Sostegno negato

Redattore Sociale del 25-08-2017

Sostegno negato, Anief: in Sicilia boom di alunni disabili. Aiuto per tutelare docenti e famiglie

Il sindacato analizza la situazione preoccupante della Sicilia: boom di alunni disabili, sono presenti 16.378 posti di sostegno e l’Ufficio scolastico ne assegna 5 mila a supplenza: “Così lo Stato risparmia sui mesi estivi e mantiene il personale in stato di precarietà”.

ROMA. “A pochi giorni dall’avvio del nuovo anno scolastico, sul sostegno agli alunni disabili il Ministero dell’Istruzione non si smentisce. Anzi, si incaponisce nella sua azione di mancata stabilizzazione del personale, con danni palesi per i discenti e il loro diritto allo studio”: così esordisce in una nota oggi il sindacato Anief. “Il fenomeno diventa eclatante in alcune regioni – prosegue Anief -, dove il numero di alunni con problemi di apprendimento cresce, e con esso le cattedre di didattica speciale, ma l’amministrazione scolastica non riesce a fare altro che gonfiare il numero di posti in organico di fatto. Creando, dunque, una situazione di immobilismo, perché quel genere di posti non dà diritto né al trasferimento del personale docente di ruolo specializzato, né alla stabilizzazione di quello precario”.

Il sindacato evidenzia che la situazione è diventata preoccupante in Sicilia, dove sono presenti 16.378 posti di sostegno, oltre la metà dei quali divisi tra Palermo e Catania: per l’amministrazione, quasi un terzo di queste cattedre deve andare necessariamente a supplenza fino al 30 giugno prossimo, perché il direttore generale dell’Usr dell’Isola, Maria Luisa Altomonte, con il decreto direttoriale n. 52, ha assegnato agli Uffici degli Ambiti Territoriali addirittura 4.872 cattedre in deroga. Un numero impressionante, non certo giustificabile dalle 1.203 nuove certificazioni accordate delle Asl rispetto al 2016, nonché dall’incremento di ulteriori alunni disabili gravi.

Ma il danno non finisce qui, secondo quanto mette in luce il sindacato. Perché dai numeri trasmessi dall’USR Sicilia si evince anche come, a fronte di 5.947 posti necessari oltre a quelli già attivati in organico di diritto, vengano attivati “in deroga” solo 4.872 posti con una carenza di più di 1.000 posti: questo significa, almeno 1.000 alunni disabili siciliani a cui l’Amministrazione, anche per questo anno scolastico, negherà il corretto numero di ore di sostegno, in aperta violazione di quei fondamentali principi costituzionali e eurounitari che tutelano il diritto allo studio e all’integrazione dell’alunno disabile.

Il problema è che, dinanzi al crescere della domanda di sostegno, il Miur avrebbe dovuto adottare provvedimenti ad hoc. Invece, continua ad arroccarsi dietro l’ormai superato vincolo percentuale introdotto dall’ex Ministro Maria Chiara Carrozza, con la Legge 128/2013, che impone il 30% dei posti di sostegno liberi al 30 giugno e quindi non disponibili per trasferimenti e assunzioni.

Anief però non ci sta: dopo un’analisi della situazione, il sindacato ha deciso di “svelare il trucco” dell’organico di sostegno in deroga e denunciare l’illegittimità dell’operato dell’amministrazione che nega la stabilità dei posti di sostegno impedendo non solo ai lavoratori una solidità della propria posizione, ma anche agli stessi alunni disabili la possibilità di avere un docente specializzato che li segua per tutto il ciclo d’istruzione, assicurando realmente il diritto all’integrazione e al sostegno dell’alunno disabile con una vera continuità didattica. “Preso atto delle 1.203 nuove certificazioni dichiarate dall’Usr Sicilia – commenta Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e segretario confederale Cisal – l’amministrazione non doveva creare tutti quei posti al 30 giugno, quindi da dare solo in supplenza. Questo rende palese che i posti attivati ‘in deroga’, che dovrebbero seguire il criterio dell’eccezionalità e della contingenza, sono in realtà posti vacanti e disponibili da anni e che dovevano essere presenti in modo stabile nell’organico di diritto degli istituti. Questi posti, quindi, dovevano essere utilizzati sia per le immissioni in ruolo sia per il trasferimento dei docenti di ruolo specializzati, in modo da garantire agli alunni disabili una vera continuità didattica e tutelare correttamente il loro diritto allo studio e all’istruzione costituzionalmente garantito”.

“Il nodo della questione è tutto nel fatto – continua Pacifico – che su disposizioni del Miur ancora oggi un posto su tre di sostegno continua a essere collocato in deroga, perché in questo modo lo Stato risparmia sui mesi estivi e mantiene il personale in stato di precarietà. Non pensando che il minimo risparmio garantito alle casse pubbliche venga poi vanificato da una minore qualità del servizio a sostegno degli alunni con limiti di apprendimento. Rilanciamo, quindi, il nostro patrocinio gratuito a famiglie, docenti e cittadini che intendono chiudere in tribunale il numero di ore coincidente con quelle indicate dalle commissioni di esperti dello Stato e che invece continuano a essere sistematicamente negate dall’amministrazione”.

Le famiglie degli alunni danneggiati da questa illegittima operazione posta in essere dall’amministrazione potranno scrivere al nostro sindacato in tutti quei casi in cui dovessero vedersi negato il corretto monte ore di sostegno o volessero contestare la mancata attivazione delle ore in organico di diritto, con relativa impossibilità di garantire all’alunno la corretta continuità didattica con un docente di ruolo che possa garantire l’azione didattica per tutto il ciclo d’istruzione. I nostri legali tuteleranno gratuitamente i lavoratori e le famiglie che hanno subito un danno dalla mancata corretta trasformazione dell’organico di sostegno in posti in organico di diritto e continuerà a tutelare le famiglie degli alunni disabili cui viene negato il corretto numero di ore di sostegno.

