Riflessioni sulla Rivoluzione francese

Riflessioni sulla Rivoluzione francese

di Giovanni Ferrari*

“Siamo rivoluzionari proprio perché sappiamo che l’alternativa che il futuro riserva all’umanità intera è tra la rivoluzione per una società senza classi e una nuova guerra imperialistica, guerra in cui sarebbe perpetuato lo stato di cose presente come è già stato in passato”.
(Karl Marx)

PREMESSA:
Histoire de la civilisation française“, é un saggio nato dalla collaborazione di due studiosi, storici francesi; Georges Duby docente di Storia Medioevo e Robert Mandrou docente di Storia Moderna, pubblicato in Francia nel 1958 e tradotto in Italia da Annamaria Nacci e Anna Grispo nel 2011.
L’opera é divisa in due tomi: 1 parte Medioevo-XVI secolo; 2 parte, XVI-XX secolo.
In questa opera, non si è voluta presentare la storia politica della Francia, bensì la società, le strutture dell’economia e i valori della vita morale e religiosa. Con La Rivoluzione francese, inizia un processo discontinuo ma irreversibile, che porterà all’abbattimento dell’Ancien Regime e all’affermazione di una società amministrata e diretta dalla borghesia, la cui ascesa é in seguito emancipazione, che consentiranno il passaggio dal feudalesimo al capitalismo; eventi politici e ricostruzioni storiografiche, storie di idee, di valori e di cambiamenti, hanno avuto un impatto significativo nella Francia di cui si racconta, ma soprattutto una eco in tutta la storia mondiale e al di là di qualsiasi limite e circoscrizione cronologici.
Il tentativo di delineare una storia di cambiamenti rivoluzionari non è ovviamente esente da contraddizioni e problematiche caratterizzanti.
La Rivoluzione francese, al grido di “liberté, égalité, fraternité” segna una svolta decisiva, per la Francia e per la civiltà mondiale tout court. Ancora oggi la memoria collettiva porta con sé il blu, il bianco e il rosso di una bandiera, che ha saputo anche sporcarsi di sangue, a sacrificio del cambiamento.
Il 1789 è una data decisiva: è l’inizio della fine dell’Ancien Regime e dell’ascesa definitiva della borghesia. I borghesi pensano che il ruolo sociale abbia a che fare direttamente con il lavoro, che non sia più dato da privilegi ed eredità. La mentalità borghese è la prima mentalità rivoluzionaria contro un tipo di determinismo e di immobilizzazione sociali ed etici. Dopo secoli di assolutismo e di distacco reale tra potere e popolo, la Rivoluzione francese segna innanzitutto una svolta in relazione all’immagine stessa del potere.
Il 14 luglio del 1789, a seguito della proclamazione del Terzo Stato come Assemblea nazionale e poi come Assemblea costituente, il popolo parigino assale la Bastiglia: evento-simbolo della Rivoluzione. I rivoluzionari aboliscono i diritti feudali e nazionalizzano i beni ecclesiastici, stabilendo che siano venduti all’asta.
Il 26 agosto dell’ ’89 la Costituente approva la Dichiarazone dei diritti dell’uomo e del cittadino, che sancisce l’uguaglianza di tutte le persone dinnanzi alla legge, l’intangibilità del diritto di proprietà e il principio meritocratico come criterio di accesso alle cariche pubbliche. Nel febbraio del ’90 è approvata la Costituzione civile del clero, i sacerdoti francesi diventano funzionari pubblici a cui si chiede di giurar fedeltà, il clero si divide dunque tra coloro che giurano (“preti costituzionali”) e coloro che si rifiutano di giurare (“preti refrattari”).
Tra i cambiamenti fondamentali introdotti c’è, come già accennato, la fine dell’assolutismo regio.
Per quanto riguarda l’economia, si pongono le basi per uno sviluppo capitalista: soppressione dei monopoli e delle dogane interne, liberalizzazione degli scambi commerciali e abolizione di associazioni, padronali e operaie, considerate un ostacolo alla libera iniziativa.
Dopo il 1789, i francesi partecipano diversamente agli eventi rivoluzionari: i parigini sono in qualche modo protagonisti assoluti. In provincia, le masse popolari seguono con meno intensità gli avvenimenti e le modificazioni, manifestando una certa inconsapevolezza di fondo nelle scelte politiche. Al di là delle dovute differenze e contraddizioni, l’impatto è innegabile: tracce di una nuova presa di coscienza sono evidenti anche in esperienze artistiche e filosofiche. Un nuovo mondo è nato, non libero da pericoli reazionari.
Ritornando agli eventi, il 1792 sancisce la fine della monarchia con l’emergere dell’ala più radicale della Rivoluzione, quella giacobina. La Convenzione nazionale rompe ogni continuità col passato: la Francia diventa una Repubblica, il re Luigi XVI viene condannato a morte e decapitato.
Tra il 1792 e il 1793 il governo giacobino, sempre più nelle mani di Robespierre, esercita una politica fortemente centralistica, con il solo obiettivo di difendere ad ogni costo le conquiste della Rivoluzione: è il periodo del Terrore.
La speranza giacobina nella rigenerazione degli uomini e della nazione costituisce uno degli aspetti fondamentali del periodo della Rivoluzione. Ma nel luglio del ’94 Robespierre viene giustiziato e viene sancita la fine del Terrore.
L’interpretazione classica della Rivoluzione francese fa di essa una rivoluzione strettamente borghese: il vecchio mondo ha costretto la Rivoluzione ad un’alleanza con le masse popolari per vincere definitivamente la società feudale, facendo concessioni al popolo sul piano dell’uguaglianza e permettendosi la parentesi giacobina, ma solo per il tempo necessario a tornare sui propri binari e a completare la rivoluzione in corso. A questa visione, numerose sono le obiezioni mosse, soprattutto nei tempi più recenti: la Rivoluzione francese sembra aver tardato lo sviluppo capitalista più che averlo accelerato (come si vuol sostenere), d’altronde trasformazioni liberali sono avvenute in diversi Paesi senza bisogno di rivoluzioni o alleanze popolari per distruggere il feudalesimo, in fin dei conti il giacobinismo non è affatto una parentesi momentanea e secondaria, ma costituisce la vera anima della Rivoluzione. Si tratta di una scelta estremista, che ha seguito un progetto più culturale e politico che strettamente sociale.
Al di là dei differenti ed opinabili punti di vista, come è già stato ripetutamente messo in evidenza, la Rivoluzione francese nel complesso ha smosso qualcosa di secolare oltre ogni limite interpretativo.
Libertà ed uguaglianza sono le parole chiave del cambiamento.
“Gli uomini nascono e restano liberi e uguali nei diritti”, cita il primo articolo della Dichiarazione del 26 agosto 1789. Poco per volta, vengono definite le varie forme di uguaglianza: innanzitutto l’uguaglianza fiscale.
Il crollo del regime feudale significa anche uguaglianza civile: gli impieghi che prima erano riservati ai nobili (funzioni amministrative, carriere nell’esercito, eredità delle cariche, carriere giudiziarie…) saranno aperte a tutti. La soppressione del diritto di primogenitura permette l’eliminazione di altri tipi di disuguaglianze. La Rivoluzione consente ai francesi anche l’uguaglianza amministrativa: viene assicurata l’applicazione della stessa legge per tutti e dello stesso regime fiscale e penitenziario, da un capo all’altro del regno. Le città vennero riordinate in dipartimenti, cantoni, comuni e tutte benificiarono dell’applicazione della stessa legge, ad eccezione dei territori d’oltremare, in cui governava ancora la disuguaglianza politica tra gli indigeni e i colonizzatori.
La generosità dei deputati, tuttavia, fa delle esclusioni: essa non si estende ai territori d’oltremare, allora ancora francesi.
Fondamentale è pure l’istituzione dell’uguaglianza economica. Tuttavia, assodati i cambiamenti significativi, è inevitabile non notare che l’istituzione dell’uguaglianza finisce con l’essere una manifestazione di classe: questo è più che evidente in ambito politico, i corpi e le comunità privilegiate furono soppressi ed apparentemente i padroni e i “compagnons” durono messi sullo stesso piano.
L’istituzione dell’uguaglianza finì con essere una manifestazione di classe in quanto il quarto stato non poterva accedere agli impieghi amministrativi, riservati alla borghesia, tutto ciò é evidente nell’uguaglianza politica, poiché la costituente dopo aver proclamato la sovranità della nazione, divisa i cittadini in in “attivi” e “passivi”, in base ad un sistema censuario, giustificando tale esclusione con l’incapacità di9 questi ultimi di farne parte.
I costituenti respingono dal corpo politico almeno un terzo dei cittadini. Essi distinguono i cittadini in attivi e passivi, garantendo solo a questi ultimi la partecipazione alla vita politica.
