Adesso serve il progetto

Alternanza scuola lavoro. Esame di Stato. Università
Adesso serve il progetto

di Stefano Stefanel

I recenti sviluppi della legge 107 del 13 luglio 2015 hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica alcune questioni scolastiche aperte, che però si stanno confondendo nel confuso dibattito che ormai si svolge senza soluzione di continuità tra gli “esperti” di scuola, sui social e addirittura sui quotidiani una volta reticenti a dedicare ampio spazio alle scuole a meno che non si trattasse di notizie sul bullismo, sul crollo di soffitti, su atti riprovevoli di studenti e insegnanti. E’ evidente che qualcosa si sta muovendo nel mondo della scuola e che la legge 107 ha aperto spazi che erano chiusi, ma attendevano soltanto di essere aperti. Tutto ciò però si sta sviluppando con tempistiche inattese e fortemente accelerate per quella che era la meccanica del riformismo e del contro riformismo scolastico italiano. La scuola italiana abituata a veder lanciare riforme e poi a dare troppo tempo alle stesse per essere sperimentate o attuate in un convulso succedersi e accavallarsi di norme di vario genere accolte quasi sempre con resistenze da parte del mondo della scuola. D’altronde in un “corpo” di un milione di lavoratori non è difficile trovarne diecimila soggetti sempre contrari a qualcosa.

 

ALTERNANZA SCUOLA LAVORO

Le modalità e la velocità con cui le scuole secondarie hanno sposato l’alternanza scuola-lavoro riformata dalla legge 107 e introdotta anche nei Licei mostra non tanto un adeguamento “asburgico” a norme cogenti, quanto piuttosto la necessità di far uscire la scuola superiore italiana dai suoi riti autoreferenziali. Improvvisamente è diventato chiaro a tutti che l’apprendimento è una questione troppo complessa per lasciarla solo all’erudizione disciplinare. Sta cioè prendendo piede nelle scuole superiori l’idea che è necessario acquisire metodologie di riconoscimento e valutazione di tutto l’apprendimento che il giovane studente sta sviluppando.

Infatti l’ apprendimento può essere:

  • formale quando avviene in un contesto scolastico o formativo organizzato e strutturato, è esplicitamente pensato e progettato come apprendimento e conduce ad una qualche forma di certificazione o valutazione;
  • non formale quando è connesso ad attività pianificate ma non esplicitamente progettate come apprendimento (quello che non è erogato da una istituzione formativa e non sfocia normalmente in una certificazione, ad esempio una giornata di approfondimento su un problema, una conferenza, una visita di istruzione,… );
  • informale quando deriva dell’esperienza personale e dalle attività della vita quotidiana legate alla famiglia, al tempo libero, etc; non è organizzato o strutturato e non conduce alla certificazione (ad esempio un’appartenenza associativa, le attività sportive o musicali, gli interessi personali,…).

Curioso è notare come il manuale per i Fondi PON (Per la scuola competente e gli ambienti di apprendimento – Programmazione 2014-2020, pubblicato dal Miur nel 2015) contenesse già questa distinzione, ma il suo passaggio nella scuola italiana non era per nulla scontato e difficilmente la scuola italiana poteva essere scossa da un Manuale per finanziare un progetto comunitario. Ci sta pensando l’alternanza scuola-lavoro nella sua nuova definizione e con la sua nuova prospettiva a correggere le storture progettuali degli Istituti Tecnici e Professionali e questo avviene anche attraverso il nuovo ingresso nell’alternanza scuola lavoro dei Licei per la prima volta realmente catapultati dentro un ambito non teorico. Chi era ed è contrario alla legge 107 si aspettava che su questo punto (inserito tra quelli per cui erano state chieste le firme per il referendum) le scuole italiane insorgessero. E invece le scuole italiane hanno subito iniziato a progettare e stanno mostrando un grande senso dell’innovazione e della ricerca. Anche il richiamo alla coerenza valutativa tra alternanza scuola-lavoro e valutazione dello studente ha messo in moto un tentativo di raccordo tra la tradizionalità della valutazione degli apprendimenti e la raccolta di dati utili ad accompagnare la crescita dello studente Ci vorrà ancora tempo, ma l’impianto delle 200 ore per i Licei e delle 400 ore per gli Istituti Tecnici e Professionali sta mettendo in moto un enorme universo progettuale che influenzerà e non poco la scuola italiana, per nulla protestataria su questo punto.

 

ESAME DI STATO CONCLUSIVO

L’arretratezza congenita del sistema scolastico italiano si vede proprio nel suo esame di stato. E’ una prova molto difficile e per nulla selettiva, che curiosamente nessuno mette in relazione con gli insuccessi all’università o nel mondo del lavoro. L’idea di paralizzare uno studente per almeno tre anni con lo spauracchio di una prova finale nozionistica, per nulla selettiva nel suo esito principale (promozione), ma molto selettiva nel suo esito secondario (voti) significa non tener conto del contesto internazionale e della necessità che l’uscita dello studente dal ciclo dell’istruzione per entrare nell’università o nel mondo del lavoro sia accompagnata e non ostacolata. L’esame di stato conclusivo è la certificazione sulla “tuttologia” di un soggetto che per sua natura evolutiva non è più tuttologo. L’accanirsi su questo esame significa poi non curare l’uscita dalla scuola di quel 60% di studenti che ha comunque delle difficoltà e che non riesce a presidiare tutti i vari specialismi che la bulimica scuola italiana accalca nei suoi curricoli.

Qualunque metodo di valutazione si preveda porterà sempre ad un’altissima percentuale di licenziati (adesso è del 98% circa e il 90% del 2% di bocciati sono privatisti) e meno male che è così. Bocciare diciannovenni o ventenni è un ottimo modo per arretrare ancora, mettendo i più deboli in una posizione di rincalzo all’avvio del loro percorso post scolastico. L’esame non è selettivo, ma crea disparità perché comunque i più bravi non hanno poi difficoltà all’università e si laureano presto (cosa divenuta fondamantale soprattutto nelle materie scientifiche). Così il soggetto debole che già esce un anno dopo rispetto ai suoi coetanei europei se la prova fosse selettiva rischierebbe di uscire anche un anno dopo gli studenti più forti, per poi confluire nello stesso mondo delle professioni che richiede a gran voce precocità: una follia. Poi ci si meraviglia che i giovani che non studiano e non lavorano dai 17 ai 25 anni in Italia siano un numero minaccioso.

Il triennio dovrebbe diventare “nordico” (Finlandia e Svezia) con lo studente che sceglie il suo percorso e raggiunge diversi tipi di diploma e attraverso quel diploma poi sceglie l’università o il lavoro. Ad esempio nel Liceo ci potrebbero essere il Diploma “completo” (tutte le materie che vengono esaminate nell’esame) oppure il Diploma “di indirizzo” (scientifico, umanistico, linguistico, ecc.) che però permette l’accesso solo ad alcune facoltà. Rendere flessibile il sistema significa orientare lo studente non costringendolo ad essere tuttologo in un’età in cui ormai non lo è più nessuno. C’è un rimpianto di scuola primaria nel nostro esame di stato, con lo studente quasi ventenne che parla di tutto come quando aveva sette anni. Un puro non senso.

