Assistente di supporto all’insegnante: una battaglia vinta

Superando.it del 24-08-2017

Assistente di supporto all’insegnante: una battaglia vinta

È durata per ben tre anni la battaglia di Romina Santini, insegnante con grave disabilità motoria, per ottenere un assistente di supporto che esegua materialmente le attività impedite o rese difficoltose dalla disabilità, come sorvegliare la classe, consultare e compilare i registri, sfogliare i libri o scrivere alla lavagna. Alla fine, però, la vittoria è arrivata e ora la docente romagnola si batterà per far sì che tale diritto venga esteso a tutti gli altri docenti con disabilità che necessitano di assistenza.

Chi si occupa di disabilità è abituato in genere a pensare alla scuola in termini di inclusione degli/delle studenti con disabilità, scordando così in tal modo che le persone con disabilità possono rivestire talora il ruolo di insegnanti, e che per svolgere il proprio lavoro potrebbero aver bisogno del supporto di qualcuno che esegua materialmente le attività che la disabilità impedisce, o rende difficoltose. Ad esempio: sorvegliare la classe, consultare e compilare i registri, sfogliare i libri, scrivere alla lavagna e così via. Insomma, il “sostegno” non è utile solo per gli studenti e le studentesse con disabilità, in alcuni casi è necessario anche per l’insegnante con disabilità.

Il problema era già emerso qualche anno fa, nella raccolta di testimonianze intitolata La scuola: davanti e dietro alla cattedra [se ne legga anche nel nostro giornale, N.d.R.] curata da Oriana Fioccone per il Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), quando Romina Santini, una docente d’inglese allora trentottenne, affetta da un’atrofia muscolare spinale di tipo 2 (SMA 2) e residente a Cattolica (Rimini), aveva messo in rilievo come per i docenti non vedenti la figura dell’assistente di supporto all’insegnante fosse prevista dalla Legge 601/62 (esattamente all’articolo 2; si legga a tal proposito anche Giorgio Rognetta, L’assistente dell’insegnante non vedente: profili giuridici, in «Diritto.it», 28 febbraio 2008), mentre per i docenti con altre disabilità, pur con identiche esigenze, non fosse contemplata.
Raccontava a suo tempo Santini: «Per me stare senza un assistente è impossibile, perché non ho nemmeno l’uso delle mani. Mi domando: “Perché ci permettono di accedere all’università, se poi ci chiudono le porte del lavoro per cui abbiamo studiato tanto? È assurdo, una vera e propria presa in giro!”». Nei primi tempi di insegnamento, dunque, la funzione di “assistente all’insegnante” era stata svolta dal padre, ma successivamente, a causa dei problemi di salute del padre stesso, l’insegnante si era ritrovata a dover rifiutare gli incarichi.
Una discriminazione, quindi, o, per essere ancora più precisi, un’incostituzionalità, come ha sostenuto Salvatore Nocera, avvocato e presidente nazionale del Comitato dei Garanti della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), che ha supportato Santini nelle sue rivendicazioni.

Per tre anni, dunque, la docente romagnola ha sollevato la questione, sentendosi dire, tra le altre cose, che la presenza di un assistente in aula non era consentita per questioni di privacy…
Oggi, però, la battaglia ha dato i suoi frutti, e dal prossimo mese di settembre Santini potrà tornare ad insegnare con un assistente di supporto all’insegnante, come ha lei stessa confermato in una dichiarazione rilasciata all’Agenzia «Redattore Sociale»: «Dopo tre anni di battaglia – ha detto – posso oggi festeggiare la mia vittoria! Il Ministero ha confermato che posso entrare in classe con un assistente così come la legge permette ai docenti non vedenti. Non ci sono disabili di serie A e disabili di serie B. Sono tanto felice e ora farò in modo che questa risposta diventi ufficiale non solo per me, ma per tutti i docenti come me! Infatti voglio che questo diritto non sia solo per me, ma anche per gli altri docenti disabili che necessitano di assistenza. E mi sto già attivando perché questo accada, spero di ottenere una circolare del ministero! Con pazienza, costanza, caparbietà, tenacia ed educazione si ottiene tutto. Intanto, devo questa vittoria, per me tanto importante, alla mia famiglia, che combatte sempre al mio fianco, ma anche all’avvocato della FISH, Salvatore Nocera, che mi ha accompagnata e continua a farlo in questa battaglia».

Una battaglia sacrosanta, dunque, che ci auguriamo si concluda del tutto positivamente, anche se è difficile non pensare – per accostamento – che gli insegnanti disabili non sono le uniche persone con disabilità che necessitano di assistenza, e che se a tutte le persone con importanti limiti di autonomia fosse concretamente riconosciuto il diritto all’assistenza personale necessaria a garantirne la stessa libertà di scelta di cui godono gli altri (non solo in àmbito lavorativo), non avremmo garantito solo il diritto al lavoro degli insegnanti, ma anche il diritto all’autodeterminazione di tutte le persone con gravi disabilità.
Oggi, però, com’è giusto che sia, brindiamo alla vittoria di Romina Santini, ringraziandola per non essersi arresa davanti alle difficoltà. (Simona Lancioni)

La presente nota riprende – con alcuni riadattamenti al diverso contenitore – un testo apparso nel sito di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) (con il titolo L’assistente di supporto all’insegnante) di cui è responsabile Simona Lancioni. Per gentile concessione.

Obbligo scolastico a 18 anni, basta annunci

Obbligo scolastico a 18 anni, basta annunci. Definire prospettive, risorse e volontà politiche. Subito un confronto vero con il sindacato e con le scuole

La FLC CGIL ha da sempre sostenuto la necessità di estendere l’obbligo scolastico, non semplicemente di istruzione e formazione, fino ai 18 anni. Ne esistono la necessità e le condizioni. Il nostro Paese può e si deve permettere di investire le risorse necessarie per far seguire, ai giovani che entrano nella scuola italiana, un percorso che consenta davvero la piena attuazione dei valori costituzionali di libertà, uguaglianza, democrazia e pieno sviluppo della persona umana.

Per questa ragione, riteniamo del tutto sbagliata la curvatura “funzionalista” attribuita dalla ministra alla proposta, cioè legata unicamente agli interessi del mondo produttivo, che pur nella sua importanza sembra essere, di nuovo, l’obiettivo prevalente sotteso alla legge 107/2015 e più in generale dell’attuale governo. Così come appare profondamente errata l’operazione che sembra voler compensare la prevista riduzione del percorso delle scuole superiori a quattro anni con un innalzamento dell’obbligo che, cosiffatto, fallirà gli obiettivi fondamentali sopra richiamati. Soprattutto se essi sono dettati dalla “formazione del capitale umano”, sulla quale si è spesa la ministra. Si tratta allora di ricostruire, a partire da una vera volontà politica, le condizioni perché le scuole, in autonomia, con le risorse necessarie e con l’aiuto dell’intera società, possano farsi carico di una missione fondamentale: sviluppare innanzitutto le potenzialità personali e individuali delle nuove generazioni e adeguare saperi e competenze alle necessità della vita sociale ed economica del Paese.

Nel passato, seppur con evidenti contraddizioni, è stato introdotto l’obbligo di iscrizione ad un percorso di istruzione e formazione entro i 16 anni e l’obbligo di permanere nel sistema di istruzione e formazione per conseguire un titolo di qualifica o di diploma entro i 18 anni. Questo quadro confuso e improduttivo ha mostrato  tutti i suoi limiti. Da ciò la ormai storica proposta della Cgil di elevare l’obbligo scolastico a 18 anni. Per questo obiettivo sono però necessari chiarezza sulle finalità e coinvolgimento dei soggetti che debbono attuare il cambiamento: il personale delle scuole autonome e le loro rappresentanze sindacali, le associazioni professionali, il mondo della ricerca pedagogica.

E sono necessarie le risorse. Alla proposta di elevamento dell’obbligo a 18 anni, contenuta peraltro nel Piano del Lavoro della CGIL, insieme ad altre proposte di riqualificazione dell’intero sistema scolastico (la generalizzazione della scuola dell’infanzia ad esempio), la FLC CGIL ha accompagnato anche una quantificazione delle risorse occorrenti: si devono investire 17 miliardi di euro che corrispondono a quel  punto di PIL che ci manca nell’investimento in istruzione per essere allineati alla media dei Paesi Ocse.

La ministra Fedeli ha anche detto che occorre aumentare gli stipendi agli insegnanti. È quello che chiede il Sindacato. Ma alla ministra spetterebbe di reperire le risorse, perché gli annunci, alla fine della legislatura, rischiano di trasformarsi in propaganda politica piuttosto che negli impegni mantenuti, tra i doveri di chi invece dirige un dicastero.

Toscana: Vaccinazioni, siglato un accordo tra aziende sanitarie, Anci e USR

Vaccinazioni, siglato un accordo tra aziende sanitarie, Anci e Ufficio scolastico regionale

da Toscana Notizie
24 agosto 2017 | 13:33
Scritto da Lucia Zambelli

FIRENZE – Un accordo che prevede che le scuole trasmettano gli elenchi degli iscritti alle Asl, che verificheranno la situazione vaccinale di ogni bambino e si attiveranno con i familiari per l’eventuale regolarizzazione.

L’accordo è stato siglato oggi nella sede dell’Ufficio scolastico regionale, in via Mannelli 113, tra le tre aziende sanitarie toscane (centro, nord est e sud ovest), l’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani) Toscana, e l’Ufficio scolastico regionale. A firmare, il direttore dell’Ufficio scolastico regionale per la Toscana Domenico Petruzzo, i direttori dei Dipartimenti della prevenzione di ogni azienda (Renzo Berti per Toscana centro, Ida Aragona per Toscana nord ovest, Paolo Madrucci per Toscana sud est), e, per l’Anci, la delegata del presidente Grazia Fantozzi.

