NO alla valutazione dei dirigenti se se ne indebolisce la funzione

NO alla valutazione dei dirigenti se se ne indebolisce la funzione

Si è tenuta oggi al MIUR, presso la Direzione Generale degli ordinamenti scolastici e per la valutazione del sistema nazionale d’istruzione, la prevista riunione di informativa sul Portfolio e gli strumenti di valutazione del dirigente.

La delegazione ANP, intervenuta al tavolo, ha dichiarato il proprio rifiuto di entrare nel merito dell’ordine del giorno. Ha, invece, colto l’occasione per ribadire all’Amministrazione la propria posizione riguardo alla valutazione del dirigenti, già espressa al Ministro nell’incontro dello scorso martedì 17 gennaio, così come segue.

La valutazione deve essere un supporto all’azione dirigenziale, in aggiunta agli altri strumenti gestionali e organizzativi che consentano al dirigente di incidere sull’efficienza del servizio.

La situazione determinatasi a seguito dell’accordo politico del 29 dicembre, di fatto una controriforma che delude le aspettative di cambiamento della scuola tutta, costituisce per i dirigenti il venire meno del presupposto da cui la valutazione prende significato:

  • non si può pretendere di valutare i dirigenti mentre vengono meno importanti strumenti per l’azione dirigenziale;
  • non si possono contrarre le prerogative dirigenziali e poi chiedere al dirigente di rispondere dei risultati;
  • non si può intervenire con un contratto tra Amministrazione e Sindacati del personale docente e ATA sulle prerogative dei dirigenti;
  • non si può depotenziare l’organico dell’autonomia con deroghe continue alla legge, vanificando l’attuazione di qualunque progettazione formativa triennale;
  • non si può valutare il dirigente nell’ambito di azioni corrispondenti a responsabilità per le quali non ha potere decisionale.

Anp ritiene che siano pregiudicate le condizioni per procedere ad una corretta valutazione.

Viaggio della Memoria, Fedeli sigla intese con Ucei e Csm

Viaggio della Memoria, Fedeli sigla intese con Ucei e Csm per progetti sulla Shoah nelle scuole e nelle università

Il rinnovo dell’impegno per diffondere la conoscenza della Shoah nella scuola italiana ed un progetto educativo contro le discriminazioni, nel segno della collaborazione tra Miur, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e Consiglio Superiore della Magistratura. In occasione del Viaggio della Memoria, la Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Valeria Fedeli ha sottoscritto, con la Presidente dell’Ucei Noemi Di Segni e con il Presidente della VI Commissione del Csm Ercole Aprile, due intese per l’educazione degli studenti alla cultura del rispetto reciproco.

Ieri a Cracovia, preso la Sinagoga di Tempel, la Ministra Fedeli e la Presidente Di Segni hanno sottoscritto la Lettera d’Intenti che rinnova la collaborazione Miur-Ucei per diffondere tra gli studenti italiani la conoscenza e lo studio dell’Olocausto.

Proseguono le attività mirate di formazione dei docenti, con l’organizzazione di seminari nazionali, anche in collaborazione con la fondazione CDEC, ed il progetto “I giovani ricordano la Shoah: una mostra/evento itinerante per l’Italia”, collegato al concorso annuale che invita gli studenti a realizzare lavori sul tema dell’Olocausto. Le linee guida di un percorso organico nazionale di didattica della Shoah nelle scuole di ogni ordine e grado vengono affidate ad un comitato paritetico.

Oggi, al termine della visita del campo di Auschwitz-Birkenau, compiuta insieme ad oltre cento studenti delle scuole superiori ed ai loro docenti, la Ministra Fedeli, la Presidente Di Segni ed il Consigliere Aprile hanno siglato una Carta d’Intenti Miur-Ucei-Csm. L’intesa prevede un programma pluriennale di attività di sensibilizzazione e formazione nelle scuole e nelle università sui temi dello studio e della ricerca sulla Shoah, per il contrasto ad ogni genere di discriminazione.

Percorsi specifici di formazione per i docenti; pacchetti educativi e informativi multimediali per gli studenti, gli insegnanti e le famiglie; piani di orientamento e tutorato per le scuole. Sono alcune delle attività previste dal progetto che vuole mantenere viva la Memoria dei tragici avvenimenti legati alla Shoah, alle sue vittime e al ricordo di quanti si opposero al progetto di sterminio nazi-fascista.

Particolarmente importante, ha sottolineato la Ministra, sarà il coinvolgimento dei magistrati nelle attività e nelle riflessioni che saranno dedicate alla ricorrenza dell’ottantesimo anno dalla promulgazione delle leggi razziali italiane che cade nel 2018.

Tra le altre iniziative previste dall’intesa, anche l’istituzione di un comitato paritetico per la realizzazione di un piano di attività, di progetti ed iniziative di tipo sperimentale che, dopo una fase di monitoraggio e valutazione, potranno essere estese a livello nazionale. La Carta ha una durata triennale e prevede anche la possibilità di realizzare iniziative con la collaborazione di altri soggetti istituzionali.

Il Viaggio della Memoria quest’anno è stato organizzato dal Miur in collaborazione con l’Ucei e con il Dipartimento per le Pari Opportunità di Palazzo Chigi.

Delega sul sostegno, il nuovo che si attendeva non c’e’

Vita.it del 19-01-2017

Delega sul sostegno, il nuovo che si attendeva non c’e’

di Sara De Carli

Tra le famiglie c’era grande attesa sulla delega che doveva ridisegnare il sistema dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità. Gli addetti si erano divisi, in un confronto acceso. Ora davanti al testo della delega tutti dicono, delusi, che di novità sostanziali ce ne sono poche. E anzi si fa forse qualche passo indietro.

Sono oltre 224.000 gli studenti con disabilità iscritti alle scuole d’Italia. Le loro famiglie guardavano con grandissime aspettative alla delega collegata alla legge 107, che doveva non solo ridefinire le regole per la formazione degli insegnanti di sostegno e il loro accesso al ruolo, ma soprattutto ridisegnare il sistema dell’inclusione scolastica italiana, a quarant’anni dalla legge Falcucci.

«Nel testo che stiamo elaborando stiamo tenendo conto di tutte le criticità che sono emerse fin qui sul tema dell’inclusione degli studenti disabili, per eliminarle e per spazzare via una volta per tutte le ipocrisie che sporcano un sistema d’eccellenza a confronto con gli altri paesi europei. Per questo stiamo andando sempre più nella direzione di una maggiore formazione e competenza per i docenti di sostegno, che fanno un lavoro straordinario ma vanno preparati adeguatamente e in maniera più specializzata, ma anche e soprattutto di tutta la comunità scolastica, perché l’inclusione è responsabilità di tutti e non soltanto di un insegnante particolare per un certo numero di ore. Stiamo andando incontro alle esigenze delle famiglie dando continuità al sostegno per i propri figli, semplificando e uniformando a livello nazionale il sistema di certificazione. Stiamo guardando a un “progetto di vita” per questi ragazzi che tenga conto delle loro abilità e che vada oltre il piano educativo della scuola»: così ci diceva a settembre Davide Faraone, allora sottosegretario all’Istruzione. Lo schema di decreto è stato approvato il 14 gennaio ed è stato trasmesso alla Camera (qui il testo) realizza quelle aspettative?
Lo abbiamo chiesto a tre esperti.

1. DARIO IANES,
Docente ordinario di Pedagogia e Didattica Speciale all’Università di Bolzano, co-fondatore del Centro Studi Erickson di Trento.

