I PRESIDI NON VANNO ALLA GUERRA

I PRESIDI NON VANNO ALLA GUERRA

 

Ai primi di dicembre l’ANP aveva pubblicato sul suo sito una presentazione sul Piano Triennale dell’Offerta Formativa che conteneva alcune considerazioni sul potere di indirizzo conferito al Dirigente.

Diverse affermazioni non ci avevano convinto. Ci erano sembrate l’espressione, un po’ preoccupante, di un modo di intendere i rapporti all’interno della scuola decisamente distante dal nostro. Vediamo in questi giorni che quelle considerazioni vengono lette come la posizione ufficiale di tutti i Dirigenti scolastici. Ne riportiamo alcune.

Secondo l’interpretazione proposta dall’ANP, il nuovo modello di titolarità dei docenti, oltre alla possibilità di sceglierli in funzione del piano dell’offerta formativa predisposto in ogni scuola e alla maggiore probabilità di fare squadra, presenterebbe per il Dirigente il vantaggio di “non ‘avere le mani legate’ rispetto a docenti contrastivi”.

Ancora, rispetto al ruolo di elaborazione del Collegio dei Docenti (dove la legge 107/15 chiarisce “Il piano è elaborato dal collegio dei docenti sulla base degli indirizzi per le attività della scuola e delle scelte di gestione e di amministrazione definiti dal dirigente scolastico. Il piano è approvato dal consiglio d’istituto.”) si suggerisce di affidarsi ad un gruppo di lavoro, con la raccomandazione di acquisire per prudenza qualche parere “mirato” preliminare, senza formalizzare la consultazione, e di portare il testo in collegio docenti, per una discussione “da contenere quanto possibile”, sottolineando che il Collegio “si può esprimere solo con un voto”. Infine, per quanto riguarda l’approvazione definitiva in Consiglio di istituto, il documento ANP sottolinea che la possibilità che il CdI intervenga a modificare il testo in fase di approvazione è “un evento da evitare con ogni cura”, preparando “accuratamente la delibera, che sostanzialmente dovrà essere una ratifica”. Vogliamo ribadire che non tutti i Dirigenti scolastici si riconoscono in queste posizioni, che riteniamo lesive della dignità dei docenti, del ruolo del Collegio e del Consiglio di Istituto e che disegnano uno scenario di conflitto permanente all’interno delle scuole, cercato con determinazione. L’ANP non rappresenta l’insieme dei Dirigenti scolastici, parla esclusivamente a nome dei propri iscritti, in particolare quando si esprime su temi così critici, con letture e interpretazioni assolutamente di parte. Noi non ci riconosciamo in una visione di scuola in cui gli Organi Collegiali sono assemblee da controllare, evitando che possano avere voce in capitolo, riducendole al ruolo di chi ratifica le decisioni del Dirigente; o in cui gli insegnanti sono elementi “contrastivi” da ridurre all’obbedienza grazie a nuovi poteri di comando. Non concordiamo con il suggerimento, sempre contenuto nello stesso documento, di non sollecitare proposte, secondo “il principio dei marines: don’t ask, don’t tell…”. È una posizione che, siamo certi, non condividono neppure molti iscritti all’ANP e che, in definitiva, produce e alimenta proprio lo scontro che si dice di temere. Al di là delle posizioni culturali, politiche o sindacali, ci riconosciamo in un’idea di scuola come opera collettiva, realizzata da tante istanze, organi, persone, che lavorano insieme attraverso la via del confronto, in una prospettiva pluralista che non ammette scorciatoie, tantomeno autoritarie. Ognuno di noi, secondo la propria sensibilità, le proprie scelte, le condizioni locali in cui opera, declinerà diversamente il proprio ruolo; ma sempre nell’ottica del dialogo, non certo dell’imposizione o peggio della manipolazione. Se ANP si prepara alla battaglia, convinta che la L. 107/2015 affidi ai Dirigenti il compito di sconfiggere tutte le altre componenti della scuola, ha letto una legge diversa da quella su cui noi, nella quotidianità dei nostri istituti, stiamo lavorando. Questa visione non ci rappresenta e non crediamo rappresenti un futuro auspicabile per la nostra scuola.

 

Ferrara, 3/1/2016

Primi 2 firmatari Francesco Borciani, Dirigente scolastico, Ferrara Lia Bazzanini, Dirigente scolastica, Ferrara.

Le adesioni a questo documento si raccolgono scrivendo a Francesco Borciani, primo firmatario, al seguente indirizzo: francesco.borciani@libero.it

E se puntassimo sulla leva della responsabilità e del buon reclutamento?

E se puntassimo sulla leva della responsabilità e del buon reclutamento?

di Domenico Sarracino

 

L’articolo di A. Valentino “Nei panni del DS. E non solo…”, apparso su ScuolaOggi diversi giorni fa, ci porta nel mezzo delle più dibattute questioni del nostro sistema scolastico. L’articolo – denso e problematico – illuminando le varie facce delle questioni in discussione, corre lungo un crinale sottile e scivoloso, ma è sempre teso a indagare le soluzioni positive per il nostro sistema scolastico. L’ho letto attentamente, interrogandomi in particolare sui temi della valorizzazione del merito e della responsabilità.