In considerazione del fatto che l’articolo 3 della legge nazionale del 31 luglio scorso con le disposizioni urgenti in materia di prevenzione vaccinale prevede la possibilità di adottare una procedura semplificata; che l’Ufficio scolastico regionale è in grado di trasmettere gli elenchi degli alunni, e altrettanto può fare l’Anci per i bambini iscritti agli asili nido; e che le tre aziende sanitarie toscane, una volta acquisiti gli elenchi, sono in grado di verificare gli adempimenti vaccinali, l’accordo siglato oggi stabilisce che:

– gli istituti scolastici e i servizi educativi provvederanno alla trasmissione degli elenchi degli iscritti alle Asl competenti per territorio entro il 31 agosto 2017;

– la Asl provvederà alla verifica della situazione vaccinale di ogni iscritto e si attiverà, contattando i familiari, per coloro che risulteranno non in regola, al fine della loro regolarizzazione;

– alla fine di questo percorso, la Asl comunicherà alle strutture scolastiche ed educative interessate i nominativi dei bambini non in regola, per le successive determinazioni del caso.

Nelle more degli accertamenti – si chiarisce nell’accordo – la frequenza di tutti gli iscritti prosegue secondo le consuete modalità.

Dell’accordo siglato oggi è stata inviata comunicazione al Garante della privacy.

Per vaccinarsi

Per prenotare una vaccinazione è possibile rivolgersi alla Asl competente o al pediatra di famiglia.

Sulle pagine del sito, i Centri vaccinali Asl per Asl.

Sul sito della Regione le Nuove disposizioni in materia di vaccinazioni

Vai alle pagine del sito della Regione sulle Vaccinazioni

Guarda la campagna regionale Dammi un vaccino

Ripartiamo dalla Scuola


Fedeli: “Scuola cuore della ripartenza. Miur impegnato per sostenere studentesse e studenti, personale e famiglie”

“Un anno fa il terremoto ha duramente colpito quattro regioni del Centro Italia, Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria, determinando gravi perdite per il nostro Paese. A partire dalle vite di coloro che, purtroppo, non ce l’hanno fatta. Non dimenticheremo mai quella notte. Le immagini delle macerie, dei volti inconsolabili di chi ha perso i propri cari, la propria casa, i propri punti di riferimento. Quando tutto questo avveniva, l’avvio dell’anno scolastico era imminente e la ripresa delle lezioni è stata una delle prime preoccupazioni delle famiglie, delle ragazze e dei ragazzi, del personale scolastico, dei dirigenti. Perché la scuola è il cuore della quotidianità delle nostre e dei nostri giovani, perché anche una campanella può dare il senso della normalità”. Così la Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Valeria Fedeli, nell’anniversario del sisma del 24 agosto 2016. Nella giornata di oggi la Ministra presenzierà come delegata del Governo alla cerimonia di commemorazione che avrà luogo ad Accumoli (RI), alle ore 18.00.

“In questa ricorrenza, il mio più sentito ringraziamento – aggiunge Fedeli – va a tutte e tutti coloro che, a partire dai dirigenti scolastici, passando per le insegnanti e gli insegnanti, il personale Ata, i genitori, le alunne e gli alunni, il personale del Ministero, non hanno mai ceduto e hanno lavorato per far ripartire la scuola nelle zone colpite dal sisma, per ricominciare tutti insieme dalla scuola, per tornare alla normalità proprio attraverso la quotidianità vissuta in classe”.

“La scuola – prosegue la Ministra – è stata il motore della ripresa dopo il 24 agosto di un anno fa e ha continuato ad esserlo dopo le ulteriori scosse che hanno colpito il Centro Italia nei mesi successivi, mettendo in difficoltà anche importanti centri universitari come quelli di Macerata e Camerino, sui quali siamo intervenuti con appositi stanziamenti per la ricostruzione e il rilancio. Anche per il finanziamento delle borse di studio universitarie terremo conto della particolare situazione attraversata dalle aree colpite dal sisma”.

“In questi mesi, cruciale è stata la collaborazione con gli Enti locali, la Protezione Civile, il Commissario per la ricostruzione. Un grazie importante – sottolinea Fedeli – va a tutte le associazioni e a tutti quanti hanno dato il loro aiuto per garantire alcuni dei moduli provvisori per gli istituti scolastici grazie a generose donazioni, per organizzare progetti e attività extra per non lasciare studentesse e studenti soli dopo le lezioni. Abbiamo davvero visto in campo l’Italia migliore, quella che sa fare squadra e, pur consapevole delle criticità, si attiva per dare risposte concrete e fare la propria parte. E la stiamo vedendo anche in queste ore, a Ischia. Non dobbiamo poi dimenticare – dichiara la Ministra – quanto sia stato importante in tutte queste occasioni, dal punto di vista scientifico, il ruolo di uno dei nostri Enti di ricerca, l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia”.

“Il Miur per la parte di propria competenza – sottolinea Fedeli – si è fortemente impegnato e continuerà a farlo per supportare le scuole e gli atenei delle aree del sisma”.

Subito dopo il terremoto del 24 agosto il Ministero ha attivato una task force per collaborare con i territori, la Protezione Civile, e coordinare i propri interventi, per garantire personale aggiuntivo alle scuole e mettere a disposizione strutture e aule provvisorie quando necessario. Il Ministero si è attivato per fornire banchi, sedie, cattedre, laboratori, libri di testo in collaborazione anche con l’Aie, l’Associazione degli editori. È intervenuto con norme ad hoc per salvaguardare la validità dell’anno scolastico passato e per consentire alle famiglie delle aree colpite dal terremoto di iscrivere le loro figlie e i loro figli al prossimo anno anche oltre la scadenza ordinaria. Sono state previste regole specifiche per i Comuni delle aree terremotate durante la Maturità.

“Con il decreto Sud, approvato di recente, sono stati messi a disposizione – aggiunge la Ministra – 15 milioni per la salvaguardia della continuità didattica nel prossimo anno scolastico, che è ormai alle porte: garantiremo, dove necessaria, la deroga al numero di alunne e alunni per classe e ulteriori posti di personale docente e Ata”.

“L’impegno di tutti, ognuno per la propria parte, è stato importante in questi mesi – chiude Fedeli -. Il Governo, come confermato anche dal Presidente Gentiloni, continuerà ad essere al fianco delle popolazioni colpite, sotto ogni profilo. Come Ministero, anche attraverso gli Uffici territoriali, saremo a disposizione. L’anno scolastico anche questo settembre partirà regolarmente e ci attiveremo per dare una risposta a tutte le necessità che arriveranno dai territori colpiti. Consapevoli che abbiamo tutti gli strumenti per lavorare, ma che c’è ancora molto da fare”.

La mala scrittura

La mala scrittura *

di Maurizio Tiriticco

Il grosso limite della frantumazione dei primi dieci anni di istruzione in tre percorsi chiusi in se stessi. Una causa delle carenze linguistiche è la scarsa attenzione alla calligrafia e il ruolo (non governato) della scrittura tecnologica che a volte destruttura il pensiero. Solo adeguate politiche social, culturali e scolastiche possono far fronte a questo fenomeno, che rischia di aggravarsi.

 

Gli alunni delle scuole scrivono male! Gli studenti universitari scrivono male! Le tesi di laurea che presentano ai loro professori sono piene di errori! Penso che questa sia una constatazione “di superficie”! Nel senso che molto probabilmente anche i contenuti lasciano a desiderare. Constato io stesso, quando ho l’occasione di vedere un tema di liceo o comunque, di un qualsiasi istituto secondario, che la prima cosa che balza agli occhi è la calligrafia, per non dire di una vera e propria cacografia! Ricordo che i nostri nonni, ovviamente quelli che avevano studiato e sapevano scrivere, scrivevano con un corsivo pressoché perfetto, leggibilissimo. Non so quanto l’obbligo di istruzione di cento anni fa, che pur esisteva, influisse sulla competenza linguistica scrittoria dei più. E’ poi noto come molti soldati – l’obbligo di leva riguardava tutti i sudditi, i regnicoli – dovessero ricorrere allo scrivano di turno per leggere le lettere ricevute e scrivere quelle di risposta.

Ma lasciamo i tempi andati! Ora tutti apprendono a leggere e scrivere e – come si suol dire – anche a far di conto per un periodo lunghissimo per un adolescente! Oggi in Italia, infatti, l’obbligo di istruzione ha durata decennale! Quindi dai sei ai quattordici anni un cittadino per ben dieci anni “sta” sui banchi di scuola. Comunque, c’è un grosso limite, almeno a mio avviso: il fatto che il decennio è frantumato in tre percorsi – quelli ereditati dalla storia stessa della nostra scuola – ed esattamente i cinque anni della scuola primaria, i tre della media e i due bel biennio. Purtroppo si tratta di percorsi in genere chiusi in se stessi; ciascuno “lavora” per se stesso! In realtà molto raramente una maestra di prima primaria conosce quali sono le competenze di cittadinanza e le competenze culturali che i suoi alunni debbono conseguire e raggiungere al ,14° anno di età! Programmare le attività di apprendimento considerando finalità lontane e tempi lunghi non è cosa facile! Eppure queste competenze sono chiaramente e dettagliatamente descritte negli allegati 1 e 2 del dm 139/07.

L’allegato 1 riguarda gli assi culturali: a) dei linguaggi; b) matematico; c) scientifico-tecnologico; d) storico-sociale. Per ciascuno dei quattro assi sono poi indicate e descritte le “competenze di base che concludono l’obbligo di istruzione”, raggiungibili e acquisibili in forza di conoscenze e abilità, egualmente descritte, che ne costituiscono la necessaria e ineludibile premessa.

Nell’allegato 2 sono indicate e descritte le “competenze chiave di cittadinanza da acquisire al termine dell’istruzione obbligatoria”, perché, in effetti, si deve avere una buona cultura di base, ma si deve essere anche un buon cittadino. Le competenze di cittadinanza sono 8: a) – imparare ad imparare; progettare (riguardano la costruzione del Sé, della persona: IO SONO); b) – comunicare; collaborare e partecipare; agire in modo autonomo e responsabile (riguardano la costruzione del Sé nei confronti dell’altro: IO COLLABORO); c) risolvere problemi; individuare collegamenti e relazioni; acquisire ed interpretare l’informazione (riguardano la costruzione del Sé nei confronti degli oggetti (IO FACCIO). E non riguardano solo il nostro “sistema educativo nazionale di istruzione e formazione”, ma tutti i Paesi dell’Unione europea. Si veda al proposito la “Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio” del 18 dicembre 2006.