«Una delega pensata per ridurre le ore di sostegno».
«C’è ben poco da dire, tutte le grandi attese sono deluse, soprattutto delle associazioni di famigliari», sbotta il professore: «non vedo nessuna evoluzione concettuale del sistema». Partiamo dalla continuità, tema cruciale per alunni e famiglie, che oggi vivono il caos assoluto: «il fatto che l’insegnante di sostegno prima di chiedere il passaggio sui posti comuni debba stare per dieci anni sul sostegno, non garantisce alcuna continuità didattica», spiega il professore, poiché anche stando sul sostegno l’insegnante potrebbe cambiare ogni anno scuola e alunno. Quanto alla formazione degli insegnanti, con la richiesta di una formazione di base sui temi dell’inclusione per tutti gli insegnanti, compresi quelli della scuola secondaria, «non c’è nulla e questo è un grave problema. Noi nei mesi scorsi abbiamo denunciato le preoccupazioni rispetto all’ipotesi di separazione dei percorsi universitari, che non c’è; d’accordo, non c’è quella biforcazione dei percorsi che temevamo, però non è che io sia contento, perché anche le cose buone che c’erano nella proposta quadro di Fish e Fand, ad esempio sulla continuità, qui non ci sono».
“Non c’è quella biforcazione dei percorsi tra insegnanti di sostegno e insegnanti curricolari che temevamo, però non è che io sia contento, perché anche le cose buone che c’erano nella proposta quadro di Fish e Fand, ad esempio sulla continuità, qui non ci sono
Tornando alla formazione degli insegnanti, tanto ripetuta, per Ianes «c’è solo un corso di specializzazione sul sostegno, da 60 crediti, come oggi. I 120 crediti di cui parla il testo sono divisi in realtà in due, 60 al corso e 60 pregressi per poter accedere al corso. E cosa devo fare per maturare quei 60 crediti? Per la primaria ti puoi far riconoscer quelli fatti durante l’università, il tirocinio e la tesi, quindi di fatto la formazione è uguale ad oggi. Sulla secondaria invece, che in università ha solo 6 o 7 crediti sull’inclusione, non si capisce dove uno possa andare a prenderli. Forse facendo un anno di scienze della formazione, ma è folle: 5 anni per la laurea + 3 per la formazione secondaria per insegnare, più uno per accedere al corso di specializzazione più uno di corso: dieci anni di formazione? È ridicolo».
“A pensar male, si può dire che tutta delega sia fatta per questo, per ridurre le ore di sostegno. La sola parte dove si modificano i meccanismi è questa e non mi piace perché sono meccanismi che frenano la spesa. Il resto sono proclami
Ma il nodo più pericoloso per il professor Ianes si nasconde nell’articolo 8, quello che disegna il GIT, Gruppo per l’inclusione territoriale. «Ce ne saranno 300, uno per ambito, composti da docenti e dirigenti e saranno loro a quantificare la proposta di ore di sostegno. A quantificare il sostegno di cui l’alunno ha bisogno non sarà più dunque la realtà decisionale più vicina alla scuola, al ragazzo, alla famiglia, c’è questo “allontanamento” che sarà un meccanismo di freno, è scritto nella relazione. Dopo aver avuto le ore, la scuola fa il PEI, partendo dalle risorse assegnate. Il PEI non è più la fonte delle risorse, c’è uno scollamento. A pensar male, si può dire che tutta delega sia fatta per questo, per ridurre le ore di sostegno. La sola parte dove si modificano i meccanismi è questa e non mi piace perché sono meccanismi che frenano la spesa, il resto sono proclami».

2. SALVATORE NOCERA,
Avvocato, esperto tecnico della Fish in campo di inclusione scolastica,

«Nessuna possibilità concreta di presa in carico da parte dei docenti curricolari».
«Ho letto la relazione, il testo ancora no perché purtroppo non è accessibile ai non vedenti. Il mio giudizio è prevalentemente positivo, il testo accoglie molte delle nostre richieste, anche se ne lascia indietro altre», afferma Nocera, precisando di parlare «a titolo personale». Positivo è il passaggio al profilo di funzionamento, che rimanda alla disabilità come una situazione dinamica, collocata nel contesto. Positivo è anche il collegamento fra scuole ed enti locali, perché non deve essere solo la scuola ad occuparsi degli alunni con disabilità, come pure il riferimento al PEI come parte integrante del progetto individuale previsto dalla legge 328 e soprattutto il chiarimento sull’istruzione a domicilio in analogia con l’istruzione in ospedale.
Cinque invece per Nocera sono i punti dolenti: «Primo, non viene messa in luce l’importanza della famiglia nella formulazione del PEI, la 328 prevede che la famiglia partecipi, qui invece questo non è previsto. È un passo indietro inaccettabile». Secondo punto si abroga il GLIP provinciale per il GIT, però nel GLIP erano presenti le associazioni e gli enti locali, nel GIT ci sono solo componenti interni all’amministrazione scolastica, questo non va bene». Terzo, il numero massimo di alunni per classe, nelle classi iniziali di ogni ciclo, qualora vi sia un alunno con disabilità: «è una manovra quasi truffaldina, si dice al massimo 22, ma la regola diceva invece già dal 2009 al massimo 20 di norma, tranne casi eccezionali». L’avvocato cita articoli e commi, il succo è che «di fatto si lascia la libertà di creare classi-pollaio. Qua si va indietro, decisamente».
“Non viene messa in luce l’importanza della famiglia nella formulazione del PEI, la 328 prevede che la famiglia partecipi, qui invece questo non è previsto, è un passo indietro inaccettabile. Si indicano 22 alunni massimi per classe, ma di fatto si lascia la libertà di creare classi-pollaio: qua si va indietro, decisamente. Non vedo alcuna novità sulla formazione che disegni la possibilità concreta che i curricolari si occupino di inclusione: tutta la novità che si pensava non c’è.
Venendo alla presa in carico da parte di tutti i docenti curricolari, «non c’è nessuna novità sulla formazione che disegni la possibilità concreta che i curricolari si occupino di inclusione: tutta la novità che si pensava non c’è. Per chi insegnerà alla scuola secondaria sei crediti erano e sei restano, noi ne chiedevamo 30». E pure per la carriera degli insegnanti di sostegno «non abbiamo la classe di concorso separata, si prevedono 4 ruoli di sostegno ma sempre con la possibilità di passare a cattedre comuni dopo 10 anni, sì, c’è la possibilità di avere una supplenza per un anno in più, ma noi chiedevamo almeno una continuità di almeno due anni o dell’intero ciclo. Questo è un punto nodale e non c’è una riga». Infine, guardando al decreto sulla valutazione degli alunni, c’è un «arretramento pauroso», arrivato del tutto a sorpresa, là dove si dice che alla fine della scuola secondaria di primo grado gli alunni «devono fare prove d’esame equipollenti, dimostrando di conoscere elementi basilari della disciplina e non prove differenti, come previsto dalla legge 104. Moltissimi ragazzi non avranno il diploma ma solo un attestato, andranno alla scuola superiore ma anche lì non potranno fare l’esame maturità, potranno avere solo un attestato. È un punto che non condividiamo assolutamente».
Dal punto di vista politico, già lunedì pomeriggio il presidente della Fish, Vincenzo Falabella, aveva esternato la sua «amarezza» per un testo «assolutamente non condiviso, che non ha fato nemmeno un passaggio in Osservatorio, in palese violazione della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità e del nulla su di noi senza di noi. La stessa cosa è stata fatta con i Lea. Credo ci sia la volontà deliberata di tener fuori dal confronto politico le persone con disabilità».