Sullo sfondo delle mie riflessioni c’è il grande malessere che attaversa le scuole e che, riguardando un po’ tutte le sue componenti – ultimamente anche i Ds – non puo’ non richiamare l’attenzione di tutti quelli che hanno ben presente l’importanza di realizzare un sistema scolastico saldo e coeso.

 

La questione della valorizzazione del merito

La mia idea è che, gira e rigira, la questione del merito alla fine debba essere riconsiderata. Come ho già avuto modo di scrivere, a me pare una forzatura posta in astratto ed un po’ estranea alle scuole perché proveniente da altri mondi che hanno organizzazioni e obiettivi del tutto diversi. E’ mia convinzione che sia necessario concentrare ogni sforzo affinchè gli insegnanti siano il più possibile tutti bravi o, se volete, mediamente bravi, diversamente bravi perché le facce che connotano il profilo dell’insegnante sono diverse, come sono diversi gli allievi ed i loro bisogni educativi. E’ evidente che ci sono diversi modi di essere bravi e diversi livelli, ma andarli ad individuare in modo incontestabile e a collocarli in una graduatoria fatta con parametri numerici o di altro tipo, che privilegino questo o quell’elemento, sia operazione così sfuggente ed ambigua che facilmente porta a lacerazioni, a perdersi e a dividere, e a intorbidare le acque di una comunità educativa che può fondarsi solidamente se si alimenta di un sentire comune e dell’impegno di tutti e di ciascuno. Le difficili ed infinite discussioni presenti nelle scuole a questo proposito ne sono una prova e dovrebbero far riflettere.

In più, questa questione ha anche altri aspetti che possono avere sviluppi imprevisti ed incalcolabili, tali da implicare anche il rischio di far “saltare” la scuola pubblica, la scuola della Repubblica, intesa come cemento che fonda lo stare insieme del nostro Paese e   la coesione sociale. Insomma vedo un’altra minaccia dietro l’angolo: se io sono genitore, è ovvio che cerchi di assicurare ai miei figli quegli insegnanti che sono stati giudicati migliori facendo di tutto per averli e, in caso contrario, sentendomi deprivato di un qualcosa che mi spetta. In tal caso cosa si fa, cosa fanno le scuole, cosa fanno i genitori non toccati dalla “buona sorte”? Non è difficile immaginare tensioni inestricabili, contenziosi, scontento e sfiducia. E dopo, anche la scuola a domanda, a domanda del singolo, e, poi, anche a domanda di questo o quello indirizzo religioso, ideologico, etnico. E non sto parlando della scuola che interagisce con i contesti ambientali, territoriali e istituzionali, e dialoga e si pone in ascolto dei bisogni delle famiglie, nel quadro di indirizzi ed indicazioni nazionali, che è cosa giusta e dovuta. No, sto parlando di una scuola pubblica che aggredita da mille particolarismi necessariamente “finirebbe”, dando luogo a qualcosa che non so immaginarmi, ma che certamente sarebbe altro rispetto al diritto-dovere di fornire   una buona istruzione pubblica per tutti, in coerenza con il mandato costituzionale.

E allora, se la questione del merito ha queste implicazioni e rischi, perché non ci mettiamo con più determinazione, attenzione e risorse sulla strada di un reclutamento più efficace, meglio organizzato, meglio sostenuto, meglio curato? Perché non consideriamo, questa,   la questione delle questioni avendo di mira l’obiettivo di fare entrare nelle scuole docenti tutti qualificati, certo diversi gli uni dagli altri, ma aventi quei livelli di buona professionalità che la scuola di oggi richiede? E perché non rendere successivamente davvero funzionanti i livelli specifici di controllo lungo l’iter del lavoro professionale?

Con l’organizzazione del nuovo anno di prova per i neoimmessi in ruolo, già sperimentato l’anno scorso e che su quelle linee è stato organizzato quest’anno, possiamo dire che una nuova strada, più rispondente ad un reclutamento più efficace sia stata aperta, in particolare con quella parte del corso che riguarda la fase del “peer to peer”, il bilancio delle competenze iniziali e finali, il patto per lo sviluppo, etc.. Strada questa che certamente deve essere battuta con più decisione, più attenzione ai tempi, più riconoscimento ai tutor, più cura da parte di tutti se non si vuole correre il rischio che anche questa occasione sia bruciata dai soliti ritardi, disfunzioni e insufficiente considerazione dei mezzi che occorrono.