In ordine a quanto scritto finora, il percorso obbligatorio decennale persegue congiuntamente obiettivi di istruzione, formazione ed educazione Si tratta di tre concetti che vengono da lontano e che sono debitamente indicati nel secondo comma del primo articolo del dpr 275/99, relativo all’istituzione dell’autonomia scolastica. L’istruzione riguarda gli apprendimenti disciplinari e pluridisciplinari, la formazione riguarda il soggetto in età evolutiva, la persona in quanto tale; l’educazione riguarda la persona in quanto cittadino, tenuto a conoscere e condividere i diritti e i doveri di cui alla nostra bella Costituzione. E nel medesimo comma leggiamo che i tre percorsi, strettamente congiunti e articolati, sono mirati a garantire a ciascuno il suo personale successo formativo.

Da quanto esposto, consegue che un cittadino/alunno per ben dieci anni è esposto e sottoposto a un processo che coniuga attività di istruzione, formazione ed educazione. E dieci anni sono tanti, soprattutto per un soggetto in età evolutiva! La domanda è: è possibile che in dieci anni non si riesca ad insegnare a scrivere con un minimo di correttezza?

A mio avviso, la prima causa di tutto ciò e la frammentazione a cui ho già accennato! Ciascun insegnante è chiuso nel suo ciclo di istruzione: primario, medio e successivo biennio. La seconda causa è forse la scarsa attenzione che le “maestre” – ormai i maestri del buon tempo antico sono rarae aves – danno a quella che un tempo era la calligrafia, o meglio una grafia leggibile! Tra cellulari e le tante altre amenità della scrittura tecnologica, insegnare ed apprendere a scrivere è veramente un’impresa difficile! Non si insegna, forse, e comunque non si impara a come si tiene una matita o una penna! Constato che i mancini aumentano a vista d’occhio! Il che non sarebbe cosa di per sé grave, anche il mancino scrive coprendo con la mano ciò che ha scritto precedentemente: quindi potrebbe correr il rischio di non articolare correttamente il suo pensiero. Ma mi lascia perplesso il fatto che molti alunni non sanno utilizzare le prime tre dita della mano, pollice, indice e medio, per “tenere” la penna! In effetti la “afferrano”, come fosse un bastone o un martello! Ne consegue che la grafia ne soffre! E soffre pure il soggetto che dovrebbe imparare a scrivere con gli strumenti tradizionali!

Il fatto – o il dramma? – è che la tastiera è più veloce! Premere il dito sulle lettere e sulle cifre di una tastiera è indubbiamente molto pratico e facile oggi, perché rende il comunicare più rapido, ma… praticità e facilità costituiscono alcune delle concause della spesso orrenda grafia della scrittura manuale! Ma l’orrenda grafia non riguarda solo il testo scritto – e forse potrebbe essere anche tollerabile – ma concorre contestualmente a non arricchire il pensiero. Per non dire poi che molti alunni scrivono in stampatello: il che è dovuto al fatto che ciò rende più agevole l’operazione di scrittura. Ma di fatto incide profondamente sulla formulazione dei pensieri e/o sulla manifestazione delle emozioni. In effetti, ciò che dovrebbe essere un continuum nella testa di chi pensa/scrive, diventa invece l’esito di giustapposizioni! Insomma, mi sembra che si verifichi ciò che accade con certi robot che sanno formulare pensieri – si fa per dire – e scriverli! Mah! Non vorrei che con il lungo andare questi processi incontrollati e a volte accettati, se non sollecitati, comportassero una progressiva incapacità di pensare e di scrivere!

In effetti, quando lamentiamo che tante tesi di laurea o tante composizioni dei nostri alunni di sedici e diciotto anni sono scritte “con i piedi”, dobbiamo riconoscere che tale fenomeno non solo non è affatto casuale, ma tenderà ad aggravarsi! E non solo! In un mondo di profondi rivolgimenti, in cui popolazioni intere dovranno convivere, il problema del saper leggere e scrivere e far di conto correttamente sarà quanto mai necessario! Pertanto, solo adeguate politiche sociali, culturali e scolastiche potranno far fronte a un fenomeno che sembra irreversibile! Concludendo, riusciranno i sistemi scolatici ad affrontarli adeguatamente?


  * articolo pubblicato dalla rivista “valori valori” n. 96, 2017

BIOFOTONI: QUANTI DI VITA

BIOFOTONI : QUANTI DI VITA

di Paolo Manzelli Presidente EGOCREANET (ONG) egocreanet2016@gmail.com   ; 335/6760004

Dibattito in Preparazione dl Convegno del 27 SETT 2017 su BIOFOTONI ed ENERGIA per la VITA c/o la Accademia dei Georgofili in Firenze.

 

Le cellule di ogni sistema vivente producono deboli quanti di luce (bio-fotoni) nell’intervallo di frequenze UVA e Visibile che derivano da il metabolismo di molte molecole capaci di strutturare nei loro sequenze delocalizzate di doppi legami,tali frequenze come è possibile dedurre dai loro spettri di assorbimento .

La maggior parte dei biofotoni di origine metabolica probabilmente si disperdono a causa di fluttuazioni ambientali disordinate e degradano pertanto la loro energia.

Diversamente i DNA’s emettono “Biofotoni Coerenti” cosi che circa il 90 % dei biofotoni che sono misurabili come emissione delle cellule sono quelli messi dai DNA’s poiche vengono stabilizzati in termini di temporanea coerenza quantistica.

I Biofotoni sono pertanto una evoluzione biologica dei fotoni emessi dal campo elettromagnetico solare in quanto sono una forma innovativa di “Energia Strutturata come Coerente” emessa  da parte dei tessuti viventi ed in particolare dai DNA’s , che gia’ in antichita’ era conosciuta con il termine di “Energie Sottili”.

Il DNA cosi come ogni cellula nel suo metabolismo emette segnali biofotonici caratteristici della vitalita’ del sistema biologico a cui appartengono, la cui informazione puo’ essere riprogrammata agendo sul rapporto tra genetica ed epigenetica . (1)

In particolare è necessario comprendere come I biofotoni costituiscano una evoluzione biologica dei Fotoni della luce solare.

Infatti per comprendere il loro ruolo come energia ed informazione per la vita e’ necessario partire dalla attiita’ quantistica della “fotosintesi clorofilliana” dove i fotoni di luce visibile ed UV vengono assorbiti dalle membrane tiliacoidi del cloroplasto, che contengono clorofilla ed altri cromofori e che nel loro insieme  funzionano come un “complesso antenna (LHC)” per il trasferimento delle transizioni di energia strutturata come quanti di luce provenienti dal diagramma dei livelli elettronici della clorofilla , tali quanti di energia detti “eccitoni” vengono trasmessi al  DNA del Cloroplasto che li riceve ed ingloba , nella sua struttura di informazione genetica . (2).

Inoltre la doppia elica del DNA puo’ essere considerata una antenna nanometrica ricetrasmittente capace da un lato di acquisire quanti di luce dalle transizioni di livelli energetici “eccitoni” , mentre dall’ altra elica polarizzata in modo opposto funziona come una emittente di biofotoni amplificati e coerenti . Questa possibilita è stata sperimentata tecnologicamente includendo una sezione di DNA tra due particelle di oro(3).

Il DNA del Cloroplasto pertanto agisce anche come un laser (light, amplification by stimulated emission) producendo nella sua doppia elica, di dimensione nanometrica (2.5 nm di diametro) l’ entanglement degli eccitoni generando la coerenza quantistica di sgnali di informazione ,che vengono irradiata a distanza dal DNA come Biofotoni ,i quali assumono la capacita di guidare a distanza il complesso processo di sintesi che per tramite la conversione ATP/ADP// NADPH/NADP+ ( tra i 260 nm e i 340 nm), trasforma CO2+Acqua in Zuccheri rilasciando ossigeno nell’ aria.

 

Quanti di Vita : L’emissione biofotonica del DNA in ogni sistema vivente

Il DNA è stato nella “concezione meccanica della scienza” (4) esclusivamente considerato come la struttura che contiene le informazioni genetiche necessarie per la sintesi delle proteine, ottenuta per copiatura per contatto dei “geni” che sono la base dell’identità degli organismi viventi. In vero sappiamo che il trasferimento della informazione genetica è svolto solo da una piccola porzione funzionale del DNA a tale scopo ( circa il 5%) mentre il restante 95% è stato considerato “DNA spazzatura” poiche’ appariva come inattivo nell’ ambito del modello meccanico di interpretazione scientifica.

I nuovi studi e le ricerche di “biologia quantistica” piu recenti ed avanzate hanno compreso il ruolo fondamentale della emissione di biofotoni del “DNA-Antenna” nel conferire vitalita’ ai sistemi viventi, in quando guida interattiva di segnali di informazione sia genetici che epigenetici organizzati al fine di veicolare tutti i processi cellulari fisiologici e neurologici.

In tale contesto di innovazione quantistica della biologia, va notato che ciascun DNA agendo in un sistema acquoso irradiando biofotoni amplia il proprio dominio di coerenza quantistica , per tramite la capacita dell’ accoppiamento sincronico di ponti ad H. dell’ acqua, mediante il quale si attivano le naturali proprieta’ di trasferimento e memorizzazione dei segnali di informazione dell’ acqua , che divengono recepite da vari ricettori molecolari –risonanti proprio al fine di attuare ordinate funzionalita’ enzimatiche e metaboliche.

I biofotoni sono pertanto una “nuova forma di “Energia Biologica” strutturata come coerenza quantistica” ed attiva in un sistema acquoso associato al DNA –Antenna .

Il tema della importanza biologica dei “Biofotoni Coerenti” intesi come “Quanti di luce per la Vita” ,sara’ il fulcro della attenzione ed impegno di innovazione che dedicheremo al convegno del 27 Settembre pv. a Firenze a cui vi invitiamo tutti a partecipate attivamente per dare sviluppo ad un network transdisciplinare finalizzato a favorire una formidabile capacita creativa scientifica e culturale che è espressione dell’ argomento :”Biofotoni ed Energia per la Vita”.