3. EVELINA CHIOCCA,
presidente del CIIS (Coordinamento Italiano Insegnanti di Sostegno).

«La famiglia, la grande esclusa».
Testi alla mano, la professoressa esamina articolo per articolo il testo della legge. «La prima osservazione che voglio fare però è complessiva: vedo poco la presenza della famiglia, che dovrebbe invece essere più partecipe», afferma. Positivo per lei è l’articolo che prevede una valutazione della qualità dell’inclusione, «è un primo passaggio, segno di un cambiamento di cultura». Bene anche l’introduzione della valutazione diagnostico-funzionale, a sostituire i due documenti precedenti: «la cosa importante è l’esplicito riferimento all’approccio ICF, che ci dice non l’elenco di ciò che manca all’alunno ma quello di ciò che l’alunno possiede, tenendo conto di tutti gli aspetti di vita del ragazzo. È un’ottica pedagogica importante».
“Vedo poco la presenza della famiglia, che dovrebbe invece essere più partecipe. E sul corso di specializzazione sono disorientata: dove si fanno i 60 crediti necessari per accedervi?
Perfetto anche a livello di principio il quantificare le risorse non in base a un codice standard ma in base agli effettivi bisogni di ciascuno. Il problema è che «le risorse non discenderanno dal PEI ma saranno quantificate e decise dal GIT, un soggetto dove non ci sono né famiglie né associazioni. Intanto noto che le risorse non sono più scritte nel PEI, quindi non ci sarà più possibilità di fare ricorso per le famiglie per chiedere più ore di sostegno. In secondo luogo il PEI viene elaborato dai docenti insieme ai genitori, ma approvato solo dai docenti, ma la famiglia non può essere esclusa in questo modo». La professoressa si dice «disorientata» anche dal passaggio sul corso di specializzazione: dove si fanno i 60 crediti necessari per accedervi? Durante l’università? Con un anno in più di università? Per la secondaria in particolare non si capisce proprio come si possa fare. «Delusione» quindi, anche sul fronte della formazione iniziale obbligatoria per tutti gli insegnanti curricolari, su cui «non vedo novità».

Ammissione o non ammissione

AMMISSIONE O NON AMMISSIONE CHI PAGA? di Umberto Tenuta

CANTO 769 DIRITTO DI OGNI FIGLIO DI DONNA ALLA VITA UMANA.

D.P.R. 275/1999, art.1: <<L’autonomia delle istituzioni scolastiche… si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento>>.

 

Uomini non si nasce ma si diventa solo attraverso l’educazione.

Ogni figlio di donna ha diritto alla propria umanizzazione.

È compito della Scuola garantire ad ogni figlio di donna la sua piena umanizzazione.

Il suo successo formativo.

La scuola che non garantisce il successo formativo a tutti i suoi alunni viene meno al suo compito istituzionale.

Il diritto al successo formativo non può essere negato a nessun giovane.

Non ci sono alibi.

Né l’alibi delle potenzialità dei giovani, né l’alibi della loro mala volontà.

Scrive al riguardo il DOLL che <<Per capacità potenziali dei singoli noi intendiamo quelle potenzialità di grandezza imprevedibile, che possono scaturire dall’interno della personalità: potenzialità che possono venire sviluppate o ridotte col processo educativo… le capacità potenziali non sono considerate come delle qualità congenite nell’individuo, che divengono attuali attraverso un processo di maturazione su cui non influisce in alcun modo l’ambiente. Anzi, queste capacità si sviluppano e si “manifestano nello scambio dinamico di influssi fra l’individuo e il suo ambiente”. Vengono definite capacità “potenziali” perché sono un modo di essere dell’individuo, sono una capacità individuale di reagire positivamente e in modo praticamente imprevedibile:“senza alcun preconcetto quanto ai …limiti” delle capacità potenziali…. L’essenza della concezione ebraica e greca dell’uomo era … di porre l’accento sulla personalità umana dotata di capacità potenziali illimitate, di considerare positivo il fatto che gli sviluppi della personalità umana sono imprevedibili>>.

Nessuno ha il diritto di imputare ai giovani la mancanza di potenzialità o di volontà.

Anche queste fanno parte delle finalità educative della scuola.

La Scuola non può addebitare agli alunni la loro mancanza di potenzialità o di volontà.

Se lo fa riconosce la sua inadeguatezza.

Riconosce che non utilizza le più idonee strategie educative e didattiche, che oggi la Pedagogia mette a disposizione.

Nel momento in cui boccia o non ammette, la scuola dichiara il fallimento suo, e non dell’alunno.

E se questo fa, essa si condanna alla sua chiusura.

Signora Ministra, Ella questo lo sa.

Non Le resta che chiudere le scuole che non ammettono, non promuovono, respingono.

Chiudere le scuole e licenziare i dirigenti e i docenti che non ammettono, non promuovo, respingono uno solo dei loro alunni.

Tutti i miei Canti −ed altro− sono pubblicati in:
http://www.edscuola.it/dida.html
Altri saggi sono pubblicati in
www.rivistadidattica.com
E chi volesse approfondire questa o altra tematica
basta che ricerchi su Internet:
“Umberto Tenuta” − “voce da cercare”

 

Negli istituti professionali approda percorso il 3+2

da Il Sole 24 Ore 

Negli istituti professionali approda percorso il 3+2 

Istruzione professionale, si cambia. Negli istituti arriva infatti il 2+3: biennio unico e triennio unico. Si supera così l’attuale articolazione dei cosiddetti «due bienni più uno». Questa una delle novità principali previste in uno degli otto decreti legislativi approvati sabato scorso dal Consiglio dei ministri e trasmessi al Parlamento per i pareri.

La riforma
Il Dlgs in questione, attuativo della riforma “Buona scuola”, punta a riformare gli istituti professionali per rispondere più efficacemente – si spiega nella relazione illustrativa – alla
composita utenza dell’istruzione professionale, nella quale si riscontra una crescente percentuale di giovani immigrati, e per ridurre l’alto tasso di abbandoni e di insuccessi tra gli
studenti registrato, da anni, in questo segmento dell’istruzione. I “nuovi” istituti professionali (scuole territoriali dell’innovazione) dovranno assicurare agli studenti «una solida base di istruzione generale e di competenze tecnico-professionali relative alle attività economiche cui si riferisce l’indirizzo di studio scelto all’atto dell’iscrizione al primo anno». Queste competenze vengono acquisite, nel primo biennio, prevalentemente in laboratorio e, a partire dal secondo anno, anche in alternanza scuola-lavoro e in apprendistato.
Al termine del percorso si consegue il diploma quinquennale che consente l’accesso agli Istituti tecnici superiori (Its), all’università e alle istituzioni dell’alta formazione
artistica, musicale e coreutica.

Gli indirizzi di studio
Gli indirizzi di studio passano da 6 a 11: Servizi per l’agricoltura, lo sviluppo rurale e la silvicoltura; Pesca commerciale e produzioni ittiche; Artigianato per il Made in Italy; Manutenzione e assistenza tecnica; Gestione delle acque e risanamento ambientale; Servizi commerciali; Enogastronomia e ospitalità alberghiera; Servizi culturali e dello spettacolo;
Servizi per la sanità e l’assistenza sociale; Arti ausiliarie delle professioni sanitarie: odontotecnico; Arti ausiliarie delle professioni sanitarie: ottico. Ogni scuola potrà declinare
questi indirizzi in base alle richieste del territorio. Il provvedimento dà alle scuole l’opportunità (ma non l’obbligo) di attivare collaborazioni con esperti del mondo del lavoro e delle professioni e di attivare partenariati territoriali per ampliare l’offerta formativa e potenziare i laboratori, comprese le esperienze di scuola-impresa e di bottega scuola.
È consentito il passaggio reciproco tra percorsi di istruzione professionale e quelli di IeFP, esclusivamente a domanda dello studente; non avviene comunque in modo automatico, ma deve tenere conto dei risultati di apprendimento e del profilo di uscita dell’ordine di studi.