 

La leva della responsabilità

La svolta verticistica con la legge 107 c’è ed è evidente. E c’è poco da dire, confligge con l’idea di comunità scolastica ed anche di leadership educativa, e mette fortemente in discussione la condivisione delle responsabilità, l’idea di collegialità reale, la motivazione a far sentire tutti compartecipi di un compito e di certi obiettivi: un’idea certo mai realizzata fino in fondo, ma che c’era e che si doveva rilanciare e rinvigorire, non rattrappire ulteriormente.

Io credo che questi principi vadano ribaditi, perchè la scuola ne ha un rinnovato bisogno. La comunità educativa fondata sulla collaborazione-cooperazione è sempre stata un dover essere, una linea di tendenza, se volete anche una lotta tra la comodità dell’inerzia e la spinta ad operare insieme, a migliorare; bisognava e bisogna perciò affrontare cause e ragioni di questa situazione, non per affossare la comunità educativa, ma per indagare e tentare-sperimentare condizioni nuove per rilanciarla e renderla più effettiva rivedendo la funzione degli OO.CC. e mettendoli in condizione di poter funzionare e decidere. In questa prospettiva il principio su cui far leva è quello della responsabilità , che dobbiamo riuscire a mettere a fondamento e cemento del trinomio collegialità-collaborazione-cooperazione. Perché la collegialità come finora l’abbiamo conosciuta , sostanzialmente “irresponsabile”, manca di quella forza che è determinante per muovere all’azione e che deriva dal sentirsi tutti responsabilizzati, sia come gruppo che come singoli, rispetto ad un compito ben definito, come possono essere i risultati dell’azione didattica, la riuscita degli alunni, il buon funzionamento complessivo della scuola, il miglioramento, lo sviluppo e la crescita professionale.

Una responsabilità che deve portare a prefiggersi il cambiamento-miglioramento, costruendolo fattivamente passo dopo passo in una visione nella quale il problema mio è il problema di tutti e i problemi della scuola sono i problemi di ciascuno. E per agire in quest’ottica occorre monitorare, conoscere e indagare il funzionamento della scuola, il livello dei servizi che offre, i risultati che consegue; e interrogarsi su ciò che occorre per migliorare, interpretando bisogni ed esigenze; saper leggere i cambiamenti socio-economici e psicologi del contesto e degli allievi, definendo obiettivi e modalità di verifica anche con il concorso di altri soggetti del mondo scolastico. E su queste basi operare per ridurre, combattere e fronteggiare le difficoltà presenti nelle scuole.

So bene che dire tutti responsabili può significare nessuno responsabile, e credo perciò che bisogna entrare di più dentro questo snodo per legare la responsabilità di tutti a quella di ciascuno. Ma perché non provare a lavorarci da subito, censendo e valorizzando le buone esperienze che certo non mancano? Sicuramente una scuola non attraversata da competizione e meritocrazia, che respiri l’aria fresca della trasparenza e della collaborazione, della fiducia reciproca, ha più elementi per unire le forze e migliorare. Ed è in rapporto a ciò che deve riemergere la delicata centralità del ds, che va urgentemente sottratto alla deriva burocratica e verticistica in corso e restituito innanzitutto al ruolo di leader educativo, di figura cioè che – per cultura, esperienze didattico-educative, capacità relazionali e motivazionali, visione d’insieme – è garante dei diritti-doveri di tutti, sa mettere insieme le forze, le sa motivare e coordinare, sa stimolare ciascuno e tutti alla collaborazione per il miglioramento. In questo senso le modalità di reclutamento dei nuovi Ds, di cui all’annunciato bando di concorso, costituiscono un’importante verifica.

 

Tentare la via di una sperimentazione

A fronte dei nodi irrisolti, Valentino propone una “sperimentazione di dispositivi” triennale (come il Ptof) e sensata. Sebbene allo stato delle cose, restino salde le considerazioni su svolte, riterrei opportuno provare a cimentarsi, a patto però che sia fatta con lo spirito di ricerca e di verità che è proprio dello sperimentare, cioè – mi si perdoni la franchezza – non a tesi precostituite, ma volta a rappresentare effettivamente fenomeni, situazioni, effetti, ricadute sui contesti scolastici e in particolare sul clima delle scuole e sulle comunità professionali. Insomma proviamo a vedere veramente “l’effetto che fa”, prché a priori ed in astratto tutti facciamo previsioni, ma tutti sappiamo che spesso le cose pensate in un modo, diventano altre, dando luogo a situazioni impreviste ed insospettate, soprattutto quando il tempo le rende abitudini e routine. E allora ben venga la “sperimentazione triennale” prima che il disegno venga generalizzato al buio ed in mezzo a tanti marosi, curando che sia realizzata sulla normalità e quotidianità delle situazioni scolastiche. Mi si permetta di dire questo perché si sono viste diverse “sperimentazioni” che alla loro generalizzazione successiva hanno fallito essendo state costruite in condizioni particolari, con risorse e cure speciali, non replicabili nelle situazioni normali. Ricordo, ad esempio, la sperimentazione di diversi anni fa sull’Organico funzionale che, dopo aver mobilitato tanta gente e suscitato tante attese, crollò impietosamente su se stessa perché ci si accorse che, se si volevano generalizzare gli organici delle scuole con i nuovi parametri, la spesa per i docenti sarebbe lievitata in modo insostenibile. Ma ci voleva tanto a fare un po’ di conti prima?