La ricchezza è il solo criterio discriminante della capacità politica. La nuova società del XIX secolo è una società senza ordini, ma egualitaria più nei principi che nella realtà quotidiana: spariti i segni esteriori della superiorità, la borghesia continua comunque a condividere con i vecchi aristocratici una condizione di dominio.
La libertà, sancita dalla Rivoluzione, è innanzitutto una libertà negativa come esenzione da limiti esterni. Unico limite alla libertà è la libertà dell’altro: dunque, è la relazionalità stessa a sancire esercizio e limite della libertà. Nasce un tipo di società individualista, in cui lo Stato ha l’unico scopo di difendere l’esercizio eguale della libertà. La politica giacobina proverà, attraverso il suffragio universale, a realizzare una libertà intesa come forma di partecipazione: è con l’assistenza a poveri ed anziani, con il suffragio universale e con l’istruzione gratuita che attualizzerà il tentativo di fondare una democrazia reale.
Tuttavia, l’istituzione di una democrazia reale è impossibile da realizzare in un momento in cui la Rivoluzione sancisce il dominio borghese e un egoismo individualistico. I termidoriani reclamano le libertà che il governo di Robespierre ha dovuto accantonare, per difendere la patria dai nemici interni, come moderati e cattolici, e dai nemici esterni. Robespierre ha sospeso momentaneamente le libertà per difendere realmente le libertà. Ma tutta la politica termidoriana è un tentativo di rafforzare il potere della borghesia, con il prevalere di egoismi e rivalità, a danno dei principi democratici.
Numerosi progressi sono fatti in direzione della libertà di coscienza. Al di là dei cambiamenti a riguardo, che si avranno nel corso del tempo e con le spinte reazionarie e contro-rivoluzionarie, la Francia si fa indipendente da una singola e predominante confessione religiosa.
Infine, la fraternità, nella sua accezione universalistica o nazionalistica, pur favorendo la coesione sociale e la solidarietà internazionale, spesso si ritrova ad essere in contrasto con il principio di libertà e ad alimentare dunque guerre espansionistiche e a favorire totalitarismi di destra o di sinistra, finendo quasi per negare se stessa nella sua accezione universalistica.
La tappa napoleonica permette il trionfo definitivo della borghesia sull’Ancien Regime.
Il 18 Brumaio (10 novembre), Napoleone abbatte il Direttorio con un colpo di stato e il 24 dicembre istituisce il Consolato, nominandosi Primo Console. Egli intende creare un potere personale assoluto, non fondato tuttavia sui pilastri della monarchia borbonica, ma sul senso di unità nazionale consolidato dall’esperienza rivoluzionaria. Attraverso i plebisciti, Napoleone si fa nominare console a vita e poi imperatore dei francesi. Ciò che gli consente di fondare e di conservare un potere di questo tipo, a seguito di certi sconvolgimenti, è l’eccezionale carisma di cui gode. Si può dire, in qualche modo, che Napoleone, oltre ad essere il re-imperatore, è l’incarnazione degli ideali della Rivoluzione francese.
Napoleone riorganizza le finanze pubbliche e fonda la Banca di Francia.
Le minacce al suo potere gli vengono principalmente dai legittimisti e dai cattolici, più che dai giacobini: a favore dei primi fa numerose concessioni, escluso un ritorno borbonico al trono, per ottenere invece l’appoggio dei cattolici, riesce a stipulare un Concordato con la Chiesa, che spegne le rivalità accesesi ai tempi della suddetta Costituzione civile del clero.
La promulgazione del Codice civile è un aspetto assai rilevante dell’opera di Napoleone: una summa dei cambiamenti sociali ed economici avviati negli anni precedenti, ma limitati nelle loro estremità e piegati ad un progetto differente. Lo stato, la famiglia e la proprietà diventano il centro della società. Ancora una volta, l’uguaglianza è annunciata, ma di fatto smentita.
Nel 1804 la nobiltà imperiale può addirittura assicurarsi la trasmissione ereditaria.
Intanto, Napoleone tenta e, in parte, realizza l’egemonia francese in Europa. Ma la campagna di Russia è molto diversa da quelle finora condotte e si risolve in una ritirata disastrosa. Con la disfatta militare svanisce il sistema di sudditanza europea imposto dall’Imperialismo napoleonico e Napoleone è sconfitto a Lipsia nel 1813.
La caduta napoleonica avvia la restaurazione, ma in alcuni Paesi si salvaguardano le costituzioni liberali introdotte dalla Francia rivoluzionaria e nella stessa Francia ci si rende conto che ormai non si può tornare ad una piena restaurazione. Qualcosa è radicalmente cambiato.
Tra le preoccupazioni successive dei borghesi, una delle fondamentali riguarda l’istruzione.
Nel 1833 vi è la prima costituzione all’insegnamento primario e, con la legge Guizot, una minoranza delle giovani generazioni comincia ad andare a scuola, sotto il controllo del clero.
La borghesia francese è sempre più consapevole di avere un ruolo dirigente. Qualunque siano i successi posteriori, mai la borghesia ha avuto una visione così netta e così orgogliosa della propria autorità come gruppo sociale e la consapevolezza della propria vittoria sull’antica Francia.
La fase post-napoleonica è caratterizzata da un forte malcontento, da miseria e fame.
Ogni anno muoiono tanti francesi. La sconfitta di Waterloo e il tradimento continuano ad avere un forte impatto sull’immaginazione collettiva. Tra il 1846 e il 1847 falliscono le compagnie ferroviarie e quindi banche e finanziatori.
Carestie, aumento del prezzo del grano e crisi industriale e commerciale acuiscono il problema della miseria e della disoccupazione, inasprendo di conseguenza il malcontento sociale.
In questo contesto, fatto di squallore e frustrazione, prende avvio l’esperienza del romanticismo francese.
Esso ha, tra i suoi temi fondamentali, una forte protesta all’ascesa borghese ed è animato da un tentativo di rompere il razionalismo e il carattere quantitativo e calcolatore della nuova società.
Il capitalismo e la svolta borghese accentuano una reazione alla predominanza del calcolo e dell’opportunismo, in un mondo ormai fatto di interessi e lotte alla sopravvivenza, resi ancora più intollerabili dall’inevitabile miseria sociale: è in questo senso che il Romanticismo si appella per contrasto ad una rinascita del fantastico e della sensibilità.
L’irrazionalità e l’invocazione alle Muse combattono la loro sfida al pallore e alla mediocrità di un mondo ormai arido.
Il tentativo è quello di attualizzare un re-incantamento del mondo, che sfidi l’oppressione della logica capitalista e smorzi la delusione collettiva.
Da ciò ne consegue la presa di coscienza di un’alienazione dell’individuo dal proprio ruolo sociale, che porterà anche all’ avvento di nuove ideologie, ereditarie dell’esperienza giacobina: socialismo e comunismo.
Inoltre, l’impiego, sempre più fondamentale, di macchine consente sì un incremento di produzione e, allo stesso tempo, un’accelerazione del lavoro, ma rende sempre più superfluo il ricorso alle risorse umane e ridimensiona il ruolo svolto dal contributo dell’apporto individuale.
Una società, sempre più tecnicizzata e massificata, non può che rafforzare certe collere: è il tempo di un’alienazione sempre più invalidante, di una perdita del sé, all’interno di un sistema sostanzialmente totalitario e immobilizzante, mascherato però da democrazia.
L’individuo, privato di ogni potere decisionale, risulta essere asservito a élite economiche e politiche, che detengono il monopolio dei mezzi di comunicazione e il potere effettivo di controllo dell’opinione pubblica.
In questo clima, le campagne si evolvono lentamente. Più evidente che mai è la distinzione avvertita tra mondo di città e mondo di campagna. A dispetto della calcolabilità e dell’esattezza della vita cittadina, la campagna continua ad avere come suoi punti di riferimento la chiesa e la scuola. C’è tanta differenza nella mentalità tra il commerciante cittadino, che può avvalersi dell’informazione professionale, e il contadino che resta chiuso nei propri orizzonti. Ovviamente la causa di tale disparità non può che essere di carattere prima economico e poi sociale.
In questa non equa convivenza di città e campagna, Parigi, metropoli per eccellenza, continua a conservare un ruolo di primo piano per diversi aspetti: pur posizionandosi su un gradino distaccato, non può che influenzare la vita di provincia. Ovunque, come nella moda, si sente l’eco dell’eleganza parigina. Da capitale di Francia, Parigi è destinata ad essere capitale d’Europa, racchiudendo in sé tutte le tracce di una modernità, al tempo stesso, conquistata e sofferta. Parigi è la soglia in cui convergono forze rivoluzionarie e forze reazionarie, esaltazioni e malcontenti, arte pittoresca e arte fotografica, sguardi aperti al futuro e ingombranti nostalgie romantiche.

  • Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Napoli “FEDERICO 2”

Bussetti a professori e studenti del Sud: “Lavorate di più” . Sdegno del M5S: “Parole inaccettabili”

 da la Repubblica

“Per colmare il gap con le scuole del Nord, più sacrifici non più soldi”. Presidi e sindacati insorgono: “Affermazioni razziste e offensive, non siamo nullafacenti”. Polemica dal Pd a Fi: “Il ministro chieda scusa”

Salvo Intravaia

Più fondi alle scuole del Sud per colmare il divario con quelle settentrionali? No, più impegno e lavoro da parte di dirigenti scolastici, studenti e insegnanti. È la risposta fornita ieri ad un giornalista che lo intervistava dal ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, in visita ad alcune scuole di Afragola e Caivano, in Campania. “Cosa arriverà qui al sud per recuperare il gap con le scuole del nord. Più fondi?”, chiede l’intervistatore. “No. Più sacrificio, più lavoro, più impegno. Vi dovete impegnare forte”.

E la scuola meridionale insorge. “Il ministro Bussetti – dichiara la palermitana Mila Spicola, della segreteria nazionale del Partito democratico – dice agli studenti del Sud che non servono più risorse ma più impegno da parte loro. Trovo profondamente offensiva e razzista questa affermazione, oltre che fuori dalla realtà”. Più articolata la stroncatura che arriva dall’Associazione nazionale presidi, guidata da Antonello Giannelli. “Le parole del ministro Bussetti contro le scuole del sud sono inaccettabili”.

“Forse il ministro ignora – continuano dall’Anp – che, in molte aree “del Sud”, le scuole sono l’unico avamposto dello Stato e che gli edifici scolastici (spesso malridotti, ma non certo per loro responsabilità) sono gli unici su cui sventola con orgoglio il tricolore. Quelle scuole – o meglio, tutte le persone che vi lavorano: dirigenti, docenti, ata – evitano ogni giorno che tanti ragazzi cadano preda della criminalità e consentono loro di coltivare la speranza di un avvenire onesto. Delegittimarle significa screditare tutto questo ed è inaccettabile”.

Gli indici di povertà, di disoccupazione giovanile e di dispersione scolastica delle regioni meridionali descrivono una realtà ben diversa da qualsiasi altra area del paese. “Le scuole del sud – incalza Lena Gissi, leader della Cisl scuola – lavorano con impegno e sacrificio ogni giorno nonostante le condizioni di contesto non siano favorevoli. Le eccellenze esistono in tutta Italia ci aspettiamo dal ministro il rispetto di tutte le eccellenze italiane. E ci aspettiamo anche – conclude Gissi – interventi per quei territori svantaggiati, in qualunque luogo essi siano”.

Un coro di sdegno si è levato anche dalla politica, primi tra tutti gli alleati di governo del M5s: “Il ministro Bussetti invita le scuole del Sud a impegnarsi di più per recuperare il gap con quelle del Nord. Secondo lui non servono altro che impegno, lavoro e sacrificio per raggiungere l’obiettivo. Al ministro vorrei rispondere da insegnante del Sud prima ancora che da portavoce del Movimento 5 Stelle”, attacca la senatrice Bianca Laura Granato, capogruppo in Commissione Cultura, secondo cui “liquidare il grave problema del divario tra scuole del Nord e scuole del Sud con un presunto atteggiamento da lavativi dei docenti meridionali è scorretto oltre che grave”. E i consiglieri M5s della Campania chiedono le scuse del ministro.”Il compito dei governi è di rimuovere gli ostacoli che non permettono la crescita e lo sviluppo del Sud e dell’intero Paese. Purtroppo c’è ancora un evidente gap da eliminare, che riguarda il contesto in cui operano le scuole. Agli studenti del Sud bisognerebbe offrire esempi e una prospettiva, considerando che i giovani non hanno alcuna responsabilità in questo”. Lo affermano i senatori e i deputati del MoVimento 5 Stelle in commissione Cultura.
Critico nei confronti del ministro anche il deputato del Pd Francesco Boccia: “Presenterò un’interpellanza urgente in Parlamento così il ministro, invece di offendere i cittadini del Sud, verrà in Aula a dirci cosa intende fare lui per la scuola italiana e per la scuola a tempo pieno al Sud che deve raggiungere gli stessi standard del resto d’Italia”.

Mara Carfagna, di Forza Italia, chiede che Bussetti si scusi: “Impegno e sacrificio invece di risorse e investimenti sull’edilizia scolastica e sul capitale umano, cioè gli insegnanti? Le dichiarazioni del ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, sono offensive per l’intero Sud e, pertanto, irricevibili. Non le accetteremmo da nessuno, men che meno dall’esponente di un governo che col suo progetto – sbagliato, scritto male – di autonomia per le Regioni del Nord impoverirà ulteriormente di servizi quelle aree del Paese, come la Campania, dove già ce ne sono meno. Ci aspettiamo immediatamente le sue scuse e una decisa presa di distanza da parte dei due partiti che compongono la maggioranza”.

Il Nord svuota la Scuola: via 8 miliardi e 200 mila statali

da Il Messaggero

La tensione sale. I sindacati sono sul piede di guerra pronti, persino, allo sciopero generale. Sul regionalismo differenziato, la richiesta di autonomia di Veneto, Lombardia e Emilia Romagna, la scuola è la madre di tutte le battaglie. Il Veneto, al solito, è partito lancia in resta. Vorrebbe l’en plein. Spostare da Roma a Venezia il controllo di tutto il personale che lavora nell’istruzione, più di 70 mila persone presenti nella Regione. Il ministero dell’Istruzione ne uscirebbe fortemente depotenziato. E a rischio, hanno fatto notare Cgil, Cisl e Uil, che hanno scritto una dura da lettera al premier Giuseppe Conte, ci sarebbe anche il rispetto della Costituzione. Così le richieste potrebbero essere ammorbidite. Le Regioni, nella nuova proposta di autonomia, potrebbero chiedere il controllo solo dei nuovi assunti e di poter firmare contratti integrativi regionali, ma fermo restando che il pagamento degli stipendi sia spostato dal ministero verso le Regioni. Il risultato non cambierebbe. Se Lombardia e Veneto percorressero questa strada, passerebbero di mano 8 miliardi di spesa pubblica: 2,7 per la Regione guidata da Luca Zaia e 5,3 miliardi per quella di Attilio Fontana. Veneto e Lombardia, insomma, vorrebbero più soldi per la scuola. E per ottenerli hanno bisogno di trasferire la spesa storica dallo Stato ai loro bilanci. L’obiettivo è anche di pagare di più gli insegnanti locali attraverso contratti integrativi regionali. La quantità di persone coinvolte in un cambiamento simile, è enorme. Nella scuola sono impiegati circa 856 mila docenti statali, considerando sia quelli di ruolo sia i supplenti annuali, e circa 207 mila impiegati statali Ata per un totale, quindi, di circa 1.063.000 lavoratori. Solo in Lombardia sono oltre 130 mila i docenti, nel Veneto 65 mila: quasi 200 mila insegnanti pari ad un quarto del totale nazionale. Il ministero dell’Istruzione ne uscirebbe fortemente indebolito. Una macchina che deve gestire un quarto di persone in meno sarebbe sovradimensionata rispetto alle nuove esigenze. E i contraccolpi si sentirebbero anche sull’Economia che gestisce i pagamenti. Le regioni del Nord portano avanti le lezioni scolastiche basandosi sul lavoro di docenti e personale Ata proveniente dal Sud. Principalmente da Campania, Calabria, Puglia e Sicilia. Ma se è vero che nelle regioni del Nord è più facile ottenere una cattedra o una supplenza rispetto a quanto accade invece nelle regioni del Sud dove i posti per lavorare non ci sono, è anche vero che al Nord la vita costa molto di più. Che cosa significa? Da un lato le trasferte diventano troppo onerose per lo stipendio di un docente, dall’altro va da sé che gli stessi laureati del Nord non prendono in considerazione l’insegnamento perché in altrisettori si guadagna di più e c’è maggiore possibilità di far carriera. La chiave di tutto quindi, stando al ragionamento del Carroccio, sarebbe l’aumento dello stipendio del personale scolastico delle regioni che spingono per l’autonomia.

IL MECCANISMO

Come si farebbe? Con un contratto integrativo regionale che vada ad appianare la differenza del costo della vita, ad esempio, tra Milano e le province campane o pugliesi. Il contratto e l’assunzione resterebbero statali, e si aggiungerebbe solo un contratto integrativo su base regionale. A Milano si spende mediamente il 30-35% in più per vivere? Vorrà dire che lo stipendio dovrà essere aumentato in base a quella percentuale, avvicinandocisi il più possibile. E allora se lo stipendio medio mensile al netto delle trattenute di un insegnate della scuola media, dopo 10 anni di lavoro, è di 1470 euro, in Lombardia ad esempio si potrebbe arrivare a firmare un contratto integrativo regionale pari a 441 euro. Per una città come Roma, dove il costo della vita è uguale se non maggiore di quello dei centri del Nord, le differenze sarebbero destinate ad ampliarsi. Una beffa per chi fa, in fin dei conti, lo stesso lavoro. Sarebbe un invito per i laureati del Nord a scegliere la scuola come strada per una carriera lavorativa appetibile, mentre scoraggerebbe la migrazione di insegnanti dal Sud. Per realizzare un quadro simile servono i fondi. Le regioni che sceglieranno l’autonomia scolastica, per garantire i contratti integrativi regionali ai docenti potrebbero aver bisogno di trattenere parte delle imposte altrimenti versate allo Stato. Ancora una volta impoverendo le strutture centrali della Capitale.
Andrea Bassi
Lorena Loiacono

Bussetti vuole la regionalizzazione, ma nel M5S c’è chi dice “no”: #AttentiallaSecessioneDeiRicchi

da La Tecnica della Scuola

Di Alessandro Giuliani

Nel Movimento 5 Stelle c’è un’ala che non gradisce l’autonomia differenziata, meglio nota come “regionalizzazione”, della scuola e di altri servizi pubblici basilari, voluta con forza dalla Lega e su cui il Governo ha già dato il suo assenso di fondo, in attesa che il ddl approdi presto in Parlamento.

