Musica e teatro, a Roma laboratori gratuiti per persone disabili

da Superabile

Musica e teatro, a Roma laboratori gratuiti per persone disabili

Presentato nella capitale il progetto RealizzARTI: la Città dell’Altra Economia a Testaccio ospiterà laboratori svolti con la collaborazione di due realtà del non profit. Rivolti a minori e adulti, saranno gratuiti

24 gennaio 2017

ROMA – Si è tenuta oggi, nella Sala “Renato Biagetti” della Città dell’Altra Economia, la conferenza stampa di presentazione di RealizzARTI – laboratori per persone con disabilità. Musica, teatro, motricità: questi i laboratori offerti gratuitamente ai cittadini negli spazi della Città dell’Altra Economia a Testaccio, grazie alla collaborazione tra l’Associazione di Volontariato Il Tulipano Bianco e la Coop. Oltre ONLUS. Rivolte a minori e adulti con abilità diverse, le attività sono progettate con l’intento di promuovere una reale inclusione sociale.

Alla conferenza stampa sono intervenuti Francesco Giordani (Presidente dell’Associazione Il Tulipano Bianco), Sabrina Alfonsi (Presidente del Primo Municipio), Emiliano Monteverde (Assessore alle Politiche Sociale e dei servizi alla Persona), Irene Antonelli (Presidente di Coop Oltre ONLUS) e Andrea Ferrante (Presidente del Consorzio Città dell’Altra Economia – CAE).

Proprio Ferrante ha aperto la conferenza stampa sottolineando il significato della scelta della Città dell’Altra Economia come sede dei laboratori. “Questo luogo è un laboratorio di pratiche volte alla costruzione del più importante dei diritti: il diritto al futuro per tutte le persone. Qui si realizza una reale e reciproca integrazione”.

I tre laboratori sono interamente finanziati dall’Associazione di Volontariato Il Tulipano Bianco con i fondi raccolti attraverso il 5×1000. Il Primo Municipio garantisce così un prezioso servizio alla cittadinanza, senza alcun onere a suo carico e completamente gratuito per l’utenza. “Progetti come RealizzARTI sono per noi un valore ineludibile della vita civile” ha dichiarato nel suo discorso il presidente dell’Associazione Francesco Giordani.

“Siamo stati particolarmente felici di patrocinare ed offrire la nostra collaborazione per la realizzazione di questo Progetto, che rappresenta un altro esempio del grande lavoro in rete che in questi anni abbiamo portato avanti nel nostro territorio, con particolare riferimento a progetti rivolti alla parte più fragile della popolazione” ha dichiarato Sabrina Alfonsi, la Presidente del Primo Municipio. “Siamo infatti assolutamente convinti che, in periodi come questo caratterizzati dalla scarsità di risorse, soltanto grazie alla stretta collaborazione con le numerose realtà del volontariato, dell’associazionismo e della cooperazione che costituiscono un tessuto di solidarietà assai prezioso per la nostra città, le istituzioni possano perseguire obiettivi significativi nel settore dei servizi alla persona”.

“Si tratta di laboratori di musica, teatro e attività motoria a favore di persone con disabilità, messi a disposizione di almeno 40 famiglie per la durata di un anno, organizzati in moduli di 3 ore così da andare incontro anche alle esigenze organizzative delle famiglie” commenta Emiliano Monteverde, l’Assessore alle Politiche Sociali del Primo Municipio. “È stata nostra cura informare di questa possibilità tutti i nostri utenti, e le attività entreranno a far parte del pacchetto di servizi offerti alle famiglie dei ragazzi disabili”. Il progetto, della durata di un anno, partirà il 30 gennaio.

Al via l’iter parlamentare del ddl 2128

da Superabile

Al via l’iter parlamentare del ddl 2128, fortemente sostenuto dal Coordinamento nazionale famiglie disabili gravi e gravissimi. Bellini: “Punto di forza sono le tutele reali, che mancano negli altri ddl presentati alle Camere. E’ dimostrato che rischiamo di vivere 17 anni meno degli altri: ma ancora non siamo riconosciuti. Una legge subito. E che sia una buona legge”

ROMA – Per alcuni “caregiver” quella di oggi, martedì 24 gennaio, è una “giornata storica”: inizia infatti l’atteso iter parlamentare del ddl 2128 sul riconoscimento giuridico del caregiver familiare in Italia e sulle relative tutele. Una delle leggi più attese dalle famiglie delle persone con disabilità, alcune di queste rappresentate dal Coordinamento nazionale famiglie di disabili gravi e gravissimi, che ha sostenuto questo disegno di legge, tra i tre diversi depositati in Parlamento, anche con la campagna “#unaleggesubito”. Ce ne parla Maria Simona Bellini, portavoce del Coordinamento.

Quali sono i punti di forza di questa proposta, rispetto alle altre in esame alle Camere?
I punti forti del sono soprattutto le tutele nei confronti del caregiver familiare, prima fra tutte quella della salute: un diritto sancito dalla Costituzione italiana e dalla Carta dei diritti dell’uomo, ma che in Italia viene quotidianamente violato, in quanto il caregiver familiare, privo di sostegni istituzionali adeguati, viene costretto a rinunciare alla propria salute, pur di garantire una vita dignitosa al proprio congiunto non autosufficiente. Anche le altre tutele previste riportano a questo aspetto fondamentale. Il prepensionamento per i Caregiver lavoratori permetterebbe – dopo decenni di doppio impegno, lavorativo ed assistenziale – di migliorare la loro qualità di vita e l’incremento delle aspettative di vita, ora ridotte – lo ricordiamo – anche di 17 anni rispetto alla normale popolazione, come risulta dalle ricerche del Premio Nobel Elizabeth Blackburn. Lo stesso vale per le tutele assicurative contro gli infortuni, il riconoscimento delle malattie professionali e la sostituzione, per motivi di salute, nel lavoro di cura ma, sempre e comunque, al proprio domicilio. Quest’ultimo aspetto è essenziale, anche per il rispetto della persona con disabilità, che ha il diritto di restare nella propria casa, nel proprio tessuto familiare, amicale e sociale, anche quando il Caregiver prevalente è impossibilitato.

A sostegno di questo disegno di legge, il vostro coordinamento ha lanciato, quasi due mesi fa, la campagna “#unaleggesubito”. Perché? In che consiste?
La campagna nasce proprio dall’esigenza di calendarizzazione del progetto di legge che, non dimentichiamolo, sancirebbe per la prima volta il riconoscimento giuridico del caregiver familiare e dell’alto valore sociale del lavoro di cura. Il ddl 2128 è stato presentato nel novembre 2015, ma dopo oltre un anno non ne era ancora cominciata la discussione nelle sedi istituzionali. La campagna ha proprio lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica e, soprattutto, il Parlamento italiano su questo aspetto, che ormai rappresenta un’emergenza sociale non più derogabile. Il bilancio è estremamente positivo: partita il 3 dicembre 2016, ha utilizzato i social network, diventando virale in pochissimi giorni. Sono state inviate, postate e pubblicate di foto di caregiver familiari, corredate dello slogan della campagna. Tutta la società civile si è mobilitata e non mancano le adesioni anche dall’estero, dove il problema ha trovato risposta già da molto tempo.