Taccio infine sui contesti scolastici resi così “opprimenti” e spesso insostenibili dall’insieme di situazioni precarie e mal governate che si affastellano disordinatamente, anno dopo anno, sulle scuole e su chi ha il peso di doverle reggere. E su come questo quadro possa incidere negativamente, di per sé, sulla reale situazione delle scuole e dei Ds impedendo alla riforma di dispiegarsi anche se fosse largamente condivisa e ben fondata. Ma su questo sottoscrivo in pieno le parole di Valentino.

Analfabetismo di partenza

Analfabetismo di partenza

di Maurizio Tiriticco

 

In un recente saggio di Benedetto Vertecchi intitolato “Alfabeto a rischio”, in cui, tra l’altro, vengono presentati i risultati della ricerca “Nulla dies sine linea” condotta dal Laboratorio di Pedagogia Sperimentale dell’Università di Roma Tre con alunni di alcune scuole romane sulla composizione scritta (https://www.academia.edu/19900866/Alfabeto_a_rischio), leggiamo tra l’altro: “Alla maggioranza dei bambini e dei ragazzi s’inviano messaggi contraddittori. Il loro impegno dovrebbe essere teso ad acquisire una conoscenza alla quale corrisponde un credito sociale decrescente. I mezzi di comunicazione enfatizzano il successo conseguito rapidamente e portatore di facile ricchezza. I comportamenti consumisti sono avvolti da suggestioni tecnologiche che nascondono le conseguenze che dal loro uso derivano allo sviluppo dei profili culturali. La caduta più insidiosa è quella che riguarda la capacità di scrivere. E’ una caduta che investe sia la capacità di tracciare i caratteri, sia quella di organizzarli correttamente in parole, da usare per organizzare il messaggio. L’uso di mezzi digitali comporta l’attenuazione, e talvolta la perdita, della capacità di coordinare il pensiero con l’attività necessaria per tracciare i segni! L’intervento nella scrittura digitale di correttori automatici (o di dispositivi automatizzati per la composizione delle parole, come nei telefonini), riduce la consapevolezza ortografica. Il ricorso ossessivo alla funzione copia e incolla riduce la necessità di sviluppare una linea argomentativa”.

La strumentazione digitale, dunque, provocherebbe forme nuove e diverse di analfabetismo? E la scuola, suo malgrado, sarebbe complice di questa pericolosa deriva? Stante la situazione – che poi non interessa solo il nostro Paese e le nostre giovani generazioni – non so se non sia il caso di riflettere su queste nuove forme di analfabetismo. In effetti, la storia ci insegna che è analfabeta colui che non è in grado di leggere e scrivere, pur sapendo, ovviamente, parlare e ascoltare, anche se all’interno di un gruppo sociale ristretto e che ha scarsi scambi con altrettanti piccoli e/o grandi gruppi. Essere analfabeta, comunque, non è sempre sinonimo di ignoranza tout court. Va detto che ricercatori come il Morgan o il Lévi Strauss hanno fatto giustizia di quell’inveterato concetto di analfabeta come di un minus habens. Del resto, è notorio come lo stesso Carlo Magno fosse analfabeta, nel senso che non sapeva né leggere né scrivere. Eppure animava quella Scuola Palatina che ad Aquisgrana riuniva i migliori cervelli dell’impero. E non solo lui: forse un altro Magno, Alessandro, che pur aveva avuto come maestro Aristotele, non aveva alcun interesse di apprendere strumentalmente a leggere e a scrivere. E ciò perché la lettura e la scrittura venivano considerate come un semplice supporto strumentale, da affidare a “segretari esperti” – potremmo dire – al fine di conservare o di trasmettere informazioni. E so di un mio antenato latinista, che era “scrittore apostolico di maggior grazia” presso la corte pontificia, intento a tradurre in perfetto latino curiale le bolle pontificie, originariamente nate in chissà quale imperfetto italiano! Indubbiamente, a parte queste considerazioni, l’analfabeta oggi è colui che non sa e non può né leggere né scrivere”.