Apprendistato al palo nella Pa

da Il Sole 24 Ore 

Apprendistato al palo nella Pa

di Claudio Tucci

Dei tanti paradossi della burocrazia italiana ce ne è uno che proprio facciamo fatica a raccontare: parliamo del contratto di apprendistato che, dopo una serie infinita di riforme, dal Testo unico Sacconi del 2011 fino ad arrivare, da ultimo, al Jobs act del 2015, ancora non si riesce ad applicare alla Pubblica amministrazione.

Tutta “colpa” di un Dpcm che avrebbe dovuto emanare la Funzione pubblica, di concerto con Mef e Lavoro, sentite parti sociali e Regioni, che, a distanza di quasi sei anni dall’originaria previsione normativa, sembra essersi perso in qualche cassetto ministeriale.

Il master della Sapienza
A far tornare di attualità il tema “apprendistato” nei settori di attività pubblici sono stati regione Lazio e università di Roma «La Sapienza» che, assieme ad Enac, stanno facendo partire un master rivolto a una quarantina di under29 laureati e iscritti al programma «Garanzia giovani» per specializzarli nel settore aeronautico, in particolare nella gestione dell’aviazione civile.
Una mossa che punta a promuovere la formazione specialistica dei ragazzi, utile, soprattutto, ad aziende ed enti del comparto: e non a caso, Enac si è subito detta interessata ad unire al corso d’aula la possibilità di perfezionare l’apprendimento presso aziende collegate, utilizzando, appunto, l’apprendistato di alta formazione e ricerca.

Il nodo apprendistato
Ma qui sono iniziati i problemi: «Approfondendo la questione – racconta l’assessore al Lavoro della regione Lazio, e giuslavorista, Lucia Valente – è emerso che Enac, rientrando nel perimetro pubblico, non può sottoscrivere contratti d’apprendistato, proprio per l’assenza del Dpcm previsto dalla legge, e così è sfumato il possibile inserimento dei giovani».
Di qui l’auspicio che «l’attuale governo sblocchi al più presto la questione», ha aggiunto l’assessore Valente.

Dal canto suo, il dicastero guidato da Marianna Madia ha acceso un faro (si ragiona se intervenire nel Testo unico sul pubblico impiego, atteso per metà febbraio); ma non c’è dubbio che l’intera questione rappresenti «l’ennesimo caso esemplare di mancata attuazione delle norme – incalza Michele Tiraboschi, ordinario di diritto del Lavoro all’università di Modena e Reggio Emilia -. È francamente paradossale che una Pa ha bisogno di ammodernare servizi e profili professionali, ma non riesce a utilizzare l’apprendistato, che è proprio lo strumento principe per queste finalità».

Penalizzati uffici e nuove competenze
A pesare sulla mancata attuazione del Dpcm «sono state anche ragioni di contenimento del precariato pubblico e la scelta di coprire i fabbisogni delle amministrazioni solo con contratti a tempo indeterminato – evidenzia
Sandro Mainardi, professore di diritto del Lavoro all’ateneo di Bologna -. Si tratta, comunque, di scelte miopi visto che l’impossibilità di utilizzare l’apprendistato sta, nei fatti, condannando, l’intera Pa alla carenza di qualsiasi forma di raccordo tra mondo della formazione scolastica e universitaria e gestione delle risorse umane, a discapito degli stessi uffici e dell’eventuale ingresso di nuove competenze».

Di competenze e di certificazione…

Di competenze e di certificazione…
Conversando con Franco De Anna

di Maurizio Tiriticco

 

Caro Franco! Ci punzecchiamo sempre su FB, ma ci vogliamo sempre un gran bene! Il fatto è che le norme che governano – o dovrebbero – governare la scuola, prolificano pressoché quotidianamente e i pasticci commessi dall’amministrazione sono frequenti e non è sempre facile interpretarli per tradurli poi in atti. E quando io e te tentiamo di capirci qualcosa, allora le letture/interpretazioni si moltiplicano! In effetti io e te siamo come due condannati ad una sorta di girone infernale: io cammino per una strada cercando di rimuovere gli ostacoli che via via si frappongono e tu, diavoletto dispettoso, mi precedi in retromarcia e ti diverti a frapporre sempre altri nuovi ostacoli! E’ il destino di alcuni dannati in eterno! Pertanto, mi/ti spiego meglio! A proposito di “maturità” – vocabolo ormai da dimenticare – e dintorni.

Quando nel lontano ’97 con Luigi Berlinguer (ero già in pensione, ma per modo di dire!) con la legge 425 CANCELLAMMO (e pensavamo in via definitiva) quell’esame che ancora oggi tutti si ostinano a chiamare di maturità (e con ragione, come si comprenderà successivamente), scrivemmo chiaramente all’art. 6 (in effetti lo scrisse il Parlamento) che: “Il rilascio e il contenuto delle CERTIFICAZIONI di promozione, di idoneità e di superamento dell’esame di Stato sono ridisciplinati in armonia con le nuove disposizioni, al fine di dare trasparenza alle COMPETENZE, conoscenze e capacità acquisite secondo il piano di studi seguito, tenendo conto delle esigenze di circolazione dei titoli di studio nell’ambito dell’Unione europea”. Ti ho scritto in maiuscolo due vocaboli, certificazione e competenze.

Ma occorre una precisazione preliminare. Ancora non c’era l’EQF, l’European Qualifications Framework. Come sai, l’Accordo per la referenziazione del sistema italiano delle qualifiche al Quadro Europeo delle Qualifiche, EQF, di cui alla “Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008”, fu ratificato dal nostro governo il 20 dicembre 2012!!!. E l’EQF è importante perché riguarda anche quell’esame che tutti si ostinano a chiamare di maturità. Infatti, i livelli indicati e descritti dall’EQF sono otto e la conclusione del nostro secondo ciclo di istruzione coincide con il quarto livello. Chiusa la precisazione!

Poi, a partire dalla nuova edizione degli esami di Stato del 1999, per ben due anni “divulgammo” contenuti e procedure del nuovo esame con pubblicazioni, interventi nelle scuole, cd, nonché fortunate (penso) trasmissioni TV. Però, come sai, “le leggi son, ma chi pon mano ad esse”? E fu l’amministrazione, purtroppo, che allora ci pose mano!!! In effetti, l’amministrazione ministeriale, pigra e miope come sempre (non ti dico chi era DirGen all’epoca…), scrisse un regolamento (dpr 323/98) con cui l’innovazione normativa di fatto non venne evidenziata e tradotta in termini operativi, ma, a mio vedere, di fatto fu impasticciata ed elusa. In effetti, la “norma” che doveva essere “esplicitata” e “regolata”, fu semplicemente… riscritta!!! Ecco il testo: “art. 1, c.3 – L’analisi e la verifica della preparazione di ciascun candidato tendono ad accertare le conoscenze generali e specifiche, le competenze in quanto possesso di abilità, anche di carattere applicativo, e le capacità elaborative, logiche e critiche acquisite”. E le COMPETENZE nella loro specificità? E le CERTIFICAZIONI? Mah! Ambedue, in effetti, vennero tutte ridotte a semplici adempimenti cartacei! Infatti, nel dm ad hoc n. 450/98 leggiamo testualmente: “Le certificazioni di cui all’art. 13 del D.P.R. 23 luglio 1998 n. 323 attestano: a) l’indirizzo e la durata del corso di studi, le materie di insegnamento comprese nel curricolo degli studi con l’indicazione della durata oraria complessiva a ciascuna destinata; b) la votazione complessiva assegnata, la somma dei punti attribuiti alle tre prove scritte, il voto assegnato al colloquio, l’eventuale punteggio aggiuntivo, il credito scolastico, i crediti formativi documentati; c) le ulteriori specificazioni valutative della Commissione, con riguardo anche a prove sostenute con esito particolarmente positivo”. Ma questi sono forse contenuti afferenti a COMPETENZE? Assolutamente no! E tale testo, di fatto, pur con qualche lieve modifica, da allora viene reiterato anno dopo anno. In altri termini, con tale andazzo, si continua a certificare… che cosa? Il NULLA!!! E sono passati 18 anni, se non erro!

