prestano il proprio orario di insegnamento per 36 settimane all’anno mentre i colleghi della Scuola Primaria e della Scuola Secondaria lo fanno per 33-34 settimane.Va rilevato che nella Scuola Secondaria puòessere stimato un ulteriore impegno individuale di circa 2-3 settimane per lo svolgimento degli Esami di Stato (che non impiegano la totalità dei docenti e vedono un’anomala retribuzione aggiuntiva per i soli insegnanti del II grado).

Si può quindi affermare che la generalità dei docenti italiani ottempera ai propri obblighi di insegnamento mediamente per 36 settimane all’anno. Tale semplice considerazione di fatto deve tenere conto che su 52 settimane che compongono l’anno solare 6 corrispondono alle ferie spettanti e 2 possono essere ascritte alla sommatoria delle “feste comandate”, con un conseguente buco di 8 settimane (52 settimane – 36 – 6 – 2 = 8 settimane): in pratica per circa due mesi all’anno i docenti vengono regolarmente retribuiti senza prestare alcuna attività di insegnamento.

Nell’ambito di tali 8 settimane di mancato insegnamento rientra la prima quindicina del mese di settembre, periodo nel quale gli Organi Collegiali cominciano a riunirsi per impostare l’avvio dell’anno scolastico. Tra le 36 settimane sopra conteggiate “di insegnamento” rientrano invece per tutti anche gli ultimi 15-20 giorni del mese di giugno, durante i quali vengono svolte anche sedute degli Organi Collegiali conclusive dell’anno scolastico. Da tali elementi può essere quindi tratta la conseguenza che mediamente per almeno 6 settimane all’anno tutti i docenti italiani di ruolo percepiscono regolarmente lo stipendio senza offrire alcuna prestazione lavorativa.

Una scontata conseguenza di tale situazione è costituita dal teatrino amministrativo costituito dall’annuale richiesta delle ferie estive da parte del personale docente (regolata dall’art. 13 del C.C.N.L.): ognuno è infatti tenuto a formalizzare una richiesta di fruizione delle ferie non godute in corso d’anno (che possono essere già state fruite per un massimo di sei giorni di lezione, con la rigorosa prassi di non richiedere mai alcun giorno di ferie durante le sospensioni delle lezioni – Natale, Carnevale, Pasqua, Elezioni, etc. -). Si assiste quindi nei mesi di luglio e agosto all’imbarazzante finzione della richiesta delle ferie per qualche settimana, mentre in realtà ciascun docente starà lontano dal luogo di lavoro per almeno nove settimane di fila.

Quanto sin qui riportato costituisce esclusivamente un’analisi di dati di fatto, incontestabili e forse inconfessabili, che possono rappresentare una delle basi di partenza per riconsiderare in modo complessivo la disciplina dell’orario annuale di lavoro dei docenti della scuola italiana.

 

L’altra faccia della medaglia: grandi fatiche e prestazioni diversificate

Nelle 38 settimane annuali in cui i docenti lavorano (33-34 di insegnamento nella Scuola Primaria o 36 di insegnamento/Esami negli altri ordini di scuola e, rispettivamente, altre 4-5 o 2 di non insegnamento), essi sono tenuti a garantire, in base al C.C.N.L., una serie innumerevole di prestazioni:

–       40 ore di Consiglio di Intersezione/Interclasse/Classe (art.29);

–       40 ore di Collegio dei Docenti (art.29 );

–       i rapporti individuali con famiglie e studenti nel numero di ore fissato dal Consiglio di Istituto (art.29);

–       la preparazione delle lezioni e delle esercitazioni nel numero di ore necessario (art.29);

–       la correzione degli elaborati nel numero di ore necessario (art.29);

–       lo svolgimento degli scrutini con la compilazione dei relativi atti di valutazione nel numero di ore necessario (art.29);

–       5 minuti di vigilanza precedenti l’inizio delle lezioni e l’assistenza degli alunni al momento dell’uscita, quotidianamente (art.29);

–       ogni altra attività necessaria di programmazione, progettazione, ricerca, valutazione, documentazione, studio e sistematizzazione della pratica didattica, aggiornamento e formazione prevista dagli ordinamenti scolastici (artt. 27 e 29).

Tali prestazioni rientrano nel concetto di “funzione docente”, introdotto dal Contratto del 1988 (che allora aveva la forma del Decreto del Presidente della Repubblica), per la quale venne introdotto un considerevole incremento retributivo, superiore al 10%, da allora sempre confermato nelle diverse tornate contrattuali successive. Si tratta, quindi, di prestazioni particolarmente gravose, ricomprese a pieno titolo nella retribuzione mensilmente percepita dai docenti.