Va però considerato che il “piccolo gruppo” pur analfabeta di un tempo ha espresso pur sempre un suo linguaggio e una sua cultura. La cosiddetta cultura popolare, che poi qualche “colto” ha voluto scrivere e conservare perché altri la potessero conoscere, ha un suo valore, un suo stigma. Ciò che ci ha descritto un Carlo Salinari con la sua Storia popolare della letteratura italiana – a valle di qiell’idealismo crociano e gentiliano che per certi versi aveva ovattato la crescita culturale della nostra popolazione tutta – e ciò che ci ha rappresentato un Dario Fo con il suo Mistero Buffo, possono essere una larga testimonianza della dignità che spesso ha la cultura popolare, anche a fronte di quella prodotta da scrittori, poeti, filosofi, scienziati, che – com’è noto – è tutt’altra cosa in quanto segna le tappe dello svolgersi di quella ricerca che da sempre sostanzia lo sviluppo civile e sociale dell’umanità. Per non dire poi di tutto il patrimonio delle fiabe, strumento prezioso di trasmissione di valori e disvalori, e in larga misura per via orale: l’eroe e l’orco, la fata e la strega, il bene e il male, il bello e il brutto in pillole, se vogliamo. La ricerca di Valdimir Propp ci ha dimostrato come anche in ambienti analfabeti – sotto il profilo della incompetenza nella lettura/scrittura – potessero comunque essere veicolati valori che possiamo definire universali, costituzionali, potremmo dire oggi. Per non dire infine della preoccupazione di Platone che vedeva nelle scrittura – e nella lettura quindi – una sorta di congelamento del pensiero e della sua natura dialettica. Insomma, il solo parlare/ascoltare non è di per sé segno di ignoranza.

Abbiamo a monte un’ampia tradizione orale, che per secoli ha costituito il background comportamentale e “civico” di gruppi sociali piccoli e grandi in cui il non saper scrivere non costituiva quel limite che poi invece verrà fortemente denunciato in epoche successive profondamente diverse. Basti pensare a un Lutero, a un Gutemberg o a un Comenio, in lotta perché la trasmissione orale fosse implementata – e per certi versi corretta – da quella scritta, in quanto il leggere e scrivere veniva inteso come segno di una rinnovata libertà: dall’invadenza di un Chiesa che non si poneva alcun limite dall’inquisire e mandare al rogo gli eretici, o meglio coloro che, stando all’etimo greco della parola, operavano “altre scelte” in campo religioso, quindi anche morale e civile. Leggere e scrivere diventavano così una bandiera nuova, una lotta per la libertà di pensiero!

Ed è ovvio che l’affermazione della scrittura ha relegato nell’ignoranza – se si può dir così – quei gruppi sociali che ne erano esclusi. Ovviamente, si tratta solo di rapidi accenni, incompleti e che meriterebbero un’attenzione maggiore. Comunque, sono tutte considerazioni che ci portano a concludere che non è detto in assoluto che la strumentazione leggere/scrivere – per come l’abbiamo costruita fino ad oggi e trasmessa nelle scuole fin dal grado cosiddetto elementare – possa essere la garanzia in assoluto di un progressivo sviluppo culturale civile e sociale. Concordo con tutti coloro che temono un’attenuazione e una perdita di certe competenze logico/sintattiche indotte dalla scrittura digitale, ma è anche vero che la strumentazione digitale implementa la competenza scrittoria manuale: la sola cancellazione automatica, il taglia e cuci operati costantemente nel progredire del testo elimina le brutte copie e le belle copie di un tempo. Chi scrive ha la possibilità di autocorreggersi all’infinito, e il suo pensiero al termine dell’operazione è sempre formattato in bella copia!

L’uso di mezzi digitali comporta l’attenuazione, e talvolta la perdita, della capacità di coordinare il pensiero con l’attività necessaria per tracciare i segni? Sinceramente, non so! Però, la domanda che dobbiamo porci è la seguente: ciò che si sta verificando nella testa delle nuove generazioni a fronte della incapacità di scrivere con penna/carta e che provoca ricadute sulla capacità stessa di formulare pensieri, interpretare sensazioni ed emozioni, trasmettere dati, informazioni, conoscenze, è segno di quale fenomeno? Indica una caduta verticale e inarrestabile della competenza linguistica in senso lato? E, quindi, della competenza comunicativa e creativa? Oppure siamo alla vigilia di nuovi modi di comunicare, che non passano più attraverso l’interazione circolare e progressiva dita-mano-occhio-carta-cervello? O meglio, siamo forse costruendo senza avvedercene mezzi e modi nuovi di produrre pensiero, di comunicare e di produrre cultura? Se è vero che “il mezzo è il messaggio”, sarà anche vero che i nuovi mezzi possono indurre a produrre nuove forme di messaggi, nuovi contenuti e nuovi modi di produrre cultura.

Volendo essere ottimisti, potremmo anche pensare che non siamo di fronte a un analfabetismo di ritorno, come si suol dire – che poi è quello più preoccupante e che interessa la popolazione adulta di tutti i Paesi ad alto sviluppo, e in particolare il nostro (si vedano i dati riportati dall’ultima edizione della ricerca Education at glance) – ma di un analfabetismo che potremmo definire di partenza. Non so se a farmi esprimere questi pensieri sia il mio inguaribile ottimismo, oppure la mia profonda ignoranza in materia.

Comunque, mi sembrerebbe più corretto parlare non tanto di analfabetismo di ritorno ma di un analfabetismo di partenza, a cui forse si dischiudono orizzonti nuovi, di cui non abbiamo ancora perfetta conoscenza.