Quali sono, oggi, i bisogni principali dei caregiver familiari?
Direi che quelli fondamentali sono sei: primo, tutela della salute e del benessere psicofisico personali; secondo, libertà di scegliere il proprio domicilio come luogo preferenziale in cui svolgere il lavoro di cura; terzo, possibilità di vivere anche una vita propria, recuperando spazi di libertà personale ed evitando così anche le gravissime sindromi da burnout; quarto, riconoscimento della propria figura come riferimento preferenziale nella comunicazione tra operatori sanitari/sociali e persona con disabilità non in grado di autorappresentarsi; quinto, riconoscimento delle tutele, senza che però questo divenga alibi per sottrarre risorse alle persone con disabilità; sesto, che non sia permessa la discriminazione tra caregiver familiari residenti in territori diversi, come purtroppo accade ora alle persone con disabilità. Per questo, nulla deve essere demandato alle regioni: un diritto, a parità di bisogno, deve essere uguale per tutti i cittadini.

Un caso emblematico di violazione dei diritti del caregiver familiare?
Il caso più rappresentativo della disattenzione delle nostre istituzioni nei confronti dei Caregiver Familiare è la riforma previdenziale Fornero, tutta basata sull’allungamento delle aspettative di vita della popolazione. Già nel 2009 Elizabeth Blackburn aveva vinto il Premio Nobel per la Medicina con studi scientifici di tipo clinico (non in laboratorio quindi, ma sulla popolazione) che avevano dimostrato che i caregiver familiari sono sottoposti ad uno stress talmente gravoso da ridurne le aspettative di vita di anche 17 anni. Nonostante ne avessimo informato il Parlamento, nessuna salvaguardia è stata prevista nella normativa per i caregiver familiari, che quindi secondo lo Stato italiano devono comunque andare in pensione come tutti gli altri, dopo i 67 anni.

Cosa chiedete oggi?
Chiediamo con forza che la calendarizzazione del ddl 2128 non sia solamente un atto formale. La legge, dopo oltre vent’anni di ritardo, deve essere emanata al più presto e deve essere una buona legge. Nessuno si contenterà di un mero riconoscimento, magari con tanto di giornata nazionale dedicata: si devono produrre reali tutele immediatamente esigibili, quanto meno per le situazioni più gravose. Su questo punto non intendiamo scendere a compromessi. #unaleggesubito, quindi. E che sia una buona legge! (cl)

MOBILITA’ 2017/2018

MOBILITA’ 2017/2018: ANCHE QUEST’ANNO TRATTATIVA IN STALLO SU CHIAMATA DIRETTA

“Come è già accaduto l’anno scorso, anche per la chiusura del contratto sulla mobilità 2017/2018 i tempi si allungano. Nonostante l’esame degli articoli contenuti nell’ipotesi di contratto sia terminato, la trattativa è ancora ferma sull’accordo relativo all’individuazione delle competenze da utilizzare per la chiamata diretta dei docenti da parte dei dirigenti scolastici”. A dichiararlo è la Gilda degli Insegnanti.

“Si ripropone, dunque, lo stesso problema rimasto aperto lo scorso anno con la cosiddetta sequenza contrattuale che – spiega la Gilda – prevede un elenco di competenze molto lungo tra le quali i dirigenti scolastici dovrebbero individuare, in base al PTOF, le professionalità da inserire negli organici delle scuole. Ed esattamente come l’anno scorso, in questa lista risulta del tutto assente qualsiasi riconoscimento dell’anzianità di servizio”.

Scuola: vogliamo tornare agli anni dell’inserimento selvaggio?

Superando.it del 24-01-2017

Scuola: vogliamo tornare agli anni dell’inserimento selvaggio?

di Flavio Fogarolo*

«Se il nuovo Decreto sull’inclusione scolastica verrà definitivamente approvato così com’è – scrive Flavio Fogarolo – la scuola rimarrà da sola a gestire l’inclusione degli alunni con disabilità, con il rischio di tornare agli Anni Ottanta, al tempo del cosiddetto “inserimento selvaggio”. Succederà questo? Speriamo di no, ma di sicuro non basta cambiare i nomi e parlare oggi di inclusione, anziché di inserimento o integrazione, per cambiare la sostanza».

ROMA. Se verrà approvato definitivamente il nuovo Decreto sull’inclusione scolastica [lo “Schema di Decreto Legislativo recante norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità”, Atto del Governo n. 378, è stato approvato lo scorso 14 gennaio e sottoposto successivamente al Parere Parlamentare, N.d.R.], cambieranno radicalmente le funzioni dell’Azienda Sanitaria che verrà coinvolta solo nelle fasi iniziali di certificazione e redazione della cosiddetta “valutazione diagnostico-funzionale”, mentre avrà compiti molto vaghi, senza obblighi specifici, nel successivo processo di inclusione. In particolare non avrà più alcun ruolo nella definizione del PEI (Piano Educativo Individualizzato).
Secondo la Legge 104/92, attualmente in vigore, entrambi i documenti di programmazione individualizzata, PDF (Profilo Dinamico Funzionale) e PEI, devono essere redatti «congiuntamente» dalla scuola e dall’équipe psicopedagogica, con la collaborazione dei genitori; gli obblighi delle Aziende Sanitarie vengono ben definiti nel successivo Atto di Indirizzo del 1994 (DPR del 24 febbraio 1994). Il Legislatore di allora aveva ben chiaro che l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità non poteva essere affidata esclusivamente alla scuola – come era purtroppo avvenuto nei primi anni dell’inserimento – ma che andava garantito un contesto di reale condivisione tra i diversi soggetti coinvolti, da formalizzare in atti condivisi, come appunto il PDF e il PEI, nonché nella sottoscrizione di Accordi di Programma a livello locale.

Chi scrive è stato insegnante di sostegno negli Anni Ottanta, prima della Legge 104, e ricorda bene come funzionavano (o “non funzionavano”) le cose allora: senza nessun supporto da parte delle Aziende Sanitarie e con scarse competenze professionali nelle scuole (gli insegnanti di sostegno specializzati erano molto rari), spesso si improvvisava, cercando di fare meno danni possibile, tra tentativi ed errori. I genitori non protestavano, o protestavano poco, perché a loro sembrava già una grande concessione che i figli fossero accolti nella scuola del loro quartiere o paese, ma i risultati erano spesso davvero penosi.
Se nei successivi Anni Novanta le cose sono effettivamente cambiate – anche se non ovunque – molto lo si deve al diverso ruolo assunto finalmente dalle Aziende Sanitarie le quali, sulla spinta della Legge 104 e dell’Atto di Indirizzo del 24 febbraio ’94, hanno rivisto profondamente la loro organizzazione per svolgere i nuovi compiti assegnati, adeguando gli organici e le professionalità.
Negli ultimi anni, purtroppo, i Servizi delle ASL sono stati messi in grave difficoltà dall’aumento delle certificazioni, non solo di disabilità, a cui hanno dovuto far fronte con gli stessi organici di prima, se non ridimensionati, e hanno fatto sempre più fatica a svolgere efficacemente la funzione di supporto prevista dalla Legge 104. E così già da tempo viene segnalato che in diversi casi gli specialisti non partecipano agli incontri, o vengono a parlare di alunni che non vedono da anni, o convocano la riunione di mattina, presso la loro sede, cosicché, in pratica, solo l’insegnante di sostegno può partecipare, accentuando ulteriormente il processo di delega esclusiva nei suoi confronti. I tre incontri all’anno previsti dal DPR del febbraio ’94 per la definizione, il monitoraggio e la verifica del PEI nessuno li propone più da un pezzo, ma sempre più spesso salta anche l’unico incontro annuale.