L’intero complesso delle prestazioni di insegnamento e di quelle relative alla funzione docente si caratterizza inoltre da una diversa intensità di lavoro, che risale alle motivazioni ed alle caratteristiche culturali e professionali proprie di ciascun singolo docente: in particolare gli sforzi di ideazione e valutazione didattica e la relazione formativa con alunni e famiglie risultano evidentemente di entità quantitativa molto diversa tra docenti impegnati al massimo nel perseguire il successo formativo dei propri allievi e colleghi invece più propensi ad un ruolo di spettatori dei vari percorsi di crescita.

In realtà tali sottili e fondamentali differenze di atteggiamento professionale non possono trovare formali distinzioni in sede contrattuale, se non nella parte dedicata al codice disciplinare: prestazioni di qualità devono essere ordinariamente pretese da parte del personale ed eventuali carenze a riguardo non possono che sottostare al rigoroso setaccio della rispondenza o meno ai doveri professionali.

Altri fattori che possono differenziare le prestazioni degli insegnanti, con particolare riferimento a quelle relative alla funzione docente, afferiscono alle distinzioni ipotizzabili tra i diversi profili professionali presenti nella categoria: si ritiene generalmente che il peso di “preparazione e correzione” delle attività didattiche sia inferiore per i docenti di Scuola dell’Infanzia e per gli insegnanti di alcune discipline che non prevedono esercitazioni scritte.

Nel caso della Scuola dell’Infanzia va rilevato innanzitutto che un eventuale minor carico relativo alla “funzione docente” viene compensato dalla maggiore entità dell’orario settimanale di insegnamento e da un calendario scolastico mediamente prolungato per 2-3 settimane all’anno. Per i docenti di alcune discipline (in particolare nella Scuola Secondaria) nelle quali si riscontra un minor numero di esercitazioni da preparare e correggere va invece rilevato che tali insegnanti sono generalmente impegnati in misura molto più cospicua nel ricevimento e nelle attività collegiali della decina di Consigli di Classe di cui fanno parte.

Sull’argomento, tuttavia, va evidenziato soprattutto che un docente serio, qualsiasi sia la disciplina di insegnamento o l’ordine scolastico di appartenenza, dedica un gran tempo alla preparazione delle esercitazioni/attività ed altrettanto alle rilevazioni emergenti, utili per le osservazioni e le valutazioni del caso.

Ancora una volta, quindi, le supposte differenze di fatica professionale richiesta dal Contratto ai diversi profili della docenza appaiono non particolarmente rilevanti sotto l’aspetto contrattuale, che giustamente ne parifica le responsabilità; il ruolo unico dei docenti può apparire quindi un orizzonte ragionevole, nel quale risolvere anche l’inspiegabile differenziazione retributiva e di orario settimanale di insegnamento tra docenti dei diversi ordini scolastici (permangono infatti un numero sensibilmente minore di ore di lezione ed una maggior retribuzione per i docenti di Scuola Secondaria anche nell’attuale situazione, in cui non vi è più alcuna differenza di titolo di studio d’accesso ai diversi profili di insegnamento).

 

Alla ricerca di un equilibrio contrattuale

L’elemento da ultimo segnalato, costituito dal necessario graduale orientamento verso un quantum orario ed un livello retributivo omogenei tra i docenti dei diversi ordini di scuola, appare molto delicato e complesso. Si ritiene vada affrontato nel medio periodo, tenendo conto delle ineliminabili connessioni con l’orario settimanale ed il calendario scolastico previsti per gli allievi dei diversi ordini, evitando rivolte socio-professionali e contraccolpi economici non sostenibili per le casse dello Stato: appare necessario indirizzarsi verso un orario comune (su base annuale) delle ore di insegnamento (con possibili leggere distinzioni debitamente motivate), generalizzando gli impegni minimi di programmazione collegiale settimanale, non prima però di essere intervenuti seriamente sulle finzioni contrattuali sin qui denunciate.

Per una risistemazione della disciplina contrattuale dell’orario di lavoro degli insegnanti la prima mossa indispensabile è infatti rappresentata dalla necessità di considerare a livello annuale il complesso degli impegni professionali: nel confronto con le altre categorie di lavoratori non appare più sostenibile mantenere la classe degli insegnanti in una posizione retribuita anche nei periodi in cui non viene effettuata alcuna prestazione.

In tale ambito può essere riconosciuto che i docenti siano soggetti ad una particolare usura psico-fisica, inevitabile per sostenere sempre il confronto formativo con alunni e famiglie ai massimi livelli di efficienza; di conseguenza può essere accettata l’idea che all’eccellenza delle prestazioni (di cui evidentemente bisogna rendere conto) risultino funzionali frequenti periodi di sospensione. In base a tali considerazioni possono essere valutate come salutari le periodiche pause didattiche (feste comandate, eventuali ponti,interruzione delle lezioni per Natale, Carnevale, Pasqua, Elezioni e nei mesi estivi): in modo corrispondente, però, le prestazioni retribuite ma non rese nelle giornate lavorative comprese in tali periodi vanno evidentemente redistribuite sulla restante parte dell’anno solare.