Prof, me lo dice il voto?

da La Tecnica della Scuola

Prof, me lo dice il voto?

Si chiama, tecnicamente, DPR 24 giugno 1998, n. 249, ma tutti lo conoscono come Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria.

Oddio, “conoscono” è forse dire troppo, giacché ancora oggi – a più di diciassette anni dalla sua pubblicazione sul numero 175 della Gazzetta Ufficiale – sembra che molti docenti non lo abbiano mai letto, o che non vi abbiano prestato molta attenzione. Infatti, l’articolo 2 comma 4 dello Statuto stabilisce che “Lo studente ha diritto alla partecipazione attiva e responsabile alla vita della scuola. I dirigenti scolastici e i docenti, con le modalità previste dal regolamento di istituto, attivano con gli studenti un dialogo costruttivo sulle scelte di loro competenza in tema di programmazione e definizione degli obiettivi didattici, di organizzazione della scuola, di criteri di valutazione, di scelta dei libri e del materiale didattico. Lo studente ha inoltre diritto a una valutazione trasparente e tempestiva, volta ad attivare un processo di autovalutazione che lo conduca a individuare i propri punti di forza e di debolezza e a migliorare il proprio rendimento”.

Ora, non si capisce – ma davvero, nel senso che sfugge proprio il senso di tale presa di posizione – come mai ancora oggi molti docenti si ostinino a non comunicare agli studenti i voti delle cosiddette interrogazioni. A dispetto delle indicazioni normative, in barba ad ogni “valutazione trasparente e tempestiva”, ci si ostina a perpetuare una vecchia, obsoleta e inconcludente procedura che tende, volutamente, a tagliare fuori gli studenti da quello che ai loro occhi rappresenta il momento più importante di un segmento di apprendimento: il risultato – ancorché immediato, contingente e a breve termine – del loro studio.

Ciò che appare ancor più enigmatico è il motivo per cui gli stessi docenti che non comunicano il voto orale non facciano alcuna difficoltà a rendere pubblici i voti dei compiti scritti, quasi che lo scritto godesse di una sua specifica “extraterritorialità” che gli fornisce questo lasciapassare, di certo malvisto e accettato a fatica, poiché di certo – se potessero – non direbbero agli alunni neanche il voto degli scritti.

Certo, verba volant, ma in questo caso volano lasciando una bella traccia nella vita scolastica dei ragazzi. Una traccia che gli studenti hanno il diritto di conoscere e di conoscere con tempestività, come opportunamente sottolinea lo Statuto. Del resto, il legislatore non si è fermato lì: il DPR n.122 del 22 giugno 2009, se ancora non fosse stato sufficientemente chiaro, ribadisce il concetto richiamando espressamente – al comma 2 dell’articolo 1 – quanto sancito undici anni prima dallo Statuto delle studentesse e degli studenti.

E, nel comma successivo, mette in evidenza che “la valutazione concorre, con la sua finalità anche formativa e attraverso l’individuazione delle potenzialità e delle carenze di ciascun alunno, ai processi di autovalutazione degli alunni medesimi, al miglioramento dei livelli di conoscenza e al successo formativo”.

In conclusione, potremmo dire, un docente che rifiuta di comunicare il voto dell’interrogazione non permette l’attivazione di un processo di autovalutazione e – a cascata – impedisce agli alunni di individuare i propri punti di forza e di debolezza e di migliorare il proprio rendimento.

Ciò che a molti docenti sembra il semplice esercizio di un diritto (non comunicare il voto), in realtà è una pratica lesiva del diritto di altri soggetti che potrebbero essere gravemente danneggiati da una scelta didattica che appare piuttosto come una presa di posizione arbitraria senza alcun fondamento pedagogico.

Gabriele Ferrante

“Da Grillo solo chiacchiere: il Governo Renzi ha avviato 3.674 cantieri, di cui 2.419 già conclusi”

da La Tecnica della Scuola

“Da Grillo solo chiacchiere: il Governo Renzi ha avviato 3.674 cantieri, di cui 2.419 già conclusi”

Laura Galimberti, coordinatrice della Struttura di Missione per l’Edilizia Scolastica di Palazzo Chigi, risponde per le rime a Beppe Grillo, che ha inviato l’allarme sicurezza nelle scuole.

“Alle chiacchiere di Grillo rispondo con quanto fatto da questo governo per l’edilizia scolastica: ad oggi, grazie ad un investimento di 1.539.000.000 euro, degli oltre tre miliardi e mezzo messi sul piatto dall’esecutivo per la sicurezza delle scuole, sono stati avviati 3.674 cantieri, di cui 2.419 già conclusi. Nello specifico, con l’operazione Scuole Sicure abbiamo portato a casa 550 milioni di euro per 1878 interventi, di cui 1.188 conclusi”.