I timori dei grillini

Si tratta di una parte del movimento, probabilmente nemmeno troppo ristretta, che sinora è rimasta a tacere. Ma a seguito delle dichiarazioni sulle scuole del Sud, a cui il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti ha chiesto maggiore impegno e sacrificio, starebbe uscendo allo scoperto, manifestando la sua contrarietà.

Una parte che, evidentemente, non vuole tradire tanti insegnanti e addetti ai lavori che osteggiano il programma leghista. Ben sapendo, anche, che, una volta trasformato il progetto in legge, se li metterebbe pure tutti contro.

Il M5S compatto contro le parole di Bussetti

A prendere le distanze contro la sortita del ministro del Miur si è schierato un po’ tutto il M5S: i consiglieri della Campania, diversi onorevoli e senatori, i sottosegretari Salvatore Giuliano e Lorenzo Fieramonti, addirittura il leader politico Luigi Di Maio, per il quale Marco Bussetti avrebbe detto una fesseria, per la quale farebbe bene a scusarsi, perché “ci sono insegnanti che si svegliano alle 5 del mattino per preparare la lezione, per studiare e aggiornarsi, per conciliare i tempi del lavoro con quelli per la famiglia. Loro sì che hanno diritto di dirci ‘impegnatevi di più’. Noi no!”, ha tagliato corto Di Maio.

Paola Nugnes (M5S): #AttentiallaSecessioneDeiRicchi

Nel Movimento 5 Stelle, però, c’è anche chi ha intravisto nelle parole del ministro dell’Istruzione un filo conduttore con il progetto di realizzazione, sul quale la prossima settimana dovrebbe svolgersi un incontro, reputato chiave, con i governatori.

Tra questi grillini, contrari al progetto del Carroccio, c’è la senatrice Paola Nugnes senatrice del M5S, che con un tweet scrive poche parole ma significative: “Un ministro dell’Istruzione non dovrebbe parlare così in spregio della storia, della legge e della verità. Soprattutto un ministro dell’Istruzione non dovrebbe #AttentiallaSecessioneDeiRicchi“.

La scuola ancora una volta…

Un tweet, quello della senatrice pentastellata, che se dovesse rimanere una voce fuori dal coro, servirebbe a ben poco: qualora, invece, dovesse essere il primo di tanti, per il Governo si prospetterebbe una bella “gatta da pelare”.

Con la Scuola, ancora una volta, come già accaduto con il Partito Democratico a seguito dell’approvazione della Legge 107/2015, che si ritroverebbe a figurare tra i motivi nazionali del dissenso verso l’operato di chi governa il Paese.

ANP, inaccettabili parole del Ministro Bussetti contro le scuole del Sud

da La Tecnica della Scuola

Di Lucio Ficara

L’Associazione Nazionale Presidi (ANP) rimprovera al Ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, in un suo comunicato stampa, di delegittimare la scuola del sud.

Comunicato stampa di ANP contro Bussetti

Che sia necessario impegnarsi in qualsiasi lavoro – ed in particolare in quello pubblico, pagato da tutti gli Italiani – noi dell’ANP lo abbiamo sempre creduto fermamente.
Così come crediamo, da persone di scuola, che il lavoro scolastico rivesta una importanza tutta particolare in quanto forgia il futuro della Nazione.
Se il Ministro dell’istruzione ritiene che, nel settore di cui egli è responsabile, qualcuno non si impegni a sufficienza, dispone di tutti gli strumenti per intervenire.
Quello che il Ministro – rappresentante del sistema scolastico nella sua interezza geografica – non può assolutamente fare è delegittimare il personale “del Sud”, utilizzando espressioni divisive che lasciano intendere che “nel Sud” non ci si impegna adeguatamente.
Forse il Ministro ignora che, in molte aree “del Sud”, le scuole sono l’unico avamposto dello Stato e che gli edifici scolastici (spesso malridotti, ma non certo per responsabilità di chi vi lavora) sono gli unici su cui sventola con orgoglio il tricolore. Quelle scuole – o meglio, tutte le persone che vi lavorano: dirigenti, docenti, ata – evitano ogni giorno che tanti ragazzi cadano preda della criminalità e consentono loro di coltivare la speranza di un avvenire onesto. Delegittimarle significa screditare tutto questo ed è inaccettabile.
Costituisce invece preciso dovere del Ministro impegnarsi per migliorare il servizio a livello nazionale e rafforzare, nel contempo, la fiducia dei cittadini verso di esso.
Auspichiamo dunque che riesca a reperire le risorse economiche del caso e a dotare le scuole autonome di strumenti idonei per conseguire tale obiettivo.

Dal canto nostro, ci limitiamo a suggerire alcune proposte:

• reperire fondi per contrastare la fatiscenza di molti edifici scolastici
• incrementare i finanziamenti per il salario accessorio (MOF e bonus) destinato al personale, utilizzabile dai dirigenti quale leva gestionale per il miglioramento e non “a pioggia”
• rispristinare i finanziamenti per l’alternanza scuola-lavoro, in funzione di contrasto alla crescente disoccupazione giovanile, nelle scuole superiori che intendano organizzarla appieno
• consentire ai dirigenti di selezionare il personale supplente celermente, sulla base delle competenze possedute, abolendo il fallimentare sistema delle graduatorie
• ritirare le recenti istruzioni sul codice dei contratti, foriere solo di confusione e di complicazione.

L’ANP è favorevole ad un vero e deciso miglioramento dell’efficacia del sistema educativo, ma nel rispetto della dignità e dei ruoli di tutti i lavoratori che vi prestano servizio. Siamo contrari a qualsiasi delegittimazione delle scuole e del personale, da qualunque direzione provenga.

Il ministro “leghista” e la gente del Sud

da La Tecnica della Scuola

Di Pasquale Almirante

“Impegno, lavoro e sacrificio, non più fondi per la scuola del sud”: lo ha detto il ministro dell’istruzione Marco Bussetti, in quota leghista dentro l’attuale Governo del cosiddetto cambiamento.

Mai successo

E non era mai successo che un ministro della Repubblica italiana uscisse con una frase di questo tipo, dentro cui, non solo c’è tutta l’idea leghista, e dunque di parte, della nostra società, ma anche tutta la distanza tra le istituzioni, democratiche, e una parte del popolo, quello meridionale appunto.

Le colpe del Sud

Non ci mortifica l’idea che Bussetti non abbia chiara una parte della storia d’Italia, né tutte le altre considerazioni, facili del resto, sullo stato di abbandono, e non solo della scuola, per colpe e responsabilità varie, della gente del Sud.

Lo abbiamo scritto e sempre ripetuto e dunque ne facciamo a meno.

Ciò che colpisce e mortifica è la reiterata tiritera, cara al fondatore della Lega, dalle cui casse però mancano alcune centinaia di milioni di euro, che le persone del Sud siano neghittose, svogliate, perdigiorno e pigre.

Le colpe? Sempre degli altri

E non solo, ma nelle parole del ministro si colgono pure tutte le giustificazioni, a cui ormai siamo abituati, di attribuire ogni colpa agli altri: o ai complottisti o ai precedenti governi, e ora, in modo particolare, alla ben nota “strafottenza” della gente meridionale che non è in grado di lavorare, impegnarsi e fare sacrifici, come fa invece il Nord, fiero, forte, duro come le montagne che lo sovrastano.

Rimboccatevi le maniche

Riportando quindi il tutto alla più banale quotidianità, il nostro ministro ha sibilato, papale papale: sbrigatevela voi, popolo meridionale. Se volete una scuola migliore, e non solo, rimboccatevi le maniche e lavorate,“Impegno, lavoro e sacrificio” e a me e al mio governo non rompete i cosiddetti.

Ne prendiamo atto

Ritorniamo alla pedagogia

Ritorniamo alla pedagogia

Relazione di Maurizio Tiriticco tenuta all’11°Seminario estivo di studi e confronti organizzato dall’ANDiS a Laceno Bagnoli Irpino (Av) nei giorni 12,13 e 14 luglio 2018

Carissime! Carissimi! Grazie di essere così numerosi qui a Laceno per discutere di pedagogia, piuttosto che stare al mare ad abbronzarvi! Mi piace ricordare una riflessione di Carlo Cattaneo, tratta da “I problemi dello Stato italiano”. E’ un’ottima cosa il fatto che “i maestri e le maestre, chiuso il loro annuale corso d’insegnamento, vengono chiamati alla volta loro a imparare. Parte dell’anno insegnano; parte dell’anno imparano ciò che debbono insegnare. E così, d’anno in anno, questi veri padri e queste vere madri del popolo salgono d’un gradino la scala; e con loro sale tutto il popolo”.
Raffaele Laporta, nel suo L’assoluto pedagogico, saggio sulla liberà in educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1996, a pag. 257, così scrive: “Esiste una diffusa pratica di educatori che non hanno rispetto per la libertà dei loro educandi; anzi, si può affermare che una gran parte della riflessione sull’educazione abbia all’origine proprio constatazioni relative ai danni prodotti da un tale tipo di pratica”. Laporta ci ricorda nella sua ultima opera – ci ha lasciati nel 2000 – che non c’è libertà di insegnamento, se non c’è libertà di apprendimento. E non è un gioco di parole! Sono anzi parole importanti, che hanno segnato la lunga storia della nostra ricerca pedagogica. Sia quella di matrice laica che quella di matrice cattolica, molto attive nel nostro Paese. Alcuni nomi: Giuseppe Lombardo Radice, Ernesto Codignola, le sorelle Agazzi, Rosa e Carolina. Per non dire anche di Antonio Gramsci! Mi è sufficiente ricordare un saggio bellissimo di Mario Alighiero Manacorda: Il principio educativo in Gramsci. Americanismo e conformismo, Roma, Armando, 1970. E per non dire di Don Milani! Ma qui mi fermo perché la nostra ricerca educativa è stata più che fertile!
Sì, fino agli ultimi decenni del secolo scorso. Ma poi?