Il problema c’è, è innegabile, e una riorganizzazione del supporto della ASL andava messa sul tappeto, ma la soluzione adottata dal Ministero con il nuovo Schema di Decreto è terribilmente semplicistica: la scuola si deve arrangiare; il PEI (il PDF è scomparso, com’è noto) diventa di competenza esclusiva della scuola, come il PDP (Piano Didattico Personalizzato) per i DSA (persone con disturbi specifici di apprendimento); viene di fatto abolito il GLHO (Gruppo di Lavoro Handicap Operativo) e agli operatori socio-sanitari si riserva un ruolo di “collaborazione”, com’è adesso per i genitori.
Ecco infatti cosa dice il primo comma dell’articolo 11 (Piano Educativo Individualizzato) dello Schema di Decreto: «Il Piano Educativo Individualizzato (PEI) di cui all’articolo 12, comma 5, della legge 5 febbraio 1992 n. 104, come modificato dal presente decreto, è elaborato ed approvato dai docenti contitolari o dall’intero consiglio di classe, tenuto conto della certificazione e della valutazione diagnostico-funzionale e del progetto individuale. La redazione avviene all’inizio dell’anno scolastico con la collaborazione dei genitori o del soggetto con responsabilità genitoriale, delle risorse professionali specifiche assegnate alla classe nonché degli operatori socio sanitari».
Da notare che gli operatori socio-sanitari non sono necessariamente gli specialisti dell’équipe: possono infatti essere anche gli addetti alla comunicazione all’assistenza che in certe Regioni si chiamano proprio OSS, Operatori Socio Sanitari. Di psicologi, neuropsichiatri infantili… sembra non serva più neppure la collaborazione.
Il radicale cambio di rotta è sottolineato poi dall’esplicita abrogazione (tramite l’articolo 5, comma 1, punto b dello Schema di Decreto) del comma 7 dell’articolo 12 della Legge 104/92, che prevedeva l’Atto di Indirizzo per definire i compiti delle Aziende Sanitarie. Non serve più, evidentemente.

A questo punto va precisato come non sia possibile equiparare le procedure di definizione del PEI a quelle del PDP, perché per gli alunni con DSA e per gli altri BES (alunni con Bisogni Educativi Speciali) si interviene quasi esclusivamente sugli aspetti metodologici e didattici, mentre i contenuti delle discipline rimangono sostanzialmente gli stessi. Non è così nel PEI: la personalizzazione, infatti, è alla base di ogni intervento e può essere, come è noto, anche estremamente spinta, ma in nessun sistema scolastico al mondo – sia esso basato su scuole speciali o sull’inclusione – è concepibile che gli obiettivi di un percorso personalizzato, quindi senza riferimenti a programma standard, siano definiti e valutati esclusivamente da chi ha anche il compito di perseguirli, senza nessuna condivisione, o supervisione, di soggetti esterni.
Affidare tutta la gestione solo alla scuola allontana sempre più l’obiettivo di “garantire” ovunque una vera inclusione di qualità, lasciando ancora spazio enorme alla fortuna: se trovi gli insegnanti bravi (e ce ne sono tanti) tutto funziona a meraviglia, se ti va male… peccato! Ritenta e sarai più fortunato, come con il Gratta e Vinci.

L’esclusione delle ASL, tra l’altro, è in contraddizione anche con l’articolo 2, comma 2 dello stesso Schema di decreto che dice: «Per gli alunni e gli studenti di cui al comma 1 [con disabilità certificata ai sensi dell’articolo 3 della Legge 104/92, N.d.R.] l’inclusione scolastica è attuata attraverso la definizione e la condivisione del Piano Educativo Individualizzato di cui all’articolo 11 parte integrante del progetto individuale di cui all’articolo 14 della legge 8 novembre 2000, n. 328, come modificato dal presente decreto». Ma di quale condivisione si parla, se secondo il citato articolo 11 il Piano Educativo Individualizzato è redatto esclusivamente dalla scuola? In altre parole, come si fa a dire che il PEI sia «parte integrante del progetto individuale di cui alla Legge 328/00», se sono due documenti redatti da soggetti distinti (la scuola da una parte, l’ente locale dall’altra) e nessun momento di confronto o condivisione è sostanzialmente previsto? Ma poi, quanti alunni con disabilità che frequentano le nostre scuole hanno un progetto individuale di questo tipo?
Il risultato, alla fine di questo percorso, è purtroppo che la scuola rimane da sola a gestire l’inclusione degli alunni con disabilità: torniamo agli Anni Ottanta, al tempo dell’“inserimento selvaggio”? Speriamo di no, ma di sicuro non basta cambiare i nomi e parlare oggi di inclusione, anziché di inserimento o integrazione, per cambiare la sostanza.

Disabilita’, lettera ai vescovi

Redattore Sociale del 24-01-2017

Disabilita’, lettera ai vescovi: “Sollecitare le istituzioni sul progetto di vita indipendente”

A inviarla la garante regionale per le persone disabili della Sicilia Giovanna Gambino: “Desideriamo che la nostra Chiesa possa contribuire a sollevare le coscienze dei nostri rappresentanti pubblici affinchè la disabilità non venga trattata come l’ultimo capitolo di cui occuparsi”.

PALERMO. Attivarsi concretamente con tutti gli strumenti a disposizione per sollecitare la regione ma anche gli enti locali siciliani a garantire i servizi essenziali per le persone disabili a partire da quanto prevede il Progetto individualizzato di vita. Con questo obiettivo la garante regionale dei disabili Giovanna Gambino e la pastorale per i disabili hanno inviato una lettera ai vescovi che nei giorni scorsi si sono riuniti all’interno della Conferenza Episcopale Siciliana (Cesi).

“Chiediamo ai vescovi che prendano una posizione – sottolinea Gambino – in merito al tema della disabilità sostenendo il nostro appello per sollecitare le istituzioni affinchè intervengano nell’applicazione dell’articolo 14 della legge 328. In riferimento alla normativa chiediamo anche l’istituzione di un fondo regionale per la disabilità come c’è nelle altre regioni. Purtroppo dobbiamo prendere atto che finora c’è stato un silenzio istituzionale assordante a tutte le nostre richieste. Desideriamo, quindi, che la nostra Chiesa possa contribuire proprio a sollevare le coscienze dei nostri rappresentanti pubblici affinchè la disabilità non venga trattata come l’ultimo capitolo di cui occuparsi”.

“Il Progetto Individualizzato di Vita secondo l’art 14 della L328/00 costituisce l’unico strumento portante del progetto di autodeterminazione di ogni persona con disabilità – riporta la lettera -, la carta dei suoi diritti e doveri di Cittadinanza Sociale, orientato verso il raggiungimento delle maggiore possibilità di de-istituzionalizzazione e del maggior avvicinamento possibile al suo domicilio, alla sua rete di protezione sociale, secondo la Convenzione Onu. Pertanto si richiede con forza alla Conferenza Episcopale Siciliana l’impegno nella richiesta alle autorità regionali competenti, alle istituzioni ed agli enti preposti, per l’applicazione, in tutto il territorio regionale, di tale articolo di legge e quindi del riconoscimento del progetto individualizzato di vita, prevedendo prioritariamente le economie necessarie allo scopo”.