Trovo inutile discutere se è meglio che lo studente venga ammesso con tutti i voti positivi oppure con la media positiva, perché entrambe le posizioni scambiano il mezzo con il fine. Il concetto di esame di stato tuttologico per tutti, di prova finale difficilissima ma non selettiva, di prevalenza di questo esame sulla scelta e il percorso futuro sta fuori dalle necessità italiane del momento. Inoltre il dibattito odierno fa emergere un incomprensibile desiderio di bocciare persone adulte che hanno solo bisogno di trovare la loro strada. Anche perché l’esame di stato dovrebbe aprire un discorso su come si valuta nelle scuole e perché – ad esempio – nell’esame di stato fioccano i 14 e i 15, mentre i 9 e i 10 durante l’anno non sono poi così frequenti. La valutazione degli apprendimenti all’italiana è uno dei grandi enigmi irrisolti: non sta in piedi, produce dispersione, ma nessuno la discute veramente.Tra l’altro l’Italia non ha un piano di recupero reale e lo studente bocciato ripete le stesse cose già fatte l’anno prima, nella speranza che le faccia meglio, il che spesso è una pura assurdità. Produrre dispersione a 14 e 15 anni è già una brutta cosa, soprattutto se non si hanno le idee chiare su come si recupera, diventa una pura follia se lo si fa coi ventenni.

Il raccordo tra alternanza scuola lavoro, revisione dei curricoli disciplinari, valutazione che integra il non formale e l’informale con il formale mostra la necessità che il Piano Nazionale di Formazione del personale docente affronti e in fretta un progetto per i nostri studenti del secondo ciclo messi a contatto con le sfide della società della conoscenza, ma oggi attraverso una battaglia di saperi che si vogliono sopraffare a vicenda e che richiedono tuttologie in funzione dell’esame di stato, che – così com’è organizzato – sta tra l’inutile e il dannoso, perché non aggiunge nulla a chi è già bravo o molto bravo e costringe ad una faticosa preparazione chi non riesce a seguire tutto ed è così costretto a trascurare la scelta universitaria o l’esplorazione preventiva del mondo del lavoro.

Io credo serva un sistema di valutazione per crediti disciplinari che si connetta a quello dei crediti per l’esame finale, in modo che venga tolta al docente di classe almeno una parte della sua univocità valutativa, che troppo spesso si trasforma nel valutare l’adeguamento dello studente a ciò che ha detto il docente stesso. Mentre invece quello di cui c’è bisogno oggi è che gli studenti si colleghino direttamente agli statuti scientifici delle discipline, non necessariamente mediati da una manualistica di parte.

 

L’UNIVERSITA’

Il terzo elemento di questo progetto culturale necessario alla nostra scuola riguarda l’università. Le dinamiche interne agli atenei non interessano più nessuno e dovrebbero aver stancato anche i docenti universitari. Le università dovrebbero puntare a rendere misto il quinto anno almeno dei licei: lo studente dovrebbe frequentare parte dell’anno a scuola e parte all’università accumulando crediti per il voto finale dell’esame di stato e per il primo anno universitario. Si vedrebbero alla prova le vocazioni e le capacità dentro un triangolo virtuoso formato da studente, scuola e università per il successo formativo dello studente adulto.

Questa modalità “nordica” prevede un aumento dell’autonomia dello studente che costruisce insieme ai due soggetti deputati alla formazione e all’apprenduimento il proprio percorso. In questo scenario l’alternanza scuola lavoro costruisce in terza e in quarta lo scenario entro cui avviene la scelta. Diventando in quinta il punto più alto del progetto per gli Istituti Tecnici e Professionali e l’esperienza attraverso cui lo studente liceale scopre che specialismo vuol affrontare all’università. Delle lamentele dell’università sulla poca preparazione di molti studenti non se ne può più, come non se ne può più dei corsi fatti per soddisfare le presunte competenze dei docenti e non le reali esigenze di una formazione superiore.

Quello che è certo è che non si può restare fermi all’idea che contro la dispersione scolastica e universitaria le armi da usare siano i brutti voti e le bocciature. Va rivisto l’impianto generale e strutturale attraverso un progetto realistico e non nostalgico. Così la notte prima degli esami magari si dorme.

La politica scolastica dopo il referendum

La politica scolastica dopo il referendum

di Gian Carlo Sacchi

La riforma del titolo quinto della Costituzione si sarebbe conclusa senza dubbio con una maggiore centralizzazione dei poteri dello Stato su diverse materie di rilevanza pubblica, tra le quali la politica scolastica. La legge 107 si era già posta nella prospettiva di un esito positivo del referendum, mentre ora è necessario leggere i decreti applicativi secondo quello che è successo con il voto, a meno che non si voglia far finta di nulla, innescando di nuovo il contenzioso davanti alla Corte Costituzionale.

E’ un continuo slalom tra modelli di governo contrapposti, che potrebbero modificare solo il contenuto delle numerose questioni trattate nella predetta legge, senza prendere in considerazione l’incidenza del modo in cui possano venire gestite. Le modifiche costituzionali introdotte nel 2001 infatti non sono mai state applicate ed oggi le controindicazioni non sono state votate, per cui rimane tutto tale e quale, con però un diverso livello di consapevolezza: la riforma del 2001 aveva beneficiato del consenso referendario, mentre questa è stata bocciata sempre con lo stesso strumento suffragato però da una maggiore partecipazione.

Non si vuole approfondire la cornice politica, cioè la mescolanza tra i contenuti della riforma ed il gradimento del governo che l’ha tanto sostenuta, senza domandarsi se ha ancora un senso far leva sulla coerenza delle maggioranze politiche quando è stata la stessa formula governativa a varare l’ordinamento del 2001 ed a chiedere ai cittadini nel 2016 l’approvazione del suo contrario. Forse questa è ormai una discussione stucchevole alla luce della sfiducia che i cittadini dimostrano nei confronti dei partiti, ma un segnale positivo c’è ed è la volontà da parte loro di partecipare al cambiamento, che si spera possa tornare a confortare le scelte di governo e che nel nostro campo potrebbero indurre ministro e parlamento ad aprire una consultazione nella società sui decreti, in modo che si possano approvare provvedimenti che esprimano una nuova visione organizzativa, di cui la predetta legge si è fatta carico, per tanti aspetti in modo positivo, mantenendo il cammino già iniziato, ma ancora troppo debole e molto spesso ostruito, della reale autonomia delle scuole e dei sistemi formativi locali, da cui potranno derivare anche più poteri ai dirigenti scolastici, si potranno valutare e differenziare il trattamento ai docenti e migliorare la programmazione del servizio sul territorio.