Occorre ricordare che in seguito, nel 2010, con i dpr 87 e 88 vennero varate le Linee guida per i bienni dei “nuovi” istituti professionali e tecnici. Le linee guida per i successivi tre anni vennero varate con le Direttive 4 e 5 del 2012. Con il dpr 89, sempre del 2010, vennero varate le Indicazioni nazionali relative agli interi cinque anni dei percorsi liceali. Per quanto concerne le competenze, nei documenti normativi relativi agli istituti tecnici e professionali, queste sono sempre indicate secondo il cosiddetto modello dolmen: l’architrave indica la competenza e i due piedritti le conoscenze e le abilità necessarie per acquisirla. Con il dpr n. 89, relativo ai licei, vengono indicati semplicemente i “risultati comuni a tutti i percorsi relativi a cinque aree: metodologica; logico-argomentativa; linguistica e comunicativa; storico-umanistica; scientifica, matematica e tecnologica”. Poi per ciascun percorso liceale vengono indicati obiettivi specifici di apprendimento relativi al “primo biennio e al “secondo biennio e quinto anno”. E le competenze? Mah!!!

Con tale amministrazione pasticciona è, quindi, normale che pubblica opinione, dirigenti scolastici, insegnanti e studenti non ci abbiano capito nulla, per cui ci si ostina a usare l’espressione “esami di maturità”. In realtà purtroppo – e l’ho scritto più volte – gli esami finali del secondo ciclo oggi non sono né di MATURITA’ (in effetti, valutare la maturità di un soggetto è un’impresa con cui non si cimenta neanche lo psicologo! E fu per questo che abolimmo esami finalizzati a valutare… il nulla) né di CERTIFICAZIONE DI COMPETENZE!

E’ una sorta di vuoto assoluto?! Mah! Penso di sì! Inoltre, se andiamo a leggere gli attuali provvedimenti di riforma dell’esame, si avverte un chiaro ritorno al passato! Cancellare la terza prova ex abrupto, che avrebbe dovuto essere quella più significativa del rinnovamento, significa tornare indietro, appunto, verso un obsoleto ma sempre vegeto e in agguato, esame di maturità.

Pertanto, ciò che infine conta non è un insieme di competenze raggiunte ed esplicitate, ma solo il punteggio raggiunto dal candidato “promosso”!. Un punteggio che vale quanto il due di briscola in Italia e in tutta l’UE. Ed ancora! Come sai, il processo valutativo nel “nuovo” esame di Stato prevedeva il superamento del VOTO che, com’è noto, è sempre generico e discutibile, e l’introduzione, invece, del PUNTEGGIO, saldamento ancorato agli “esiti oggettivi” rilevati dalla commissione d’esame nelle singole prove. Di qui, come sai, sono nate le mille griglie di misurazione, ed io stesso mi sono cimentato! Però, ecco ancora l’amministrazione a “fare casino”!!!. Nelle ordinanze ministeriali con cui annualmente si governano gli esami terminali del secondo ciclo si legge puntualmente: “La commissione dispone di 15 punti massimi per la valutazione di ciascuna prova scritta per un totale di 45 punti; a ciascuna delle prove scritte giudicata sufficiente non può essere attribuito un punteggio inferiore a 10”. Ciò significa che si àncora l’innovazione del punteggio con la consuetudine del voto!!! Quando, invece si tratta di due concezioni assolutamente diverse, se non opposte: quella di misurare una prova con un punteggio oggettivo e quella, invece, di valutarla con un voto soggettivo, o plurisoggettivo, dato il numero dei commissari d’esame! E allora, che cosa ci possiamo aspettare dai nostri commissari d’esame quando, a monte, dispongono di una serie di norme impasticciate ed equivoche? Per non dire poi della conduzione del colloquio pluridisciplinare, umiliato e offeso dalle interrogazioni di ogni singolo commissario su ogni singola disciplina!

Per quanto concerne poi la CERTIFICAZIONE delle COMPETENZE acquisite dal candidato al termine del quinquennio secondario di istruzione, ricordo che con le Ordinanze Ministeriali relative agli esami di Stato del secondo ciclo di istruzione, reiterate ogni anno, di certificazione effettiva… non c’è neanche l’ombra! Eppure… se leggiamo le Linee guida degli istituti tecnici e quelle degli istituti professionali, le competenze sono indicate e descritte (forse aggiornabili? Non so!), anche se denominate “risultati di apprendimento”. Quindi, potrebbero costituire elementi da considerare per un’opportuna certificazione. Ma non è così! Il rito di sempre prevale sull’attualità… umiliata e offesa! Per quanto riguarda le Indicazioni nazionali per i licei, anche lì i “risultati di apprendimento” sono indicati e descritti, sia quelli comuni che quelli dei singoli percorsi (artistico, classico, linguistico, musicale e coreutico, scientifico, delle scienze umane). Però, non so quanto questi risultati/obiettivi possano essere tenuti nel debito conto dagli insegnanti in fase di progettazione (ma si programma ancora nelle nostre scuole? Mah!) che in sede di valutazione intermedia formativa che finale sommativa.

Insomma, l’amministrazione mette insieme ogni anno tutto questo mix di norme e di procedure (come sai l’opuscolo pubblicato ogni anno dalla Tecnodid relativo agli esami di Stato del secondo ciclo di istruzione è sempre di circa 200 pagine) accompagnato da una OM chilometrica che disciplina contenuti e procedure per un esame in cui la ritualità sembra essere più importante dell’obiettivo finale. Questo, infatti, dovrebbe essere una vera e propria CERTIFICAZIONE delle COMPETENZE acquisite dal candidato, la quale gli permetterebbe di proseguire gli studi qui o all’estero o di accedere al mondo del lavoro (a parte la crisi di questi tempi!): competenze che per altro si attesterebbero sul livello quarto dell’EQF, degli 8 previsti. Quindi, competenze di tutto rispetto!

Però, nulla di tutto questo accade! E la corsa è solo al voto finale! E alla lode, se è il caso! Un abbraccio, carissimo!

Deleghe L.107/15, studenti alla maturità professionale dopo 4 anni di formazione regionale

da La Tecnica della Scuola

Deleghe L.107/15, studenti alla maturità professionale dopo 4 anni di formazione regionale

Dal 2018 cambia l’organizzazione degli istituti professionali, ma si potrà ancora acquisire la maturità frequentando solo il biennio finale di scuola statale.