A conclusione dei lavori della conferenza episcopale siciliana (Cesi), i vescovi hanno fatto un riferimento esplicito alla richiesta espressa nella lettera. “I Vescovi accolgono l’invito del garante delle persone con disabilità – riporta uno stralcio del documento divulgato oggi -, esortando l’assessore regionale alla famiglia perché si creino percorsi virtuosi a favore delle persone disabili, al fine di rendere più stabili e certi i servizi scolastici ed extrascolastici, redigere il progetto individualizzato di vita per l’autodeterminazione e l’inclusione sociale. Infine, auspicano che le autorità competenti siano sempre più presenti e coinvolte nelle fasi di programmazione delle iniziative a favore dei soggetti con disabilità”. (set)

Silvia Costa in Commissione Cultura al Parlamento Europeo

Fedeli: “Congratulazioni a Silvia Costa per il nuovo ruolo in
Commissione Cultura al Parlamento Europeo”

“Congratulazioni a Silvia Costa per il suo nuovo ruolo di coordinatrice del gruppo S&D in Commissione Cultura al Parlamento europeo. Un ruolo che ritengo di importanza strategica per orientare le scelte e affrontare le sfide nel nostro Paese e in Europa: istruzione, educazione, cultura devono essere linee guida di politiche di sviluppo dei paesi dell’Unione, sia in quanto singoli, sia in un’ottica integrata, perché investire sulle nuove generazioni vuol dire dare fiducia al futuro dell’Unione europea”. Così la Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Valeria Fedeli.

“Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, promozione di interventi innovativi,  consolidamento di una mentalità aperta ed europea nelle ragazze e nei ragazzi, anche attraverso programmi come l’Erasmus, che quest’anno compie 30 anni: partiamo da qui – aggiunge Fedeli –  per rilanciare a livello economico, sociale e culturale un’Europa in cui la cultura non deve essere mai tratto marginale ma elemento identitario costitutivo e fondante. Faccio un in bocca al lupo a Silvia Costa per questo nuovo percorso”.

Mobilità scuola

Mobilità scuola – Mascolo (Ugl):
“serve chiarezza e trasparenze su applicazione ccni”
eliminare assegnazione sugli ambiti

“Siamo oramai prossimi alla sottoscrizione del nuovo ccni sulla mobilità del personale della scuola, ma ancora una volta alcuni passaggi risultano essere poco chiari e di complessa applicazione”.
Lo afferma il segretario generale dell’ugl scuola, Giuseppe Mascolo.
“Per il personale docente – continua – si prevede un nuovo sistema di assegnazione che non elimina gli ambiti, ma li bypassa solo in parte e, di conseguenza, anche questa volta le problematiche irrisolte saranno numerose. Questa mattina, a seguito delle numerose segnalazioni pervenute, in particolar modo dalla calabria, abbiamo inviato una missiva al miur, chiedendo di chiarire le modalità di valutazione della laurea di II° livello in discipline musicali, indirizzo interpretativo-compositivo, che in passato gli ust hanno valutato in maniera difforme”.
“Auspichiamo, quindi – conclude il sindacalista – che semplificando e chiarendo l’applicazione dell’iter della mobilità del personale della scuola, si possa procedere nel più ampio rispetto del vigente dettato normativo e contrattuale, evitando inutili e costosi procedimenti giudiziari”.

Seregno: la scuol@ è digitale

Il 24 e 25 gennaio 2017

L’AMMINISTRAZIONE DI SEREGNO ALL’APPLE EDUCATION LEADERSHIP SUMMIT A LONDRA

Si parla del progetto «Seregno: la scuol@ è digitale» come best practice europea

Il Sindaco Edoardo Mazza e l’Assessore all’istruzione e all’innovazione digitale Ilaria Anna Cerqua sono stati invitati  all’Apple Education Leadership Summit 2017, in programma da martedì 24 a Londra, per parlare  del progetto «Seregno: la scuol@ è digitale» tra le migliori esperienze nell’ambito delle progettualità europee.

«C’è grande soddisfazione per l’invito ricevuto – ha  precisato il Sindaco – che consideriamo un riconoscimento per tutta la nostra Città e per una politica che ha messo al centro l’educazione dei giovani».

Due saranno i momenti di presentazione del progetto: martedì 24 gennaio all’interno della sessione Local & Central Government presso la struttura The Crystal e il 25 gennaio presso la sede londinese della Apple, in Hannover St.

«Abbiamo intrapreso la strada giusta  – ha dichiarato l’Assessore Ilaria Anna Cerqua sostenendo il passaggio dalla didattica tradizionale a quella digitale, rendendo l’apprendimento più personalizzato e interessante, con un modello che prevede siano gli studenti i protagonisti del loro successo formativo».

Il progetto «Seregno: la scuol@ è digitale» si è valso di uno stanziamento di circa 800.000 mila euro, messi a disposizione dalla Giunta comunale. Grazie a queste risorse le scuole sono connesse con la fibra ottica e navigano con banda ultralarga,  tutte le aule sono dotate di Lavagne multimediali o Monitor Touch, e tutti gli studenti delle scuole secondarie di primo grado hanno in dotazione un tablet.


Ammissione credito scolastico e promozione: punto per punto come cambierà la maturità dal 2018

da Il Sole 24 Ore 

Ammissione credito scolastico e promozione: punto per punto come cambierà la maturità dal 2018