 

Biblio- on –Line

(1) –Biofotoni e salute: http://comitatomcs.eu/wp-content/uploads/2017/03/Alimentazione-e-biofotoni.pdf

(2) IL CLOROPLASTO:http://sfp.unical.it/modulistica/Biologia%20VII%202015.pdf

(3) DNA-ANTENNA: http://www.gsjournal.net/old/science/manzelli43.pdf ; http://www.gsjournal.net/old/science/manzelli4.pdf ; https://www.photonics.com/Article.aspx?AID=51562

(4) – Meccanicismo: http://www.scienzaeconoscenza.it/blog/scienza_e_fisica_quantistica/il-crollo-del-vecchio-paradigma-meccanico-della-scienza ; http://www.altrogiornale.org/biofotoni-la-vita/

L’educazione interculturale

L’educazione interculturale
Dalla paura dell’“Altro” che allontana, all’Intercultura come progetto che avvicina

di Immacolata Lagreca

 

 

Lo straniero

Un uomo stava posando dei fiori sulla tomba della moglie, quando vide un uomo cinese mettere un piatto di riso sulla tomba accanto. L’uomo si rivolse al cinese e con sarcasmo gli chiese: “Mi scusi, lei pensa davvero che il defunto verrà a mangiare il riso?”. “Si”, rispose l’uomo cinese, “quando il suo verrà a odorare i fiori”. Questa storiella ci fa comprendere che le persone sono diverse, pur avendo in comune i sentimenti (nel caso del cinese e dell’altro signore, il sentimento della pietà e dell’amore verso il proprio caro defunto). Allora, iniziamo a non giudicare troppo frettolosamente l’”Altro” considerandolo un “marziano”, come lo straniero estraneo all’umanità.

Fin dai tempi più remoti, secondo il contesto sociale, civile e geografico, l’uomo ha avuto una percezione diversa dello straniero. Spesso egli è percepito in maniera negativa, etichettato come “diverso”, come qualcuno che “non appartiene” e, quindi, di cui non ci si può fidare. Lo stesso termine “straniero”, ha uguale radice dei vocaboli “estraneo” e “strano”, indicando ciò che è “di fuori”, “esterno”, “diverso da me”.

Lo “stra-” iniziale della parola, che deriva dalla forma latina extra, ci consegna l’immagine di qualcosa che “sta fuori” rispetto a “ciò che sta dentro”: «Nelle lingue indoeuropee il termine che designa lo straniero contiene contemporaneamente in sé l’intero repertorio delle accezioni semantiche dell’alterità, e cioè l’estraneo, il forestiero, il nemico, in sintesi tutto ciò che è “Altro” da noi, anche se con noi viene comunque in rapporto»[1]. Siamo dunque di fronte a tre opposizioni: intero/esterno, che rimanda a un luogo, estraneo/proprio, che rimanda a un possesso, strano/familiare, che rimanda alla comprensione.

Per i latini, e più in generale nel mondo classico, l’idea di straniero come “qualcosa che non appartiene” è radicata, perché chi è estraneo al mio spazio, alla mia vita, è “strano”. Ma, inizialmente, non si ha un’accezione negativa del termine straniero.

Nell’antica Grecia lo straniero era il xénos, l’ospite di fuori che deve essere accolto rivestito di dignità e rispetto, poiché era convinzione che gli Dei, sotto mentite spoglie, visitassero gli uomini per testare la loro bontà e ospitalità. L’ospitalità allo straniero, dunque, almeno nella sua prima fase, è accordata senza nessuna condizione, poiché egli era protetto da Zeus[2]. Qualora fosse stato necessario, ci si difendeva dallo straniero solo dopo averlo accolto e averlo stimato come persona ostile. Con l’evolversi della lingua, xénos arrivò a significare “straniero”, e unito a fobia, questa parola inizialmente dall’accezione positiva, cambia del tutto di senso producendo oggi il termine “xenofobia”, paura dello straniero.

Lo stesso vale per gli antichi Romani. Nella Roma arcaica il termine per indicare lo straniero era inizialmente hostis, che pure identificava l’ospite da riverire. Questo è riportato anche in un’interessante testimonianza di Sesto Pompeo Festo (II secolo d.C.), da cui si ricava che il termine hostis indicava colui a cui erano riconosciuti gli stessi diritti del popolo Romano (quod erant pari iure cum populo Romano)[3], diritti garantiti dallo Stato Romano. Successivamente il termine hostis assumerà una connotazione antagonistica e si caricherà di significati, appunto, “ostili”: solo allora lo “straniero” diventerà un nemico[4], mentre per indicare colui “che viene da fuori pacificamente” si cominciò a usare il termine hospes, da cui viene “ospite”.

Tuttavia, anche quando lo straniero, colui che veniva da fuori, divenne nemico, gli antichi non ne facevano una “questione di pelle”, ma un problema politico unicamente legato alla sua manifesta ostilità, sebbene rimanesse aperta la possibilità che egli potesse convertirsi in “ospite” se dimostrava la sua amicizia.

Così in seguito, lo spazio del confine tra il “Noi” e l’”Altro straniero” da geografico e linguistico, diventa politico, culturale e religioso: l’estraneità geografica e linguistica si associa inevitabilmente a quella mentale e lo straniero diventa qualcuno da cui tutelarsi[5]. Nasce così il pregiudizio nei confronti dello straniero.

 

Il pregiudizio

Nato solamente come “giudizio antecedente” (dal latino praeiudicium), la sua espressione è arriva in epoche più recenti a essere dilatata e a essere usata per lo più in senso negativo, indicando un “giudizio anticipato”, quindi un parere immotivato, una opinione arbitraria, di carattere sia favorevole sia malevola. Infatti, il pregiudizio, può essere definito un’opinione precostituita, preconcetta e adottata, un giudizio affrettato o avventato, sprovvisto di giustificazione razionale o espresso a prescindere da una conoscenza precisa dell’oggetto e tale da impedire valutazioni corrette. La persona (o il gruppo) che nutre un pregiudizio nei confronti di un altro tenderà a prendere in considerazione solamente le cose che confermano le sue idee, rafforzando così i preconcetti in cui crede. Infatti, specificità del pregiudizio è la tenace resistenza alle prove dell’esperienza, della conoscenza, della relazione diretta e la cristallizzazione in forme irreversibili.

Lo psicologo sociale Rupert Brown, così definisce il pregiudizio: «Il mantenimento di atteggiamenti sociali o credenze cognitive squalificanti, l’espressione di emozioni negative o la messa in atto di comportamenti ostili o discriminatori nei confronti dei membri di un gruppo per la sola appartenenza ad esso»[6]. Il pregiudizio, continua Brown, «può essere considerato sia come processo di gruppo sia come fenomeno che può essere analizzato a livello della percezione, dell’emozione e dell’azione individuali»[7].

Il pregiudizio va valutato non solo come un fenomeno puramente cognitivo, ma occorre prestare attenzione anche alle sue componenti emotive e alle sue possibili espressioni comportamentali di gruppo o individuali. Infatti, il pregiudizio è un atteggiamento, e come tale è composto da tre aspetti: una componente cognitiva, che comprende le credenze o i pensieri che compongono l’atteggiamento; una componente emozionale, che rappresenta il tipo di emozione collegata sia all’atteggiamento (ad esempio la rabbia o la gioia) sia all’estremità dell’atteggiamento (l’ansia moderata, l’ostilità incontrollata); una componente comportamentale collegata alle azioni dell’individuo (che agisce individualmente o in gruppo).

Poiché, da un punto di vista logico il pregiudizio può assumere forme sia positive sia negative, esso è dunque è un atteggiamento pregiudiziale di qualifica o giudizio negativo a priori, in cui subentra anche la componente emozionale, sotto forma di simpatia o antipatia per altri individui e gruppi, ma anche per oggetti, idee o istituzioni

Secondo le ricerche, il pregiudizio è acquisito già durante l’infanzia[8] e il fatto che cresca o diminuisca col tempo dipende da circostanze storiche ed educative. Le esperienze fatte nei primi anni di vita possono indiscutibilmente essere responsabili di buona parte dei pregiudizi che si trovano negli individui adulti, ma i pregiudizi possono insorgere in qualunque momento dell’arco di una vita.

La prima conseguenza che realizza un pregiudizio riguarda la creazione di gruppi (Io-Tu, Noi-Voi), cioè la categorizzazione di alcune persone come un gruppo basato su certe caratteristiche e di altri individui in un altro gruppo in base a caratteristiche differenti. La categorizzazione è infatti il tema sottostante della cognizione sociale umana, l’atto cioè di raggruppare gli stimoli in base alle loro somiglianze e di metterli in contrasto in base alle loro differenze[9]. Con la presenza di pregiudizi si formano perciò due tipi di gruppi: ingroup, che si definisce come il gruppo con cui si identificano gli individui e del quale sono membri, e outgroup, il gruppo con cui gli individui non si identificano[10].

Quando i pregiudizi prendono una forma permanente diventano stereotipi.

 

Lo stereotipo

Nel significato comune i termini “pregiudizio” e “stereotipo” sono spesso associati e accomunati. In realtà hanno significati completamente differenti. Abbiamo visto che il pregiudizio è una valutazione che precede l’esperienza, quindi un giudizio, positivo o negativo, formulato ancor prima di avere a disposizione dei dati necessari per conoscere e comprendere la realtà. Lo stereotipo, invece, è un modello fisso di conoscenza e di rappresentazione della realtà, è una specifica caratterizzazione unilaterale degli “Altri” (gruppo o collettività) che spesso deriva anche dal pregiudizio.

L’origine del termine stereotipo (dal greco stereòs, rigido e tòpos, impronta, modello), può essere ricercato in quella fase del processo di stampa nel quale è prodotto un calco per rendere possibile la riproduzione su pagina di modelli o figure, attraverso appunto una “forma” fissa. Fu il giornalista politico statunitense Walter Lippmann a descrivere l’utilizzo che le persone fanno di calchi cognitivi per poter riprodurre nella loro mente immagini di persone o di eventi. Nel 1922, nel suo Public Opinion[11], egli si riferiva a questi calchi come “quadri mentali che abbiamo in testa”. Lippmann, allora, considerò gli stereotipi: «Una rappresentazione ordinata più o meno consistente del mondo, alla quale si sono adattati i nostri modi di essere, i nostri gusti, capacità, comodità e speranze. Possono non rappresentare un’immagine completa del mondo, ma sono l’immagine di un mondo possibile al quale siamo adattati. In quel mondo le cose e le persone hanno il loro posto fisso e fanno certe cose che sono attese. In esso ci troviamo a casa»[12]. Sostiene lo psicologo sociale Rupert Brown: «Valutare qualcuno attraverso uno stereotipo, significa attribuirgli certe caratteristiche considerate proprie di tutti o quasi i membri del gruppo cui questi appartiene. Uno stereotipo rappresenta, in altri termini, un’inferenza tracciata a partire dall’assegnazione di una persona a una data categoria»[13].