 

Prime prospettive per un graduale riordino dell’orario di lavoro dei docenti

Senza intervenire in modo traumatico sulla base oraria settimanale delle ore di insegnamento dovute da parte dei docenti dei diversi ordini di scuola, appare quindi possibile sin d’ora dare applicazione alle vigenti previsioni del C.C.N.L. con il correttivo della loro distribuzione sull’intero anno solare.

Si tratterebbe di esplicitare nell’imminente tornata di rinnovo contrattuale che il quantum settimanale di ore di insegnamento va calcolato su base annuale, ricomprendendovi cioè un numero di settimane di lavoro non prestato, da ridistribuire nell’arco dei restanti mesi, dando applicazione ad una disciplina che mantenga in equilibrio le ragioni di unitarietà del sistema e le opportunità che si vogliono offrire all’Autonomia scolastica.

Abbiamo visto in precedenza che le settimane nelle quali in un anno i docenti non offrono alcun servizio ma vengono regolarmente retribuiti (dopo aver fruito delle ferie e delle altre garanzie contrattuali) sono quanto meno 6, in tutti gli ordini scolastici; in ciascuna di esse attualmente non vengono prestate 25 ore di insegnamento nella Scuola dell’Infanzia, 22 nella Scuola Primaria e 18 nella Scuola Secondaria.

Se si volesse procedere per gradi, si potrebbero richiedere tali prestazioni in una prima fase nella misura corrispondente a 3 settimane di lavoro all’anno (già retribuite). In tal modo, tenendo presente che la parte economica del Contratto considera 1 ora di insegnamento equivalente a 2 ore di non insegnamento, da subito si potrebbe contare per ciascun docente sulle seguenti risorse orarie:

–   Scuola dell’Infanzia: annualmente 75 (=25×3) ore di insegnamento o 150 di non insegnamento (o un mix equipollente tra le due tipologie orarie).

–   Scuola Primaria: annualmente 66 (=22×3) ore di insegnamento o 132 di non insegnamento (o un mix equipollente tra le due tipologie orarie).

–   Scuola Secondaria: annualmente 54 (=18×3) ore di insegnamento o 108 di non insegnamento (o un mix equipollente tra le due tipologie orarie).

Le risorse in tal modo disponibili sarebbero una manna per rispondere a numerosissimi punti critici dell’attuale ordinamento: le compresenze necessarie per il lavoro a gruppi nella Scuola dell’Infanzia e nella Scuola Primaria (da estendere anche nella Scuola Secondaria), le supplenze orarie interne (quanto meno per eliminare le pluri-dannose distribuzioni degli alunni scoperti tra le varie classi), il confronto collegiale programmato tra colleghi di classe (fortemente deficitario soprattutto nella Scuola Secondaria, in ore di non insegnamento), il rinforzo di gruppi di ricerca – coordinamento didattico (anch’esso in orario di non insegnamento) e così via.

Naturalmente se si volesse completare l’opera in una seconda fase nella quale richiedere le prestazioni non rese anche per le restanti 3 settimane annuali, le risorse così a disposizione verrebbero a raddoppiare, senza costi aggiuntivi per lo Stato.

 

Vie d’uscita per amore della verità e per rivendicare la dignità professionale

Prospettare soluzioni come quelle sin qui descritte significa esprimere la volontà di dare piena attuazione alle vigenti disposizioni contrattuali, facendo venir meno una finzione che ha sempre caratterizzato il rapporto di lavoro degli insegnanti.

Anche le migliori espressioni della qualità docente, fortunatamente numerose, stanno pagando nella nostra società un discredito che deriva sicuramente dal mancato intervento disciplinare nei casi di prestazioni scadenti, ma che è almeno in parte dovuto anche alla vox populi che accusa la categoria di godere di un numero eccessivo di giornate di lavoro retribuite pur in assenza di prestazioni.

Eliminare la fondatezza di tali posizioni indiscriminate (attraverso una puntuale ed integrale applicazione delle previsioni contrattuali) significherebbe poter confinare le critiche rivolte alla categoria alle sole situazioni concrete di disservizio, quando cioè diverrebbe possibile distinguere le personali responsabilità dei docenti in fallo e dei rispettivi dirigenti.