Le famiglie degli alunni disabili potranno ricevere informazioni sulle specifiche azioni legali patrocinate gratuitamente dall’Anief per tutelare il diritto all’istruzione e alla continuità didattica dei propri figli, scrivendo all’indirizzo sostegno@anief.net. Anche i docenti siciliani specializzati, precari o di ruolo potranno aderire al ricorso gratuito patrocinato dai legali Anief, finalizzato alla corretta trasformazione delle ore di sostegno attribuite “in deroga” dall’Ufficio scolastico regionale della Sicilia, rivendicando in tal modo la loro trasformazione in Organico di Diritto: l’adesione al ricorso scade il prossimo 12 settembre.

Il ricorso, per ottenere la stabilizzazione dell’organico di sostegno con la trasformazione dei posti in deroga in posti in organico di diritto, fa da corollario all’azione di sensibilizzazione che l’Anief promuove da anni con l’iniziativa “Sostegno, non un’ora di meno!”, attraverso cui il sindacato promuove ricorsi gratuiti presso il competente tribunale amministrativo per far ottenere agli alunni disabili il corretto apporto di ore di sostegno che l’Amministrazione sistematicamente non riconosce a inizio anno scolastico e indennizzare le famiglie.

Come aderire al ricorso gratuito. Famiglie: possono ricevere informazioni sulle specifiche azioni legali patrocinate dall’Anief per tutelare il diritto all’istruzione e alla continuità didattica dei propri figli, scrivendo all’indirizzo sostegno@anief.net; docenti: possono fare ricorso al Tar per recuperare i posti assegnati in deroga sul sostegno in Sicilia e ottenere la trasformazione in organico di diritto, in modo da renderli utili sia per i trasferimenti sia per le immissioni in ruolo: per informazioni e/o adesioni cliccare qui.

Stanare gli insegnanti incapaci?

Stanare gli insegnanti incapaci?

di Enrico Maranzana

Le dichiarazioni della ministra Valeria Fedeli, rilasciate il 22/8, si fondano su una concezione antiquata della funzione docente. Giudizio motivato dalle asserzioni: “L’inamovibilità a fronte dell’incapacità non dev’essere più possibile” e “Bisogna intervenire sulla qualità della didattica. E dunque sulla qualità formativa dei docenti”.

Nel pensiero della ministra sono assenti due pilastri della cultura e della legislazione scolastica contemporanea: la visione sistemica e la progettualità.
La legge 107/2015 [La buona scuola] titola “Sistema Nazionale di istruzione e di formazione” per affermare l’unitarietà e l’orientamento dell’istituzione scuola. Un sistema agisce per conseguire risultati: il significato dei singoli componenti, che non hanno valore autonomo, deriva dall’interazione e dal coordinamento sinergico. La ministra, rigettando tale assunto, conferma e rinforza la tradizionale visione disarticolata: il modello di riferimento è quello universitario.
L’assenza della cultura sistemica è una costante delle elaborazioni ministeriali. Si consideri la sperimentazione dei licei brevi: le competenze specifiche dell’apprendimento saranno i parametri di validazione.
La categoria “obiettivi specifici dell’apprendimento” è stata introdotta nel 2010 dal Miur nelle indicazioni nazionali, come raffinamento del DPR 89/2010 [CFR. la gerarchia delle norme giuridiche]. L’allegato a) del decreto per i licei fornisce un ampio repertorio di competenze generali: i traguardi cui tutti gli insegnamenti devono mirare. Esse mostrano la sostanza del profilo culturale, educativo e professionale dello studente di fine percorso.
 
Competenze generali = finalità del sistema scolastico.
Competenze specifiche = traguardi dell’insegnamento disciplinare [CFR legge 53/2003 art. 2 lettera a)].
Il criterio scelto per la validazione dell’attività sperimentale sacrifica la visione d’insieme e occulta l’orientamento del sistema scolastico: si difende lo status quo in cui i singoli docenti sono i protagonisti.
L’inamovibilità a fronte dell’incapacità non dev’essere più possibile”? Indubbiamente: bisogna garantire l’efficacia del servizio, garanzia che non può essere fornita in assenza di un mansionario in cui si precisano le responsabilità del docente.
 
La legge 107/2015 [La buona scuola] mira alla “piena attuazione all’autonomia delle istituzioni scolastiche”, autonomia che “si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione” [DPR 275/99].
 
La progettazione formativa trova compimento nei PTOF che elencano le competenze generali che lo studente deve esibire al termine del percorso scolastico, competenze generali elaborate in funzione dell’assetto socio-economico-culturale dell’ambiente di riferimento.
La progettazione educativa riguarda il disegno di percorsi d’apprendimento che conducono alla conquista delle competenze generali: il collegio dei docenti identifica i propri traguardi, (enucleandoli dalle competenze generali) e ne valuta il conseguimento [CFR TU 297/94 programmazione dell’azione educativa e art. 7 lettera d)].
 
La progettazione dell’istruzione compete al consiglio di classe che adatta i percorsi del collegio alla specificità della classe.
La progettazione dell’insegnamento chiude la catena: i docenti disegnano e gestiscono percorsi didattici per conseguire sia gli obiettivi collegialmente identificati, sia quelli della disciplina d’appartenenza.
 