Lo stereotipo nasce poiché il rapporto conoscitivo con la realtà non è diretto, ma mediato da immagini mentali che di quella determinata realtà ciascuno si forma. Questi immagini, gli stereotipi appunto, diventano semplificazioni rigide che si costruiscono sia per comprendere la vasta complessità del mondo esterno sia per giustificare comportamenti impropri. Se questa “immagine fissa” è solamente adottata da una persona è una convinzione personale, ma se è accolta da un gruppo, da una collettività, diventa uno stereotipo.

Tre sono le dimensioni per capire il modo di funzionamento degli stereotipi e per comprendere la forza sociale:

– il grado di condivisione, ad esempio l’estensione quantitativa di una particolare immagine che un gruppo si fa di un altro;

– il livello di generalizzazione arbitraria, ad esempio data una certa immagine di un gruppo, si può essere convinti che pressoché tutti gli individui appartenenti a quel gruppo possiedano le caratteristiche che lo contraddistinguono, oppure che sussistano talmente tante eccezioni che è necessario stabilire volta per volta quanto l’individuo che si ha di fronte corrisponda allo stereotipo stesso;

– il grado di rigidità semantica, ossia qual è il grado di resistenza al cambiamento degli stereotipi[14].

Stereotipi comuni comprendono una varietà di opinioni su gruppi sociali basate su etnia, sessualità, nazionalità, religione, politica e propensioni, ma anche professione, status sociale e ricchezza.

Lo stereotipo sociale assolve a due funzioni principali: rinforza una identità collettiva positiva, se riferiti al proprio gruppo (ingroup), tendono ad avere caratteri spesso discriminanti se riferiti a un gruppo di non-appartenenza (outgroup). Scrive lo psicologo statunitense Gordon Willard Allport: «uno stereotipo è un’opinione esagerata in associazione a una categoria. La sua funzione è quella di giustificare (razionalizzare) la nostra condotta in relazione a quella categoria»[15].

Così, considerando come elementi discriminanti alcune caratteristiche particolarmente salienti e socialmente significative, si punta a valutare le persone non per quello che realmente sono, e dunque nella loro irripetibile singolarità, bensì in funzione della loro appartenenza a un certo gruppo, che viene di fatto considerato omogeneo. Ciò avviene a partire in genere dalle caratteristiche fisiche, ma include quasi sempre tutta una vasta gamma di caratteristiche psicologiche e culturali: i tratti di personalità, i valori, le motivazioni e, secondo le interpretazioni più spinte, perfino le stesse capacità intellettive. Così particolari caratteristiche fisiche o culturali ci portano a designare tutti gli individui che compongono il gruppo a quale si fa parte: tutti gli ebrei sono avidi di denaro e cospiratori; tutti i musulmani sono fanatici e potenziali terroristi; tutti i clandestini sono un potenziale delinquente; tutti gli “zingari” sono accattoni, scansafatiche e ladri e rapiscono pure i bambini. Ecco dunque aprirsi la strada che porta inevitabilmente alla xenofobia, al razzismo, alla discriminazione e all’esclusione sociale: «Il tipo di pregiudizio che assale così numerose società del mondo contemporaneo e che richiede con tanta urgenza di essere da noi capito è quello negativo: il trattamento guardingo, timoroso, sospettoso, spregiativo, ostile, o in ultima analisi mortifero di un gruppo di persone da parte di un altro gruppo”[16].

 

L’intercultura come “medicina” per i pregiudizi e gli stereotipi

I pregiudizi e gli stereotipi non sono tuttavia innati. Essi hanno il loro fondamento nelle influenze familiari, sociali, ambientali ed educative. Pertanto, se vogliamo eliminare o almeno cercare di limitare il più possibile l’insorgere di pregiudizi e stereotipi, è fondamentale intervenire a livello scolastico, familiare e sociale per fare della diversità una vera ricchezza, un nuovo paradigma educativo e per stimolare le persone, a iniziare dai bambini e dai ragazzi, a pensare criticamente senza cadere nella tentazione di adottare false immagini.

Già il riconoscere l’esistenza di pregiudizi o stereotipi è il primo passo per cambiare gli elementi che costituiscono l’atteggiamento e, quindi, anche il comportamento. Smettere di “inventare l’Altro” è il successivo passo che ci accompagna pian piano sulla giusta strada dell’”incontro”, che a sua volta apre le porte all’educazione all’intercultura, ossia all’educazione alla differenza e alla cultura dell’accoglienza, creando i presupposti per decostruire la logica e i fondamenti dell’”invenzione dell’Altro”[17].

Prima di procedere nel nostro discorso, come per “pregiudizio” e “stereotipo”, occorre fare una distinzione tra i termini “multiculturale”, “multietnico” e “intercultura”, che non sono affatto sinonimi.

Il termine “multiculturale”, usato oggi come analogo a “multietnico”, non è un equivalente corretto che si può associare a società. Infatti, una società multietnica, ossia un sistema sociale in cui convivono soggetti con identità etniche diverse, può essere multiculturale; al contrario una società multiculturale non implica la multietnicità, in quando una stessa etnia può avere sistemi culturali differenti. Si ricorda che l’aggettivo etnico è generalmente servito a connotare solo le identità e le forme di organizzazione politica e sociale dei contesti non occidentali.

Anche i termini “multiculturale” e “intercultura” non sono affatto equivalenti ma fanno riferimento a situazioni e pratiche diverse e sottendono concezioni sociali ed educative differenti. Una distinzione tra questi due termini è quindi utile.

La multiculturalità è assieme uno stato e un dato di fatto, risultato di flussi migratori e di incontri tra le culture. L’interculturalità è invece un processo educativo intenzionale, che deve essere progettato dagli educatori per rispondere alle esigenze formative della società d’oggi. Il multiculturalismo, invece, batte la via opposta. In luogo di promuovere una “diversità integrata”, promuove una “identità separata”, promuove l’identità “separata” di ogni gruppo e spesso la crea, la inventa, la fomenta, e spesso la crea. Il risultato è una società a compartimenti stagni e anche ostili, i cui gruppi sono molto identificati in se stessi, e quindi non hanno né desiderio né capacità di integrazione. […] il multiculturalismo non supera il pluralismo, lo distrugge[18].

La multiculturalità non presuppone necessariamente l’attivazione di momenti di contatto, acculturazione e scambio tra le culture. Essa è una tipologia di carattere descrittivo, che si esaurisce nel verificare la presenza in un dato territorio o in un’istituzione sociale di culture diverse.

La multiculturalità trova la sua perfetta realizzazione nella creazione di nicchie etniche/religiose/culturali, di piccoli quartieri in cui ciascuna cultura sussiste e si cristallizza senza curarsi delle altre comunità. Così ogni nazionalità, etnia, gruppo religioso, gruppo culturale è rinchiuso nella propria zona fisica e culturale, continuando a praticare le proprie abitudini e le proprie tradizioni senza essere sottoposto all’incontro con l’alterità. La risposta del multiculturalismo nei confronti di una pacifica convivenza posta dalla società multietnica è la tolleranza, che «si sostanzia, innanzitutto, in un fondamentale riconoscimento della differenza, a partire dall’affermazione della pari dignità di ogni cultura»[19]. Tuttavia, nel momento in cui una crisi economica o delle tensioni religiose o etniche o altri fattori rompono l’equilibrio, le differenze taciute possono esplodere in modo violento e irrazionale.

L’interculturalità «oltrepassa la tolleranza, presuppone il confronto e lo scambio tra le culture, pone il problema della cittadinanza e della partecipazione, esercita la legittima e reciproca critica, concepisce le differenze culturali come un valore»[20]. In pratica, «Non si tratta di integrazione delle diversità, ma della loro valorizzazione. In altre parole, le differenze sono chiamate a convivere, a confrontarsi e a produrre uno spazio politico e sociale che continuamente si ridefinisce plasmando incessantemente le regole dell’agire e del comunicare»[21].

La prospettiva interculturale concepisce le diverse identità culturali come mutevoli e in continua trasformazione, presuppone che l’identità, per potersi arricchire e sviluppare, necessita del confronto con l’alterità. La concezione per cui, in una società multiculturale, le diverse identità culturali debbono vivere separate l’una dall’altra, senza scambi e contatti, è pericolosa e regressiva.

Partendo dal presupposto che l’identità non è qualcosa di dato, bensì si determina in relazione all’”Altro”, al differire da sé, e cioè è un prodotto dell’interazione sociale, le relazioni sociali sono fondamentali per la costruzione di una propria identità attraverso il riconoscimento della diversità e del valore altrui: «La relazione è al cuore dell’identità. L’alterità e l’identità non sono concepibili l’una senza l’altra, non soltanto nei sistemi sociali […] ma anche nella definizione istituzionale degli individui che corrisponde loro»[22]. Le relazioni sociali aperte, dinamiche e costruttive, danno l’opportunità di riconoscere nell’”Altro” la possibilità di riconoscere se stessi, in uno scambio profondo e fecondo[23]. Per questo occorre neutralizzare la carica di ostilità che connota la figura dell’”Altro”, dello straniero, creando condizioni affinché autoctoni e stranieri entrino in contatto, accorgendosi profondamente della presenza reciproca, incontrandosi. Già la conoscenza con persone che vengono da altri contesti, elimina almeno una parte della paura del “diverso”, riducendo l’ostilità e la diffidenza.

Progetto di interculturalità, quindi, e non di multiculturalità, poiché – come afferma l’antropologo francese Jean-Loup Amselle – la seconda è in realtà solo una forma di razzismo “gentile”: immobilizza le differenze, rifacendosi a origini ancestrali inesistenti[24]. Armonizzare identità e alterità dovrebbe essere la naturale dialettica dell’era globale.