Oltre all’auspicato recupero della credibilità professionale della classe degli insegnanti, non più criticabili per un iniquo sconto di prestazioni lavorative, le misure qui proposte consentirebbero al contempo di fornire al sistema una formidabile entità di risorse umane aggiuntive, equamente dovute in identica misura su tutto il territorio nazionale, ma opportunamente modulabili da parte di ciascuna istituzione scolastica autonoma. Competerebbe infatti a ciascun Collegio dei Docenti (con il decisivo ruolo dei dirigenti scolastici) determinare per ciascun docente, in una visione organizzativa di sistema, la distribuzione delle prestazioni dovute tra ore di insegnamento e ore di non insegnamento ed i relativi campi di intervento. La tanto bistrattata autonomia riceverebbe così una potente iniezione di risorse e di corrispondenti responsabilità ideative e realizzative, tutti elementi necessari per iniziare a compiere il salto di qualità atteso da anni.

Una ricalibratura del Contratto nazionale per l’attuazione dell’orario di lavoro su base annuale consentirebbe infine di creare le condizioni per il successivo passaggio al ruolo unico dei docenti, con carichi lavorativi e retribuzione omogenei.

Una volta entrati nell’ordine di idee di rivedere l’entità quantitativa complessiva delle prestazioni dovute, potrebbe essere posta come base di calcolo settimanale per l’intera categoria lo schema delle 20 ore di insegnamento + 2 di programmazione collegiale (da ridistribuirepoi sull’intero anno solare, come sopra descritto), fermi restando i doveri professionali attinenti alla “funzione docente”. A tale riferimento di ordine generale potrebbero essere apportati i necessari correttivi: per esempio il surplus di fatiche richiesto ai docenti di Scuola Secondaria (le 2-3 settimane da spendere per gli Esami di Stato) potrebbe tradursi nella riduzione della base di calcolo settimanale al modello 18 ore + 2, eliminando naturalmente ogni residua indennità aggiuntiva. Contemporaneamente per gli insegnanti di Scuola dell’Infanzia l’oggettivo minor carico relativo agli impegni di valutazione formale ed alla preparazione grafica del materiale didattico necessario per le esercitazioni potrebbero comportare l’adozione del modello 22 ore + 2.

La nuova uniformità retributiva dovrebbe essere ricalibrata in sede di rinnovo contrattuale, per esempio con un aumento medio generalizzato del 5% annuale, nettamente ricompensato per le casse dello Stato dalle ben maggiori prestazioni rese. La misura potrebbe essere sarebbe salutata con favore da gran parte della categoria e contemporaneamente si potrebbe contare sulle risorse necessarie per colmare le attuali carenze più evidenti nell’organizzazione scolastica. In tutti gli ordini scolastici si recupererebbero in termini orari le risorse perdute con la graduale eliminazione del Fondo di Istituto, indispensabili per assicurare le prestazioni di coordinamento interno; nelle Scuole dell’Infanzia e Primarie le “ore non prestate” (per 6 settimane all’anno) consentirebbero un considerevole aumento delle possibile lavoro per gruppi mentre nelle Scuole Secondarie, oltre a detto vantaggio, si potrebbe finalmente contare sugli obblighi contrattuali necessari per assicurare l’indispensabile collegialità dell’azione dei Consigli di classe, il relativo coordinamento ed il superamento delle annose difficoltà relative alle supplenze interne.

Ciascun dirigente ed ogni Istituto, infine, sarebbero tenuti a sostenere una concreta prova di Autonomia, in quanto dovrebbero trovare il miglior modo per l’impiego di risorse effettivamente disponibili per dare tangibili risposte alle esigenze organizzative e formative emergenti nel proprio contesto.

 

* Lo scorso anno, sul n.11/2013 della rivista “Dirigere la scuola” è stato pubblicato un contributo dello scrivente sul tema dell’orario di lavoro dei docenti. Nell’estate 2014 l’argomento è ritornato d’attualità e, su gentile concessione di Euroedizioni, viene qui riproposto quell’articolo, dal titolo L’orario di lavoro annuale dei docenti, tra fatiche e finzioni contrattuali: cambiamenti per rilanciare la scuola dell’Autonomia”

Pensioni per giudici e professori, ecco cosa cambia: riforma della Pa

da Il Gazzettino

Pensioni per giudici e professori,  ecco cosa cambia: riforma della Pa

di Andrea Bassi

ROMA – Questa volta sembra davvero fatta. Manca, certo, l’ultimo avallo, quello della Ragioneria dello Stato, ma sembra difficile che i tecnici del Tesoro possano mettersi di traverso.

