“TECNOLOGIE DIDATTICHE” E APPRENDIMENTO: SICURI CHE TORNI PROPRIO TUTTO?
di Ivan Cervesato
Ormai non è più neppure un semplice luogo comune, ormai stiamo parlando di un vero e proprio dogma: il miglioramento degli apprendimenti passa necessariamente per il potenziamento e la diffusione delle “tecnologie didattiche” nella scuola.
L’idea (se si vuole, di derivazione skinneriana) è che un apprendimento “mediato” dallo strumento (ovviamente digitale) sia più divertente e più coinvolgente, in quanto tale capace di ridurre il personale sforzo di comprensione di strutture e concetti e dunque più incisivo; che l’”innovazione” (tecnologica), mandando in soffitta la tanto vituperata “lezione frontale”, condurrà ad esiti migliori (qualunque cosa ciò significhi).
Il teorema ha un corollario inevitabile: un insegnante sarà tanto più efficace (tanto più meritevole?), quanto più sarà capace di fare uso degli strumenti tecnologici.
E qui davvero non c’è che l’imbarazzo della scelta: piattaforme di e-learning, risorse web, software didattici, enciclopedie on line (insuperabili per ricerche taglia-e-incolla), ambienti di formazione a distanza, LIM, portatili, tablet, smartphone, forum, social media, classi digitali, e chi più ne ha…
Capita che la Pubblica Amministrazione nazionale non brilli per “efficienza ed efficacia”, ma questa volta anche i critici più prevenuti si sono dovuti ricredere: il dogma è stato infatti inserito nel corpus dottrinario ministeriale a tempo di record.
Così, gli anni sono trascorsi senza che mai si interrompesse il florilegio di iniziative votate allo “svecchiamento della didattica” (d’altronde, non è facile resistere al fascino discreto di uno “svecchiamento”): dal Programma di Sviluppo delle Tecnologie Didattiche (dell’ormai lontano 1997, persino prima che gli “obiettivi di Lisbona” del Consiglio europeo del 2000 diventassero la nuova indiscutibile Bibbia dell’educazione comunitaria), al progetto ForTic, dal progetto DidaTec a quello Cl@ssi 2.0, dal Patto per la Scuol@ 2.0 fino al recente Piano Nazionale Scuola Digitale.
Occorre quindi riconoscere un notevole sforzo, anche e soprattutto finanziario (lo “svecchiamento della didattica” è obiettivo troppo strategico per lesinare risorse, pur in tempi di ristrettezze economiche, di feroci e punitivi blocchi contrattuali e di austerity ad oltranza) per dotare le scuole di strumenti multimediali e “banda larga”, nonché per “formare” il personale.
Coerentemente, puntuali indicazioni dei superiori Organi Amministrativi non sono mai venute meno (pars pro toto: “Si sottolinea l’importanza dell’installazione della LIM all’interno della classe per la costruzione di un ambiente di apprendimento adeguato allo sviluppo di una didattica centrata sullo studente e sui suoi bisogni, nell’ambito della società dell’informazione e della conoscenza.” Tanto dedica agli aspetti pedagogico-didattici, testualmente e in tutta serietà, la nota Miur n. 2926 del 27/5/2011, prima di passare a un diluvio di capitolati tecnici, accordi di rete, impegni e stanziamenti finanziari, disciplinari di gara, procedure di installazione e di collaudo: insomma, prima di passare alle cose serie).
Ad ogni modo, almeno sotto il profilo puramente quantitativo la missione può dirsi compiuta, se è vero che il 95% delle scuole1 può ormai felicemente vantare una rutilante panoplia di computer, televisori, lettori DVD, videoproiettori, lavagne interattive, aule multimediali e via dicendo. Facciamo qualche passo indietro. Bisogna infatti essere giusti.
L’idea che la “tecnologia” possa rivoluzionare (positivamente, s’intende) gli apprendimenti non è nuova: “Entro breve tempo i libri saranno obsoleti nelle scuole… è possibile apprendere ogni branca del sapere umano con l’aiuto dei documentari. Il nostro sistema scolastico cambierà radicalmente nell’arco di dieci anni”.
Così scriveva Edison: correva il 1913 ed il Kaiser Wilhelm sedeva sul trono germanico. Il posto dei documentari (diciamocelo in tutta onestà, senza che Piero Angela ce ne voglia: non sempre poi così capaci di far saltare di entusiasmo il discente…) è stato preso, negli anni Cinquanta, dalla televisione; poi, nei favolosi anni Settanta, sono stati i laboratori linguistici e le lezioni programmate ad essere investiti dal potere catartico-taumaturgico.