E forse anche un solo l’ultimo anno. Dopo aver frequentato un centro di formazione professionale riconosciuto dalla Regione, nei tre anni successivi alla licenza media, lo studente avrà facoltà di iscriversi al quarto superiore pubblico della stessa tipologia di corso.

Lo prevede lo schema di decreto legislativo sulla “revisione dei percorsi dell’istruzione professionale, nel rispetto dell’articolo 117 della Costituzione, nonché raccordo con i percorsi dell’istruzione e formazione professionale” approvato in via preliminare dal Governo e giunto da poco presso le commissioni parlamentari.

Il decreto prevede, infatti, che “lo studente, conseguita la qualifica triennale, può proseguire il proprio percorso di studio scegliendo di passare al quarto anno dei percorsi di istruzione professionale, secondo le modalità previste dal presente articolo, oppure di passare al quarto anno dei percorsi di istruzione e formazione professionale presso le istituzioni formative comprese nella Rete di cui all’articolo 7 per conseguire un diploma professionale di tecnico di cui all’a1ticolo 17 del decreto legislativo 17 ottobre 2005, n. 226 compreso nel repertorio nazionale dell’offerta di istruzione e formazione professionale di cui agli accordi in Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano del 29 aprile 2010, del 27 luglio 2011 e del 19 gennaio 2012”.

Certamente, spiega sempre la legge delega in via di approvazione, il passaggio dai centri di formazione regionale non sarà “automatico” ma terrà “conto dei diversi risultati di apprendimento e dello specifico profilo di uscita dell’ordine di studi e dell’indirizzo, riferiti al percorso al quale si chiede di accedere anche nel caso in cui lo studente sia già in possesso di ammissione all’annualità successiva del percorso di provenienza. La determinazione dell’annualità di inserimento è basata sul riconoscimento dei crediti posseduti, sulla comparazione tra il percorso di provenienza e quello cui lo studente chiede di accedere, nonché sulle sue effettive potenzialità di prosecuzione del percorso”.

Il tutto, naturalmente, sarà consentito consentito (anche all’inverso, visto che si tratta di un passaggio reciproco tra percorsi di istruzione professionale e quelli di IeFP) esclusivamente a domanda dello studente.

Ora, anche se la legge delega non lo dice, è verosimile che gli studenti che hanno concluso il percorso quadriennale nei Cfp, gli attuali centri di formazione professionale autorizzati dalle Regioni, possano anche chiedere di iscriversi al quinto anno della scuola professionale statale.

In pratica, con il diploma professionale di durata quadriennale in tasca, potranno puntare a prendere la maturità. E questo, proprio in virtù del fatto che con la riforma in atto i due organismi (regionali e statali) “si raccordano in modo stabile e strutturato nell’ambito della Rete” (comma 4 art. 7 della legge delega) attraverso “un’offerta formativa unitaria, articolata e integrata stabilmente sul territorio” (comma 4 art. 7).

Lo studente, dopo aver dimostrato di aver acquisito determinati crediti formativi, potrà dunque puntare all’Esame di Stato (che in linea teorica apre le porte all’Università) pur avendo svolto quattro anni di formazione regionale (con un’altissima percentuale di ore di laboratorio-stage e decisamente bassa di lezioni teoriche). E solo l’ultimo anno di scuola superiore statale.

Viene da chiedersi in che condizioni, questo studente, potrà arrivare al traguardo dell’Esame di Stato. Uno studente che frequenta un Cfp, infatti, svolge molte meno ore di “prima area” (italiano, matematica, inglese e altre discipline) e lo stesso vale per le lezioni teoriche professionalizzanti (quelle insegnate nella scuola pubblica prevalentemente da ingegneri, architetti o comunque laureati in discipline scientifiche).

I docenti delle scuole statali professionali che dovranno valutarne la preparazione, non sono attesi da un compito facile.

Domande di pensione: termine prorogato al 23 gennaio

da La Tecnica della Scuola

Domande di pensione: termine prorogato al 23 gennaio

Apprendiamo dal sito della Cisl Scuola che il termine, inizialmente fissato al 20 gennaio, per presentare le domande di cessazione, è stato prorogato al 23 gennaio 2017.

Ricordiamo che questa scadenza deve essere rispettata dal personale docente, educativo e Ata, mentre per i Dirigenti scolastici il termine resta fissato, come ogni anno, al 28 febbraio.

Per le modalità di presentazione delle istanze e i requisiti per andare in pensione, si rimanda alla precedente notizia.

ULTIMI GIORNI DI TEMPO PER PRESENTARE LA DOMANDA CI CESSAZIONE DAL SERVIZIO.
SCADE IL 23 GENNAIO 2017.

Graduatorie di istituto, come richiedere l’inserimento negli elenchi aggiuntivi II fascia

da La Tecnica della Scuola

Graduatorie di istituto, come richiedere l’inserimento negli elenchi aggiuntivi II fascia

Con la nota 1229 dell’11 gennaio ha trasmesso il Decreto Dipartimentale 3/17 che definisce scadenze e procedure per i precari che aggiornano le graduatorie d’istituto.

Tra le varie indicazioni fornite, l’inserimento negli elenchi aggiuntivi alle graduatorie di II fascia per i docenti che conseguono il titolo di abilitazione oltre il previsto termine di aggiornamento triennale delle graduatorie ed entro il 1° febbraio 2017, i quali verranno appunto collocati in un ulteriore elenco aggiuntivo alle graduatorie di II fascia.

Per effettuare la richiesta gli interessati devono trasmettere il modello A3 allegato alla stessa nota. La trasmissione dovrà avvenire entro il termine del 3 febbraio 2017, tramite raccomandata A/R, PEC, o consegna a mano con rilascio di ricevuta ad una istituzione scolastica della provincia prescelta.

Coloro che sono già iscritti nelle graduatorie del presente triennio o che si sono iscritti in occasione delle finestre semestrali precedenti e che richiedano l’inserimento nell’elenco aggiuntivo relativo alla finestra del 1° febbraio 2017 per aver conseguito una nuova abilitazione, dovranno trasmettere il modello alla stessa Istituzione Scolastica destinataria dell’istanza di inclusione.

Se l’interessato, invece, non è già iscritto in alcuna graduatoria, il modello dovrà essere indirizzato ad una istituzione scolastica della provincia prescelta dall’interessato.

Le scuole destinatarie delle domande dovranno valutarle e trasmetterle al sistema informativo tramite le relative funzioni che saranno disponibili dal 16 gennaio al 15 febbraio 2017.

 

Deleghe Buona Scuola, Istruzione professionale: ecco la sua nuova identità

da Tuttoscuola

Deleghe Buona Scuola, Istruzione professionale: ecco la sua nuova identità

In coerenza con le indicazioni contenute nella legge 107 lo schema di decreto legislativo riguardante l’istruzione professionale ne ridefinisce le finalità, gli indirizzi e i percorsi in raccordo con quelli dell’istruzione e formazione professionale di competenza regionale. Prende così forma in modo più definito questo segmento dell’offerta formativa, e si nota lo sforzo di differenziarlo più chiaramente dall’istruzione tecnica, rispetto alla quale si erano verificate in passato non poche sovrapposizioni.

Intanto lo schema di decreto definisce le istituzioni scolastiche che offrono percorsi di istruzione professionale come “scuole territoriali dell’innovazione, aperte e concepite come laboratori di ricerca, sperimentazione ed innovazione didattica”, dove l’accento cade sull’aggettivo ‘territoriali’.  