Dopo l’approvazione in Commissione alla Camera della riforma della Pa, per i docenti e il personale amministrativo della scuola che nell’anno 2011-2012 aveva maturato i requisiti per il pensionamento, ma che non aveva potuto lasciare il lavoro per un errore ”tecnico” della legge Fornero (si era equiparato l’anno scolastico a quello solare), si apre la via della pensione. Con un percorso rapidissimo e che potrebbe premiare chi prima presenterà la domanda. I professori cosiddetti «quota 96», che cioè potranno lasciare il lavoro avendo maturato nel 2011-2012 60 anni di età e 36 di contributi (oppure 61 di età e 35 di contributi), potranno lasciare il lavoro già dal prossimo primo settembre. Non appena il decreto del governo sarà legge (manca ancora il passaggio in aula alla Camera e la seconda lettura al Senato), i professori «quota 96» potranno presentare domanda all’Inps. L’Istututo nazionale di previdenza, avrà 15 giorni di tempo per esaminare la richiesta e dare il suo assenso. Ma, e qui sta il punto, la norma stabilisce anche che l’Inps dovrà fare un monitoraggio delle domande assegnando un ordine progressivo risultante dall’età anagrafica e dell’anzianità contributiva dei singoli richiedenti. Se le domande supereranno le 4 mila, quelle in eccesso non potranno essere prese in considerazione. Altro punto importante riguarda il trattamento di fine rapporto. La liquidazione sarà pagata con i tempi della Fornero, ossia quando sarebbero maturati i requisiti per lasciare il lavoro con le norme della riforma del governo Monti. Nel passaggio parlamentare è stata inserita una ulteriore importante novità. Le docenti che avevano maturato i requisiti nel 2011-2012 e che per bypassare l’allungamento dei tempi della pensione stabilito dalla legge Fornero avevano scelto l’unica via possibile per lasciare il lavoro, ossia l’opzione-donna, il pensionamento con il calcolo contributivo della pensione (con una penalizzazione fino al 30 per cento), ora potranno chiedere di vedersi liquidato l’assegno con le più convenienti regole del sistema retributivo.

LE REAZIONI

Nel mondo politico in molti si erano spesi per risolvere il nodo dei professori «quota 96». A cominciare da dalla vice presidente della commissione bilancio della Camera, Barbara Saltamartini. «È stata sanata», ha detto, «una grande ingiustizia». Anche il vice segretario del Pd, Lorenzo Guerini, via twitter, si è congratulato con i parlamentari della commissione finanze per il risultato sui pensionamenti, mentre Francesco Boccia, presidente della Commissione bilancio, tra i più strenui difensori della norma, ha spiegato che l’emendamento «consentirà a quasi 4 mila giovani insegnanti di coronare il sogno di un ingresso a tempo indeterminato nella scuola». Sul fronte pensioni sono state modificate anche altre norme. Come per esempio quelle sul trattenimento in servizio. Per i magistrati è confermato l’abbassamento dell’età pensionabile da 75 anni a 70 anni a partire dal 31 dicembre del 2015. Ma, nell’ultima versione del testo, sono stati fatti salvi non solo i trattenimenti in servizio in essere ma anche quelli non ancora concessi. L’abbassamento dell’età, invece, scatterà subito per i militari e non più dal 2015. Questi ultimi potranno continuare ad essere richiamati in servizio anche dopo il raggiungimento dei requisiti di pensione. Le amministrazioni, infine, potranno pensionare «d’ufficio» tutti i dipendenti che hanno raggiunto il massimo dei contributi previdenziali (42 anni e 6 mesi), e che abbiano un’età anagrafica di almeno 62 anni. Per i professori universitari e per i primari, il requisito è di 65 anni.

Statali in pensione a 62 anni, medici e prof a 65

da Corriere della sera

Statali in pensione a 62 anni, medici e prof a 65

Un altro traguardo raggiunto venerdì notte è quello dei «quota 96», l’intricata e spinosa vicenda dei circa 4 mila lavoratori della scuola — insegnanti, ma anche collaboratori tecnici e amministrativi — che due anni fa dovevano andare in pensione.