La scuola ai tempi del Regime

Molti molti anni fa, esattamente nel 1916, John Dewey pubblicava a New York “Democracy and Education”. Ma in Italia non venne pubblicato! Prima la guerra, poi il fascismo e, con il Regime, c’era poco da scherzare! Solo la classicità, l’Antica Roma, erano rivisitate ad uso e consumo… della nuova Italia! Che bisogno avevamo noi Itagliani, sì Itagliani, con la gl, come ci apostrofava il Duce in ogni suo discorso! Che bisogno avevamo di accedere alle culture straniere? Straniero come estraneo, come nemico, soprattutto! Noi, eredi di un’antica civiltà, dovevamo farla rinascere ed esportarla in tutto il mondo! Sulla mura di Via dell’Impero figurava un enorme tavola marmorea! I confini dell’Impero Romano ai tempi di Traiano! Ovviamente non solo un ricordo, ma anche e soprattutto un monito, una promessa!
L’Enciclopedia Utet del ragazzo italiano – venti volumi, se non erro, e i miei genitori, ovviamente, me l’acquistarono – era tutta un’esaltazione della Nuova Era fascista, i cui anni, in cifre romane, si affiancavano a tutti i calendari gregoriani! E l’America in quell’enciclopedia ci era descritta come il Paese degli scioperi e dei gangster! E i nostri ragazzi dovevano essere difesi da quella incultura! Così fummo tutti irreggimentati! Io balilla, prima semplice, poi escursionista, poi moschettiere, poi tamburino, poi trombettiere, poi mazziere! Un cursus honorum di tutto rispetto, di cui andavo fiero, fino a quel 25 luglio del 1943! Ed erano passati appena tre anni da quel discorso del Duce, pronunciato dallo storico balcone di Palazzo Venezia la sera del 10 giugno 1940!
A memoria me lo avevano fatto imparare! “Combattenti di terra, di mare e dell’aria. Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Italiani! Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania! Ascoltate! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano. Alcuni lustri della storia più recente si possono riassumere in queste frasi: promesse, minacce, ricatti e, alla fine, quale coronamento dell’edificio, l’ignobile assedio societario di cinquantadue Stati”. E mi fermo qui.
Anni bui per la nostra cultura! Ed anche per la ricerca pedagogica! Dewey? Non ne avevamo alcun bisogno. Dominavano Croce e Gentile! E soprattutto l’attualismo gentiliano! Un Dewey, che con molta umiltà attendeva nel suo libro a sviluppare concetti fondanti, educazione come necessità della vita, educazione come funzione sociale, educazione come direzione, educazione come crescita. E che così scriveva: “Una società distinta in classi deve prestare attenzione speciale soltanto all’educazione dei suoi elementi dirigenti. Ma una società democratica, mobile, ricca di canali distributori dei cambiamenti, ovunque si verifichino, deve provvedere a che i suoi membri siano educati all’iniziativa personale e all’adattabilità. Altrimenti essi sarebbero sopraffatti dai cambiamenti nei quali si trovassero coinvolti e di cui non capissero il significato e la connessione. Ne conseguirebbe una confusione nella quale un piccolo numero di persone si impadronirebbe dei risultati delle attività altrui cieche e dirette all’esterno” (p. 111).
Sono solo alcune delle considerazioni di Dewey. Quindi estremamente pericolose per un regime che, come tale, doveva irreggimentare un popolo e soprattutto la sua gioventù. Il regime accettò soltanto Maria Montessori, la cui esperienza, comunque, aveva ormai raggiunto una fama internazionale! E poi lei si occupava degli svantaggiati! Questo sosteneva il regime! Perché tutti i bambini e le bambine non svantaggiati venivano inquadrati nei “figli della lupa” e nelle “piccole italiane”! Tutti e tutte con tanto di emme maiuscola sul petto o sul fez!
Nel ventennio l’elaborazione pedagogica d’oltremare o d’oltr’alpe – l’allusione è anche a Piaget e a Vigotsky – da noi non ebbe alcuna fortuna! L’attualismo gentiliano era più che sufficiente! Ed istruire i nuovi piccoli italiani, insegnare loro a leggere, scrivere e far di conto – la grande scommessa dei governi dell’Italia postunitaria – non era più sufficiente. Occorreva ben altro! Il regime doveva occuparsi non solo di istruire, ma anche e sopratutto di educare! Ed educare, ovviamente agli ideali e ai principi della nuova era fascista. “Libro e moschetto, fascista perfetto”! Quindi si superava il leggere, scrivere e far di conto di sempre per educare soprattutto i nuovi nati ai princìpi e agli ideali della nuova era fascista!
E Giovanni Gentile fu il primo ministro dell’Italia fascista dopo la “marcia su Roma”. Guidò il ministero a partire dal 30 ottobre del 1922 – il 28, due giorni prima i fascisti avevano marciato su Roma – fino al primo luglio del 1924! Quel Ministero dell’Istruzione che dal 1929 fu ridenominato Ministero dell’Educazione Nazionale! Gentile governò il ministero per appena due anni! Durante i quali, però, la nostra scuola venne interamente riformata! Educare tutti e subito, non appena nati! Era una scommessa, oltre che un parola d’ordine, per il regime fascista. E nel 1923 Gentile varò quella riforma che porta il suo nome, riforma che, di fatto – almeno secondo il mio modesto giudizio – non è stata ancora del tutto superata! Nei suoi contenuti di fondo! Ed è trascorso quasi un secolo! Novantacinque anni, per l’esattezza!

La scuola come palestra di libertà

Ma torniamo a Dewey. E a quel titolo, “Democrazia e Educazione”. Così giustifica la sua scelta lo stesso Dewey nella prefazione all’opera: “Le seguenti pagine contengono un tentativo di scoprire ed esporre le idee implicite in una società democratica e di applicare queste idee ai problemi del compito educativo. La discussione include un’indicazione degli scopi costruttivi e dei metodi dell’educazione pubblica osservati da questo punto di vista, e una valutazione critica delle teorie della conoscenza e dello sviluppo morale che erano state formulate in precedenti condizioni sociali, ma che ancora agiscono, in società nominalmente democratiche, per ostacolare l’adeguata realizzazione dell’ideale democratico”. Queste considerazioni Dewey le sviluppava nell’agosto del 1915. L’Europa era nel pieno della prima guerra mondiale. Gli Stati Uniti interverranno a fianco delle truppe dell’Intesa nel 1917.
In Italia finalmente potemmo leggere e conoscere Dewey solo dopo la seconda guerra mondiale, dopo tanti anni di scuola fascista, di retorica fascista e di mistica fascista… non sto scherzando! La “Scuola di mistica fascista Italico Sandro Mussolini”, nipote di Mussolini, morto giovanissimo, fu fondata a Milano il 10 aprile del 1930 e fu attiva fino al 1943. Il fascismo era letto addirittura come religione! Ebbene, Enzo Enriques Agnoletti e Paolo Paduano tradussero “Democrazia e Educazione” e lo pubblicarono nel maggio del 1949 per i tipi de “La Nuova Italia”. Leggere Dewey per noi non fu solo una scoperta, ma la grande occasione per riprendere quel discorso pedagogico – che andava anche oltre i confini italiani – che il fascismo aveva violentemente interrotto! Per non dire poi di tutte quelle aberranti giustificazioni addotte quando il regime, in ordine alle scelte naziste, decise che la pura razza italica avrebbe dovuto essere difesa! Per poi affermarsi in tutto il mondo! Appunto! Quando nacque quella orribile rivista, “La difesa della razza”, diretta da Telesio Interlandi. E Giorgio Almirante era segretario di redazione.
Ma non fu solo la scoperta di Dewey che ci appassionò, che mi appassionò, in quegli anni. C’era anche un Jean Piaget! Ed anche quel comunista sovietico di Lev Semënovič Vygotskij. E la polemica che tra loro era intercorsa. Problema: il pensiero e il linguaggio – che poi sarà il titolo dell’opera di Vigotskij – nascono dal soggetto/persona in quanto tale, o sono indotti dal sociale, dalla comunità in cui il soggetto nasce e apprende? Una tematica oltremodo interessante. Sulla quale mi sono già intrattenuto sei anni fa con la relazione intitolata “Omaggio a Jean Piaget e al suo fondamentale contributo all’educazione: attualità della sua ricerca”, presso l’Institut de Psycologie et Education de l’Université de Neuchâtel, Svizzera, in due giornate di studio organizzate dall’ANDIS. Un contributo che allego alla presente relazione. In effetti, a mio vedere, si trattò più di una polemica ideologica che di un confronto scientifico. In realtà, e’ come se volessimo polemizzare se è nato prima l’uovo o la gallina.
Comunque, è certo che il compito del vivente è in primo luogo quello di sopravvivere e di riprodursi. Pertanto, i viventi di tutte le specie apprendono nella misura in cui devono sopravvivere e riprodursi. Ciascun vivente apprende secondo i programmi genetici e i quadri concettuali che gli sono naturalmente dati. In linea generale possiamo dire che ogni vivente, dagli esseri unicellulari all’uomo, per sopravvivere deve adattarsi all’ambiente secondo un processo che Jean Piaget distingue in due stadi: assimilazione e accomodamento. Se piove, io mi riparo; se ho freddo, io mi copro; se ho fame, io mangio; se ho uno stimolo sessuale, io mi riproduco. Sono le strategie imposte dalla natura e adottate per sopravvivere e riprodursi! Sono le chiavi dell’apprendimento! Se non apprende, l’individuo muore… e muore la specie. Il che è un’assurda banalità!