Il consiglio di istituto [che approva il PTOF] e il collegio dei docenti hanno responsabilità strategiche.
Il consiglio di classe, che opera nel medio periodo, ha responsabilità tattiche.
I docenti hanno mansioni esecutive: usano strumentalmente le loro competenze didattiche.
 
Bisogna intervenire sulla qualità della didattica. E dunque sulla qualità formativa dei docenti”?  Certamente, ma solamente dopo aver attivato quanto necessario per razionalizzare la gestione scolastica e per garantire il rispetto dello spirito e della lettera delle norme.

Sgombero rifugiati a Roma

Sgombero rifugiati a Roma, l’indignazione della FLC CGIL. Le istituzioni italiane trovino presto una nuova sistemazione e restituiscano ai bambini la loro scuola

La denuncia dell’Unicef sullo stato e sulla condizione drammatica, non solo sul piano psicologico, dei bambini eritrei, figli di rifugiati, costretti ad assistere ieri alla violenza sui loro genitori, fatti sgomberare dalle forze di polizia a piazza Indipendenza a Roma, ci spinge da una parte a condividerne la sofferenza e a manifestare verso di loro la più affettuosa solidarietà della nostra organizzazione, ma dall’altra ad un moto fortissimo di indignazione rispetto alle modalità scelte per effettuare l’operazione. Siamo perciò accanto all’Unicef, a Medici senza frontiere, alla Caritas romana, a tutte le volontarie e tutti i volontari che hanno dato testimonianza di umanità e civiltà, in un contesto che questa umanità avrebbe potuto perderla del tutto, sotto le sferzate disumane degli idranti su persone inermi e a braccia alzate.

Chiediamo perciò con forza e determinazione che le istituzioni italiane facciano tutto il possibile per restituire a quei bambini, vittime due volte e innocenti due volte, la serenità che meritano, che facciano tutto il possibile per evitare di eradicarli dal contesto sociale, umano e scolastico nel quale sono vissuti fino a ieri, che li aiutino a formarsi dell’Italia l’idea di un paese che antepone la civiltà e il rispetto della dignità della persona umana a qualunque forma di repressione. Va trovata subito, da parte del governo nazionale, del Comune di Roma e della Regione Lazio, una nuova sistemazione per i rifugiati, e per quei bambini si tenga conto delle necessità psicologiche e didattiche, nello sforzo di restituire loro innanzitutto la stessa scuola e gli stessi insegnanti, perché c’è un enorme lavoro di ricostruzione da fare con loro, e siamo certi che la nostra classe docente sarà preparata e in grado di farlo. Quegli insegnanti sapranno, ne siamo certi, risanare le ferite dei bambini. Così come faranno i loro compagni di classe.

Quanto è accaduto ieri a Roma deve essere una dura lezione per tutti, soprattutto per le istituzioni democratiche. Quello che abbiamo visto ieri e che ha fatto inorridire il mondo intero, non deve ripetersi.

Mai più.

Scuola, più che il «quanto» è il «cosa»

da Il Sole 24 Ore 

Scuola, più che il «quanto» è il «cosa»

di Giovanni Brugnoli*

Discutere del nostro sistema scolastico non può farci male. La scuola lascia un segno profondo nella vita dei singoli e in quella della comunità, influenzandone le qualità e le possibilità civili ed economiche. Poiché plasma il presente ma, al tempo stesso, ipoteca il futuro, è importante discuterne, apertamentetanto più in un periodo in cui la società e l’economia vanno trasformandosi. Il dibattito di questi giorni pone tre questioni su cui vale la pena riflettere.

Le nuove tecnologie, la robotizzazione e i processi di digitalizzazione della società e dell’economia, pongono alla scuola nuove sfide. Servono nuovi saperi e maggiori competenze in ambiti scientifici. In Italia occorre disseminare questi saperi sin dai primi gradi della scuola per dare, ad un numero crescente di studenti, la possibilità di affrontare quei percorsi scolastici e universitari di natura tecnico-scientifica che offrono maggiori opportunità di occupazione. Non solo materie scientifiche ma serve tornare ad insegnare la logica. Le tecnologie, infatti, ci hanno permesso di affidarla alle macchine, ai computer, e così, la generazione dei nativi digitali rischia, paradossalmente, di perdere la capacità di ragionare che è, invece, da sempre il motore del progresso. Del resto non è un caso che i test di ingresso delle migliori scuole, italiane e straniere, siano proprio basati sulla valutazione della capacità logiche e di ragionamento. Dobbiamo, rapidamente, portare la scuola italiana su questa strada, investendo sul merito degli insegnanti e mettendo finalmente gli studenti al centro delle nostre attenzioni.

Occorre evitare alle future generazioni e alla nostra società le conseguenze di un drammatico mismatch fra ciò che si sa, o si è in grado di imparare e ciò che serve sapere o saper fare. Un’economia globalizzata, infatti, muove investimenti e crea lavoro in quei territori che offrono le migliori opportunità e, non vi è dubbio, che nuove produzioni e nuovi servizi richiederanno saperi, competenza e talento. La questione, dunque, non riguarda certo il “quanto” si sta a scuola, ma, piuttosto, il “cosa” vi si impara. Se il “cosa” non diventa utile ad affrontare il futuro, stare in classe fino a 18 anni non servirà a granché. In questa ottica, non risolve, ma certo aiuta, costruire una relazione virtuosa ed equilibrata fra scuola e mondo del lavoro.