Pensionati d’ufficio sì, «per esigenze organizzative e senza recare pregiudizio ai servizi», ma non prima dei 62 anni: è una delle principali novità inserite nel testo della riforma sulla Publica amministrazione, licenziato nella notte tra venerdì e sabato dalla commissione Affari costituzionali e atteso in Aula per la prossima settimana. Anche grazie all’eliminazione della regola del cosiddetto «trattenimento in servizio», che consente di restare a lavoro per altri due anni, i dipendenti pubblici, compresi i dirigenti, potranno essere pensionati d’obbligo, ma mai prima dei 62 anni, che diventano 65 per i medici e i professori.
La norma non si applica ai magistrati: per loro la soglia resta i 70 anni. Ma i togati, salvaguardati da una parte, vengono sfavoriti dall’altra: quanti ricoprono incarichi in uffici di diretta collaborazione con la Pa, pure se solo di consulenza giuridica, non possono più godere dell’aspettativa, devono quindi per forza andare fuori ruolo (per un massimo di dieci anni). E la norma ha, per così dire, valore retroattivo: da settembre, quando entrerà in vigore il decreto, il beneficio dell’aspettativa cessa per tutti. E chi vuole andare volontariamente in pensione prima dei 62 anni? Potrà farlo senza penalizzazioni, grazie ad un emendamento di Maria Luisa Gnecchi, che cancella tutte le decurtazioni economiche previste dalla legge Fornero e soprattutto elimina la dizione di «prestazione effettiva di lavoro»: ovvero, per maturare i 41 anni e sei mesi di anzianità (per le donne) e 42 anni e sei mesi (per gli uomini), necessari per la pensione di anzianità, si potrà tenere conto di tutto l’arco di vita lavorativa, compresi i giorni di sciopero, congedo matrimoniale, maternità facoltativa, e così via.
Un altro traguardo raggiunto venerdì notte è quello dei «quota 96», l’intricata e spinosa vicenda dei circa 4 mila lavoratori della scuola — insegnanti, ma anche collaboratori tecnici e amministrativi — che due anni fa dovevano andare in pensione. Ma che, per quello che è stato riconosciuto come un errore nella norma, sono rimasti incastrati nelle maglie lavorative, bloccati nelle aule dalla riforma Fornero che cambiava in corsa i requisiti per la pensione. Adesso, dopo un passaggio che sembra scontato in commissione Bilancio e una veloce approvazione al Senato, non appena il decreto sulla Pa sarà diventato legge — si stima entro l’8, 9 agosto — potranno richiedere di andare in pensione dal primo settembre. Non avranno però subito diritto al Tfr, che arriverà solo tra due anni: la liquidazione sarà infatti rinviata al momento in cui avrebbero dovuto andare in pensione secondo i criteri Fornero. E la somma sarà ricevuta non per intero, ma a rate, scansionate in base al reddito. Ma non perderanno neanche un giorno di lavoro: come per gli altri lavoratori pubblici, il calcolo dell’ammontare dell’assegno avverrà con criteri misti. E cioè: per il lavoro svolto fino al 31-12-92 si terrà conto dell’ultima busta paga, quella di agosto 2014; per quello svolto fino al 31-12-2011 varrà la retribuzione media; per gli ultimi due anni e otto mesi di lavoro si terrà conto della contribuzione versata. «È stato un grande successo, a cui stiamo lavorando da 31 mesi — dice Manuela Ghizzoni, pd — viene risolta un’ingiustizia». Il provvedimento non varrà solo per i quota 96, ma anche per un centinaio di insegnanti che avevano deciso di usufruire dell’opzione «donna» per poter andare in pensione prima, ma utilizzando il calcolo contributivo della pensione, e quindi rinunciando al retributivo (più vantaggioso). Ora ci sarà una rivalutazione della loro pensione (circa il 30%, 2-300 euro) per evitare che siano penalizzate economicamente rispetto ai colleghi.
Valentina Santarpia

Vuoi fare l’insegnante? Sappi che è tra le professioni più in crisi

da La Tecnica della Scuola

Vuoi fare l’insegnante? Sappi che è tra le professioni più in crisi

Secondo un’analisti della Cgia, tra il 2008 e il 2013 i docenti, assieme alle forze di polizia di stato, i vigili urbani e i vigili del fuoco, hanno subito “una contrazione molto preoccupante”: i primi sono diminuiti di quasi 101 mila unità (-19,5%), i secondi di oltre 97 mila (-23,9%). Cresce il rischio di rimanere precari sempre più a lungo. Anche perché è aumentato il numero di disoccupati potenziali aspiranti prof: solo tra i ragionieri si sono persi 441mila posti e tra gli imprenditori 215mila. In decisa crescita, invece, quelli per estetisti, parrucchieri, colf, badanti, magazzinieri e pony express. E a riversarsi su queste professioni non sono più solo gli stranieri…

A leggere i freddi numeri, oggi chi decide di fare l’insegnante ha la strada sempre più in salita. Da un’analisi della Cgia di Mestre, risulta che tra il 2008 e il 2013 sono stati cancellati oltre 100mila posti. E che assieme ad altre professioni – i ragionieri, gli amministratori delle piccole imprese, i muratori, i carpentieri, i ponteggiatori, i falegnami – la categoria è ufficialmente tra quelle più in crisi: “a seguito dei tagli avvenuti in questi ultimi anni anche nel pubblico impiego – scrive il sindacato veneto il 26 luglio – , gli insegnanti delle scuole secondarie e post-secondarie e le forze di polizia di stato, i vigili urbani e i vigili del fuoco hanno subito una contrazione molto preoccupante: i primi sono diminuiti di quasi 101 mila unità (-19,5%), i secondi di oltre 97 mila (-23,9%)”.