La Scuola Città Pestalozzi

Ma torniamo a quel “Democracy and Education”, che per prima volta apparve in Italia ben trentatre anni dopo la sua prima pubblicazione! Trentatre anni di silenzio! Perché doveva risuonare la fanfara dell’educazione fascista. Ebbene, quel volume nell’immediato dopoguerra segnò la ripresa nel nostro Paese del discorso pedagogico, della ricerca pedagogica, anzi. Non a caso fu pubblicato a Firenze, per i tipi de “La Nuova Italia Editrice”. Perché a Firenze Ernesto Codignola e la moglie Anna Maria Lelli avevano fondato nell’immediato dopoguerra la Scuola Città Pestalozzi. Un’assoluta novità! Gli obiettivi della nuova scuola erano essenzialmente due: offrire un servizio sociale alle famiglie disagiate del rione, tra i più popolari e malfamati di Firenze e tra i più disastrati dalla guerra; costituire uno spazio educativo per la formazione del cittadino, dove si potesse coniugare l’istruzione ed il consolidamento di una coscienza civica e democratica. Al progetto partecipò anche Raffaele Laporta, mio maestro di pedagogia.
Laporta sosteneva con forza che l’istruzione e la cultura devono essere proposte ed erogate non solo da istituzioni a ciò dedicate, ma anche dall’intera comunità sociale del territorio. E’ notorio – e lo era anche allora – che non è cosa facile affidare o restituire la scuola al sociale, in forza del fatto che dell’educazione da sempre si sono fatto carico la famiglia ed il conteso comunitario. Comunque, pensava ad una scuola che provenisse dal sociale e che appartenesse al sociale, ma… come? Si trattò in verità di una scommessa, anzi di una “Difficile Scommessa”! È il saggio più significativo di quegli anni che Raffaele Laporta pubblicò nel 1971 per La Nuova Italia e che volle dedicare a Bruno Ciari, scomparso l’anno precedente.
Gli anni Settanta furono anni felici per la rinnovata ricerca pedagogica nel nostro Paese. Potrei accennare a più tipologie di ricerca, a quella cattolica e a quella laica: quest’ultima riconducibile al filone socialista e al filone comunista! Quindi, si leggevano anche tre prestigiose riviste: “Orientamenti pedagogici”, gestita dai Salesiani; “Scuola e Città”, dell’area socialista; e “Riforma della Scuola”, dell’area comunista. Ed io ne ero redattore. Ricordo anche benissimo come condussi due seminari annuali – quando ebbi in sorte di insegnare con Raffaele Laporta – uno avente come tema la pedagogia cattolica, il secondo la pedagogia marxista.
Nel 1978 vide la luce un aureo volumetto, di ben 334 pagine, intitolato “Pedagogia e scienze dell’educazione”. Ne era autore Aldo Visalberghi, che si era avvalso della collaborazione di due validi scolari, tra virgolette: Roberto Maragliano e Benedetto Vertecchi. Due animali di razza, come si suol dire! Le scienze dell’educazione – dopo anni di diseducazione fascista – andavano quindi per la maggiore! Ed erano anche tante! Alla pagina 21 del citato volume i nostri autori ne individuano ben ventiquattro! Afferibili a quattro macroaree: settore psicologico; settore sociologico; settore metodologico-didattico, settore dei contenuti. E sono citati numerosissimi autori di un panorama pedagogico internazionale! Ne cito solo alcuni. Althusser, Bloom, Bruner, Calonghi, Castelnuovo, Chomsky, Claparède, Decroly, Dewey, Engels, Freinet, Gagné, Illich, Jakobson, Nicholls, Piaget, Pontecorvo, Rogers, Lodi, Tornatore, Vygotskij, e tanti altri! Ed ovviamente, non poteva mancare la “Scuola di Barbiana”.

Da Comenio a Morin

Ma voglio tornare un po’ indietro nel tempo. E’ noto che per secoli e secoli l’istruzione pubblica non ha mai interessato i governi, tranne qualche rara eccezione nel periodo degli Illuministi. Ciò non significa che la ricerca filosofica a volte non approdasse anche a qualche suggerimento pedagogico! E’ più che noto! Ci sono voluti secoli perché la pedagogia si riscattasse come disciplina di ricerca a tuttotondo e soprattutto autonoma. Voglio ricordare una rara ma preziosa eccezione! Cito un nome e un’opera: Comenio e il suo “Orbis pictus”! Convinto che l’istruzione dovesse coinvolgere tutti ed arrivare a tutti, Comenio volle produrre quello che potremmo definire il primo sillabario della storia. Fu un grande primo maestro nel porgere all’alunno il disegno di un dato oggetto, il suo nome, il suo significato e l’uso che se ne dovesse fare. E tutto con un linguaggio di estrema semplicità. In un’epoca e in un mondo in cui il bello scrivere era una sorta di gara tra dotti e letterati! Il volgo era ignorante! E tale doveva rimanere! Ma mi piace rinviarvi ad un saggio di Benedetto Vertecchi, “Rileggere Comenio”, che del nostro grande pedagogo ne sa senz’altro più di me. Ecco il link — (http://lps.uniroma3.it/wp-uploads/2014/03/140317_09-10-Rileggere-Comenio.pdf) — Buona lettura!
Gli anni corrono! Giungiamo alla fine del “secolo breve”!! E, a cavallo del nuovo, si distinguono due autorevoli autori, ma ricercatori e militanti di campi opposti! Alludo a Luigi Berlinguer e a Giuseppe Bertagna. La storia è nota. Giuseppe Bertagna ispira direttamente quella riforma condotta e realizzata dalla Ministra Letizia Moratti, che trova corpo nel Legge n. 53 del 28 marzo 2003, avente come titolo: “Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale”. Con questa legge, le due leggi varate con il Ministro Berlinguer vengono abrogate: la legge 9, del 20 gennaio 1999, concernente “Disposizioni urgenti per l’elevamento dell’obbligo di istruzione”, e la legge 30 del 10 febbraio 2000, concernente il “Riordino dei cicli di istruzione”. La nostra scuola militante visse allora momenti molto difficili. Nel corso di un biennio furono varate due riforme, e non di lieve entità.
Ciò che è accaduto dopo è cosa nota. Matura la stagione delle “Indicazioni nazionali” e delle “Linee guida”. Cito soltanto due nomi, un filosofo e un politico: Edgar Morin, con la sua “Testa ben fatta”; Giuseppe Fioroni, ministro dell’istruzione dal maggio del 2006 al maggio del 2008! Mi piace ricordare che con quest’ultimo è stato innalzato l’obbligo di istruzione: dpr n. 139 del 22 agosto 2007.
Ma, in tutto questo bailamme, la ricerca pedagogica ha avuto una funzione? Non so! In effetti non c’è ministro che non intervenga a ritoccare o a riformare la scuola, un po’ per lasciare il suo nome ai posteri, un po’ per dare qualche indicazione di non so quale natura, ma… mi sembra che ciò che è avvenuto in questi ultimi anni si debba più a una sorta di furore normativo – qualche allusione alla 107? – che di una effettiva necessità di innovare qualcosa! Anche e soprattutto perché non si può innovare senza un’idea! Ed oggi c’è carenza di idee! Spesso si innova solo per innovare, per lasciare traccia di sé, ma! La situazione delle nostre scuole è sotto gli occhi di tutti! Fatto salvo il primo gradino di istruzione – grazie soprattutto a tante nostre brave maestre – rileviamo studenti ed insegnanti sempre più demotivati. Gli studenti in forza di strutture e modalità amministrative vetuste! Sulle quali qualunque presunta innovazione si infrange inesorabilmente! E non sto qui a ripetere la storia delle tre C, Classe, Cattedra, e Campanella su cui ho scritto centinaia di pagine! Quelle tre C che il dirigente scolastico Salvatore Giuliano – oggi nostro apprezzato Sottosegretario all’Istruzione – ha brillantemente dribblato e da tempo nel “Majorana” di Brindisi, l’istituto tecnico da lui diretto! E gli insegnanti in forza del fatto che il loro lavoro è sottopagato!
Ma ciò che è più grave è che la scuola OGGI non è sostenuta, accompagnata, incoraggiata da una ricerca pedagogica che sia veramente tale! Comunque, se mi sbaglio, mi corrigerete! Come disse Papa Vojtila quando si presentò al popolo romano per la prima volta dal balcone di San Pietro! Ovviamente, la pedagogia si insegna all’Università. Tuttora! Ma con quali finalità? Non so e vorrei essere corretto ed informato! E manca anche forse una sociologia dell’educazione. Ricordo Bourdieux e Passeron! Sostenevano l’inutilità della scuola! Considerata uno strumento di cui la società si serve per riprodurre se stessa! E vorrei capire se è vero o no che gli insegnanti sono anche oggi le “vestali della classe media” come sostenevano negli anni settanta Marzio Barbagli e Marcello Dei. Ma c’è anche il risvolto della medaglia! La scuola non condiziona le menti e non riproduce l’assetto sociale! La scuola libera! Ovvio è il richiamo a Don Milani! “La scuola non deve essere un ospedale che cura i sani e respinge i malati”! La scuola, l’istruzione, come liberazione! Paulo Freire, un maestro di scuola, in Brasile! Sempre anni settanta del secolo scorso.
Il mio cruccio è oggi quello di allora! La parola d’ordine allora è: gli insegnanti non devono soltanto istruire! Anche se il Ministero è il Ministero dell’Istruzione! Debbono anche e soprattutto formare persone, educare cittadini! I tre verbi di cui all’articolo 1, comma 2 del dpr 275/1999, con cui abbiamo varato l’autonomia delle istituzioni scolastiche! Queste sono tematiche che richiedono attenzione, studio, ricerca, promozione!
Esistono i dipartimenti di scienze dell’educazione, o della formazione! Ma io sono abbastanza ignorante da non sapere quali siano oggi i ricercatori più accreditati, o all’avanguardia! In grado di dare alla nostra povera scuola qualche luce! Ammesso poi che la nostra povera scuola abbia gli occhi per vedere! E non solo per piangere! Come a volte avviene! Insomma, non vorrei che i pedagogisti di oggi fossero come le lucciole estive, la cui luce ha durata stagionale! O come le chimere, pezzi di varie discipline male assemblate.
Ovviamente, in questo nostro consesso, amici più esperti di me mi potranno illuminare in proposito! Quello che so, ho detto! Quello che non so, non dico! Parafrando il Maestro Manzi, che era sempre generoso con i suoi alunni! Quando diceva: “Fa quel che può, quel che non può, non fa”!
Ed io non sono un buon alunno! Ma un novantenne! Che ha bisogno di luce, di tanta luce! Altrimenti rischia di spegnersi! Ma oggi no! Grazie a voi!