La seconda questione riguarda la riduzione da 5 a 4 anni della durata della scuola superiore. L’idea non è di oggi. Nella maggior parte dei Paesi europei, infatti, il percorso scolastico dura 12 anni mentre da noi gli anni sono 13, cosicché gli studenti italiani possono accedere all’ Università un anno dopo rispetto ai loro coetanei europei. Una sperimentazione era stata già avviata alcuni anni fa in un numero di scuole molto circoscritto ma era stata presto interrotta, anche a causa delle resistenze di chi, per convinzione o convenienza, era contrario.

Ora, meritoriamente, la Ministra Fedeli ci riprova e mostrando coraggio allarga la sperimentazione a un numero più significativo di scuole. Sulla proposta sono state già sollevate le solite obiezioni: si svilisce il bagaglio culturale degli studenti; si mette troppa enfasi sull’inserimento lavorativo. Sono argomenti sensati che vanno tenuti in conto ma che non possono impedire la sperimentazione. Alcune esperienze, peraltro, ci sono già: il Liceo Guido Carli di Brescia e l’Istituto Tecnico Tosi di Busto Arsizio e ciò dimostra che anche da noi si può fare come già fanno molti altri Paesi simili al nostro.

In ultimo, la questione più delicata e complessa che riguarda l’elevazione del cosiddetto “obbligo scolastico”. La discussione sul punto va affrontata senza pregiudizi guardando in faccia la realtà. Oggi, il 98% dei licenziati della scuola media prosegue nelle superiori e, ben oltre l’80% arriva al diploma di obbligo scolastico.

Negli anni 60, a malapena, il 30% degli studenti arrivava a terminare la scuola media. Nonostante ciò abbiamo un livello di disoccupazione giovanile sopra il 30%, fra i più elevati in Europa e sono oltre 2 milioni i cosiddetti Neet, giovani che non studiano e non lavorano. L’età media di ingresso nel mondo del lavoro nei paesi più avanzati è attorno ai 22-23 anni mentre da noi supera i 28. In questo quadro discutere della mera elevazione dell’obbligo scolastico, certo, non aiuta. Sarebbe, invece, più utile ragionare sul fatto che la scuola italiana, in molte aree del Paese, continua a non avere quel livello di qualità che permette agli studenti, alla fine dei loro percorsi di studio, di pareggiare le differenze sociali, valorizzando il merito.

Dobbiamo riconoscere che la nostra scuola, rischia di diventare un fattore di divaricazione delle opportunità: chi ha più possibilità alla partenza, molto spesso termina il proprio percorso educativo con un vantaggio ancora maggiore. Chi aveva meno possibilità, si trova ancor più distaccato dagli altri. Non si risolve un problema di questa portata limitandosi a tenere in classe i ragazzi fino a 18 anni. Serve, come del resto suggerisce anche la ministra Fedeli, un lavoro paziente che metta ordine nell’offerta formativa; eviti sovrapposizioni e conflitti, come quello fra lauree professionalizzanti e formazione tecnica superiore (ITS); elevi finalmente la qualità media del nostro sistema educativo che va considerato nelle sue due fondamentali componenti: scuola e formazione professionale. Su questi temi Confindustria pone da sempre grande attenzione. Ricordo il dossier dell’ottobre del 2014, con analisi e proposte a tutto tondo e, da ultimo, il documento, “Giovani, impresa, futuro”, presentato a giugno di quest’anno, con una proposta organica per realizzare un sistema scolastico duale anche in Italia. Sono questioni complesse ma vanno affrontate con rapidità, determinazione e, soprattutto, grande senso pratico se davvero si vuole dare effettività ai diritti.

L’autore è Vicepresidente Confindustria

Scuola. l’obbligo a 18 anni non è la priorità

da la Repubblica

Scuola. l’obbligo a 18 anni non è la priorità

Maria Pia Veladiano

Più scuola per quasi tutti e meno scuola per qualcuno? Oppure più scuola ma per tutti? Le notizie estive sulla scuola chiedono una bussola o ci si perde. Accanto al liceo breve che porta al diploma un anno prima adesso la ministra Valeria Fedeli fa una dichiarazione di intenti a favore dell’innalzamento dell’obbligo scolastico da 16 a 18 anni.

In realtà il “diritto all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o comunque sino al conseguimento di una qualifica di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età” esiste dalla legge 53/2003, ribadito in successivi decreti e poi di fatto sfumato dalla Buona scuola ma non dal Jobs Act che prevede che gli studenti delle scuole statali dai 15 ai 25 anni di età possano accedere a contratti di apprendistato per 36-48 mesi ai fini del conseguimento del diploma. Si tratta dell’avvio di un sistema duale simile a quello tedesco che però in Germania parte da un impianto dell’istruzione completamente diverso e molto legato alle differenze esistenti fra i Länder. Questo significa che qualsiasi nuova idea sulla scuola deve tenere conto dell’esistente e soprattutto di un esistente costituito da novità non ancora a regime e non ancora verificate nella loro efficacia.

Se il diritto dovere all’istruzione e alla formazione non si è ancora realizzato dal 2003 ci sono delle ragioni che vanno esplorate prima di introdurre altri obblighi.

E poi ci sono le priorità. In questo momento la priorità è la dispersione, ancora troppo alta (tra il 15 e il 20% a seconda delle indagini) rispetto ai Paesi dell’Unione europea (11%). Se non riusciamo a tenere i ragazzi a scuola fino a 16 anni non sembra che innalzare l’obbligo a 18 renda la cosa più facile. Altra priorità è l’analfabetismo funzionale, e cioè il fatto che gli italiani giovani e adulti nella bella misura del 28% non sono in grado di comprendere testi d’uso e di tipo argomentativo. L’Italia è penultima in Europa e quartultima al mondo in questa competenza, il che vuol dire che ragazzi e adulti si formano convinzioni politiche e anche pseudoscientifiche (i dibattiti “scientifici” sui social sono spesso surreali) attraverso slogan o appartenenze. Una manna per i demagoghi di tutte le appartenenze, una tragedia per la democrazia. Poi c’è la priorità di una scuola pubblica che non è più fattore di promozione sociale ed economica come è stata fino a un tempo abbastanza recente e anche questa è una tragedia.