Premesso che i tagli non hanno riguardato solo i docenti delle superiori, come sanno bene gli addetti ai lavori, il dato che emerge dalla ricerca sindacale è che oggi fare l’insegnante comporta dei rischi. Ed il pericolo di rimanere precari per un lungo periodo è decisamente più alto rispetto a 10 anni: oltre alla riduzione di posti, infatti, negli ultimi anni l’avanzamento della disoccupazione ha incrementato il numero di aspiranti docenti. Soprattutto di quelli in possesso di titoli di studio di medio e alto livello, diploma di maturità e laurea, che si sono ritrovati senza occupazione.

Sempre secondo la Cgia di Mestre, la professione più “falcidiata” dalla crisi economica è stata quella dei ragionieri. A fronte di una diminuzione di oltre 441 mila unità, in termini percentuali la “caduta” è stata pesantissima: -40,1%. Non è andata altrettanto bene nemmeno agli imprenditori e agli amministratori delle piccole imprese che hanno visto ridursi la platea degli occupati di quasi 215 mila unità (-38,4%). La crisi dell’edilizia ha “gettato sulla strada” anche moltissimi muratori, carpentieri e ponteggiatori. In termini assoluti si sono trovati senza un lavoro in oltre 177 mila (-24,7%). Male anche la situazione di artigiani e operai specializzati del legno, del tessile e dell’abbigliamento: la flessione è stata di oltre 109 mila unità (-23,9%).

Di contro, estetisti, parrucchieri, colf, badanti, camerieri, magazzinieri, pony express, etc., sono i lavori che in questi ultimi anni non hanno conosciuto la crisi. Per estetisti, parrucchieri, colf e badanti è stato registrato un aumento in termini assoluti pari a oltre 314 mila unità (+71,7%). E a svolgere queste professioni non sono solo immigrati: nonostante il peso della componente straniera sfiori ancora l’80% del totale degli occupati in questo settore – prosegue -, tra il 2012 e il 2013 la presenza delle italiane è aumentata di quasi il 5%, mentre gli stranieri sono diminuiti dell’8%”.

Buone notizie anche per gli aspiranti camerieri, che hanno fatto registrate un incremento di posti di lavoro pari ad oltre 251.500 (+31,5%), ma anche per i magazzinieri e i pony express, con oltre 125.600 occupati in più (+43,2%). Tutte professioni, però, di basso livello professionale. Che per un aspirante docente non possono proprio costituire l’alternativa ideale.

Quota 96: a cosa è servito?

da La Tecnica della Scuola

Quota 96: a cosa è servito?

A due anni della legge Fornero sulle pensioni, il Governo rende giustizia a 4mila lavoratori colpevolmente impastoiati. Ma a chi e a che cosa è giovato? A umiliare questo personale e a impinguire gli studi legali, mentre per la scuola pochi sono statii benefici

A essere soprattutto penalizzata infatti è stata la scuola, perché per due anni la gran parte di queste persone della cosiddetta “Quota 96” hanno svolto il loro lavoro in classe senza entusiasmo, volontà, piacere e, nella legittima convinzione di essere stati bistrattati dallo Stato, di sicuro non avranno trasmesso ai loro alunni la fiducia nelle istituzioni, nelle leggi e nel patto sociale che lega tutti i cittadini. Mancanza di professionalità? No, smarrimento e turbamento per lo stravolgimento di un diritto. A che pro dunque condannare tanta gente a lavorare oltre il dovuto, oltre i limiti di un’età possibile per essere vigili nelle loro classi e in modo particolare in quelle turbolente, rissose e di frontiera che esigono invece forze ed energie fresche e motivate? Lo abbiamo scritto altre volte: nessuno si è reso conto che costringere, non solo contro la propria volontà ma anche e soprattutto in dispregio delle leggi, travisandoli in corso d’opera, tanta gente a continuare una professione ormai ritenuta alla sua conclusione non rende merito a nessuno? La scuola non è l’ufficio protocollo del ministero e non si lavora con le carte e le mezzemaniche, ma con le persone, con ragazzi in età evolutiva, con studenti che chiedono attenzione, che pongono domande, che pretendono amore e riguardo.
E in più: cosa si è ottenuto in cambio? Sicuramente tenere fuori dal lavoro altrettanti docenti e personale precario e mandare al lavoro con la forza gente che stava già per uscire e godersi la meritata pensione. Si è ottenuto un risparmio di soldi? Forse, ma a che prezzo? Quanto di questo personale si è assentato, nella comprensibile scelta di preferire la propria salute a un lavoro ormai ritenuto abbondantemente concluso? Quanto di questo personale avrà, e lo ha fatto, inveito contro un governo ritenuto, a ragione, tiranno, perché ha tiranneggiato un diritto, stravolgendolo all’ultimo momento e piegando perfino tutte le regole, accettate, che riguardano la specificità della scuola? E se lo Stato ha forse risparmiato qualcosa, non altrettanto possono dire questi lavoratori dell’istruzione che, per ottenere la giustizia mancata e violata da chi la deve invece garantire, hanno impinguato gli studi legali e fatto lavorare i giudici: dal Consiglio di stato a quelli del lavoro, dai Tar alla Corte costituzionale, ingolfando ancora di più il sistema giudiziario italiano.
Elsa Fornero, la promotrice-ministra della legge sulle pensioni durante il governo Monti, è stata chiara: me lo hanno chiesto, ma, se il Parlamento lo avesse voluto, si poteva subito approvare l’emendamento. Ci sono voluti due anni, per approvarlo, e altri due governi: Letta e Renzi. Ma alla fine giustizia è fatta.
Consentiteci dunque di brindare, come scrive il nostro Giuliani, con costoro, accanto ai quali, come testata, siamo stati da sempre, sostenendoli con tutte le nostre forze