Per sapere qual è la direzione di marcia che è stata indicata è interessante leggere i dati rilevati dal rapporto Demos (Repubblica 7 gennaio 2017) a commento del voto referendario. E’ noto che l’espressione dei cittadini comprende sia il merito della norma costituzionale sia il sentire nei confronti del governo, cosa che non si era espressa così chiaramente nella precedente consultazione; è quindi l’occasione perché questo esecutivo, se vuole recuperare consensi, pur considerando un segno di continuità la legge 107, sulla scorta del voto popolare, provi a rendere discontinua la decretazione delegata. Sarebbe non oltremodo difficile da realizzare armonizzando le diverse materie oggetto dei vari decreti: ne mancherebbe uno sulla governance degli istituti scolastici aperto al sistema formativo territoriale, che può servire da regista dell’intero impianto legislativo.

Il rapporto sottolinea che è cresciuto negli ultimi tre anni l’interesse per le iniziative collegate ai problemi del quartiere e della città, dell’ambiente e del territorio. Diminuisce l’attenzione per le associazioni di volontariato e ricreative ed aumenta per quelle professionali. I consumi diventano più consapevoli e l’opinione si costruisce molto attraverso i social. Bisogna ridurre il peso dello Stato nella gestione dei servizi dell’istruzione e lasciare spazio alle scuole private. 52 a 44 l’aumento del potere delle Regioni rispetto allo Stato.

Dentro a questi due semplici segnali ci sta tutta l’importanza da attribuire all’autonomia delle scuole nelle realtà locali; non si tratta di privatizzazione e nemmeno di contrapposizione tra scuole di tendenza, ma di integrazione delle diverse forme gestionali, come già avviene nelle politiche per l’infanzia, con “norme generali sull’istruzione”indicate dallo Stato, come previsto dall’art. 117 della Costituzione del 2001. Occorrono leggi regionali efficienti, controlli statali/europei e finanziamenti multilivello, che possono chiamare in causa meccanismi di defiscalizzazione su risorse private. Il secondo aspetto riguarda il decentramento delle competenze statali verso le stesse scuole e la costituzione di sistemi locali, con reti multiservizio, come iniziato con le leggi Bassanini del 1979 e che dovrebbero culminare, come si è detto, con un provvedimento sull’autogoverno degli istituti e la rappresentanza delle scuole autonome, con laboratori territoriali di documentazione, ricerca e supporto alla didattica.

La “competenza concorrente” tra stato e regioni non è conflittuale, ma richiede un cambiamento dell’orizzonte di governo, che la riforma Renzi-Boschi aveva annullato e su cui la citata legge 107 aveva sorvolato, secondo una logica gattopardesca, alla quale nemmeno le regioni si erano più di tanto opposte, in base ad un consenso politico al governo nazionale. Anche il nuovo Senato avrebbe potuto avere qualche funzione positiva nelle strategie territoriali di questo settore (si pensi alla programmazione delle reti locali del servizio, alla formazione-lavoro, ecc.), certo a ben poco poteva servire in un’ottica così centralistica, come veniva anticipato dalle azioni messe in atto dal governo (il fatto più eclatante restano i bandi nazionali per la didattica, che propongono iniziative che non potranno raggiungere tutte le scuole). Se questo secondo ramo del Parlamento voleva assomigliare al Bundesrat non certo il rapporto tra stato e regioni ha a che fare con il federalismo tedesco.

Dai dati Demos cogliamo la critica degli italiani nei confronti dell’istruzione nel suo complesso, ma la guida pubblica della scuola non è in discussione, così come non è ben visto il rafforzamento dello stato centrale. Allora perché non viene accolta la domanda di riforme pur presente nel sondaggio e si cerca di fondare quanto indicato nei singoli temi dalla legge 107 su modalità di governo decentrate, sulle autonomie territoriali, applicando in modo efficace quanto già previsto nel titolo quinto ancora in vigore.

Questa potrebbe essere una buona strada per il nuovo ministro e per una politica che sia riconosciuta come immagine del centro-sinistra.

Ammissione credito scolastico e promozione: punto per punto come cambierà la maturità dal 2018

da Il Sole 24 Ore

Ammissione credito scolastico e promozione: punto per punto come cambierà la maturità dal 2018