“Grazie allo sblocco del patto di stabilità per i Comuni – spiega Galimberti – abbiamo liberato 244 milioni per 836 interventi, mentre le Province e le Città metropolitane hanno avviato 230 interventi investendo 100 milioni di euro. I cantieri conclusi sono complessivamente 571. Grazie a 645 milioni di fondi Pon sono poi già conclusi 730 interventi”. “Quest’anno – aggiunge – bissiamo: la Legge di Stabilità da poco varata stanzia 480 milioni di euro di esclusione dai vincoli di bilancio di Comuni e Province per interventi di edilizia scolastica. L’operazione Mutui Bei (mutui trentennali a totale carico dello Stato) vede 905 milioni di euro per la messa in sicurezza e la costruzione di scuole nuove. La prima tranche di interventi – 1.215 – appalterà entro febbraio”.

“E poi – continua Laura Galimberti – vanno ricordate le misure introdotte dalla Buona Scuola: 40 milioni di euro per le indagini sui solai e i soffitti di oltre 7.000 scuole, 40 milioni per l’adeguamento antisismico degli edifici, 300 milioni per finanziare il piano Scuole Innovative, che vedrà sorgere istituti moderni e all’avanguardia in ogni regione italiana. Uno sforzo ed un lavoro senza precedenti, avviato su un patrimonio immobiliare vetusto che – fino a poco tempo fa – ha visto solo esigui interventi ‘tampone'”. Un lavoro, conclude la responsabile della struttura di missione – “pubblicato quotidianamente sul sito www.italiasicura.governo.it ma che, evidentemente, Grillo ignora. Non abbiamo la bacchetta magica ma lavoriamo, e alle chiacchiere rispondiamo con i fatti”.

Sicurezza, la denuncia di Beppe Grillo: il 54% edifici non è in regola!

da La Tecnica della Scuola

Sicurezza, la denuncia di Beppe Grillo: il 54% edifici non è in regola!

Nel giorno in cui il Miur rende noto il decreto sulla ripartizione del piano di edilizia scolasticaipartizione del piano di edilizia scolastica, Beppe Grillo grida allo scandalo perché il 54% degli edifici non sarebbe in regola.

“Recarsi in una scuola oggi è come lanciare una moneta: testa crolla, croce regge. Secondo il rapporto ‘Illuminiamo il futuro 2030’ di Save The Children in Italia il 45% delle scuole è priva di un certificato di agibilità e/o abitabilità, il 54% degli edifici non è in regola con la normativa anti-incendio e il 32% non rispetta le norme anti sismiche”, dice l’ex comico attaccando le promesse del governo.

“‘Ogni settimana mi recherò nelle scuole per dare un segnale simbolico, che da lì riparte il Paese, dalla capacità di educare nasce la credibilità di un Paese’ – si legge sul blog ricordando le parole di Matteo Renzi – Era il 24 febbraio 2014, quasi due anni fa, e il Bomba faceva una delle tante promesse mai mantenute. Si recò a Treviso due giorni dopo, fu contestato e costretto a fuggire da un’uscita secondaria per non incontrare i cittadini. Poi fu la volta di Siracusa, per rimediare alla figuraccia di Treviso fecero intonare ai bambini una canzoncina per il premier in un grottesco remake di propaganda fascista, ricordate? Anche lì venne contestato dai precari e nelle scuole non lo si rivide più. Non si sa se solo per evitare ulteriori figuracce o per paura che una scuola gli crolli in testa, perchè il Bomba sa che la situazione nelle scuole è drammatica”.

Secondo Beppe Grillo, alla luce di questi dati, si configura “una condizione di pericolo dato che il 40% degli edifici si trova in zone a rischio sismico (la metà dei quali al Sud) e il 10% in aree a rischio idrogeologico. Il 60% degli alunni di 15 anni frequenta scuole non adeguate a garantire la qualità dell’apprendimento. Perfino respirare in classe è pericoloso: secondo l’Osservatorio Nazionale Amianto (Ona) sono almeno 2.400 le scuole italiane che registrano la presenza di amianto, tra il 1993 e il 2012 sono morti 63 addetti all’istruzione (soprattutto maestre elementari) a causa del tumore provocato dall’amianto”.

“Con il nuovo anno – continua il leader del M5S – l’andazzo non cambia. La prima proroga per l’adeguamento antincendio negli edifici scolastici scadeva il 31 dicembre 2015, ma il governo ha pensato bene con il decreto Milleproroghe 2016 di prorogare di un ulteriore anno fino al 31 dicembre 2016. A forza di proroghe non ci si adegua mai, tanto la pelle la rischiano gli studenti. Bisogna aspettare che una scuola vada a fuoco e poi, forse, si farà qualcosa. Quest’anno oltre alla carta igienica ai vostri figli date anche un piccolo estintore, non si mai”.

Nella sua denuncia, l’ex comico ‘posta’ anche un video-denuncia nel quale si descrivono i pericoli di un istituto scolastico della Lombardia. Davvero significativo il titolo del video: “la scuola che cade a pezzi”.