Il modello didattico, che è un 2+3 (in passato gli IPS erano articolati in 3+2) “è improntato al principio della personalizzazione educativa volta a consentire ad ogni studente di rafforzare e innalzare le proprie competenze per l’apprendimento permanente a partire dalle competenze chiave di cittadinanza, nonché di orientare il progetto di vita e di lavoro dello studente, anche per migliori prospettive di occupabilità”. A tal fine vengono aggregate nel biennio le discipline indicate negli assi culturali di cui al Decreto Fioroni del 22 agosto 2007 n. 139 sull’obbligo di istruzione, e si fa riferimento a “metodologie di apprendimento di tipo induttivo” organizzate in “unità di apprendimento”.

Il Profilo educativo, culturale e professionale dell’Istruzione professionale ( Pecup) “si basa su uno stretto raccordo della scuola con il mondo del lavoro e delle professioni”, “si ispira ai modelli promossi dall’Unione europea” (a carattere duale, si precisa successivamente) e alla personalizzazione dei percorsi tramite il “Progetto formativo individuale.”

Comunque i percorsi di istruzione professionale hanno una durata quinquennale e si concludono con il conseguimento di diplomi di istruzione secondaria di secondo grado (maturità) che danno accesso agli istituti tecnici superiori, all’università e alle istituzioni dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica (indicati in questo ordine).

Gli indirizzi di studio sono i seguenti:

a)  Servizi per l’agricoltura, lo sviluppo rurale e la silvicoltura;
b)  Pesca commerciale e produzioni ittiche;
c)  Artigianato per il Made in Italy;
d)  Manutenzione e assistenza tecnica;
e)  Gestione delle acque e risanamento ambientale;
f) Servizi commerciali;
g)  Enogastronomia e ospitalità alberghiera;
h)  Servizi culturali e dello spettacolo;
i)   Servizi per la sanità e l’assistenza sociale;
l) Arti ausiliarie delle professioni sanitarie: odontotecnico;
m) Arti ausiliarie delle professioni sanitarie: ottico.

La possibilità di articolare i percorsi, soprattutto quelli del triennio, in modo marcatamente flessibile, mette in evidenza l’obiettivo di fare della nuova Istruzione professionale, che opererà in stretto collegamento con i percorsi regionali di IeFP, il principale punto di riferimento formativo del mercato del lavoro locale per le qualifiche di livello medio a carattere esecutivo.

Nuovo esame di maturità: l’alternanza scuola lavoro arriva al colloquio orale

da Tuttoscuola

Nuovo esame di maturità: l’alternanza scuola lavoro arriva al colloquio orale

Lo schema di decreto legislativo sulla valutazione modifica in maniera consistente l’esame di Stato delle scuole scuole secondarie superiori. Le novità entreranno in vigore però solo dal 2018, l’anno a partire dal quale per essere ammessi alla maturità bisognerà avere partecipato nel triennio dal terzo al quinto anno alle 200 (per i licei) o 400 ore (per gli istituti tecnici e professionali) di alternanza scuola lavoro (ASL), come previsto dalla legge 107/2015.

L’ingresso dell’alternanza scuola – lavoro nell’esame di maturità evidenzia il carattere strutturale di questa innovazione e il compimento di un lungo e complesso cammino, iniziato con la riforma Moratti (legge n. 53/2003) e con le prime un po’ improvvisate sperimentazioni.

L’art. 19 comma 9 dello schema di decreto inserisce infatti la tematica dell’alternanza scuola – lavoro all’interno del colloquio, la cui finalità generale è quella di “accertare il conseguimento del profilo culturale, educativo e professionale dello studente” e di valutarne la capacità di utilizzare e collegare le conoscenze acquisite attraverso l’analisi di “testi, documenti, esperienze, progetti, problemi” riguardanti i contenuti e i metodi propri delle singole discipline, e anche dell’attività di alternanza scuola – lavoro svolta nel percorso di studi: “Nell’ambito del colloquio il candidato espone, mediante una breve relazione e/o un elaborato multimediale, l’esperienza di alternanza scuola lavoro”.

La rilevanza istituzionale assunta dall’ASL nei piani di studio della scuola secondaria superiore e nel nuovo esame di maturità è la principale ragione che ha indotto Tuttoscuola a promuovere, insieme a CivicaMente, il sito dedicato www.tuttoalternanza.it, il cui obiettivo è quello di sostenere le scuole impegnate nella gestione di questa importante innovazione.

Mobilità e sostegno: le tre dimensioni della buona inclusione

da Tuttoscuola

Mobilità e sostegno: le tre dimensioni della buona inclusione

137 mila insegnanti di sostegno, 5 miliardi di spesa annua solo per il personale, una grande tradizione nell’integrazione e nell’inclusione. Una cultura pedagogica e un investimento economico e sociale che avrebbero dovuto rendere il nostro paese un modello ancora oggi studiato e riconosciuto in ambito  internazionale. Di fatto, però, non è così.

Se è vero che l’Italia vanta l’indiscutibile merito di aver aperto per prima nel mondo le porte delle scuole agli studenti con disabilità, possiamo anche affermare che la qualità e l’organizzazione dell’integrazione degli alunni con disabilità è non solo diseguale, affidata alla fortuna di trovare il contesto “ortodosso”, ma in troppi casi lontana dai livelli minimi accettabili.

Questo dipende da diverse cause che possiamo suddividere in organizzative, didattiche e relazionali. Le tre dimensioni ovviamente si influenzano reciprocamente e non hanno contorni distinti e netti, ma sono una causa e insieme conseguenza dell’altra.

Nella dimensione organizzativa poniamo tutto ciò che riguarda la struttura dell’ambito inclusivo: numero degli insegnanti di sostegno, presenza di aule e laboratori riservati ad alunni con disabilità, modalità di comunicazione con le famiglie, struttura del tempo e dei tempi scolastici.

La dimensione didattica si riferisce alla capacita di accogliere, strutturare e migliorare i percorsi di personalizzazione e individuazione di insegnamento-apprendimento. Ci riferiamo alla capacità della scuola di situarsi all’interno di una dimensione che vede i poli opposti nell’effetto delega, che affida completamente l’alunno con disabilità alle figure “specializzate”, o nell’accoglienza diffusa, che si caratterizza per un grado elevato e costante di attenzione da parte di tutte le figure presenti nell’istituzione scolastica (docenti curricolari, di sostegno, collaboratori scolastici, personale di segreteria).

La dimensione relazionale si riferisce alla capacità della scuola di creare un contesto caratterizzato da relazionicalde” e affettivamente significative, nelle quali tutti gli alunni si sentono, o meno, accolti e accettati. Comunemente si crede che salendo di ordine e grado la scuola debba divenire sempre più centrata sugli apprendimenti e meno sulle relazioni; questo fenomeno però non solo è sbagliato, ma rischia di rovinare il lavoro di accompagnamento emotivo che la scuola normalmente realizza nei primi ordini.

Lavorare con alunni con disabilità richiede dunque un grande sforzo organizzativo, didattico e relazionale, che se ben condotto, porterà a un livello di accoglienza e di qualità elevato per tutti gli alunni. In caso contrario, quando la scuola non ha cura di queste dimensioni, a rimetterci non saranno solo gli alunni con disabilità, ma tutti. La qualità dell’integrazione è dunque una spia del livello di qualità dell’accoglienza e della competenza generale della scuola stessa.

Livelli minimi

Per promuovere percorsi inclusivi di qualità è indispensabile tenere in considerazione alcuni parametri minimi che garantiscono il funzionamento stesso della struttura scolastica.

Tra di essi non possiamo non considerare la dimensione della continuità didattica dell’insegnante di sostegno, caratteristica per un verso essenziale e indispensabile, ma per un altro continuamente messa a dura prova da una perenne disorganizzazione a livello nazionale, prima ancora che locale.