di Laura Virli

È approdato alla Camera lo schema di decreto legislativo per la revisione delle modalità di svolgimento degli esami di Stato per la scuola secondaria di secondo grado a partire dall’anno scolastico 2017-2018, come previsto dal comma 181 lettera I 2) della legge 107. Un passo verso il cambiamento promesso dalla “Buona scuola”. Il meccanismo attuale, introdotto nel lontano 1997 dalla legge 425, evidenzia ormai molteplici criticità e il voto finale dei diplomati non è più considerato dalle università indice di una buona preparazione.
Dalla lettura dello schema di decreto traspaiono modifiche consistenti e tali da operare un restyling profondo al volto dell’esame di Stato. Non cambierà, invece, la composizione della commissione che attualmente è presieduta da un presidente esterno all’istituzione scolastica e composta da tre membri esterni e da tre membri interni.
Ma proviamo a sintetizzare le differenze tra la procedura odierna e quella che la ministra Fedeli ha inviato al Parlamento.
Ammissione agli esami
Varie le novità, tra cui l’introduzione delle prove Invalsi nel corso del quinto anno, ferme restando le rilevazioni già effettuate nella classe seconda, e l’ammissione agli esami più “facile”. La riforma prevede, infatti l’ammissione con la media del sei, compreso il voto di condotta, e non più con almeno la sufficienza in tutte le discipline. Quindi potrà capitare che uno studente con tre in matematica e 10 in educazione fisica e in condotta sarà ammesso agli esami. Ma, al di là delle polemiche che potranno sorgere su tale questione, riassumiamo le quattro condizioni necessarie per poter essere ammessi agli esami:
a) aver frequentato almeno i tre quarti del monte ore previsto dal curricolo di studi;
b) avere ottenuto nello scrutinio finale la media del 6;
c) aver partecipato alle attività di alternanza scuola lavoro previste dalla legge 107 (200 ore nei licei e 400 nei tecnici e professionali da svolgere nel triennio);
d) aver partecipato alle prove Invalsi (con qualsiasi esito) a carattere nazionale nel corso del quinto anno, “computer based” e adattive, volte a verificare i livelli di apprendimento conseguiti in tre materie: italiano, matematica e inglese.
Anche per i candidati esterni l’ammissione all’esame è subordinata, oltre al superamento dell’esame preliminare, alla partecipazione alle prove Invalsi presso la scuola statale o paritaria dove sosterranno l’esame di Stato. Ugualmente, gli studenti con disabilità e Dsa parteciperanno alle prove standardizzate, pur con i necessari adattamenti alle prove predisposti dal consiglio di classe. Saranno invece ammessi senza l’espletamento delle prove Invalsi, gli studenti frequentanti le scuole italiane all’estero.
Il credito scolastico
Dal 2018 il percorso formativo dello studente acquisterà più peso in quanto il credito scolastico anziché valere 25 punti, potrà arrivare fino a 40 punti, 12 al terzo anno, 13 al quarto e 15 al quinto anno. E, di conseguenza peserà meno l’esame: 20 punti ciascuno per i due scritti – Italiano e prova d’indirizzo – e per il colloquio.
Le prove scritte
Tre le novità importanti:
a) introduzione di griglie con punteggi per la correzione al fine di uniformare i criteri di valutazione delle commissioni d’esame;
b) obbligo di superare due sole prove scritte a carattere nazionale (italiano e prova di indirizzo;
c) punteggio massimo totale di 40 punti per le due prove scritte (ognuna delle due prove scritte massimo 20 punti) contro i 45 punti della situazione odierna.
Salterà quindi la controversa terza prova, quella più temuta e criticata per le troppo differenti prove confezionate la mattina stessa dalle singole commissioni.
Dovrebbe cambiare, ma lo stabilirà un successivo decreto del ministro, la classica struttura della prova scritta di Italiano attualmente svolta sotto forma di saggio breve/articolo di giornale, analisi del testo, tema storico e di attualità. Nello schema di decreto legislativo si legge infatti che la prova di Italiano consisterà nella redazione di un testo di tipo argomentativo riguardante temi di ambito artistico, letterario, filosofico, scientifico, storico, sociale, economico e tecnologico, e che potrà essere strutturata in più parti, anche per consentire la verifica di competenze diverse, in particolare la comprensione degli aspetti linguistici, espressivi e logico-argomentativi, oltre la riflessione critica da parte del candidato.
Il colloquio
Il colloquio, che avrà un punteggio massimo pari a 20 (non più 30 punti), sarà volto ad accertare il conseguimento del profilo culturale, educativo e professionale dello studente e la sua capacità argomentativa e critica a partire da un testo o da un documento scelto tra alcune proposte elaborate dalla commissione. E’ quindi la commissione a scegliere, e non lo studente a decidere, come iniziare il colloquio. Viene finalmente abbandonata l’esposizione della cosiddetta “tesina” preparata dallo studente per iniziare il colloquio, quasi mai frutto di un reale lavoro di ricerca, mentre viene lasciato spazio all’esposizione delle attività svolte in alternanza mediante una breve relazione e/o un elaborato multimediale.
Il bonus e la lode
Cambia anche l’attribuzione del bonus di 5 punti a disposizione delle commissioni per integrare il punteggio. Nella procedura attuale può essere attribuito ai candidati in possesso di almeno 15 punti di credito scolastico e 70 tra prove scritte e colloquio orale; con la riforma sarà possibile attribuire il bonus soltanto a coloro che abbiano ottenuto almeno 30 punti di credito e 50 punti nelle prove d’esame.
Sarà più facile avere la lode. La commissione, infatti, potrà motivatamente attribuire la lode a coloro che conseguiranno il punteggio massimo di 100 punti senza aver fruito del bonus, a condizione che, come nella situazione odierna, gli studenti abbiano conseguito il credito scolastico massimo e il punteggio massimo previsto per ogni prova d’esame. Ma non sarà più necessario, essere stati promossi nell’ultimo triennio del ciclo di studi con voti superiori o uguale a 8 in tutte le discipline.
Documento di valutazione finale
L’esito finale dell’esame sarà sempre espresso in centesimi, ma, per uniformare i giudizi delle commissioni a livello nazionale, al diploma finale è allegato il Curriculum dello studente con i livelli di apprendimento conseguiti nella prove Invalsi (distintamente per ciascuna disciplina oggetto di rilevazione), le competenze, le conoscenze e le abilità anche professionali acquisite e le attività culturali, artistiche e di pratiche musicali, sportive e di volontariato, svolte in ambito extra scolastico nonché le attività di alternanza scuola-lavoro ed altre eventuali certificazioni conseguite.
Le università, sulla base della propria autonomia, potranno tenere a riferimento per l’accesso ai percorsi accademici, i livelli di competenza conseguiti nelle discipline oggetto delle prove Invalsi. Apprezzabile lo sforzo del Governo su questo fronte ma riteniamo altresì necessaria la definizione di standard nazionali dei livelli di competenza almeno nelle aree disciplinari fondamentali. E ancora più urgente ricondurre ad unità le prove d’accesso all’università con le prove di certificazione delle competenze acquisite in ambito scolastico.

Verifica conclusiva del primo ciclo, cancellate le prove Invalsi

da Il Sole 24 Ore

Verifica conclusiva del primo ciclo, cancellate le prove Invalsi

di Alessandra Silvestri

Cambiano gli esami di Stato conclusivi del I ciclo due le novità: via i test Invalsi dalle prove d’esame, il presidente della commissione, che prima era un dirigente scolastico di un altro istituto, sarà il dirigente della scuola stessa.
Esami conclusivi del I ciclo d’Istruzione: com’erano e come saranno
La normativa vigente (Dpr 122/2009) prevede per gli esami di Stato conclusivi del I ciclo d’istruzione quattro prove scritte, definite a livello di singola istituzione scolastica (italiano, matematica, inglese, seconda lingua straniera oltre ad una prova scritta a carattere nazionale di italiano e matematica predisposta dall’Invalsi) ed infine un colloquio pluridisciplinare. La valutazione di ciascuna prova è espressa dalla commissione in decimi. La valutazione della prova nazionale Invalsi è invece definita sulla base di una griglia valutativa predisposta dall’Istituto nazionale di valutazione stesso. Il voto finale scaturisce dalla media aritmetica tra i voti conseguiti nelle singole prove e quello di ammissione all’esame. Il governo, con l’atto 384 del 15 gennaio scorso “Schema di decreto legislativo recante norme in materia di valutazione e certificazione delle competenze nel primo ciclo ed esami di Stato” emana uno schema di Dlgs che recepisce una delle nove deleghe della legge 107/2015. Esso semplificherebbe notevolmente gli esami conclusivi del I ciclo riducendo le prove scritte da quattro a tre (italiano, matematica e lingue, prova divisa in due sottosezioni – I e II lingua) e da un colloquio. Il voto finale è espresso dalla Commissione non più come media aritmetica, ma tenendo conto delle prove d’esame e del percorso valutativo dello studente. Resta fermo il non superamento dell’esame per gli alunni che conseguono una valutazione finale complessiva inferiore a sei decimi.
Le prove Invalsi
Le tanto temute prove Invalsi, più volte segnalate dai presidenti di commissione come un grave appesantimento dell’esame per gli studenti e per i componenti delle commissioni, data la distanza con i programmi svolti e la macchinosità della correzione, escono dalla porta, ma “rientrano dalla finestra”, assumendo un valore ben più importante che nel passato: verranno sostenute ad aprile, non faranno media con il voto finale, ma costituiranno requisito imprescindibile per l’accesso all’esame di Stato conclusivo del I ciclo. L’esito delle stesse sarà riportato in un’apposita sezione del documento di attestazione delle competenze che accompagnerà il diploma. Varia, inoltre, il numero delle prove, a Italiano e Matematica si aggiunge, infatti, il test d’Inglese. Se da un lato gli studenti possono tirare un sospiro di sollievo perché l’esito dei test Invalsi non farà media, dall’altro non avranno scampo: dovranno comunque sostenere le prove (anche se in un momento diverso dall’esame) e l’esito delle stesse li accompagnerà lungo tutto il percorso formativo, essendo lo stesso riportato nell’attestazione delle competenze.
Non più ’’certificazione’’ ma ’’attestazione’’ delle competenze del I primo ciclo
Il bagaglio con cui gli studenti che escono dalla scuola secondaria di I grado e fanno il loro ingresso alla secondaria di II grado, conterrà, oltre al sudato Diploma, anche il documento di attestazione delle competenze. Il termine ’’attestazione’’ manda in soffitta il vecchio ’’certificazione’’, atteso che una vera e propria certificazione sia rilasciata da un ente esterno, mentre, in questo caso, è la commissione interna a documentare le competenze acquisite dagli studenti. Il modello per l’attestazione scaturisce da una sperimentazione del 2014/15 che ha coinvolto circa 3.000 scuole del I ciclo. Tale sperimentazione era, appunto, volta a elaborare un modello nazionale per l’attestazione delle competenze trasversali e delle competenze-chiave di cittadinanza da rilasciare al termine della terza classe di scuola secondaria di primo grado.
La commissione e il presidente
Resta immutata la composizione delle Commissioni d’esame, articolate in sottocommissioni, costituite dai docenti delle classi terze dell’istituzione scolastica. Le funzioni di presidente, invece, sono svolte, per ogni istituzione scolastica, dal dirigente scolastico della scuola stessa o, in caso di reggenza , assenza o impedimento, da un docente collaboratore del dirigente individuato ai sensi dell’articolo 25, comma S, del decreto legislativo 30 marzo 200 l n. 165.