 

L’educazione interculturale

Un progetto interculturale si esprime non certo in prediche e insegnamenti teorici, né con tecniche di persuasione, ma prima di tutto sperimentando quotidianamente la realtà. La scuola ha certamente un ruolo privilegiato per l’educazione all’intercultura, perché in essa si concretizza, anche grazie alla presenza di allievi stranieri. Infatti, la scuola, attraverso l’educazione interculturale può fare la sua parte per la nascita di una società attenta ai valori della differenza, del pluralismo delle culture, dei diritti umani, della pace. Essa è il centro propulsore dell’intercultura in quanto impegnata ad accogliere in numero sempre più crescente gli allievi stranieri, e a gestire l’eterogeneità delle lingue e delle culture che la contrassegna.

Il professor Claude Clanet definisce l’educazione interculturale come «l’insieme dei processi –psichici, relazionali, di gruppo, istituzionali – generati dalle interazioni delle culture, in un rapporto di scambi reciproci e in una prospettiva di salvaguardia di una relativa identità culturale dei partecipanti alle relazioni»[25]. Più specificatamente nella relazione tra le persone culturalmente diverse, l’educazione interculturale si preoccupa di far crescere atteggiamenti di disponibilità, di apertura e di dialogo, in quanto progetto educativo che si fonda sull’incontro e sulla reciproca contaminazione. L’obiettivo dell’educazione interculturale «si delinea come promozione delle capacità di convivenza costruttiva in un tessuto culturale e sociale multiforme. Essa comporta non solo l’accettazione ed il rispetto del diverso, ma anche il riconoscimento della sua identità culturale, nella quotidiana ricerca di dialogo, di comprensione e di collaborazione, in una prospettiva di reciproco arricchimento»[26]. È dunque il superamento di una situazione statica a favore di un processo basato sull’incontro-confronto, sul dialogo tra i valori proposti da persone diverse, prima ancora che da diverse culture.

Si può comprendere come tale modello, nato sulla spinta dell’arrivo degli immigrati, si sia poi sviluppato nei termini di una dimensione interna all’educazione stessa, uno “sguardo” […] da promuovere in tutti. […] L’educazione interculturale diviene così un’attitudine alla relazione con l’altro nella sua complessità umana, culturale, storica[27].

Per i professori Duccio Demetrio e Graziella Favaro, l’educazione interculturale è l’esplicazione propria di una «pedagogia relazionale»[28], che «è un educarci ed un educare (noi e gli immigrati) ad un pensiero che non si irrigidisca mai. Ad un pensiero in movimento»[29].

Gli elementi strutturali senza i quali non è possibile parlare di educazione interculturale sono intenzionalità, interazione, empatia, decentramento, transitività cognitiva.

Poiché l’educazione interculturale non appartiene ai fenomeni naturali, essa deve essere voluta, provocata, progettata[30]. Essa deve essere dunque intenzionale.

L’interazione indica un processo relazionale bidirezionale che esige uno scambio paritetico tra storie, saperi, attese, progetti di vita e vissuti quotidiani diversi. L’educazione interculturale deve avere in sé la componente dell’interazione.

Grazie all’empatia si diminuisce la distanza, poiché essa è quell’elemento della relazione umana grazie alla quale l’individuo percepisce di vivere con l’“Altro” una specie di comunione affettiva, in conseguenza della quale l’interlocutore non è sperimentato solo come protagonista di una serie di fatti e storie, ma anche come portatore di emozioni e sentimenti in grado di dare un peso differente e delle connotazioni personali e soggettive a vicende che per certi versi si somigliano.

Attraverso il decentramento si scopre la presenza, oltre a quelli personali, di altri valori di riferimento, di altre usanze, costumi e regole di condotta. L’educazione interculturale, grazie al decentramento, diventa la scoperta che le possibilità di rappresentare una data realtà sono molte, più di quelle in nostro possesso e tutte con una loro coerenza e giustificazione logica.

La transitività cognitiva è per il professor Carlo Nanni, pedagogista del “Centro Educazione alla Mondialità”, il cuore dell’interculturalità, ciò che «provoca sul nostro sistema cognitivo una perturbazione, uno spiazzamento cognitivo»[31]. Si tratta di un pensiero divergente in cui i soggetti del rapporto riescono ad aprirsi sino al punto da assumere come propri alcuni degli elementi cognitivi dell’altro.

Lo specifico dell’educazione interculturale è dunque costituito dai processi di apprendimento che portano a conoscere altre culture e a instaurare nei loro confronti atteggiamenti di disponibilità, di apertura, di dialogo.

Attraverso l’educazione interculturale si propongono i concetti della reciprocità e del dialogo, della complessità e della convivenza delle differenze, del conflitto e della pace.

La reciprocità implica l’idea dello scambio reciproco: l’educazione interculturale dovrebbe far acquisire l’abilità di allacciare rapporti corretti con i propri simili, che si concretizzano nello scambio “del dare e dell’avere”. Per questo l’educazione interculturale va intesa come un “movimento di reciprocità” attraverso il quale l’una cultura e l’altra e quindi gli individui portatori di una cultura e di un’altra ‒ indipendentemente dalle differenze o proprio utilizzando tali differenze ‒ sono meglio in grado sia di comprendere se stessi e di correggere il “senso” che le stesse condizioni esistenziali differenziate hanno per ciascuno di loro, sia di continuamente rivedere e riadattare il proprio sapere e di conseguenza i propri comportamenti[32].

La complessità oggi è un dato di fatto, per questo, sotto il profilo educativo, occorre andare oltre i propri particolarismi, essere preparati ad affrontare nuovi scenari non più governabili da una logica unitaria, poichè sottoposti a cambiamenti accelerati[33]. Quindi, l’educazione interculturale consiste «non semplicemente alla conoscenza delle differenze riscontrabili in soggetti di origine culturale diversa, ma nell’educare alla transitività (o mobilità) cognitiva»[34].

Nell’educazione interculturale importante è la consapevolezza che possono sorgere conflitti, che non devono essere negati, ma gestiti. Ed educare al conflitto in un’ottica interculturale significa proprio insegnare a gestire i conflitti perché questi non siano distruttivi, ma costruttivi della relazione[35].

Nello stesso tempo, educare alla pace significa non solo promuovere una buona gestione dei conflitti, ma comporta una più globale educazione ai valori che sono costitutivi della pace stessa, quali giustizia, solidarietà, verità[36]. Perchè la pace è un “valore” e non un “obiettivo”. Quindi essa deve essere intesa come virtù universalmente riconosciuta e voluta, come accettazione delle differenze, come educazione alla complessità, come ricerca della relazionalità dei rapporti interpersonali e interstatuali, come disarmo delle culture e della politica.

Pace, dunque, come dominio della giustizia in assenza di violenza (sia quella visibile sia quella subdola e indiretta), ma anche come valore universale di rispetto per la vita, la libertà, la solidarietà, la tolleranza, i diritti umani e l’uguaglianza tra uomo e donna[37].

L’educazione interculturale, dunque, rappresenta una risorsa per la crescita, un espediente capace di promuovere identità in grado di assegnare al caotico processo di globalizzazione un volto più umano.

  


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[1] R. Paternoster, Guerrocrazia. La cultura e la politica armata, Aracne, Roma 2014, p. 293.

[2] Cfr. F. Giustinelli, Letteratura e pregiudizio. Diversità e identità nella cultura greca, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 113-116.

[3] Cfr. A. Accardi, M. Cola, Guerra e partnership. Una riflessione sull’ambivalenza di Hostis, in «I Quaderni del Ramo d’Oro», n. 3, 2010, pp. 228, http://www.qro.unisi.it/frontend/sites/default/files/Guerra_e_partnership.pdf

[4] Cfr. L. Solidoro, Sulla condizione giuridica dello straniero nel mondo romano, «Rivista della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze», Vol. 1, 2006, pp. 21-36, ora anche nella versione online: http://www.rivista.ssef.it/www.rivista.ssef.it/file/public/Dottrina/41/L1.A1001001A08F10B84609F80386.V1.pdf

[5] Cfr. R. Paternoster, Guerrocrazia, cit., pp. 277-309.

[6] R. Brown, Psicologia sociale del pregiudizio, trad. it., il Mulino, Bologna, 1997, p. 15 (orig. 1995).

[7] Ivi, p. 7.

[8] Cfr. M.C. Barbiero, Noi e gli altri: atteggiamenti e pregiudizi nel bambino, Guida, Napoli 1985; F. Zannoni, Stereotipi e pregiudizi etnici nei pensieri dei bambini. Immagini, discussioni, prospettive, in «Ricerche di Pedagogia e Didattica», 2, 2007, http://rpd.unibo.it/article/viewFile/1538/911.

[9] Cfr. H. Tajfel, J.P. Forgas, La categorizzazione sociale: cognizioni, valori e gruppi, in V. Ugazio (a cura di), La costruzione della conoscenza. L’approccio europeo alla cognizione del sociale, Franco Angeli, Milano 1997, pp. 139-198 (ora 2007).

[10] Cfr. M.E. De Caroli, Categorizzazione sociale e costruzione del pregiudizio. Riflessioni e ricerche sulla formazione degli atteggiamenti di “genere” ed “etnia”, Franco Angeli, Milano 2005.

[11] In italiano, L’opinione pubblica, Donzelli, Roma 2004.

[12] Ivi, p. 95.

[13] R. Brown, Psicologia sociale del pregiudizio, cit., p. 103.

[14] Sugli stereotipi cfr. anche B.M. Mazzara, Stereotipi e pregiudizi, il Mulino, Bologna 1997; L. Arcuri, M.R. Cadinu, Gli stereotipi. Dinamiche psicologiche e contesto delle relazioni sociali, il Mulino, Bologna 1998.

[15] G.W. Allport, La natura del pregiudizio, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1973 (orig. 1954), p. 266.

[16] R. Brown, Psicologia sociale del pregiudizio, cit., p. 13.

[17] Interessante sull’argomento è M. Kilani, L’invenzione dell’Altro. Saggi sul discorso antropologico, trad. it., Dedalo, Bari 2015 (orig. 1994).

[18] G. Sartori, La democrazia in trenta lezioni, a cura di L. Foschini, Mondadori, Milano 2008, p. 100.

[19] B. Henry, A. Pirni, La via identitaria al multiculturalismo: Charles Taylor e oltre, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, p. 117.

[20] M. Disoteo, Multiculturale/Interculturale, Dicembre 2013,

Fai clic per accedere a intercultura-multicultura.pdf

[21] R. Paternoster, Guerrocrazia, cit., p. 319.