Giorno del Ricordo

Con la Legge 30 marzo 2004, n. 92, la Repubblica riconosce il 10 febbraio quale ‘Giorno del ricordo, al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della piu’ complessa vicenda del confine orientale’.


Bussetti al Quirinale per il Giorno del Ricordo
“Dobbiamo conservare memoria delle foibe e dell’esodo degli esuli Istriani, Fiumani e Dalmati. Con una circolare abbiamo invitato le scuole a offrire agli studenti momenti di approfondimento di questa pagina della nostra storia”

“Per troppo tempo gli eccidi delle foibe e l’esodo degli esuli Istriani, Fiumani e Dalmati sono stati dimenticati, ‘negati’. È un dovere civile e morale conservare quegli avvenimenti nella nostra memoria collettiva, in nome della verità storica e della giustizia per il nostro Paese. Si tratta di una vicenda particolarmente dolorosa e cruenta del Novecento. Migliaia di persone furono uccise in quanto italiane, senza colpa. Per lo stesso motivo, centinaia di migliaia di uomini e di donne hanno dovuto abbandonare quelle terre e tutto quello che avevano per rifugiarsi all’interno dei nuovi confini nazionali. Una catastrofe. Cancellare o minimizzare questa vicenda storica significa oltraggiare nuovamente le vittime di allora e i loro discendenti. Per questo motivo abbiamo inviato una circolare a tutti gli istituti scolastici del Paese per promuovere l’organizzazione di iniziative di approfondimento anche attraverso la collaborazione con le Associazioni degli esuli”. Così il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Marco Bussetti, che il 9 febbraio sarà al Quirinale, a partire dalle 11, per celebrare il Giorno del Ricordo alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

La circolare viene diffusa in occasione del Giorno del Ricordo, istituito con la legge n. 92 del 2004, per conservare e rinnovare la memoria delle vittime delle foibe e di tutti gli Istriani, i Fiumani e i Dalmati costretti all’esodo nel secondo dopoguerra.

Durante l’evento di domani, il Presidente Mattarella, il Ministro Bussetti e il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Enzo Moavero Milanesi, premieranno i vincitori del Concorso nazionale “Fiume e l’Adriatico orientale. Identità, culture, autonomia e nuovi confini nel panorama europeo alla fine della Prima guerra mondiale”, rivolto alle scuole di ogni ordine e grado.

“A scuola ogni ragazzo vive in prima persona la volontà di conoscenza che è l’essenza più propria dell’uomo. È nello spirito critico che si costituisce la possibilità della libertà e della democrazia. Sono un cultore dell’autonomia scolastica. E nel pieno rispetto delle prerogative di docenti e dirigenti scolastici, mi auguro che si possa offrire agli studenti un adeguato approfondimento di questa dolorosa pagina della storia italiana. I nostri giovani potranno trarre utili insegnamenti per sviluppare un’autentica cultura del rispetto”, conclude Bussetti.

La solitudine del Dirigente scolastico

La solitudine del Dirigente scolastico

di Stefano Stefanel

Alcuni recenti fatti hanno mostrato la estrema debolezza della figura del Dirigente scolastico. Sono fatti per lo più inattesi, che lasciano la categoria abbastanza attonita soprattutto per la gratuità degli stessi. Qualche tempo fa la senatrice Bianca Laura Granato del Movimento 5 Stelle ha attaccato, in audizione pubblica al Senato, la figura del dirigente scolastico con frasi molto offensive e gratuite, che però hanno dato l’idea di una visione settaria della professione, forse minoritaria, ma esistente. Al di là dell’esternazione scomposta della senatrice Granato e di alcune frasi comunque presenti nella relazione al DDL 763 tutte fortemente offensive della categoria, la cosa che ha più colpito è l’assoluto silenzio sull’attacco della senatrice Granato da parte del Ministro Bussetti e del Sottosegretario Giuliano, due dirigenti scolastici, prestati al Governo come si dice, ma ancora in servizio.
In questi giorni il Ministro Bussetti ha dato ad un giornalista una risposta carica di astio nei confronti del sud e delle sue scuole. Nella frase c’era un richiamo a lavorare di più e questo ha colpito soprattutto i Dirigenti scolastici del meridione, quotidianamente in prima fila per gestire situazioni complesse e spesso catastrofiche con pochi mezzi e una burocrazia ministeriale che pare occuparsi d’altro. L’inatteso attacco alla scuola del sud da parte del Ministro e il silenzio sull’argomento del sottosegretario Giuliano, che è un Dirigente scolastico del sud, sono stati vissuti come un vero e proprio attacco soprattutto ai dirigenti, primi lavoratori di questo complicato sistema dell’istruzione. Perché, è bene dirlo, quando qualcuno attacca la scuola, la prima persona che si sente attaccato è il Dirigente scolastico, perché di quella scuola si sente il primo rappresentante.
La mancata proroga del termine per l’adeguamento alla normativa antincendio lascia i Dirigenti scolastici scoperti in un settore molto delicato, dove l’utenza scolastica deve avere allo stesso il diritto allo studio e alle protezioni contro gli incendi, ma nell’ambito di una collaborazione con gli enti locali che, sulle questioni della sicurezza, appaiono sempre più labili. Anche in questo caso il silenzio del Miur ha sorpreso un po’ tutti, quasi che non fossero note le difficoltà per le scuole di adeguarsi alla normativa in tempi troppo stretti. Queste oggettive difficoltà avevano reso quasi logica la proroga e questa era l’attesa di tutti i Dirigenti scolastici. Per cui la delusione per la mancata proroga fa il pari con la preoccupazione di riuscire ad applicare una normativa che richiede sinergie che non ci sono.
Un altro punto molto controverso riguarda l’idea di combattere i comportamenti scorretti di alcuni insegnanti delle scuole dell’infanzia, attraverso telecamere che riprendano sempre il lavoro di tutti. In questo caso sembra quasi che la figura del Dirigente scolastico non esista, che sia un soggetto non in grado di comprendere quando nelle scuole da lui dirette avviene qualcosa di grave. La pubblicistica sull’argomento rubrica ad “asilo” tutto ciò che riguarda i minori di sei anni, per cui scuole paritarie e private, scuole di associazioni, parrocchiali, ecc. sono messe sullo stesso piano delle scuole dell’infanzia statali, che hanno al loro apice un Dirigente scolastico. Io sono certo che tutti i Dirigenti scolastici sono pronti a collaborare con le forze dell’ordine e con le famiglie per stroncare qualsiasi malversazione verso i minori. Ma davanti ad una diffidenza preventiva per cui il lavoratore deve dimostrare di non fare nulla di male senza che vi sia alcun sospetto su di lui, togliendo al Dirigente scolastico il giusto rapporto di controllo sui suoi dipendenti è frutto di una cultura del sospetto che ritiene con lo screaming di lavarsi la coscienza.
Anche sulla questione delle reggenze (chi scrive e reggente senza soluzione di continuità dal 1° settembre 2008 e dal 16 aprile 2018 dirige tre scuole) si è fatto conto su Dirigenti scolastici che hanno dato la loro totale disponibilità a supportare lo Stato in un momento di grave carenza organica, resa ancora più profonda dall’impossibilità di portare a termine qualunque concorso (e quindi anche quello per Dirigenti scolastici) senza decennali contenziosi. Ebbene i Dirigenti scolastici si sono caricati di reggenze, ma lo Stato è rimasto inerte: non ha dato nulla in più di personale, risorse, supporti, possibilità di derogare a date tassative pur davanti ad impegni sempre crescenti, comprensione per problemi reali e gravosi di scuole rette in reggenza. E i Dirigenti scolastici non hanno avuto supporto dallo Stato neppure davanti a segreterie con gravissime ed evidenti lacune tecniche e di competenze: tutto deve essere fatto allo stesso tempo e con le stesse modalità, anche davanti all’impossibilità oggettiva di lavorare in condizioni nomali.
La solitudine del dirigente scolastico è dunque acuita dalla sordità ministeriale, che spesso sembra non avere nei confronti della sua dirigenza un atteggiamento di fiducia. Inoltre l’impressione è che qualche volta non solo quando diventano Ministri o Sottosegretari, ma anche quando assumono ruoli negli Uffici scolastici periferici o quando vengono distaccati da qualche parte, molti dirigenti sembrano prendere le distanze dalla categoria cui appartengono, quasi che una volta usciti dal proprio ruolo di dirigente scolastico le cose comincino ad apparire in modo diverso e dunque non più assimilabile al punto di vista maturato nel lavoro che veniva fatto prima.