Il ministro Giannini firma il decreto di adeguamento antisismico delle scuole

da La Tecnica della Scuola

Il ministro Giannini firma il decreto di adeguamento antisismico delle scuole

Con un comunicato ufficiale sul proprio sito web, il Miur ha reso nota l’emanazione del decreto concernente la ripartizione delle risorse per il piano di edilizia scolastica, che riguarda l’adeguamento antisismico delle scuole. Sono 50 gli interventi programmati in tutta Italia per una spesa complessiva quantificata in 40 mln di euro circa.

Ecco il comunicato stampa ufficiale del Miur sul piano di edilizia scolastica: Il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Stefania Giannini, ha firmato il decreto per la ripartizione delle risorse per l’adeguamento antisismico delle scuole, 40 milioni di euro previsti dalla legge Buona Scuola (legge 107 del 2015), destinati a rendere più sicuri gli edifici scolastici che sorgono nelle zone particolarmente esposte a rischio sismico. Complessivamente saranno erogati 37.536.601 euro per un totale di 50 interventi di adeguamento antisismico.

La valutazione e la conseguente selezione dei Piani regionali degli interventi sono state effettuate da un’apposita Commissione, istituita con decreto direttoriale n. 57 del 9 dicembre 2015, della quale fa parte anche il Dipartimento per la Protezione Civile. Il decreto prevede l’approvazione degli interventi, individua i termini per l’esecuzione della progettazione e per l’aggiudicazione dei lavori, definisce le modalità di rendicontazione a cui gli enti locali dovranno attenersi e le procedure per l’eventuale revoca dei finanziamenti, stabilisce i parametri per il monitoraggio degli interventi.

A seguire la ripartizione dei fondi e degli interventi per regione: Lombardia 12 interventi, 1.968.000 euro; Piemonte, 1 intervento, 548.000 euro; Liguria, 2 interventi, 608.000 euro; Toscana, 4 interventi, 2.259.300 euro; Lazio, 2 interventi, 3,815.400 euro; Campania, 4 interventi, 6.060.934 euro; Sicilia, 4 interventi, 5.521.586 euro; Friuli Venezia Giulia, 1 intervento, 972.000 euro; Veneto, 4 interventi, 3.016.000 euro; Emilia Romagna, 3 interventi, 2.800.000 euro; Marche, 2 interventi, 1.360.000 euro; Umbria, 1 intervento, 832.000 euro; Abruzzo, 2 interventi, 1.312.000 euro; Puglia, 2 interventi, 2.300.000 euro; Basilicata, 1 intervento, 736.000 e Calabria, 5 interventi, 3.435.380 euro.

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DIDATTICA DIGITALE VEL EDUCAZIONE DIGITALE di Umberto Tenuta

CANTO 601 DIDATTICA DIGITALE OVVERO EDUCAZIONE DIGITALE

 

DIDATTICA DIGITALE.

Sembra che salverà il mondo!

E non è vero.

Nessuna DIDATTICA salverà il mondo.

Nessuna DIDATTICA salverà la SCUOLA!

Nessuna LEZIONE salverà la scuola.

Nessun INSEGNAMENTO salverà la scuola.

La SCUOLA non è un luogo di INSEGNAMENTO.

La SCUOLA è un luogo di APPRENDIMENTO!

La scuola è il luogo ove i figli di donna reinventano la CULTURA che gli uomini hanno inventato nel lungo cammino dei Millenni.

La CULTURA non è fatta di nozioni che riempiono la mente.

Ma non la formano!

I giovani debbono ripercorrere il lungo cammino degli uomini nel corso dei millenni reinventando tutto ciò che gli uomini hanno inventato.

Hanno inventato le loro conoscenze costruendo le loro capacità ed i loro atteggiamenti.

Le conoscenze, le sconfinate conoscenze odierne, stanno tutte in un minuscolo cellulare.

Quello che nemmeno nel più grande PC non si trova sono gli atteggiamenti e le capacità umane.

Queste i giovani debbono acquisire nella SCUOLA BUONA.

Imparare ad amare ed a reinventare la CULTURA.

Acquisire ATTEGGIAMENTI e CAPACITÀ.

ATTEGGIAMENTI, ovvero interessi, bisogni, motivazioni (SAPER ESSERE).

CAPACITÀ, ovvero abilità (SAPER FARE).

E poi anche i SAPERI ESSENZIALI, i Nuclei concettuali fondanti, le STRUTTURE DELLE DISCIPLINE.

Ma, attenzione!

Nessuna lezione, nessun insegnamento, nessuna didattica, nemmeno quella digitale. farà mai acquisire gli atteggiamenti e le capacità.

Occorre l’educazione!

Compresa l’educazione digitale.

Utilizzare gli strumenti digitali per inventare, per scoprire, per costruire le conoscenze.

Solo così si acquisiscono atteggiamenti e capacità.

Solo così si diventa uomini.