E infine c’è la priorità data da un’integrazione culturale assolutamente necessaria, che diventa non solo esercizio di giustizia verso chi arriva da noi pieno di bisogni ma anche di diritti, ma anche un’assicurazione sul futuro della nostra convivenza. Bisogna tenere insieme i ragazzi, italiani e stranieri, a scuola e dare loro una lingua. Questo è (quasi) tutto. Non è poco ma l’obbligo e diritto all’istruzione si misura non in quantità ma, si potrebbe dire, in intensità e qualità dell’esperienza vissuta. In questi anni la scuola non ha avuto un giorno di pace in cui riflettere su se stessa e sull’efficacia delle riforme che si accavallano, e la cui armonizzazione con la normativa esistente è poi lasciata alla mitizzata autonomia scolastica. L’azione educativa può agire nella povertà dei mezzi (e lo abbiamo imparato a fare egregiamente) ma non nella confusione e nell’emergenza continue.

Più istruzione è ovvio che è sempre una cosa buona. Ma se allungare più o meno la frequenza sia una cosa buona è una domanda senza senso. Dipende dalla qualità, dalla bellezza, dalla capacità di offrire esperienze significative che permettano di essere a scuola in modo personale, vigoroso, attivo. E di imparare.

Combattere la jihad a scuola

da la Repubblica

Combattere la jihad a scuola

Alcuni dei giovani che hanno colpito in Europa negli ultimi mesi avevano da poco lasciato gli studi: è nelle aule che si possono intercettare i primi segni di cambiamento. Per questo il ruolo di insegnanti e professori è fondamentale

Renzo Guolo

Prevenzione culturale: l’espressione chiave quando si parla di prevenzione della radicalizzazione jihadista è questa. Il senso della frase è chiaro: se si vuole impedire che il radicalismo faccia proseliti, occorre predisporre interventi di contrasto, laddove – scuole, nuovi media, carceri- quel rischio appare concreto. Ma come?

Tra qualche settimana anche l’Italia avrà una legge che risponde a questo interrogativo: saranno infatti varate misure di prevenzione della radicalizzazione jihadista non tanto sul terreno tipico delle forze di polizia e intelligence ma, ed è la prima volta nel nostro Paese, anche su unpiano più vasto.

LA LEGGE

La legge che sarà approvata a breve ha un raggio di azione molto ampio. Prevede progetti che vanno dalla diffusione della conoscenza sulla realtà culturale e religiosa di una società plurale, alla valorizzazione di una contronarrazione che consenta ai giovani musulmani di percepire la natura e i caratteri della propaganda jihadista. Ma non solo: fra le novità previste, c’è quella dell’ingresso nelle carceri di figure che consentano di demistificare le distorsioni teologiche prodotte dal messaggio radicale e contribuiscano a de-radicalizzare quanti potrebbero aver già fatto il salto. Di fatto, si tratta della presa d’atto che il contrasto a un fenomeno come la radicalizzazione deve essere fatto soprattutto sul terreno della battaglia delle idee.

LA SCUOLA

La legge pone molta attenzione sulla scuola e sulle Seconde generazioni (i figli degli immigrati) che la frequentano: lo fa finanziando interventi e formazione nel campo della conoscenza e della didattica interculturale e sollecitando le reti scolastiche a servirsi di esperti forniti da università o altri enti. Qui il motore è l’Osservatorio nazionale per l’Integrazione degli alunni stranieri e per l’Intercultura, che definisce linee guida e modalità d’intervento in coerenza con gli obiettivi fissati dal Piano varato dal CRAD, il Centro nazionale per la radicalizzazione, che è il motore di tutto il piano.

Per progetti, attività di formazione e aggiornamento del personale sono previsti finanziamenti per 20 milioni di euro in due anni. In questa visione, dunque, la scuola viene concepita non solo come luogo della diffusione del sapere ma anche come produttrice di cittadinanza attiva.

Anche l’università è chiamata a svolgere un ruolo. Fornendo saperi frutto della sua attività di ricerca e, come vuole la legge, promuovendo la formazione accademica di figure professionali specializzate nel campo della radicalizzazione. Per queste funzioni sono previsti finanziamenti per 5 milioni di euro a partire dal 2017.

Basterà tutto questo? Ed è pensabile che la scuola italiana, con tutti i suoi problemi riesca a svolgere un simile compito? Per evitare che l’Italia colmi presto il prezioso ritardo nella comparsa di aspiranti jihadisti tra le Seconde generazioni, la strada sembra obbligata.

IL MECCANISMO

Il “cervello” di tutto il dispositivo è il CRAD. Una cabina di regia, collocata presso il dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione del ministero dell’Interno, nella quale dovrebbero essere presenti rappresentanti dei diversi ministeri, esponenti di istituzioni, enti e associazioni, membri della Consulta per l’Islam italiano.

Esplicito segnale, quest’ultimo, della volontà di coinvolgere leadership musulmane ritenute affidabili in un percorso che non può prescindere dal loro contributo.