[22] M. Augé, Tra i confini. Città, luoghi, integrazioni, Bruno Mondadori, Milano 2007, p. 50.

[23] Cfr. J. Kristeva, Stranieri a se stessi, trad. it., Feltrinelli, Milano 1990, (orig. 1988).

[24] Cfr. J.L. Amselle, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino 1999 (orig. 1990).

[25] Cit. in C. Desinan, Orientamenti di educazione interculturale, Franco Angeli, Milano 1999, p. 23.

[26] A. Casillo, Interculturalità e curricolo nella scuola elementare, in Quadrante della scuola, 1990 n.2, p. 71

[27] M. Santerini, La scuola nella società multiculturale: orientamenti per l’Italia e l’Europa, in AA. VV., La scuola nella società multietnica, La Scuola, Brescia 1994, p. 65.

[28] D. Demetrio, G. Favaro, Immigrazione e pedagogia interculturale, La Nuova Italia, Firenze, 1992, p. 11.

[29] Ivi, p. 16.

[30] A. Nanni, L’educazione interculturale oggi in Italia, in Quaderni dell’intercultura EMI, Bologna 1998, p. 30.

[31] Ivi, p. 49.

[32] P. Bertolini, L’educazione interculturale: riflessioni pedagogiche, in «Scuola Viva» (supplemento a «Tuttoscuola»), 1991, n. 4, p. 28.

[33] Cfr. L. Caimi, Per una scuola educativa nella complessità socio-culturale, in «Quaderno di aggiornamento per operatori della formazione professionale”, n. 20, 1993, p. 26; Cfr. M. Callari Galli, M. Ceruti, T. Pievani, Pensare la diversità: idee per un’educazione alla complessità umana, Meltemi, Roma 1998.

[34] D. Demetrio, G. Favaro, Immigrazione e pedagogia interculturale, cit., p. 15.

[35] Cfr. A. Rosetti, La gestione dei conflitti e l’educazione interculturale, Casa delle Culture, Ravenna 2005.

[36] Cfr. P. Roveda, La pace cambia. Proposte pedagogiche, La Scuola, Brescia 2000.

[37] R. Paternoster, Guerrocrazia, cit., p. 345.

Scuola, obbligo a 18 anni

Scuola, obbligo a 18 anni: lo Snals Confsal condivide la proposta del ministro dell’istruzione Valeria Fedeli. “Un’occasione di crescita culturale”

 

“Lo Snals Confsal condivide pienamente la proposta del ministro Valeria Fedeli di portare l’obbligo scolastico a 18 anni”. E’ ciò che ha dichiarato il segretario generale nazionale del sindacato Snals Confsal Elvira Serafini.

“L’innalzamento dell’obbligo a 18 anni – ha aggiunto Serafini – ci trova d’accordo, perché, oltre a rappresentare lo strumento per recuperare quel 15 per cento di studenti che oggi, per tanti e differenti motivi, abbandonano le scuole secondarie, può diventare un’occasione di crescita culturale complessiva del nostro Paese”.

“Lo Snals Confsal è convinto – ha proseguito Serafini – che l’innalzamento dell’obbligo debba passare attraverso una revisione degli ordinamenti e dei programmi d’insegnamento, con l’obiettivo di innalzare la qualità dell’istruzione e della formazione dei ragazzi”.

“Siamo certi – ha concluso Serafini – che la proposta del ministro Fedeli aprirà un confronto positivo nella società civile, che vedrà sicuramente lo Snals Confsal in prima linea con le sue proposte e i suoi contributi, nella convinzione che l’obbligo a 18 anni, se costruito in modo efficace, con un adeguato potenziamento del sistema scuola, a partire dalla valorizzazione del ruolo dei docenti, potrà rappresentare un valido traino anche per aumentare il numero dei laureati, numero che ci vede, oggi, agli ultimi posti tra i Paesi più evoluti”.

Sbloccati i fondi per le scuole

da Il Sole 24 Ore

Sbloccati i fondi per le scuole

di Massimo Frontera

L’anno scolastico riapre con in cassa una nuova, cospicua, iniezione di risorse per interventi di edilizia. Tra fine luglio e ferragosto, la ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli, ha firmato tutti i decreti che mettono a disposizione un miliardo di euro in totale. A questi si aggiunge la nuova programmazione nazionale triennale 2018-2020, che ammonta a 1,7 miliardi; la proposta di decreto attende l’ok da parte della conferenza unificata (ma l’importo dell’annualità 2018 deve essere ancora definito con il Mef). Le misure, annunciate dalla stessa ministra un mese fa (si veda il «Sole 24 Ore» del 19 luglio) sono pertanto operative.

Il grosso delle risorse è dedicato alla manuntenzione, alla sicurezza e a misure di prevenzione. Le maggiori disponibilità riguardano i 321 milioni assegnati a province e città metropolitane per interventi adeguamento sismico e messa in sicurezza. Le risorse sono state ripartite tra 18 regioni in varia misura – si va dai 4 milioni del Molise ai 48 milioni della Campania – e serviranno a realizzare gli interventi resi necessari dopo le indagini diagnostiche finanziate in precedenza, sempre dal Miur.

Ancora più ricco il budget riservato a cinque regioni del Mezzogiorno messo a disposizione da un apposito bando Pon: 350 milioni destinati alle sole regioni Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia per riqualificare edifici scolastici sotto vari aspetti (adeguamento sismico, messa in sicurezza, misure antincendio, interventi per agibilità). Il bando Pon è stato pubblicato dal Miur il 16 agosto scorso. Dal prossimo 28 settembre le amministrazioni interessate si possono accreditare, mentre per la presentazione delle proposte progettuali e delle richieste di finanziamento la “finestra” temporale resterà aperta dal 18 ottobre 2017 fino al 30 novembre 2017.

A queste somme si aggiungono alcune risorse esclusivamente dedicate alla messa in sicurezza sismica delle scuole: 26,4 milioni di euro per interventi di adeguamento sismico in Italia e di 10 milioni di euro dedicate al “ripristino e alla funzionalità delle scuole” nelle aree del Centro Italia.

Abbastanza robusto anche il pacchetto “prevenzione”, che vale oltre 110 milioni di euro. La quasi totalità delle risorse – pari a 105 milioni – finanzierà una nuova campagna di indagini sulla vulnerabilità sismica degli edifici scolastici. Altri 7,5 milioni serviranno a pagare le indagini diagnostiche mirate su solai e controsoffitti, per prevenire i crolli.

E poi c’è il fronte degli edifici scolastici di nuova costruzione. In questo caso il contributo maggiore viene dall’Inail. La novità riguarda i 150 milioni messi a disposizione dall’Inail su un orizzonte triennale (2018-2020) in conto investimenti per realizzare poli per l’infanzia. Il riparto delle risorse, tra 19 regioni, è stato definito a fine luglio. La fetta più grossa è per la Lombardia (24,3 milioni), all’estremo opposto c’è la Valle d’Aosta con 910mila euro.

Infine, il ministra ha sbloccato anche un’iniziativa di finanza immobiliare: la realizzazione di otto nuove scuole con lo strumento del fondo immobiliare. L’iniziativa vede coinvolti due progettisti d’eccezione: Renzo Piano e Mario Cucinella.

Obbligo scolastico fino a 18 anni solo in quattro paesi Ue

da Il Sole 24 Ore

Obbligo scolastico fino a 18 anni solo in quattro paesi Ue

di Alessia Tripodi

Belgio, Portogallo, Paesi Bassi e Germania (ma solo in alcuni lander). Sono questi i soli paesi europei dove l’obbligo scolastico arriva fino a 18 anni, mentre nella stragrande maggioranza dell’Unione l’età di uscita dagli studi è fissata a 16 anni, come in Italia. La proposta di innalzamento dell’obbligo avanzata dalla ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli farebbe dunque uscire l’Italia dal gruppo più ampio di paesi con una durata “standard” dell’istruzione obbligatoria. Un aumento, quello voluto dalla titolare del Miur, collegato con la sperimentazione del diploma in quattro anni prevista dal recente decreto del ministero che, a partire dall’anno scolastico 2018/2019, coinvolgerà 100 classi dei licei e degli istituti tecnici.

La mappa dell’obbligo in Ue
Secondo l’ultimo rapporto sui sistemi educativi europei pubblicato dalla rete Eurydice, nella maggioranza degli stati Ue (Italia compresa) l’istruzione obbligatoria dura 9-10 anni e si conclude all’età di 15-16 anni. Si sta sui banchi fino a 18 anni solamente in Belgio, Paesi Bassi, Portogallo e in Germania: in quest’ultima, in particolare, l’obbligo si ferma a 18 anni in 12 lander, mentre in altri 5 arriva fino a 19 anni. Lo stesso avviene nella ex Repubblica jugoslava di Macedonia, dove si va a scuola obbligatoriamente fino a 18-19 anni. C’è da sottolineare, spiega il rapporto Eurydice, che in questi paesi fra i 15-16 e i 18-19 anni gli studenti hanno la possibilità di frequentare percorsi in alternanza, che combinano corsi scolastici a tempo parziale con corsi part-time nei luoghi di lavoro. In Austria, Polonia e in Inghilterra, dopo la conclusione ufficiale degli studi a 16 anni, gli studenti devono restare comunque nei percorsi di istruzione o formazione fino al compimento dei 18 anni di età, anche se – sottolinea il rapporto – la frequenza a tempo pieno non è obbligatoria. I ragazzi possono infatti adempiere l’obbligo scegliendo corsi formativi full time o part time oppure percorsi di apprendimento basato sul lavoro.

Diploma in 4 anni, sperimentazione in 100 classi
Intanto, dall’anno scolastico 2018/2019 partirà la sperimentazione per “accorciare” la durata degli studi superiori a 4 anni, alla quale potranno partecipare sia le scuole statali che quelle paritarie. L’avviso sarà pubblicato dal ministero entro la fine di agosto e gli istituti potranno aderire dal 1° al 30 settembre. Saranno stabiliti criteri comuni per la presentazione dei progetti, per «rendere maggiormente valutabile l’efficacia della sperimentazione», spiega il Miur in una nota. Si potrà attivare una sola classe per scuola partecipante e un’apposita Commissione tecnica valuterà le domande pervenute.