di Laura Virli

È approdato alla Camera lo schema di decreto legislativo per la revisione delle modalità di svolgimento degli esami di Stato per la scuola secondaria di secondo grado a partire dall’anno scolastico 2017-2018, come previsto dal comma 181 lettera I 2) della legge 107. Un passo verso il cambiamento promesso dalla “Buona scuola”. Il meccanismo attuale, introdotto nel lontano 1997 dalla legge 425, evidenzia ormai molteplici criticità e il voto finale dei diplomati non è più considerato dalle università indice di una buona preparazione.
Dalla lettura dello schema di decreto traspaiono modifiche consistenti e tali da operare un restyling profondo al volto dell’esame di Stato. Non cambierà, invece, la composizione della commissione che attualmente è presieduta da un presidente esterno all’istituzione scolastica e composta da tre membri esterni e da tre membri interni.
Ma proviamo a sintetizzare le differenze tra la procedura odierna e quella che la ministra Fedeli ha inviato al Parlamento.
Ammissione agli esami
Varie le novità, tra cui l’introduzione delle prove Invalsi nel corso del quinto anno, ferme restando le rilevazioni già effettuate nella classe seconda, e l’ammissione agli esami più “facile”. La riforma prevede, infatti l’ammissione con la media del sei, compreso il voto di condotta, e non più con almeno la sufficienza in tutte le discipline. Quindi potrà capitare che uno studente con tre in matematica e 10 in educazione fisica e in condotta sarà ammesso agli esami. Ma, al di là delle polemiche che potranno sorgere su tale questione, riassumiamo le quattro condizioni necessarie per poter essere ammessi agli esami:
a) aver frequentato almeno i tre quarti del monte ore previsto dal curricolo di studi;
b) avere ottenuto nello scrutinio finale la media del 6;
c) aver partecipato alle attività di alternanza scuola lavoro previste dalla legge 107 (200 ore nei licei e 400 nei tecnici e professionali da svolgere nel triennio);
d) aver partecipato alle prove Invalsi (con qualsiasi esito) a carattere nazionale nel corso del quinto anno, “computer based” e adattive, volte a verificare i livelli di apprendimento conseguiti in tre materie: italiano, matematica e inglese.
Anche per i candidati esterni l’ammissione all’esame è subordinata, oltre al superamento dell’esame preliminare, alla partecipazione alle prove Invalsi presso la scuola statale o paritaria dove sosterranno l’esame di Stato. Ugualmente, gli studenti con disabilità e Dsa parteciperanno alle prove standardizzate, pur con i necessari adattamenti alle prove predisposti dal consiglio di classe. Saranno invece ammessi senza l’espletamento delle prove Invalsi, gli studenti frequentanti le scuole italiane all’estero.
Il credito scolastico
Dal 2018 il percorso formativo dello studente acquisterà più peso in quanto il credito scolastico anziché valere 25 punti, potrà arrivare fino a 40 punti, 12 al terzo anno, 13 al quarto e 15 al quinto anno. E, di conseguenza peserà meno l’esame: 20 punti ciascuno per i due scritti – Italiano e prova d’indirizzo – e per il colloquio.
Le prove scritte
Tre le novità importanti:
a) introduzione di griglie con punteggi per la correzione al fine di uniformare i criteri di valutazione delle commissioni d’esame;
b) obbligo di superare due sole prove scritte a carattere nazionale (italiano e prova di indirizzo;
c) punteggio massimo totale di 40 punti per le due prove scritte (ognuna delle due prove scritte massimo 20 punti) contro i 45 punti della situazione odierna.
Salterà quindi la controversa terza prova, quella più temuta e criticata per le troppo differenti prove confezionate la mattina stessa dalle singole commissioni.
Dovrebbe cambiare, ma lo stabilirà un successivo decreto del ministro, la classica struttura della prova scritta di Italiano attualmente svolta sotto forma di saggio breve/articolo di giornale, analisi del testo, tema storico e di attualità. Nello schema di decreto legislativo si legge infatti che la prova di Italiano consisterà nella redazione di un testo di tipo argomentativo riguardante temi di ambito artistico, letterario, filosofico, scientifico, storico, sociale, economico e tecnologico, e che potrà essere strutturata in più parti, anche per consentire la verifica di competenze diverse, in particolare la comprensione degli aspetti linguistici, espressivi e logico-argomentativi, oltre la riflessione critica da parte del candidato.
Il colloquio
Il colloquio, che avrà un punteggio massimo pari a 20 (non più 30 punti), sarà volto ad accertare il conseguimento del profilo culturale, educativo e professionale dello studente e la sua capacità argomentativa e critica a partire da un testo o da un documento scelto tra alcune proposte elaborate dalla commissione. E’ quindi la commissione a scegliere, e non lo studente a decidere, come iniziare il colloquio. Viene finalmente abbandonata l’esposizione della cosiddetta “tesina” preparata dallo studente per iniziare il colloquio, quasi mai frutto di un reale lavoro di ricerca, mentre viene lasciato spazio all’esposizione delle attività svolte in alternanza mediante una breve relazione e/o un elaborato multimediale.
Il bonus e la lode
Cambia anche l’attribuzione del bonus di 5 punti a disposizione delle commissioni per integrare il punteggio. Nella procedura attuale può essere attribuito ai candidati in possesso di almeno 15 punti di credito scolastico e 70 tra prove scritte e colloquio orale; con la riforma sarà possibile attribuire il bonus soltanto a coloro che abbiano ottenuto almeno 30 punti di credito e 50 punti nelle prove d’esame.
Sarà più facile avere la lode. La commissione, infatti, potrà motivatamente attribuire la lode a coloro che conseguiranno il punteggio massimo di 100 punti senza aver fruito del bonus, a condizione che, come nella situazione odierna, gli studenti abbiano conseguito il credito scolastico massimo e il punteggio massimo previsto per ogni prova d’esame. Ma non sarà più necessario, essere stati promossi nell’ultimo triennio del ciclo di studi con voti superiori o uguale a 8 in tutte le discipline.
Documento di valutazione finale
L’esito finale dell’esame sarà sempre espresso in centesimi, ma, per uniformare i giudizi delle commissioni a livello nazionale, al diploma finale è allegato il Curriculum dello studente con i livelli di apprendimento conseguiti nella prove Invalsi (distintamente per ciascuna disciplina oggetto di rilevazione), le competenze, le conoscenze e le abilità anche professionali acquisite e le attività culturali, artistiche e di pratiche musicali, sportive e di volontariato, svolte in ambito extra scolastico nonché le attività di alternanza scuola-lavoro ed altre eventuali certificazioni conseguite.
Le università, sulla base della propria autonomia, potranno tenere a riferimento per l’accesso ai percorsi accademici, i livelli di competenza conseguiti nelle discipline oggetto delle prove Invalsi. Apprezzabile lo sforzo del Governo su questo fronte ma riteniamo altresì necessaria la definizione di standard nazionali dei livelli di competenza almeno nelle aree disciplinari fondamentali. E ancora più urgente ricondurre ad unità le prove d’accesso all’università con le prove di certificazione delle competenze acquisite in ambito scolastico.

Verifica conclusiva del primo ciclo, cancellate le prove Invalsi

da Il Sole 24 Ore 

Verifica conclusiva del primo ciclo, cancellate le prove Invalsi

di Alessandra Silvestri

Cambiano gli esami di Stato conclusivi del I ciclo due le novità: via i test Invalsi dalle prove d’esame, il presidente della commissione, che prima era un dirigente scolastico di un altro istituto, sarà il dirigente della scuola stessa.
Esami conclusivi del I ciclo d’Istruzione: com’erano e come saranno
La normativa vigente (Dpr 122/2009) prevede per gli esami di Stato conclusivi del I ciclo d’istruzione quattro prove scritte, definite a livello di singola istituzione scolastica (italiano, matematica, inglese, seconda lingua straniera oltre ad una prova scritta a carattere nazionale di italiano e matematica predisposta dall’Invalsi) ed infine un colloquio pluridisciplinare. La valutazione di ciascuna prova è espressa dalla commissione in decimi. La valutazione della prova nazionale Invalsi è invece definita sulla base di una griglia valutativa predisposta dall’Istituto nazionale di valutazione stesso. Il voto finale scaturisce dalla media aritmetica tra i voti conseguiti nelle singole prove e quello di ammissione all’esame. Il governo, con l’atto 384 del 15 gennaio scorso “Schema di decreto legislativo recante norme in materia di valutazione e certificazione delle competenze nel primo ciclo ed esami di Stato” emana uno schema di Dlgs che recepisce una delle nove deleghe della legge 107/2015. Esso semplificherebbe notevolmente gli esami conclusivi del I ciclo riducendo le prove scritte da quattro a tre (italiano, matematica e lingue, prova divisa in due sottosezioni – I e II lingua) e da un colloquio. Il voto finale è espresso dalla Commissione non più come media aritmetica, ma tenendo conto delle prove d’esame e del percorso valutativo dello studente. Resta fermo il non superamento dell’esame per gli alunni che conseguono una valutazione finale complessiva inferiore a sei decimi.
Le prove Invalsi
Le tanto temute prove Invalsi, più volte segnalate dai presidenti di commissione come un grave appesantimento dell’esame per gli studenti e per i componenti delle commissioni, data la distanza con i programmi svolti e la macchinosità della correzione, escono dalla porta, ma “rientrano dalla finestra”, assumendo un valore ben più importante che nel passato: verranno sostenute ad aprile, non faranno media con il voto finale, ma costituiranno requisito imprescindibile per l’accesso all’esame di Stato conclusivo del I ciclo. L’esito delle stesse sarà riportato in un’apposita sezione del documento di attestazione delle competenze che accompagnerà il diploma. Varia, inoltre, il numero delle prove, a Italiano e Matematica si aggiunge, infatti, il test d’Inglese. Se da un lato gli studenti possono tirare un sospiro di sollievo perché l’esito dei test Invalsi non farà media, dall’altro non avranno scampo: dovranno comunque sostenere le prove (anche se in un momento diverso dall’esame) e l’esito delle stesse li accompagnerà lungo tutto il percorso formativo, essendo lo stesso riportato nell’attestazione delle competenze.
Non più ’’certificazione’’ ma ’’attestazione’’ delle competenze del I primo ciclo
Il bagaglio con cui gli studenti che escono dalla scuola secondaria di I grado e fanno il loro ingresso alla secondaria di II grado, conterrà, oltre al sudato Diploma, anche il documento di attestazione delle competenze. Il termine ’’attestazione’’ manda in soffitta il vecchio ’’certificazione’’, atteso che una vera e propria certificazione sia rilasciata da un ente esterno, mentre, in questo caso, è la commissione interna a documentare le competenze acquisite dagli studenti. Il modello per l’attestazione scaturisce da una sperimentazione del 2014/15 che ha coinvolto circa 3.000 scuole del I ciclo. Tale sperimentazione era, appunto, volta a elaborare un modello nazionale per l’attestazione delle competenze trasversali e delle competenze-chiave di cittadinanza da rilasciare al termine della terza classe di scuola secondaria di primo grado.
La commissione e il presidente
Resta immutata la composizione delle Commissioni d’esame, articolate in sottocommissioni, costituite dai docenti delle classi terze dell’istituzione scolastica. Le funzioni di presidente, invece, sono svolte, per ogni istituzione scolastica, dal dirigente scolastico della scuola stessa o, in caso di reggenza , assenza o impedimento, da un docente collaboratore del dirigente individuato ai sensi dell’articolo 25, comma S, del decreto legislativo 30 marzo 200 l n. 165.