Poche variazioni di rilievo in arrivo nella primaria

da Il Sole 24 Ore

Poche variazioni di rilievo in arrivo nella primaria

di Francesca Lascialfari

L’atteso decreto legislativo in attuazione della delega al Governo, contenuta nell’articolo 1, comma 181 lettera i), della legge 107/2015, sul riordino delle disposizioni di legge sulla valutazione degli studenti, è stato trasmesso pochi giorni fa alle Camere per l’espressione del parere da parte delle Commissioni parlamentari competenti.
Analizzeremo qui quanto emerge dalla lettura dello schema di decreto in merito alla valutazione degli alunni nella scuola primaria.
Lo scenario
Dopo che negli ultimi mesi si è registrato un acceso dibattito sul tema della opportunità dei voti e delle bocciature, si constata nessuna sostanziale variazione è intervenuta a questo proposito. Rimangono, infatti, le valutazioni in decimi per le discipline oggetto di studio e il giudizio formulato dai docenti contitolari della classe per quanto riguarda il comportamento.
Nessuna variazione si registra neppure per quanto riguarda l’eventuale non ammissione degli alunni alla classe successiva: esattamente come era finora, «Nella scuola primaria, i docenti della classe in sede di scrutinio, con decisione assunta all’unanimità, possono non ammettere l’alunno alla classe successiva solo in casi eccezionali e comprovati da specifica motivazione».
Nei fatti, le rarissime non ammissioni alla classe successiva per gli alunni della scuola primaria vengono già oggi deliberate esclusivamente in presenza di particolari situazioni di criticità, di rilevanza tale da compromettere gravemente il processo di apprendimento in atto, prefigurando oggettivamente l’impossibilità di conseguire gli obiettivi formativi previsti. Inoltre, esse rappresentano sempre la conclusione di un percorso di condivisione con la famiglie.
Per quanto riguarda la valutazione periodica e finale di tutti gli alunni, essa viene effettuata collegialmente dai docenti contitolari della classe dopo ever acquisito elementi conoscitivi sull’interesse e il profitto di ciascun alunno da quei docenti che svolgono attività di ampliamento dell’offerta formativa. Infine, la nuova norma fa chiarezza sul ruolo del dirigente scolastico, che presiede le operazioni di scrutinio.
Invalsi
Lo schema di decreto conferma che le azioni relative allo svolgimento delle rilevazioni nazionali costituiscono per le scuole attività ordinarie d’istituto. Nella scuola primaria, le prove vengono effettuate in seconda e quinta, proprio come è accaduto finora. La novità consiste nell’introduzione della prova di inglese nella quinta classe: l’Invalsi predispone test di posizionamento sulle abilità di comprensione e uso della lingua, coerenti con il Quadro comune europeo di riferimento.
Al termine della scuola primaria, è poi previsto il rilascio di una attestazione di competenze nella quale si descrive lo sviluppo dei livelli di competenze trasversali e delle competenze chiave progressivamente acquisite dagli alunni, anche in chiave orientativa.
Come spiegato nella relazione illustrativa del Dlgs, «il termine “attestazione” viene preferito a “certificazione”, ancorché utilizzato dalla legge 107/2015, in considerazione del fatto che una vera e propria certificazione delle competenze acquisite presuppone il rilascio esclusivamente da parte di ente esterno certificatore».

Riforma Buona Scuola, Gentiloni: avanti tutta

da La Tecnica della Scuola

Riforma Buona Scuola, Gentiloni: avanti tutta

L’attuale Governo vuole dare piena attuazione alle riforme avviate dall’esecutivo Renzi. Ad iniziare da quella della scuola, la Legge 107/2015.

Lo ha detto, a chiare lettere, il premier Paolo Gentiloni a ‘Che tempo che fa’, su Raitre nella consueta trasmissione domenicale.

“Non so se sia mai esistito il renzismo. Se è la spinta di Renzi per le riforme la rivendico, C’è molta continuità con il governo precedente. La discontinuità è ovvia, io non sono Renzi anche perché non ho l’età. Voglio dare attuazione delle riforme del governo precedente. Già abbiamo dato attuazione a scuola e unioni civili”.

Il riferimento del premier è agli otto decreti attuativi della riforma approvati il 14 gennaio dal Consiglio dei ministri, ora all’esame della conferenza delle Regioni e delle commissioni parlamentari. E anche all’atto d’indirizzo per il 2017, epsresso dal ministro dell’Istruzione, Valeria Fedeli, che non si discosta affatto dalla politica condotta dal suo predecessore Stefania Giannini, anzi si parla di “piena attuazione” della L. 107/15.

“Ora – ha continuato il presidente del Consiglio – lavoriamo su tre cose: primo su chi è danneggiato dalla globalizzazione, pensiamo al reddito di inclusione. Poi dobbiamo accompagnare la ripresa e ci sono mille misure da prendere, dalla giustizia alla concorrenza. Infine il lavoro, concentrandosi soprattutto su giovani e sud”.