Paritarie, traguardo storico: più soldi, aiuti alunni disabili e famiglie. Il Pd ne va fiero

da La Tecnica della Scuola

Paritarie, traguardo storico: più soldi, aiuti alunni disabili e famiglie. Il Pd ne va fiero

 

C’è un obiettivo di cui il Partito democratico va fiero: l’aver riconosciuto la totale equiparazione delle scuole statali a quelle paritarie.
L’ammissione arriva, a mille giorni dall’inizio del Governo Renzi, poi caduto e diventato Gentiloni, dal sottosegretario al Miur, Gabriele Toccafondi.
Parlando al Meeting di Rimini, Toccafondi ha detto che “per la prima volta, dopo la legge Berlinguer del 2000, si è iniziato un percorso di aiuto per l’effettivo riconoscimento della parità scolastica anche nel nostro paese, parlando di un sistema unico d’istruzione. Questo percorso ha portato ad una stabilizzazione dei fondi, arrivando a 500 milioni destinati alle scuole paritarie, ai quali sono stati aggiunti 23,4 mln per le scuole paritarie che accolgono alunni con disabilità”.
Il sottosegretario ha quindi ricordato che “le detrazioni fiscali per la retta delle famiglie aumenterà per il 2017 sarà di 717 euro, di 786 euro per l’anno 2018 e 800 a decorrere dall’anno 2019, per un risparmio effettivo annuo per alunno di circa 160 euro”.

Allargando il discorso agli altri obiettivi raggiunti, sempre dal Pd, Toccafondi ha detto di rivendicare “con forza il lavoro svolto e portato avanti in questi quattro anni dalla maggioranza che ha sostenuto i governi che si sono succeduti. In particolare quei 1000 giorni in cui con forza e decisione il governo Renzi ha abbattuto molti tabù che nel nostro paese sembravano non affrontabili, dal superamento dell’Articolo 18 fino all’abolizione della tassa sulla prima casa ed in particolare e soprattutto si sono abbattuti muri ideologici all’interno nel mondo della scuola”.
Muri che, secondo il rappresentante del Governo, riguardano appunto il maggiore sostegno alle paritarie, anche per la frequenza degli alunni disabili, oltre gli sgravi fiscali per le famiglie.
Delle operazioni che continuano a far storcere il naso a molti. Anche se, per obiettività, va ricordato che, soprattutto per la scuola dell’infanzia e primaria, l’opera delle scuole paritarie è fondamentale per garantire il diritto allo studio, peraltro in cambio di una spesa ad alunno tutt’altro che trascendentale.

Vaccini obbligatori, Flc Cgil: non vietare la frequenza agli alunni regolarmente iscritti

da La Tecnica della Scuola

Vaccini obbligatori, Flc Cgil: non vietare la frequenza agli alunni regolarmente iscritti

 

“Né la legge, né le successive circolari  impongono in alcun punto il divieto di frequenza, affermando solo che la vaccinazione costituisce un requisito di accesso: se il decisore politico ha intenzione di escludere dalla frequenza della scuola dell’infanzia  fin dall’a.s. 2017/2018 i bambini non vaccinati ma regolarmente iscritti e accettati, deve dirlo esplicitamente assumendosene tutte le responsabilità”.

Così scrive la Flc Cgil in un comunicato del 23 agosto, invitando “i dirigenti scolastici a non precludere la frequenza della scuola dell’infanzia ai bambini regolarmente iscritti per l’a.s. 2017/2018  limitandosi, come prevede la legge, a segnalare alle ASL entro il 20 settembre, per gli adempimenti di loro esclusiva competenza, i nominativi dei genitori che non abbiano sottoscritto le autocertificazioni”.

Per il Sindacato “il rischio è quello di escludere dall’inserimento precoce nel sistema di istruzione – considerato un valore e un obiettivo strategico dall’UE – una fascia consistente di bambine e bambini dai 3 ai 6 anni che, solo se appartenenti a famiglie agiate, confluiranno nel sistema privato o perderanno un’opportunità educativa che segnerà in modo indelebile il loro futuro di studenti e cittadini”.

“Come FLC CGIL – conclude il comunicato – vigileremo affinché l’applicazione della legge sui vaccini, contenente finalità estranee al servizio di istruzione, non si trasformi nell’ennesima molestia per i dirigenti scolastici e le segreterie delle scuole e non produca irreparabili lesioni al diritto all’istruzione.

NoiPA, l’indirizzo mail deve essere personale e non condiviso con altri utenti

da La Tecnica della Scuola

NoiPA, l’indirizzo mail deve essere personale e non condiviso con altri utenti

 

NoiPA ha comunicato che l’indirizzo di posta elettronica, personale o fornito dall’ente di appartenenza, per essere accettato da NoiPA deve essere univoco e quindi  non deve essere condiviso con altri utenti.

Di conseguenza, è possibile  inserire il proprio indirizzo di posta elettronica istituzionale (ad es. nome.cognome@istruzione.it ) o un indirizzo di posta elettronica personale (ad es. nome.cognome@gmail.com ) ma non l’indirizzo di posta elettronica del proprio ufficio (ad es. nomeufficio@istruzione.it ) nel caso in cui sia stato già utilizzato da altri utenti.

Immissioni in ruolo, il pasticcio delle graduatorie di merito in Sicilia

da La Tecnica della Scuola

Immissioni in ruolo, il pasticcio delle graduatorie di merito in Sicilia

 

In Sicilia si rischia seriamente di sforare il 31 agosto, termine imposto dal Miur per completare le operazioni di immissione in ruolo dei nuovi insegnanti per l’anno scolastico 2017/2018.

Se nel resto d’Italia le operazioni si svolgono a rilento un po’ dappertutto, infatti in Sicilia le cose vanno anche peggio, considerati gli innumerevoli intoppi, anomalie ed errori che si sono susseguiti in questo agosto caldo.

Abbiamo infatti parlato in precedenza dell’incredibile vicenda capitata all’USP di Catania, che riguardava però l’ambito territoriale di Trapani, in cui venivano revocati gli incarichi a tre docenti all’USP di Catania per un nuovo conteggio dei posti disponibili nell’ambito di Trapani, in cui si dichiarava errato il primo contingente, quindi i posti inizialmente assegnati in realtà non esistevano.

Il tutto è stato accompagnato dalle polemiche dei vincitori delle graduatorie di merito, che lamentano ancora delle scorrettezze nei punteggi della graduatoria, segnalate da tempo, ma ancora presenti, con molti candidati che hanno già avviato le pratiche legali del ricorso.

Per cui sono stati tanti gli esclusi nonostante la presenza in graduatoria, altri scavalcati da colleghi con punteggi più bassi, insomma, un vero e proprio pasticcio alla “siciliana”, direbbero gli isolani.

La Cisl scuola siciliana ha denunciato a gran voce l’accaduto, riporta Il Giornale di Sicilia, sottolineando che gli errori avrebbero riguardato tutte le classi di concorso, ma in special modo la scuola dell’Infanzia.

Il sindacato attacca l’USR Sicilia per aver ignorato i numerosi reclami, che presto si trasformeranno in ricorsi, tanto che una delegazione di docenti chiederà l’accesso agli atti per provare a capire meglio come sono andate veramente le cose.

Sempre i docenti di scuola dell’infanzia, presenti in Graduatoria di Merito, raccontano che, dopo aver segnalato errori macroscopici al momento della pubblicazione, con 5 giorni di tempo per segnalare eventuali errori, dopo un alto numero di reclami e 3 rettifiche, la graduatoria risulta ugualmente errata.

Quest’anno il contingente di docenti dell’Infanzia per l’intera regione siciliana era di 49 posti ma al momento delle prime convocazioni per l’assunzione, le rinunce sono state tante, dato che i docenti in graduatoria hanno accettato posti in altre classi di concorso.
Il 17 agosto l’USR ha indetto una seconda convocazione, ancora piena di errori, alla fine di ciò restano ancora 7 posti liberi.

Ma l’Ufficio scolastico, anziché procedere ad un’altra convocazione, ha deciso di procedere per convocazione nominale, tramite telefono, rimandando a settembre o ottobre la correzione degli errori in graduatoria.

Da qui la domanda di tantissimi candidati: “con quale criterio si scorre la graduatoria di merito?

Nota 24 agosto 2017, AOODGPER 36708

Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e di formazione
Direzione generale per il personale scolastico – Ufficio IV
Personale docente ed educativo

Ai Direttori generali degli uffici scolastici regionali
LORO SEDI

Oggetto: Trasmissione D.M. 638/17 relativo al contingente del personale con funzione di tutor presso i corsi universitari propedeutici all’insegnamento

Si trasmette, in allegato, il Decreto Ministeriale n. 638 del 23 agosto 2017, che definisce il contingente del personale con funzione di tutor presso i corsi universitari di Scienze della Formazione propedeutici all’ insegnamento. Nel chiedere alle SS.LL. di provvedere agli adempimenti conseguenti a partire dalla trasmissione agli Atenei interessati, si evidenzia quanto segue.
In primo luogo si sottolinea la necessità di un’attenta ricognizione del reale fabbisogno dei singoli Atenei per procedere, previa interlocuzione con questi ultimi, all’eventuale ridefinizione dei contingenti assegnati ai medesimi per le esigenze relative ai corsi di laurea di Scienze dalla Formazione primaria nei limiti dei contingenti regionali previsti dalla tabella A allegata al Decreto Interministeriale 26 marzo 2013 n. 210, tabella che ad ogni buon fine si allega alla presente.
In secondo luogo, si prega di evidenziare ai responsabili dei corsi la necessità di comunicare tempestivamente i nominativi del personale in parola, per consentire agli Uffici e alle istituzioni scolastiche una corretta programmazione dell’impiego delle risorse dell’organico dell’autonomia.
Per quanto riguarda invece il contingente relativo ai percorsi per l’insegnamento della scuola secondaria, si daranno successive indicazioni a seguito dell’attuazione del D.lgs 59/17

Si ringrazia per la consueta collaborazione.

IL DIRETTORE GENERALE
Maria Maddalena Novelli

Allegati:
1. Decreto Ministeriale n. 638 del 23 agosto 2017
2. Tabella A allegata al Decreto Interministeriale 26 marzo 2013 n.210