No alla riforma della Scuola del Governo Renzi, gli studenti si compattano

da La Tecnica della Scuola

No alla riforma della Scuola del Governo Renzi, gli studenti si compattano

Scenderanno in piazza il 10 ottobre e il 14 novembre per “ricostruire un ampio fronte di opposizione sociale”: dopo la Rete degli Studenti, arriva anche il sì dell’Unione degli Studenti, riuniti al Riot Village, il campeggio studentesco della Rete della Conoscenza. Alla protesta partecipano pure gli universitari. Danilo Lampis, coordinatore UdS: siamo stanchi di promesse e interventi minimi, riempiremo le piazze per un’istruzione libera e gratuita.

Anche gli studenti entrano in mobilitazione per dire no al piano di riforma sulla scuola previsto dal Governo: la protesta culminerà con una manifestazione nazionale programmata per il prossimo 10 ottobre, data su cui stanno confluendo tutte le principali associazioni studentesche nazionali: dopo la ‘Rete degli studenti medi’, l la decisione è stata presa anche dall’Unione degli Studenti, riunita al Riot Village, il campeggio nazionale studentesco della Rete della Conoscenza che si sta tenendo questi giorni in Salento.

Nei prossimi giorni dall’assemblea della Rete della Conoscenza e dal coordinamento di Link si definirà ulteriormente la proposta: anche gli universitari sono sul piede di battaglia. “Il 10 ottobre bloccheremo il Paese e apriremo una nuova fase di mobilitazione che parla a tutta la popolazione – dichiara Danilo Lampis, coordinatore nazionale dell’Unione degli Studenti – siamo stanchi di promesse e di interventi minimi. Riempiremo le piazze per un’istruzione libera e gratuita per tutte e tutti e per contrastare le linee programmatiche del Governo, che lancia un piano scuola che non prevede un punto centrale per rilanciare il sistema formativo, ossia le risorse”.

Lampis auspica quindi a pensare “piuttosto ad adottare una legge nazionale sul diritto allo studio, uno statuto per gli studenti in stage, nuove forme di partecipazione all’interno delle scuole”. “Le altissime percentuali di dispersione scolastica, i costi sempre più alti per studiare, dai trasporti fino ai libri di testo, delineano un Paese che non crede più nel valore sociale dell’istruzione, che espelle tanti giovani da scuole e università privilegiando un modello sociale ed economico fondato sulla precarietà, sulle basse competenze e sui salari da fame” aggiunge Lampis. “Il 10 ottobre sarà solo il primo passo di un lungo autunno di mobilitazioni sociali. Gli studenti dell’UdS mirano al 14 novembre come data centrale per “ricostruire un ampio fronte di opposizione sociale”.

Sbloccata ‘Quota 96’. Giannini: ottima notizia

da tuttoscuola.com

La Camera approva l’emendamento
Sbloccata ‘Quota 96’. Giannini: ottima notizia

L’approvazione alla Camera dei deputati di un emendamento al decreto PA che sblocca la vicenda degli insegnanti della cosiddetta Quota 96 è un’ottima notizia. Ora siamo ad un passo dalla fine di quello che per centinaia di insegnanti italiani era diventato un incubo. La proficua collaborazione fra Governo e maggioranza parlamentare ha giocato in questa partita un ruolo fondamentale”. La dichiarazione è del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Stefania Giannini.

Lo sblocco di questi pensionamenti – aggiunge Giannini – apre poi a nuove possibili assunzioni per altrettanti precari che da tempo attendono una soluzione per la loro stabilizzazione“.