E’ il CRAD a varare il Piano strategico nazionale di prevenzione, approvato dal Consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’Interno, la cui attuazione è demandata a centri regionali (CCR), gemmati sul modello della struttura centrale nel territorio. Funzionerà? Molto dipenderà dalla volontà di chi si troverà a applicare la legge: un esecutivo formato da forze politiche convinte che sia preferibile insistere sul solo terreno del contrasto repressivo la svuoterebbe di fatto.

LA FORMAZIONE

Quello delle competenze è uno dei cardini della legge. E’ previsto che i ministeri istituiscano attività di formazione per il personale di polizia, delle forze armate, dell’amministrazione penitenziaria, dei corpi di polizia locale, di docenti e dirigenti delle scuole e delle università, di operatori dei servizi sociali e socio-sanitari.

L’obiettivo è la diffusione di conoscenze che consentano di valutare eventuali processi di radicalizzazione ma che permettano anche di non scambiare l’esercizio di diritti garantiti costituzionalmente, come la libertà di culto con manifestazioni di jihadismo.

Insomma, il terrorismo di matrice islamista impone di conoscere meglio cultura e religione di quanti vivono stabilmente nella società italiana, per evitare di produrre stigmatizzazioni collettive

Registro elettronico, 15 milioni di euro per metterlo alla primaria. Gli studenti: soldi buttati

da La Tecnica della Scuola

Registro elettronico, 15 milioni di euro per metterlo alla primaria. Gli studenti: soldi buttati

 

Gli investimenti del Governo sulla scuola non soddisfano gli studenti. Perché sono scarsi. E pure spesi male.

“Si pensi ai 15 milioni destinati ai registri elettronici, strumenti utili soltanto al controllo e alla repressione degli studenti”. La denuncia è di Francesca Picci, coordinatrice nazionale dell’Unione degli studenti, che a nome dell’associazione chiede “misure più sostanziose” per il rilancio della scuola e del diritto allo studio.

Il riferimento è all’impegno di 15 milioni di euro preso dalla ministra dell’Istruzione per estendere il registro elettronico a tutte le classi delle scuole del primo ciclo (il bando scade il 16 ottobre). La cifra indicata per la copertura dei registri on line in seno alle scuole, del resto, è necessaria se si vuole implementare la scuola di tecnologie digitali e moderne: basti pensare che oggi tra costi per installare le linee, hardware, software e corsi formativi per il suo utilizzo corretto, una scuola autonoma può arrivare a spendere anche 7-8 mila euro. Moltiplicando la spesa per circa 2mila scuole primarie interessate, i 15 milioni stanziati dal Miur potrebbero quindi anche non bastare.

Il problema, sostiene la rappresentante Uds, è che “il piano del ministero è del tutto insufficiente e ci conferma la volontà del Governo di non voler risolvere nel profondo le criticità, anzi in certi frangenti le aggrava”.

L’Unione degli studenti attacca il ministero dell’istruzione anche per i contenuti dell’ABC, le novità riguardanti la scuola del prossimo anno: edilizia scolastica, diritto allo studio, alternanza e altro ancora.

“L’ABC del Governo ci consegna un’idea di sviluppo della scuola ancora escludente, autoritaria, e lontana dalle soluzioni concrete che gli studenti rivendicano da anni. ” – afferma – “Le misure per il diritto allo studio continuano ad essere del tutto insufficienti: i 30 milioni, aggiunti ai 40 già stanziati, sono cifre ridicole considerando che per raggiungere la gratuità dell’istruzione occorrerebbero 14 miliardi.  Lo stesso discorso vale per edilizia scolastica, che richiederebbe un finanziamento simile a quello per il diritto allo studio e l’alternanza scuola lavoro: le misure messe sul piatto dal Governo non sono bastevoli e ben si allontanano dalle risorse che sarebbero necessarie per raggiungere una scuola sicura e di qualità”.

“In particolare, per quanto concerne l’alternanza scuola lavoro, l’introduzione della Carta dei diritti e dei doveri non è sufficiente in quanto si eludono i temi più caldi e di interesse per gli studenti. Mancano ancora delle garanzie reali sui percorsi rispetto allo sfruttamento degli studenti, alla tutela dell’ambiente e alla gratuità dell’esperienza”, prosegue Picci.

“Il Portale online che permetterà agli studenti di segnalare i cattivi casi di alternanza, invece, rischia di essere soltanto un canale per sfogare le proprie brutte esperienze, e ha ben poco a che fare con la necessità di dare spazio e responsabilità agli studenti nella decisione e programmazione delle proprie esperienze di alternanza”.

“Rispetto al diritto allo studio, l’edilizia scolastica e l’alternanza scuola lavoro – conclude – abbiamo le idee chiare e sono controcorrente rispetto al Governo, ed è per questo che il 13 ottobre saremo in tutte le piazze del Paese, praticando nel mentre il primo sciopero dell’alternanza scuola-lavoro, per una scuola gratuita per tutte e tutti, sicura e di qualità”.

Università gratis solo il primo anno, poi serve il merito: rette salate per chi sfora i tempi

da La Tecnica della Scuola

Università gratis solo il primo anno, poi serve il merito: rette salate per chi sfora i tempi

 

Si delinea in modo più chiaro il provvedimento previsto dalla prossima Legge di Bilancio per ridurre le spese di frequenza universitaria alle fasce meno abbienti.

Come preannunciato alcuni giorni fa dalla Tecnica della Scuola, infatti, le nuove regole imposte a tutti gli atenei pubblici prevedono che per le matricole con reddito Isee fino a 13mila euro l’iscrizione sarà gratis, tranne comunque l’imposta regionale e il bollo.

Rispetto al passato, ha calcolato Repubblica, per gli studenti nella stessa fascia Isee il risparmio annuo medio è tra i 300 e i 500 euro. La platea complessivamente interessata dal cambiamento dovrebbe essere di circa 600mila famiglie.