Perché la continuità

Sappiamo che le persone con disabilità sono tutte diverse e l’errore peggiore che possiamo fare, come docenti ed educatori, è quello di procedere per luoghi comuni, per cui le persone con sindrome di Down sono tutte allegre e simpatiche, le persone con autismo geniali, e così via. Ogni persona, a prescindere dal proprio funzionamento, è caratterizzata da punti di forza e di debolezza, che i contesti sono in grado di far crescere o diminuire. Considerato questo aspetto, non possiamo però anche non riflettere sull’importanza della figura dell’insegnante di sostegno, che per ben funzionare deve essere stabile, al centro di relazioni, preparato e professionale. Questo vale in genere per tutti gli alunni, ma soprattutto per chi, a causa delle sue difficoltà di funzionamento, con più fatica riesce a stabilire relazioni e rapporti interpersonali.

Quando un nuovo insegnante specializzato sul sostegno arriva a scuola, c’è grande attesa, sia da parte del corpo docente, che del dirigente scolastico, ma soprattutto da parte della famiglie degli alunni con disabilità, che intravedono in lui la persona che più di altre si prenderà cura del figlio. Su questa figura viene riversato un intenso carico emotivo, immediatamente i genitori si chiedono se possono avere il telefono o una mail di riferimenti, ci si dà appuntamento per raccontare le caratteristiche del figlio, le sue difficoltà, cosa ama fare, ciò che lo infastidisce, come renderlo felice. Ciò che la norma prevede attraverso le “carte” (la diagnosi funzionale in primis, seguita dal Profilo Dinamico Funzionale), molto più spesso si realizza attraverso un incontro carico di emotività e aspettative. Ad interrompere questo circolo di attese ed aspettative arriva purtroppo molto, troppo spesso la notizia che il docente, spesso dopo un breve periodo, lascerà quella scuola.

Quando arriverà un nuovo docente specializzato, spesso dopo un periodo in cui l’alunno con disabilità è rimasto senza una figura di riferimento, tutto dovrà necessariamente ripartire dall’inizio. Incontro, attese, emozioni, aspettative, paura, rischio di abbandono.

Nel frattempo la scuola prosegue e gli alunni con maggiori fragilità, proprio coloro i quali avrebbero diritto a ricevere più attenzioni specializzate, rimangono senza un progetto personalizzato e attenzioni mirate.

Con questo non intendiamo dire che la responsabilità del benessere degli alunni con disabilità spetti esclusivamente all’insegnante di sostegno, tutt’altro. Il ruolo dell’insegnante di sostegno è assimilabile alla funzione di un regista, che promuove relazioni significative e aiuta tutti gli attori a dare il loro meglio. Se manca il regista, il film è sconclusionato. In tante scuole però si girano film senza registi, nel quale gli alunni più fragili rischiano di diventare comparse, o nei casi peggiori, solo spettatori.

I rischi

Quali sono i rischi della mobilità dei docenti di sostegno? Se abbiamo detto che il buon funzionamento della scuola inclusiva passa per una cura della dimensione organizzativa, didattica e relazionale, possiamo immaginare, per ognuna delle aree prese in considerazione, i rischi dovuti alla continua mobilità dei docenti.

Dimensione organizzativa

Spesso si sottovaluta la dimensione spazio temporale, quando si riflette sulla qualità dell’inclusione. Ci riferiamo in questo momento alla costruzione dell’orario scolastico. Quando c’è la possibilità, la scelta dell’orario dell’insegnante di sostegno dovrebbe considerare la classe di appartenenza, per evitare, ad esempio, che un docente che proviene dalla dimensione scientifica sostenga l’alunno con disabilità nelle discipline umanistiche e viceversa. A causa dalla continua mobilità di figure con curricola anche molto diversi tra loro, questa attenzione viene completamente resa vana e ciò che sarebbe dovuto essere frutto di una precisione visione organizzativa, diventa casualità. Di conseguenza le competenze curricolari dei docenti di sostegno vengono completamente annullate e, ad emergere, è il solo ruolo di persona esperta, quando lo è, sulle dinamiche inclusive. Peccato.

Dimensione didattica

La normativa scolastica considera il docente specializzato sul sostegno come contitolare della classe. Significa che il docente curricolare è titolare della buona riuscita dell’inclusione dell’alunno con disabilità, esattamente come il suo collega di sostegno, e quest’ultimo, è titolare, come il suo collega curricolare, della progettazione didattica dell’intero gruppo classe. Non è possibile distinguere l’ambito curricolare e del sostegno, in quanto estremamente connessi. Quando i docenti di sostegno sono vittime dell’eccessiva mobilità, viene meno la costanza e il riferimento per tutta la classe e il livello di qualità si abbassa per tutti.

Per quanto riguarda gli alunni con disabilità, non avere un riferimento costante significa perdere la persona che cura l’organizzazione didattica, che è alla base dell’apprendimento, soprattutto nei contesti difficili. Ogni persona apprende con uno stile personale proprio e, senza una guida, il rischio è di non si apprendere affatto.

Dimensione relazionale

L’ambito emotivo/relazionale è forse l’aspetto più delicato e strategico, quando si parla di qualità dell’inclusione. Le più recenti riflessioni in ambito psicopedagogico confermano che le dimensioni motivazionale e relazionale sono alla base di qualsiasi processo di apprendimento. Detto in altre parole: impariamo meglio e di più quando ci sentiamo accolti, riconosciuti, valorizzati. Per gli alunni con disabilità, soprattutto se severa, questo è maggiormente vero. Così come le loro famiglie, essi hanno bisogno di tempi di conoscenza più lunghi, di occasioni anche informali, di entrare in profondità. Prima di affidarsi è necessario fidarsi e dunque conoscersi.

Ad ogni cambio docente, un rapporto muore, l’ennesimo adulto di riferimento, così come si era materializzato nella vita dell’alunno con disabilità, scompare. Sono molti gli adulti che si relazionano con bambini con disabilità: oltre ai docenti e genitori abbiamo spesso terapeuti, logopedisti, psicologi, educatori, in alcuni casi capi scout e allenatori sportivi. Ogni adulto con uno stile, un approccio, richieste e motivazioni diverse. Al centro di questo mare magnum il bambino, che dovrebbe essere centro di una rete di sostegno è investito dalle più diverse, e spesso incongruenti, richieste. Invece di essere sostenuto, il bambino può naufragare.

Le buone relazioni richiedono tempo e affiatamento. Puntualmente quando ci si inizia a conoscere, l’insegnante viene sostituito… e tutto ricomincia daccapo.

Insomma, la battaglia per l’inclusione è prima di tutto una battaglia di civiltà. Non basta assicurare semplicemente il diritto a frequentare la scuola di tutti, per costruire una comunità inclusiva. È invece indispensabile creare le condizioni organizzative, didattiche e relazionali affinché la scuola possa diventare una comunità accogliente e competente[1], come sostiene Fiorin.

Senza la continuità didattica dei docenti, considerata come prerequisito fondamentale, ogni speranza di costruire comunità professionali attente ai bisogni degli alunni con disabilità rischia di risultare vana. È necessario dunque un’inversione di rotta, un ripensamento completo dell’organizzazione che tuteli i diritti degli alunni, soprattutto di chi presenta difficoltà e fragilità maggiori.

[1] Fiorin I., Scuola accogliente e scuola competente, Editrice La Scuola, Brescia, 2012

Guide Genitori Studenti e Scuola

a cura di Cinzia Olivieri