Poche variazioni di rilievo in arrivo nella primaria

da Il Sole 24 Ore 

Poche variazioni di rilievo in arrivo nella primaria

di Francesca Lascialfari

L’atteso decreto legislativo in attuazione della delega al Governo, contenuta nell’articolo 1, comma 181 lettera i), della legge 107/2015, sul riordino delle disposizioni di legge sulla valutazione degli studenti, è stato trasmesso pochi giorni fa alle Camere per l’espressione del parere da parte delle Commissioni parlamentari competenti.
Analizzeremo qui quanto emerge dalla lettura dello schema di decreto in merito alla valutazione degli alunni nella scuola primaria.
Lo scenario
Dopo che negli ultimi mesi si è registrato un acceso dibattito sul tema della opportunità dei voti e delle bocciature, si constata nessuna sostanziale variazione è intervenuta a questo proposito. Rimangono, infatti, le valutazioni in decimi per le discipline oggetto di studio e il giudizio formulato dai docenti contitolari della classe per quanto riguarda il comportamento.
Nessuna variazione si registra neppure per quanto riguarda l’eventuale non ammissione degli alunni alla classe successiva: esattamente come era finora, «Nella scuola primaria, i docenti della classe in sede di scrutinio, con decisione assunta all’unanimità, possono non ammettere l’alunno alla classe successiva solo in casi eccezionali e comprovati da specifica motivazione».
Nei fatti, le rarissime non ammissioni alla classe successiva per gli alunni della scuola primaria vengono già oggi deliberate esclusivamente in presenza di particolari situazioni di criticità, di rilevanza tale da compromettere gravemente il processo di apprendimento in atto, prefigurando oggettivamente l’impossibilità di conseguire gli obiettivi formativi previsti. Inoltre, esse rappresentano sempre la conclusione di un percorso di condivisione con la famiglie.
Per quanto riguarda la valutazione periodica e finale di tutti gli alunni, essa viene effettuata collegialmente dai docenti contitolari della classe dopo ever acquisito elementi conoscitivi sull’interesse e il profitto di ciascun alunno da quei docenti che svolgono attività di ampliamento dell’offerta formativa. Infine, la nuova norma fa chiarezza sul ruolo del dirigente scolastico, che presiede le operazioni di scrutinio.
Invalsi
Lo schema di decreto conferma che le azioni relative allo svolgimento delle rilevazioni nazionali costituiscono per le scuole attività ordinarie d’istituto. Nella scuola primaria, le prove vengono effettuate in seconda e quinta, proprio come è accaduto finora. La novità consiste nell’introduzione della prova di inglese nella quinta classe: l’Invalsi predispone test di posizionamento sulle abilità di comprensione e uso della lingua, coerenti con il Quadro comune europeo di riferimento.
Al termine della scuola primaria, è poi previsto il rilascio di una attestazione di competenze nella quale si descrive lo sviluppo dei livelli di competenze trasversali e delle competenze chiave progressivamente acquisite dagli alunni, anche in chiave orientativa.
Come spiegato nella relazione illustrativa del Dlgs, «il termine “attestazione” viene preferito a “certificazione”, ancorché utilizzato dalla legge 107/2015, in considerazione del fatto che una vera e propria certificazione delle competenze acquisite presuppone il rilascio esclusivamente da parte di ente esterno certificatore».

Il piano incompiuto delle riforme

da Il Sole 24 Ore 

Il piano incompiuto delle riforme

di Antonello Cherchi

La flessibilità c’è stata, le riforme meno. Flessibilità in cambio di riforme: questo aveva chiesto il Governo italiano alla Ue a partire dal 2015. Scambio accordato nei termini dello 0,5% del Pil, ovvero circa 8 miliardi di euro di “deviazione” rispetto agli impegni chiesti da Bruxelles nel raddrizzamento dei conti pubblici. Il massimo concesso alla clausola delle riforme, poi declinata nel programma nazionale di misure varato nella primavera scorsa come parte integrante del Def, il Documento di economia e finanza.

Di quel programma, almeno relativamente alle scadenze da centrare nel 2016, una parte è stata portata a termine, ma un’altra – pure fondamentale per tener fede agli impegni con l’Unione, che proprio in questi giorni ha chiesto all’Italia nuove correzioni di rotta – è ancora in cantiere o è comunque capitolata.

È il caso della riforma istituzionale, che doveva riorganizzare il Senato e mettere fine al bicameralismo perfetto, nonché rivedere la ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni previste dal Titolo V della Costituzione. La riforma è arrivata in porto, ma il referendum del 4 dicembre l’ha definitivamente (almeno per il momento) archiviata, con le ripercussioni che si conoscono sulle sorti del Governo Renzi. Tra gli interventi previsti dal programma nazionale di riforma (Pnr) c’è anche il progetto di legge per la prevenzione dei conflitti d’interesse, misura che è invece ancora in itinere, poiché è stata approvata dalla Camera a febbraio e ora è all’esame del Senato.

La parte più deficitaria del cronoprogramma messo a punto dall’allora Governo Renzi, ma a cui l’attuale Esecutivo guidato da Paolo Gentiloni ha dichiarato di volersi in gran parte rifare, è quella relativa alla giustizia. L’Europa aveva vivamente raccomandato al nostro Paese di intervenire in modo significativo sui processi, così da ridurne i tempi e aumentare l’efficienza del sistema. Sulla materia il Governo aveva, pertanto, approntato un fitto calendario, che prevedeva la riforma del processo penale e della prescrizione, interventi sul civile , sulle crisi d’impresa e sulla magistratura onoraria. Solo il disegno di legge sui giudici di pace e sulle altre figure di magistrati non togati è, però, arrivato in porto. Gli altri sostano ancora in Parlamento: tutti hanno all’attivo l’approvazione di almeno un ramo del Parlamento, tranne quello contro la criminalità organizzata, ancora al primo esame del Senato, e quello sulle crisi d’impresa, che è stato stralciato.