Per gli anni successivi, però, non basterà l’Isee per garantirsi la frequenza accademica gratuita: glii studenti del secondo anno, infatti, dovranno aver conseguito, entro la data del 10 agosto del primo anno, almeno 10 crediti formativi universitari, che salgono a 25 crediti nel caso di iscrizione ad anni accademici successivi.

Certamente, scrive ancora il quotidiano romano,per gli studenti in regola sono previsti sconti più sostanziosi rispetto al passato anche per chi ha un Isee superiore a 13.000 euro ma inferiore ai 30. 000. In questo caso, infatti, l’importo massimo da pagare è pari al 7% della quota di Isee eccedente i 13.000 euro.

Prolungare gli studi, invece, diventerà un lusso: nel caso di iscritti fuori corso da più di un anno, invece, l’importo sale e può arrivare fino al 50% della differenza Isee, con un minimo dovuto per legge, però, di 200 euro.

Secondo Francesco Verducci, Responsabile Università e Ricerca dell’Esecutivo nazionale Pd, siamo dinanzi ad uno “strumento di equità, di lotta alle diseguaglianze e di sostegno al percorso formativo dei giovani. Si concretizza l’impegno del governo Renzi e poi Gentiloni ad incrementare il numero degli iscritti alle università, attraverso il sostegno al diritto allo studio, che è stato una parte importante della scorsa legge di bilancio”.

Il provvedimento prevede che vengano anche “cancellati tasse e contributi per gli iscritti ai corsi di dottorato di ricerca che non usufruiscono di una borsa di studio”.

Flc-Cgil: per obbligo a 18 anni e altre misure servono 17 miliardi

da La Tecnica della Scuola

Flc-Cgil: per obbligo a 18 anni e altre misure servono 17 miliardi

 

Le polemiche e le prese di posizione sull’obbligo scolastico a 18 anni si susseguono senza sosta. Nel pomeriggio del 23 agosto Flc-Cgil ha diramato sul tema un comunicato piuttosto chiaro.

“Flc Cgil – si legge nel documento – ha da sempre sostenuto la necessità di estendere l’obbligo scolastico, non semplicemente di istruzione e formazione, fino ai 18 anni. Ne esistono la necessità e le condizioni. Il nostro Paese può e si deve permettere di investire le risorse necessarie per far seguire, ai giovani che entrano nella scuola italiana, un percorso che consenta davvero la piena attuazione dei valori costituzionali di libertà, uguaglianza, democrazia e pieno sviluppo della persona umana”.
E allora, perchè alla Flc non piace l’idea della Fedeli? La spiegazione è presto detta:  “Riteniamo del tutto sbagliata la curvatura ‘funzionalista’ attribuita dalla ministra alla proposta, cioè legata unicamente agli interessi del mondo produttivo, che pur nella sua importanza sembra essere, di nuovo, l’obiettivo prevalente sotteso alla legge 107/2015 e più in generale dell’attuale governo. Così come appare profondamente errata l’operazione che sembra voler compensare la prevista riduzione del percorso delle scuole superiori a quattro anni con un innalzamento dell’obbligo che, cosiffatto, fallirà gli obiettivi fondamentali sopra richiamati”. 

“Nel passato – sottolinea il sindacato di Francesco Sinopoli – seppur con evidenti contraddizioni, è stato introdotto l’obbligo di iscrizione ad un percorso di istruzione e formazione entro i 16 anni e l’obbligo di permanere nel sistema di istruzione e formazione per conseguire un titolo di qualifica o di diploma entro i 18 anni. Questo quadro confuso e improduttivo ha mostrato  tutti i suoi limiti. Da ciò la ormai storica proposta della Cgil di elevare l’obbligo scolastico a 18 anni”.

“Per questo obiettivo – prosegue la Flc-Cgil – sono però necessari chiarezza sulle finalità e coinvolgimento dei soggetti che debbono attuare il cambiamento: il personale delle scuole autonome e le loro rappresentanze sindacali, le associazioni professionali, il mondo della ricerca pedagogica. E sono necessarie le risorse”.

E su quest’ultimo punto il sindacato di Sinopoli fornisce anche i numeri: “Alla proposta di elevamento dell’obbligo a 18 anni, contenuta peraltro nel Piano del Lavoro della CGIL, insieme ad altre proposte di riqualificazione dell’intero sistema scolastico (la generalizzazione della scuola dell’infanzia ad esempio), la FLC CGIL ha accompagnato anche una quantificazione delle risorse occorrenti: si devono investire 17 miliardi di euro che corrispondono a quel  punto di PIL che ci manca nell’investimento in istruzione per essere allineati alla media dei Paesi Ocse”.

A questo punto, conclude la Flc-Cgil la Ministra deve fare solo una cosa: reperire le risorse per attuare questo programma.
In ogni caso resta sempre da chiarire come si può conciliare l’obbligo a 18 anni con il conseguimento del diploma a 18 anni che nessuno dei sostenitori di questa soluzione ha mai spiegato.