AMBITI TERRITORIALI: UN’OCCASIONE MANCATA

La solitudine del Dirigente scolastico nasce da situazioni oggettive in cui chi svolge quel ruolo a scuola non si sente parte funzionale dello Stato, ma quasi sua controparte. In certi casi la rigidità degli uffici territoriali su classi e sostegno vengono vissute come una vera e propria incomprensione per un ruolo di frontiera che si è costretti a ricoprire, soprattutto al sud. Riguardo poi all’inclusione e alla dispersione si deve dire che sono problemi che non possono essere risolti con formule unitarie, perché la situazione è diversa da luogo a luogo e il sud le soffre per problemi di carattere sociale, non certo per una disfunzione dell’organizzazione scolastica. Esistono però anche delle decisioni prese dalla categoria che la isolano dentro un rapporto tutto interno alle scuole. E, dunque, se è doveroso guardare allibiti come certi atteggiamenti politici e governativi tendano ad umiliare la categoria, dall’altro può non essere inutile analizzare alcuni comportamenti che portano ad isolare il Dirigente scolastico da azioni di contesto che forse potrebbero aiutarlo.
Il primo caso che voglio analizzare è quello degli Ambiti territoriali e delle Scuole Polo per la formazione, così come sono stati concepiti dalla legge 107/2015. Io credo che questa sia stata una grande occasione mancata dalla dirigenza scolastica, che ha scambiato per un ulteriore adempimento quella che invece era una grande opportunità. Gli Ambiti sono stati ostacolati dai sindacati in quanto stavano alla base della così detta chiamata diretta (che non era altro che un trasferimento per titoli e bando e non per anzianità) e da molti Dirigenti scolastici perché spostavano alcuni compiti delle scuole (formazione, formazione neo assunti, possibilità di costituire reti per le segreterie, ecc.) fuori da queste, dentro un luogo senza personalità giuridica e con una necessità di governance da costruire. Molti Dirigenti scolastici non ci hanno creduto, non hanno voluto lavorare per costruire governance efficienti, spesso per motivi non comprensibili hanno distinto la scuola capofila di Ambito dalla scuola capofila della formazione, costruendo così un soggetto bicefalo che ha duplicato le riunioni, i problemi sul tappeto, le decisioni non condivise. L’attuale corsa verso lo smantellamento degli Ambiti è una nuova corsa verso la solitudine: soprattutto nel caso del Piano Nazionale di Formazione far uscire questa progettualità dall’Ambito significa ritornare all’autoreferenzialità delle scuole che non intendono misurarsi in un’area ampia su quelle che sono le esigenze formative del sistema. Un governo di ambito ambizioso e lungimirante avrebbe aperto le porte a collaborazioni che mai le reti di scopo riescono a costruire in forma duratura e significativa. Anzi, molto spesso le reti di scopo alimentano la solitudine, con una scuola che fa tutto aggregando le altre per recuperare finanziamenti dentro scopi che qualche volta sono solo dichiarati. E con gli Ambiti il rapporto con gli Uffici periferici del Miur avrebbe potuto essere alla pari, mentre sembra forte la volontà di tornare alla solitudine delle scuole che trattano direttamente col proprio Ufficio di riferimento.
Anche la recente accelerazione sul Sistema Nazionale di Valutazione con la conferma che ci sarà la rendicontazione sociale entro il 31 dicembre mette la categoria di fronte alla scelta se entrare dentro un sistema territoriale di confronto e supporto o far passare anche questa grande novità del sistema scolastico italiano come l’ennesimo adempimento. Ci sono chiari segnali di un grande interesse per l’argomento e per la sua declinazione e questo fa ben sperare, però bisogna avere il coraggio e la forza di tenere la rendicontazione sociale nella parte alta dell’agenda, capire che quei dati di comparazione sono dati necessari per governare un sistema. La comparazione delle informazioni della rendicontazione sociale (e del Bilancio sociale) costituiscono un elemento di equilibrio del sistema scolastico dentro le sue aree territoriali. Anche in questo caso la governance del Sistema Nazionale di Valutazione avrebbe tratto grande giovamento da una regia di Ambito, ma sembra che la damnatio memoria su questa innovazione introdotta dalla legge 107/2015 vada oltre le più elementari considerazioni sull’importanza di governare una rendicontazione sociale attraverso un’area coesa dentro una rete.

LO STRANO CASO DEGLI ESAMI DI STATO

Chi scrive ha fatto l’esame di stato al Liceo nel 1974. Se a quei tempi avessero cambiato le carte in tavola nel corso dell’anno e a metà febbraio non fosse ancora stato chiarito come si sarebbe svolto l’esame credo che nel Liceo Marinelli di Udine (scuola che ho frequentato e che ora dirigo) non sarebbe entrato per molti giorni nessuno studente. E così’ in tante altre scuole italiane. In questo frangente alla grande agitazione degli insegnanti si somma il silenzio assoluto sull’argomento degli studenti. L’incertezza sulla pluridisciplinarietà della seconda prova, sulle griglie di correzione, sulla prova orale con gli argomenti scelti in busta chiusa, cioè su questioni che attengono prima alla didattica e dopo all’esame e non viceversa trovano i Dirigenti scolastici in assoluta solitudine davanti ad un incredibile cambiamento.
L’esame finale del primo ciclo viene vissuto seriamente solo dagli studenti che puntano alla media alta, per gli altri è un rito di passaggio poco comprensibile. Anche qui i Dirigenti scolastici devono dirigere un esame tutto interno diventato obsoleto e pesante, con deleghe assegnate a docenti competenti e collaborativi ma individuati senza supporto alcuno degli uffici territoriali.
Anche in questo caso sembra che la solitudine debba essere la cifra di scelte ministeriali astruse e incomprensibili, che modificano l’esame senza prima aver agito sulla didattica e sull’organizzazione. Gli esami di stato conclusivi andrebbero decisi nella loro forma e nelle loro modalità al massimo entro fine luglio in modo da poter comunicare a studenti, docenti e famiglie quelle modalità all’avvio dell’anno scolastico. E invece siamo qui ancora oggi a dover dare risposte che non conosciamo a problemi non sollevati da noi, nella solitudine di decisioni che nessuno ci aiuta a prendere.

E PER CONCLUDERE I CONTI

La recente Formazione nazionale IoConto ha visto coinvolti come formatori molti DSGA e un ristretto numero di Dirigenti scolastici. Il D.I. 129/2018 non è solo un Nuovo Regolamento di Contabilità, ma è anche un modo per mettere in discussione l’organizzazione scolastica attraverso strumenti normativi non armonizzati, ma che tutti ruotano attorno alla funzione progettuale e rendicontativa. Programma annuale, Piano Triennale dell’Offerta Formativa, Conto Consuntivo, rendicontazione sociale nascono da fonti normative differenti e dunque non sono armonizzati tra loro, così come il D.I. 129 non è armonizzato al Codice dei contratti (in continua mutazione) e alle Linee guida dell’anticorruzione. Questa partita dovrebbe essere giocata tutta in forma sinergica, mentre temo verrà giocata in solitudine in un rapporto tra Dirigente scolastico e Direttore dei servizi generali e amministrativi. Una cosa è sempre più evidente (anche alla luce dei nuovi Dsga che saranno tutti laureati) e cioè che più le norme sulla gestione economica e finanziaria delle scuole si fanno stringenti e più per il Dirigente scolastico diventa importante padroneggiare la disciplina contabile. Chiudersi nella propria solitudine non credo possa aiutare, perché comunque le finalità dei Dsga riguardano il settore amministrativo e l’interesse per quello didattico ed educativo è solo di riflesso. Credo sia necessario parlarne in forma collegiale, anche per condividere documenti e procedure e non affrontare solo con il Dsga, soggetto deputato ad altro scopo e che non condivide le responsabilità dei Dirigenti scolastici, passaggi delicati per la progettazione e la rendicontazione del lavoro delle autonomie scolastiche.