Altra casella che premeva a Bruxelles e che, invece, è ancora vuota è quella sulla concorrenza. Il disegno di legge per il 2015 langue alle Camere: presentato ad aprile 2015, è stato approvato da Montecitorio a ottobre dello stesso anno e da allora è all’attenzione di Palazzo Madama. Di quello per il 2016, poi, non c’è proprio traccia.

Capitoli particolarmente importanti per la Ue erano quelli del lavoro, della pubblica amministrazione, della spending review, della formazione e del fisco. In questi settori la gran parte del lavoro è stata portata a termine, anche se si tratta ora di metterla in pratica. Il Jobs act è la riforma più avanzata: varati i decreti attuativi previsti dalla delega, nel 2016 il Governo ha portato a termine gli ulteriori provvedimenti applicativi, quelli previsti dal decreto legislativo 150 del 2015: la definizione delle politiche attive per il lavoro, il trasferimento di risorse dal ministero del Lavoro all’Isfol e all’Anpal, la definizione dello statuto di quest’ultima Agenzia. Dopo la recente sentenza della Corte costituzionale, però, resta aperta la partita per i referendum sui voucher e sugli appalti, mentre non è passato quello sull’articolo 18.

Sempre la Consulta ha scombussolato le carte della riforma Madia della pubblica amministrazione, facendo venire meno i decreti attuativi sulla dirigenza e sul trasporto pubblico locale. Gli altri atti applicativi sono, invece, arrivati in porto, anche se a tre di essi, comunque coinvolti dal verdetto della Corte, si dovrà rimettere mano.

Seppure in zona Cesarini – il 14 gennaio, un giorno prima che scadesse la delega – il Governo ha comunque varato i decreti attuativi della Buona scuola, che adesso devono aspettare i vari pareri.

Nel 2016 è stato affrontato anche il discorso spending review, con interventi per limare le spese pubbliche. Minori successi sono stati, invece, conseguiti sul versante fiscale, a cominciare dall’annunciata riforma del Catasto, ormai da iscrivere alle grandi incompiute.

Quel mondo classico che svela l’inganno nascosto nelle parole

da la Repubblica

Quel mondo classico che svela l’inganno nascosto nelle parole

Fin dall’antichità il sapere umanistico ha aiutato gli uomini a combattere il veleno dell’antipolitica e la degenerazione del discorso pubblico La conoscenza non si concilia con il facile consenso e la chiacchiera imperante

Ivano Dionigi

Novum per i classici era sempre qualcosa di dirompente e traumatico: “nova” la terra che gli Argonauti cercavano con la loro spedizione sacrilega; “novus” l’uomo che per primo nella propria famiglia ricopriva una magistratura; “nova” la religione cristiana che in nome della fede interiore rifiutava i riti esteriori della “religio civilis”. Quale è il nostro “novum”? Non quello che campeggia su copertine e classifiche; non quello delle periodiche proposte politiche che non riescono a interessare né giovani né vecchi; non quello dell’amministrazione della cosa pubblica esibita, più che gestita, a colpi di “like”; non quello della gridata e nominalistica discontinuità; e neppure quello della improvvisata originalità, che, come dice Berenson, «è propria degli incapaci». Queste sono novità che alimentano la cronaca, non il nuovo che fa la storia.

Novum è ben altro: è ciò che imprevedibilmente e irreversibilmente segna il destino individuale e collettivo. E se non siamo vigili, lo vediamo non in faccia, ma di spalle, quando se n’è già andato.

Il novum possiamo coglierlo nell’avvento ormai conclamato di due “barbari”, nelle due rivoluzioni che rischiano di mettere in ginocchio il vecchio ordine politico, economico, etico. La rivoluzione sociale, ovvero l’arrivo di nuovi popoli in cerca di quella giustizia che noi abbiamo rimosso dal nostro lessico.

La rivoluzione tecnologica, ovvero l’impero dei media digitali, che porta con sé inedite possibilità ma anche altrettante domande. Questo passaggio dall’analogico al digitale ha segnato – paradossale contrappasso – un salto dalla socialità del noi alla solitudine dell’io.

Per conoscere questo novum abbiamo bisogno di politica e di cultura, di statisti (perché diciamo leader?) e di maestri. Figure fuori moda che preferiscono la verità alla consolazione.

Nel Protagora di Platone leggiamo che gli uomini morivano perché si facevano la guerra, perché «conoscevano soltanto la tecnica ( demiourgiké téchne) ma non l’arte della politica ( politiké téchne) », la sola che può salvare la vita degli uomini. Cicerone, facendo l’esegesi di quel mito platonico, esalta la parola politica per eccellenza: res publica, “la cosa di tutti”; in opposizione alla res privata, “la cosa del singolo”. Grazie al governo della res publica, il civis – leggiamo nel Sogno di Scipione – si assicura «un posto riservato in cielo». Perché la politica è la responsabilità più nobile. Messaggio pressoché incomprensibile per noi, arrendevoli al linguaggio sin troppo facile e contronatura dell’antipolitica. Contronatura: perché noi “animali politici” siamo destinati a edificare la polis, e, dice Aristotele, «chi vive fuori dalla comunità civile è o bestia o dio».

L’università, una delle istituzioni più prestigiose e più credibili del Paese, ha oggi una responsabilità non riducibile a codificata ed esangue mission. Noi professori siamo chiamati a professare ( profiteri) l’etica della competenza e l’etica del rigore intellettuale e morale, che non si concilia con la doxa rumorosa, la chiacchiera imperante, il facile consenso.

Due i compiti tra i principali e più urgenti. In primo luogo quello di ricordare la bellezza, la prerogativa e il potere della parola: quel logos che ci distingue dagli animali ( a- loga) e che, nella relazione con l’altro, si fa ponte:

dia- logos appunto. Oggi la parola rischia di non esserci amica: ridotta a strumento, slogan, merce, finisce per assumere una sciagurata autonomia dalla realtà e di logorarsi in una crisi di entropia. Come lamentava Frontone, un oratore del II sec. d.C., ci accontentiamo delle parole che tro- viamo «per via»: le parole «ovvie » ( obvia).

Abbiamo bisogno di una ecologia linguistica, che segni la differenza tra “vocaboli” e “parole”; abbiamo bisogno di una pentecoste laica. Perdura l’eco del lamento di Sallustio: «Abbiamo smarrito i veri nomi delle cose»; e ci suona sinistramente familiare l’atto di accusa di un personaggio dell’Agricola di Tacito contro la voracità imperialistica dei Romani: «Il depredare, il massacrare e il rapinare con falsi nomi li chiamano “impero” ( imperium), e dove fanno il deserto lo chiamano “pace” ( pax) ». Uso mai dismesso quello di creare neologismi che sottendono false equivalenze e usi mistificati: pensiamo ai nostri “flessibilità” per disoccupazione, “economia sommersa” per lavoro nero, “guerra preventiva” per aggressione. La stessa parola “trasparenza” nella sua ipertrofia regolamentare non è forse il sintomo di quella cattiva coscienza che s’illude di creare la virtù per decreto?