Gentiloni, poi, prende le distanze da chi chiede al Governo il reddito di cittadinanza. O il lavoro per tutti, a prescindere da impegno e preparazione.

“Chi pensa allo Stato sociale come relitto del Novecento si sbaglia di grosso. Lo stato sociale è una caratteristica del futuro, non un relitto del passato. Noi abbiamo bisogno di efficienza e capacità delle strutture pubbliche, ma questo stato sociale ha a che fare con un modo di lavorare e di vivere diverso da quando ero ragazzo. Abbiamo a che fare con una realtà più mobile”.

Sull’Italia e lo stesso sistema d’istruzione, il premier tiene a dire: “Abbiamo tante lentezze burocratiche ma non abbiamo un cattivo sistema sociale. L’Italia non parte troppo indietro. Non abbiamo, in generale, una cattiva scuola“.

Almeno sul fronte dell’istruzione pubblica, si conferma, quindi, in linea di massima quanto previsto dall riforma Renzi. Chi aveva annuniciato l’allestimento di un governo “Renziloni” ha sempre più ragione.

Alla maturità con la media del 6, coro di no: inutile studiare se tutti ammessi

da La Tecnica della Scuola

Alla maturità con la media del 6, coro di no: inutile studiare se tutti ammessi

Continua a far discutere l’accesso alla maturità con la media del 6, che supera l’attuale normativa che impone invece la sufficienza in tutte le materie.

Qualche giorno fa i nostri lettori sono stati informati della novità, contenuta “Schema di decreto legislativo recante norme in materia di valutazione e certificazione delle competenze nel primo ciclo ed esami di Stato”: subito dopo aver appreso della novità, ora all’esame delle commissioni parlamentari e delle osservazioni delle associazioni verranno audite, sul portale Facebook della Tecnica della Scuola abbiamo assistito ad un susseguirsi di commenti. Per lo più negativi.

Alcuni anche oltre le “righe”, con giudizi e aggettivi pesanti verso il Governo che ha promosso la legge delega. Perché la media del 6 per fare gli Esami di Stato, con gli studenti che possono presentarsi alle prove avendo sul “groppone” una o più insufficienze gravi, viene considerata come una sorta di resa delle istituzioni dinanzi alla riduzione dei livelli di preparazione e di conoscenze degli allievi.

La pensa così anche la Lega Nord. Il suo capogruppo al Senato, Gian Marco Centinaio, non usa mezzi termini per dirlo.

Anzi, la sua uscita è decisamente velenosa. “Da un ministro dell’istruzione senza laurea non poteva che nascere una scuola di asini. Il completo appiattimento dell’istruzione italiana si è drammaticamente completato con l’arrivo della Fedeli che altro non ha fatto che impartire il colpo di grazia con il suo beneplacito al 6 politico“, dice il senatore.

“Alla fine – aggiunge – ce l’hanno fatta a disincentivare totalmente i ragazzi a studiare. Con il 6 di media, compreso anche il voto in condotta, si andrà infatti all’esame di maturità. Vale a dire: “ragazzi è inutile studiare, sarete tutti ammessi. E anche se poi non prenderete una laurea potrete diventare ministri”.

Non si era mai visto un ministro dell’istruzione con in mano il solo diploma e neanche una scuola così del tutto inutile: che non insegna, non trasmette valori e non dà lavoro”, ha concluso Centinaio.

Non tutti la pensano, comunque, allo stesso modo: tra i fautori della norma vi è, per esempio, l’ex ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, secondo cui “invece di pretendere che gli studenti siano bravi in tutto, con la sufficienza obbligatoria in tutte le materie dovremmo capire che ci sono materie in cui una persona eccelle e altre materie in cui non si riesce ad andare bene”.

E le polemiche continuano.

Stipendi della scuola in calo di 800 euro l’anno

da La Tecnica della Scuola

Stipendi della scuola in calo di 800 euro l’anno

Dalle tabelle sui compensi pubblici del 2015, pubblicate dal Ministero dell’Economia, si scopre che il personale dell’Istruzione pubblica tra il 2014 e il 2015 ha percepito uno stipendio annuale medio più basso dell’anno precedente, passando da 29.130 euro a 28.343 euro.

Si tratta del peggior risultato degli ultimi otto anni dal momento che, solo nel 2007, le buste paga del comparto erano state inferiori. La forbice inoltre tra chi opera nella Scuola e il dipendente pubblico italiano medio, che percepisce 34.146 euro l’anno, si allarga sempre più.

A scriverlo Anief  che ricorda come i dipendenti della scuola abbiano lo stipendio fermo dal 2009 e la contrazione progressiva degli incentivi per lo svolgimento di attività extra all’attività didattica, con lo stesso Fondo d’Istituto oggi pari alla metà dello stesso del 2011.

Chi opera nel comparto Scuola tra il 2014 e il 2015 ha perso circa 800 euro di stipendio annuale, passando da una media di 29.130 euro ad appena 28.343 euro. Si tratta del peggior risultato dopo il 2007, quando le buste paga di docenti, Ata e Dirigenti scolastici erano pari a 26.532 euro.

Nel frattempo, scrive sempre Anief, tra 2007 e il 2015 l’inflazione è salita del 13,5%, mentre stipendi medi dei pubblici dipendenti si sono alzati solo del 7,8%. Anche su questo fronte, la scuola ha fatto registrare incrementi esigui, appena del 6,8% in otto anni: per comprendere la pochezza di questo numero, basta ricordare che la stessa Ragioneria statale ci dice (tabella 6.10 sulle variazioni percentuali delle retribuzioni medie annue) che tra il 2007 e il 2008 l’aumento medio delle buste paga per chi operava nell’istruzione pubblica fu pari al 10,4%.

Docenti alle classi, personale ai plessi e merito: il preside torna a parlarne con le Rsu?

da La Tecnica della Scuola

Docenti alle classi, personale ai plessi e merito: il preside torna a parlarne con le Rsu?

Ci sono delle parti del discusso decreto legislativo 150/09 che hanno i giorni contati, con più d’una modifica che potrebbe avere effetti diretti sulla scuola.

Il Governo Gentiloni sta infatti lavorando ad un nuovo Statuto del lavoro pubblico: in particolare, la Funzione Pubblica intende presentare la bozza definitiva in Consiglio dei ministri non oltre metà febbraio. Con i sindacati, ovviamente, d’accordo, si vuole far saltare la gabbia che l’entourage dell’ex ministro Renato Brunetta volle mettere alle contrattazioni di comparto.

Con la contrattazione collettiva si intende riequilibrare il rapporto con la legge.

L’obiettivo non è da poco. Innanzitutto c’è da collocare l’assegnazione del merito professionale, che tornerebbe a far parte dei “tavoli” con le Rsu (anche se nella scuola difficilmente si potrà superare la gestione del bonus annuale introdotta con la Legge 107/15).

Con i sindacati, oltre alla valutazione ai fini dei premi da assegnare al personale, si tornerà anche a gestire in modo più diretto mobilità e carriere.