In Fvg la dispersione scolastica più bassa d’Italia

da La Tecnica della Scuola

In Fvg la dispersione scolastica più bassa d’Italia

 

Il tasso di dispersione scolastica nel Friuli Venezia Giulia è al 6,9%: si tratta del dato più basso a livello nazionale, inferiore di oltre 4 punti rispetto alla media europea.
Un risultato sarebbe dovuto all’approvazione, da parte della giunta Fvg, delle linee guida dei percorsi di istruzione e formazione professionale (IeFP), di competenza regionale e di durata triennale o quadriennale, rivolti ai giovani di età inferiore ai 18 anni.
Il documento sulle linee guida definisce e contestualizza territorialmente le modalità di attuazione dell’offerta regionale di istruzione e formazione professionale, stabilisce gli standard minimi regionali relativi alla programmazione e all’organizzazione dei percorsi e le modalità di valutazione degli allievi.
«L’impegno della Regione nell’IeFP è importante  perché per l’anno scolastico 2017-18 si prevede il finanziamento di corsi per 4.184 allievi con oltre 28 milioni di euro e sappiamo che oltre il 90% di essi, dopo la qualifica o il diploma, lavora o continua gli studi».

Inamovibilità dei docenti incapaci: falso problema o questione da risolvere?

da Tuttoscuola

Inamovibilità dei docenti incapaci: falso problema o questione da risolvere? 

La dichiarazione del ministro Fedeli nell’intervista rilasciata al Sussidiario.net, secondo cui “L’inamovibilità a fronte dell’incapacità non dev’essere più possibile”, ha suscitato l’immediata reazione di Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda degli Insegnanti, che ha giudicato la questione sollevata dalla Fedeli come un “falso problema, perché la normativa attuale prevede la possibilità di sanzionare, e nei casi più gravi anche di rimuovere e destinare ad un’attività diversa dalla didattica, un insegnante incapace”.

È vero: le disposizioni ci sono, ma è possibile applicarle?

Il primo segnale della eventuale “incapacità” del docente viene dalle famiglie e dagli studenti che riversano segnalazioni e proteste sul dirigente scolastico il quale, esperiti i primi accertamenti, normalmente chiede, se del caso, una visita ispettiva sull’insegnante.

Se i sostanziali elementi dell’incapacità professionale o personale vengono accertati, il dirigente può avviare due procedure: richiedere visita fiscale per verificare l’idoneità fisica o psicofisica del docente o proporre la destituzione all’ufficio superiore per inattitudine; in taluni casi può chiedere al superiore ufficio il trasferimento dell’insegnante per incompatibilità ambientale.

Fin qui le procedure, come ha ricordato Di Meglio.

Ma è proprio a questo punto che normalmente scatta l’inamovibilità di fatto.

Il docente giustamente si difende, cercando la tutela del sindacato o, più spesso ormai, quella di un avvocato, contrattaccando per bloccare l’azione del dirigente, il quale, chiamato dal giudice del lavoro, deve rendere conto della sua iniziativa. In questi casi il dirigente non viene assistito dall’Avvocatura dello Stato – che da tempo ha rinunciato a seguire le cause individuali – e si trova spesso davanti ad una situazione ribaltata da cui deve difendersi per evitare il reato di mobbing con conseguenti spese personali a proprio carico.

L’eventuale richiesta di trasferimento per incompatibilità ambientale cade quasi sempre nel vuoto.

E il dirigente getta la spugna o, immaginando come si concluderebbe il contenzioso, lascia perdere tutto e cerca di contenere i danni, assegnando l’insegnante a incarichi minori o affiancandogli qualche collega, mentre molti genitori, dopo l’ennesima protesta, trasferiscono il figlio ad altra scuola.

Rispetto al quadro da noi tracciato, certamente non piacevole, ci possono essere eccezioni, ma nella maggior parte dei casi è ciò che si verifica. È possibile risolvere la delicata questione dell’inamovibilità? Il ministro Fedeli ha dichiarato: “si tratterà di vedere come fare. Non voglio discriminazioni, ma reciproca consapevolezza”.

La reciproca consapevolezza chiama in causa soprattutto i soggetti organizzati, non i singoli, e quindi in primo luogo l’Amministrazione e i sindacati della scuola. Come fare?

Prevenzione vaccinale nelle scuole

Prevenzione vaccinale nelle scuole: le ragioni delle nostre critiche

Il 16 agosto il MIUR ha diramato alle scuole la circolare 1622/17, applicativa per l’attuazione del decreto-legge 73/17 sulla prevenzione vaccinale che, come convertito, non ha recepito alcune delle nostre modifiche proposte. Abbiamo segnalato immediatamente le pesanti ricadute che le disposizioni contenute nella legge avrebbero avuto sul lavoro delle scuole e le possibili lesioni al diritto costituzionale all’istruzione previste dalla scelta di considerare le 10 vaccinazioni obbligatorie come requisito di accesso alla scuola dell’infanzia, già a partire dal prossimo anno scolastico a iscrizioni avvenute e confermate. Ma, come accade sempre più spesso nel caso di applicazione di nuove norme, la fretta con cui il Governo ha deciso di licenziare una legge pasticciata e per alcuni versi irrazionale, ha dimostrato di non tenere in alcuna nessuna considerazione i tempi della scuola e il lavoro di dirigenti e segreterie.

Le disposizioni previste dalla legge sui vaccini relativamente alla frequenza della scuola dell’infanzia non sono lo strumento giusto per perseguire le finalità che la legge si propone, cosi come la scelta di precludere la frequenza della scuola dell’infanzia ai bambini e alle bambine non vaccinati per decisione consapevole delle famiglie non è certo la strada giusta per affrontare un problema che non è solo di carattere sanitario ma culturale e sociale. Il rischio è quello di escludere dall’inserimento precoce nel sistema di istruzione – considerato un valore e un obiettivo strategico dall’UE – una fascia consistente di bambine e bambini dai 3 ai 6 anni che, solo se appartenenti a famiglie agiate, confluiranno nel sistema privato o perderanno un’opportunità educativa che segnerà in modo indelebile il loro futuro di studenti e cittadini.