Nel tempo della retorica totale – dove i colpi di Stato si fanno a suon di parole prima ancora che di armi –, la vera tragedia è che i padroni del linguaggio mandino in esilio i cittadini della parola. In questa prospettiva la filo-logia, «la cura e l’amore per la parola», trascende il significato di disciplina specialistica e si eleva a impegno severo e nobile di ogni uomo che non intenda né censurare né censurarsi. Altro compito dell’università: promuovere un’alleanza tra humanities e tecnologie. A chi sostiene che la scienza e le tecnologie sono destinate a scalzare le humanities e che i problemi del mondo si risolvono unicamente in termini ingegneristici e orientati al futuro, si dovrà replicare che, se la scienza e le tecnologie hanno l’onere dell’ars respondendi, della risposta ai problemi del momento, il sapere umanistico ha l’onere dell’ars interrogandi, della domanda. Arte più difficile e decisiva, perché ha la responsabilità di ricapitolare e interpellare gli snodi del pensiero: vale ricordare che il paradigma della dimenticanza, che alimenta la tecnica, non può escludere quello della memoria che alimenta le idee; che la cultura deve governare la politica, l’economia e la tecnica; che l’oblio del passato e l’affidamento esclusivo agli algoritmi ci consegnano alla monocultura iper e microspecialistica, quando non addirittura a una sorta di monoteismo tecnologico; che alla scuola spetta formare cittadini digitali consapevoli, come ha fatto con i cittadini agricoli, industriali, elettronici. Ricordare col Petrarca che la condizione dell’uomo europeo è quella di «rivolgere lo sguardo contemporaneamente avanti e indietro» ( simul ante retroque prospiciens);

che la verità si sottrae al presente e si tende tra “il già” e “il non ancora”; che tramite, memoria, eredità di ieri sono punti di riferimento indispensabili per conoscere e riconoscere i “barbari” di oggi. Proprio i classici possono soccorrerci e aprirci il tempio del tempo: perché – come ha ricordato Umberto Eco – ci allungano la vita; perché – come ci ha illuminati Osip Mandel’stam– il classico deve essere sentito non come ciò che è già stato ma «ciò che ancora deve essere». Perché i classici, al pari della scienza e della tecnologia, hanno il futuro nel sangue.

Se questa è cultura umanistica

da la Repubblica

Se questa è cultura umanistica

di Tomaso Montanari

Insieme agli altri decreti attuativi della cosiddetta Buona scuola, è appena arrivato alla Camera anche quello «sulla promozione della cultura umanistica, sulla valorizzazione del patrimonio e delle produzioni culturali e sul sostegno della creatività». Per la redazione di questo testo, la ministra senza laurea né maturità Valeria Fedeli si è avvalsa della collaborazione dell’ex ministro, ex rettore, professore emerito e plurilaureato ad honorem Luigi Berlinguer: e il risultato dimostra che il punto critico non è il possesso di un titolo di studio.

Sul piano pratico, la principale obiezione al decreto (che tra 60 giorni sarà legge) è che si tratta di un provvedimento a costo zero (art. 17, comma 1): e dunque anche a probabile efficacia zero. Ma, una volta che se ne considerino i contenuti, c’è da rallegrarsene. L’articolo 1 chiarisce i principi e le finalità del provvedimento: «il sapere artistico è garantito agli alunni e agli studenti come espressione della cultura umanistica… Per assicurare l’acquisizione delle competenze relative alla conoscenza del patrimonio culturale e del valore del Made in Italy, le istituzioni scolastiche sostengono lo sviluppo della creatività».

Cultura umanistica, creatività e Made in Italy (in inglese) sarebbero dunque sinonimi: per conoscere il patrimonio culturale, la Ferrari e il parmigiano (tutto sullo stesso piano) bisogna essere creativi. Si stenterebbe a credere alla consacrazione scolastica di questo “modello Briatore” se la relazione illustrativa del decreto non fosse ancora più chiara: «Occorre rafforzare… il fare arte, anche quale strumento di coesione e di aggregazione studentesca, che possa contribuire alla scoperta delle radici culturali italiane e del Made in Italy, e alla individuazione delle eccellenze già a partire dalla prima infanzia». Insomma: fin da bambini bisogna saper riconoscere (e, inevitabilmente, desiderare) una giacca di Armani o una Maserati. E visto che si raccomanda «la pratica della scrittura creativa», la via maestra sarebbe fare il copywriter per gli spot, o scrivere concept per reality show, per rimanere alla lingua elettiva del Miur.

Ora, anche ammesso che tra la nostra storia dell’arte e il «Made in Italy» esista un rapporto genetico, ciò non si traduce in un’equivalenza culturale, e tantomeno in un orizzonte formativo. E non è solo un problema di confusione concettuale: la domanda più urgente riguarda il tipo di società prefigurata da questa idea di scuola. Una società in cui non si riesca nemmeno più a distinguere la conoscenza critica dall’intrattenimento, l’essere cittadino dall’essere cliente, il valore delle persone e dei princìpi dal valore delle «eccellenze» commerciali. Una società dello spettacolo a tempo pieno, un enorme reality popolato da «creativi» prigionieri di un eterno presente, senza passato e senza futuro. Già, perché la creatività ha preso il posto della storia dell’arte, che continua a non essere reintrodotta tra le materie curricolari da cui la Gelmini l’aveva espulsa in vari ordini di scuole.

Più in generale, l’identificazione tra cultura umanistica, creatività e mercato nega e soppianta la vera funzione della vera cultura umanistica: che è l’esercizio della critica, la ricerca della verità, la conoscenza della storia. «Il fine delle discipline umanistiche sembra essere qualcosa come la saggezza», scrisse Erwin Panofsky nel 1944. Negli stessi mesi Marc Bloch scriveva, nell’Apologia della storia: «nella nostra epoca, più che mai esposta alle tossine della menzogna e della falsa diceria, che vergogna che il metodo critico della storia non figuri sia pure nel più piccolo cantuccio dei programmi d’insegnamento! ». Di fronte al nazismo e all’Olocausto la cultura umanistica sembrava ancora più necessaria: Bloch — fucilato dalla Gestapo perché membro della Resistenza — la definisce «una nuova via verso il vero e, perciò, verso il giusto».

È su questo fondamento che, nel dopoguerra, sono state ricostruite le democrazie europee. È per questo che la nostra Costituzione impone alla Repubblica di promuovere «lo sviluppo della cultura e la ricerca». La necessaria scommessa di un umanesimo di massa è infatti quella di riuscire a praticare tutti, anche se in dosi omeopatiche, le qualità della ricerca: precisione, desiderio di conoscere e diffondere la verità, onestà intellettuale, apertura mentale. Per secoli si è creduto, a ragione, che queste virtù non servissero solo a sapere più cose, ma anche a diventare più umani: e che dunque non servissero solo agli umanisti, ma a tutti. E oggi sono il presupposto necessario perché le democrazie abbiano un futuro.

Essere umani — ha scritto David Foster Wallace nel 2005 — «richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri… Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo». Formare gli italiani del futuro al marketing del «Made in Italy»; indurli a coltivare la scrittura creativa e non la lettura critica di un testo; levar loro di mano i mezzi culturali per distinguere la verità dallo storytelling, o per smontare le bufale che galleggiano in Internet; annegare la conoscenza storica in un mare di dolciastra retorica della bellezza: tutto questo significa scommettere proprio sull’inconsapevolezza, sulla modalità predefinita, sulla corsa sfrenata al successo. La cultura umanistica è un’altra cosa: è la capacità di elaborare una critica del presente, di avere una visione del futuro e di forgiarsi gli strumenti per costruirlo. Siamo sicuri di non averne più bisogno?