Ma tra le materie che si vuole riportare sul piano della contrattazione, c’è anche la discussa organizzazione degli uffici. Quella su cui già pesava l’art. 25 del Dlgs 165/01 (in particolare il comma 4, che delega “al dirigente l’adozione dei provvedimenti di gestione delle risorse e del personale”).

Anche il successivo decreto di riforma Brunetta della P.A., nel 2009 ha confermato la competenza totale del dirigente scolastico su gestione ed organizzazione degli istituti. Personale compreso.

Nello specifico, il decreto legislativo 150/09 ha “sgonfiato” la contrattazione collettiva, mettendo in discussione l’articolo 6, comma 2, lettere h), i) ed m) del Contratto collettivo nazionale della scuola: si tratta della gestione degli insegnanti in riferimento al Pof, alle assegnazioni del personale, anche Ata, alle sezioni staccate e ai plessi; ai criteri adottati nell’organizzazione il lavoro e l’articolazione dell’orario del personale, oltre che per l’individuazione del personale individuato come meritevole nelle attività retribuite con il fondo di istituto. Oltre che per l’assegnazione dei docenti alle classi, in riferimento ai quali non può discostarsi (se non motivandoli) dai parametri indicati dal Consiglio d’Istituto.

I sindacati della scuola, all’indomani dell’approvazione della riforma Brunetta, a turno cercarono di contrastarne l’applicazione. Soprattutto nelle parti di scelta esclusiva del ds sul personale ai veri plessi scolastici e su come utilizzarlo. Per un paio d’anni, i Confederali indicarono alle Rsu di non firmare i contratti d’istituto, qualora avessero riscontrato norme interne con i dirigenti posti “al di sopra” del contratto nazionale. Anche sulla gestione del personale.

Nel frattempo, però, in tribunale la stragrande maggioranza dei giudici davano ragione al legislatore ispirato dall’allora ministro Brunetta. E alla fine, anche i sindacati si misero l’anima in pace.

Ora, però, potrebbe tornare tutto in discussione. Prima, tuttavia, tocca risolvere anche la questione aperta dalla Consulta sui tre decreti attuativi della riforma, già diventati legge. Il parere del Consiglio di Stato sulla sentenza sembra agevolare il percorso, facendo salvi gli effetti prodotti dai provvedimenti nel frattempo. La prossima settimana si dovrebbe arrivare a un testo condiviso con gli enti locali sugli aggiustamenti.

A quel punto, potrebbe esserci il via libera ai principi della delega del ministro Marianna Madia e ai capitoli dell’accordo del 30 novembre sottoscritto con i sindacati, finalizzato a sbloccare la contrattazione, ferma dal 2009.

Per questi motivi, il Governo è a lavoro per definire un decreto che, seppure non si concretizzerà attraverso un vero e proprio corposo Testo Unico, avrà un impatto non meno rilevante. A quel punto la legge Brunetta, con diversi poteri gestionali accentrati sui dirigenti, avrà le ore contate.

L’educazione finanziaria degli adulti e le ricadute economiche

da Tuttoscuola

L’educazione finanziaria degli adulti e le ricadute economiche

Da anni il nostro paese è meta continua di migliaia di migranti che fuggono dalle guerre e dalla miseria. Una emergenza non facile da gestire in una situazione in cui nell’opinione pubblica incominciano a consolidarsi nuove e vecchie difficoltà. Al 1 gennaio 2015 risiedevano in Italia 60.795.612 abitanti, di cui 5.014.487 di cittadinanza straniera, di cui 2.641.641 donne (52,7%). Rispetto alla stessa data del 2014, la popolazione straniera è aumentata di 92352 unità (+1,9%) (XXV Rapporto IMMIGRAZIONE 2015- Caritas e Migrantes).

Nell’anno scolastico 2014/2015, gli alunni stranieri nelle scuole italiane sono 814.187, il 9, 2% del totale degli alunni. L’incidenza degli alunni stranieri sul totale della popolazione scolastica varia a seconda dei contesti territoriali, alcuni dei quali offrendo maggiori opportunità di lavoro, hanno una maggiore forza attrattiva, specialmente nei confronti degli immigrati che, in prospettiva, pensano di insediarsi stabilmente nel nostro paese. Il fenomeno migratorio ha dimensioni e durata epocale che richiedono un‘opera di lungo termine, di ampio respiro e di tanto lavoro. Continuare solo sulla strada delle porte aperte non è sufficiente.

Il problema richiede particolare attenzione ed è necessario considerare l’immigrazione anche sotto il profilo del percorso di inserimento scolastico in funzione della coesione sociale e nella prospettiva di un apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Oggi siamo di fronte ad una situazione che non ammette ulteriori ritardi nella realizzazione di questo processo di scolarizzazione se si vuole scongiurare il pericolo della perdita di energia, di risorse e di opportunità di crescita per tutti. Occorre educare gli “stranieri” nati in Italia o neo arrivati, creando strutture non solo di accoglienza ma di vita sociale perché è nel contesto di una società che apprende che si realizza la crescita individuale. Come ha osservato Mario Draghi in un intervento tenuto a Rimini nel lontano agosto 2009 “… i cittadini stranieri in Italia sono in media più giovani e meno istruiti degli italiani, ma partecipano in misura maggiore al mercato del lavoro e svolgono mansioni spesso importanti per la società e l’economia. Questo significa che la componente straniera della popolazione contribuirà in maniera significativa a determinare il livello e la qualità del capitale umano su cui si fonderà la nostra economia, condizionandone il ritmo di crescita”.

Apprendimento lungo l’arco della vita: un fatto ineluttabile

Il deficit formativo investe anche la nostra popolazione adulta, con particolare riferimento a quella in possesso, al massimo, del diploma di licenza media (52%). La formazione può concorrere a creare una popolazione di adulti informata e qualificata. Per questo è importante un apprendimento lungo tutto l’arco della vita, una formazione continua che non si fermi alla fascia della scuola dell’obbligo. Va proseguita e rafforzata la realizzazione di azioni e misure organiche tra tutte le istituzioni non soltanto delle competenze linguistiche e digitali ma anche di qualificazione e riqualificazione professionale in linea con gli obiettivi delineati in sede europea.

Gli sviluppi della collaborazione interistituzionale consentono non solo di replicare in modo più rapido e preciso a quanto si faceva prima, ma di fare cose nuove per un mondo nuovo per il quale siamo ancora poco attrezzati. E’ un problema di grande respiro al quale è bene prestare molta attenzione. La riorganizzazione a decorrere dal 1 settembre 2015 su tutto il territorio nazionale dei Centri provinciali per l’istruzione degli adulti (CPIA) può rappresentare un supporto stabile, strutturato e diffuso alla costruzione di individuali percorsi di apprendimento. Le attività per l’Innovazione dell’Istruzione degli Adulti (PAIDEIA), promosse dagli Uffici scolastici regionali sulla base delle Linee guida, elaborate dal Miur, concorrono a consolidare ed aggiornare le competenze richieste ai vari livelli lavorativi, a incentivare l’apprendimento in età adulta che sostenuto da mirate politiche perché intimamente connesso con lo sviluppo economico e con l’esercizio della cittadinanza attiva. Occorre agire sulla domanda delle persone, del sistema economico e dei territori per costruire una offerta formativa idonea a sviluppare questi bisogni.