Sfortunatamente, pare che documentari, televisione e laboratori di varia natura non abbiano sortito effetti rivoluzionari: anzi.
Così, la moderna soteriologia didattica mainstream punta ora con decisione al multimediale e alla Rete Globale: è questa l’indiscutibile, attuale ultima frontiera.
In tale ottica, la “tecnologia”, in questo caso applicata alla didattica, rappresenta lo strumento col quale si pensa di poter risolvere la straordinaria complessità intellettuale, psicologica, emotiva e relazionale dei processi di apprendimento (il riferimento teorico potrebbe essere costituito dalle pedagogie “funzionaliste”, in cui si calibra la funzione sociale dell’educazione in relazione alle esigenze della società tecnologica e del mercato del lavoro, puntando a “competenze” – ecce verbum! – da spendere nel mondo produttivo e risolvendo il processo formativo nell’informazione e nella prestazione tecnico-operativo-applicativa.
Ma una discussione a riguardo, nel cui ambito si potrebbe mostrare come ogni cambiamento dei mezzi sia tutt’altro che neutro, in quanto finisce inevitabilmente per modificare gli scopi, porterebbe troppo lontano).
A fronte di una simile impostazione, ad un qualche amante della riflessione critica e della verifica sperimentale (insomma: certamente un guastafeste o un piantagrane) potrebbe anche sorgere un sommesso dubbio.
Esistono prove scientifiche indipendenti che corroborino la tesi secondo cui la sistematica introduzione della “tecnologia digitale” migliori gli apprendimenti?
Sorprendentemente (ma per gli addetti ai lavori neanche tanto), la risposta è negativa!
Ma c’è di peggio, poiché esiste addirittura l’evidenza opposta: gli studi a disposizione ci inducono a pensare che portatili e lavagne interattive nella scuola ostacolino il processo di apprendimento e quindi danneggino gli alunni.2
La sconcertante “scoperta”, in letteratura specialistica peraltro nota da tempo, trova oggi ulteriore conferma da parte di un ente al di sopra di ogni sospetto: nientemeno che l’OCSE!
In una recentissima pubblicazione,3 infatti, gli esperti dell’Organizzazione internazionale hanno studiato la correlazione tra diffusione dell’ICT (Information and Communication Technology) a scuola e gli esiti dei test PISA in lettura, matematica e scienze. La conclusione? Devastante. In estrema sintesi: gli esiti, statisticamente, sono tanto peggiori, quanto maggiore la penetrazione e la diffusione dell’ICT a scopi didattici (cfr. cap. 6 How computers are related to students’ performance).
Di fronte all’evidenza, che cosa penserà il guastafeste di turno?
Che, magari, sarebbe ragionevole un cambiamento di rotta: in fin dei conti, stiamo parlando del futuro intellettuale e cognitivo dei nostri figli.
Ma forse si accontenterebbe anche solo di una rudimentale pausa di riflessione, di un abbozzo di intelligente ripensamento.
Beata ingenuità.
Opinionisti-tuttologi e presidenti di Fondazioni che “si interessano di scuola” (probabilmente senza avere mai insegnato un solo giorno in vita loro) di certo hanno già in tasca diagnosi e terapia (il Ministero sarà poi libero di trarre spunti per un Progetto di Sviluppo, un Programma Operativo, un Piano Nazionale).
Se l’ICT dà risultati opposti a quelli sperati (in termini di apprendimento, non di aumento del fatturato di chi vende costosi software e hardware), è perché gli strumenti non sono usati nel “modo giusto”: quello, cioè, che per definizione farebbe miracoli (e se questi stentano ad arrivare, è matematicamente provato: il modo non è quello “giusto”. Alla fine, non è poi tanto difficile da capire).
E di chi la responsabilità del fallimento?
Ma è ovvio: degli insegnanti. Sono infatti loro che, più obsoleti di un Commodore 64, restano balordamente incapaci di usare gli strumenti tecnologici nel “modo giusto”.
Come minimo, bisognerà formarli.
O, meglio ancora, svecchiarli.
1 Farné R. (ed.)(2010) Media education nella scuola dell’obbligo. Una ricerca in tre regioni italiana, in Media Education. Studi, ricerche, buone pratiche, 2 145-200.
2 Spitzer M., Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, Corbaccio, 2013 (p. 82). L’intero testo, cui si rimanda, espone la tesi con argomentazioni scientifiche ed ampi riferimenti bibliografici.
3 http://www.oecd.org/education/students-computers-and-learning-9789264239555-en.htm
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