Iscrizioni online: scopri come inviare la domanda in 5 mosse

da Tuttoscuola

Iscrizioni online: scopri come inviare la domanda in 5 mosse

Ci siamo, le iscrizioni online sono aperte. Dallo scorso 16 gennaio e fino al 6 febbraio sarà infatti possibile inviare le iscrizioni online. Poco più di una ventina di giorni, molto meno rispetto al mese e mezzo a disposizione le volte precedenti, per poter iscrivere i tuoi figli alle scuole primarie o secondarie (I e II grado). Tuttoscuola spiega come fare l’iscrizione online passo per passo.

1. Registrati
Non l’hai ancora fatto? Le registrazione è fondamentale per poter poi inviare la propria iscrizione online. Qui abbiamo spiegato come fare.

2. Accedi al servizio
Una volta effettuata la registrazione devi poi andare sul portale del Miur dedicato alle iscrizioni (www.iscrizioni.istruzione.it) e cliccare sul pulsante “Accedi al servizio” digitando le tue credenziali.

3. Presenta la tua domanda di iscrizione
A questo punto sei dentro all’applicazione e puoi cliccare sulla voce “Presenta una nuova domanda di iscrizione“. Inserisci il codice identificativo e le tue credenziali.

4.  La domanda online
Il modello di domanda online è composto da due sezioni. Nella prima ti è richiesto di inserire i dati anagrafici dell’alunno e altre informazioni necessarie per l’iscrizione. Nella seconda invece informazioni di specifico interesse della scuola prescelta (utili per esempio all’accoglimento delle domande o alla formazione delle classi). Alcuni dati richiesti sono obbligatori, in quanto necessari per l’iscrizione (prima sezione), altri facoltativi (seconda sezione). Inserite le informazioni richieste, puoi visualizzare la domanda per controllare che tutti i dati siano corretti.

5. Invia la domanda
Ultimo passo per completare la tua iscrizione online: arrivato a questo punto puoi inoltrare il modulo alla scuola cliccando su “Invia la domanda” e il gioco è fatto.  Una volta inviata alla scuola, la domanda non potrà più essere modificata. Se proprio ti sei accorto che nel modulo è presente qualche errore, puoi però sempre contattare la scuola destinataria alla quale è stata inoltrata la tua iscrizione che provvederà a restituirtela cosicché tu possa apportare tutte le modifiche del caso. L’istituto, inoltre, può sempre essere contattato anche per ricevere assistenza in caso di problemi con l’iscrizione online.

Da questo momento in poi riceverai via mail gli aggiornamenti sullo stato della tua domanda relativa alle iscrizioni online.L’iter della domanda può essere seguito anche attraverso il servizio di Iscrizioni on line cliccando sulla voce “Visualizza Situazione Domande“. La domanda può risultare quindi:

Inoltrata. Vuol dire che è stata ricevuta dalla scuola che provvederà a valutarla una volta che le iscrizioni saranno chiuse.
Accettata. Significa che la domanda di iscrizione online è stata accolta dalla scuola.
Smistata. In breve, vuol dire che in caso d’indisponibilità di posti o in assenza dei requisiti indicati nei criteri di accoglimento delle domande, la tua richiesta di iscrizione è stata inoltrata all’istituto che hai scelto come soluzione alternativa.
Restituita alla famiglia. Appare quando la scuola, appunto, restituisce la domanda relativa alle iscrizioni online alla famiglia che vuole modificarla.

Avviso 23 gennaio 2017, Prot. n. 311

Ministero dell’ Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e di formazione
Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione e la Partecipazione
Uff. II

Avviso 23 gennaio 2017, Prot. n. 311

Oggetto: Bando 1057/2016 “Consulte Provinciali Studentesche e partecipazione studentesca presso le scuole secondarie di II grado”. Elenco delle Istituzioni Scolastiche vincitrici

Nota 23 gennaio 2017, AOODGRUF 1161

Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali
Direzione Generale per le risorse umane e finanziarie
Ufficio IV

Alle Direzioni Generali
Sede
Ai Direttori degli U.S.R.
LL.SS.

Oggetto: Pubblicazione programmi Tirocini Brevi I sessione 2017.

Si trasmette, con preghiera di diffusione a tutto il personale, la nota del 13 gennaio 2017 del Ministero degli Affari Esteri – Direzione Generale per l’Unione Europea – Ufficio IV, concernente il sottoelencato bando:
I sessione 2017 programma Tirocini Brevi
Bruxelles dal 6 giugno al 16 giugno 2017
Scadenza 30 gennaio 2017

Si fa presente che ulteriori informazioni potranno essere assunte dagli interessati visitando il sito del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.

Copia della presente e dei relativi allegati sarà pubblicata sul sito del
Ministero.

IL DIRETTORE GENERALE
Jacopo GRECO


Ministero degli Affari Esteri
Direzione Generale per l’Unione Europea
Ufficio IV

Oggetto: PROGRAMMA TIROCINI BREVI – II SESSIONE 2017
Data: 13/01/2017

Si comunica che nel sito di questo Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale
(http://www.esteri.it/mae/it/ministero/servizi/italiani/opportunita/nella_ue/nelle_istituzioni/tirocini_breve_durata), è disponibile il bando relativo alla prima sessione 2017 del programma Tirocini Brevi, che avrà luogo a Bruxelles dal 6 al 16 Giugno 2017.
Si attira l’attenzione di Codeste Amministrazioni sui seguenti punti:
– i posti disponibili indicati per l’Italia per la seconda sessione 2017
sono 3;
– la Commissione europea provvede alle spese di alloggio a Bruxelles e ad eventuali costi di trasferimenti per visite al di fuori di Bruxelles;
– la Commissione non provvede al costo del biglietto aereo per/da
Bruxelles;
– le Amministrazioni di appartenenza devono assicurare la retribuzione e agli oneri previdenziali e assicurativi dei partecipanti al programma tirocini brevi;
– ciascuna Amministrazione può proporre una sola candidatura, inviando CV in formato europeo (redatto in inglese o in francese) e nulla osta;
– i candidati devono essere in possesso di tutti i requisiti richiesti –
consultabili sul sito di questo MAECI al percorso sopra indicato e i cv
devono esplicitare in modo chiaro e dettagliato l’esperienza professionale in settori che trattano materie afferenti all’Unione Europea. Deve, altresì essere chiaramente indicata l’anzianità di servizio;
– la data di scadenza per la presentazione delle candidatureè il 1
Febbraio 2017.

Cordiali saluti,
Cesare Borgia
M.A.E.C.I.
D.G.U.E. – IV