Autismo, pet therapy e ippoterapia per 30 bambini a Palermo

Redattore Sociale del 14-02-2019

Autismo, pet therapy e ippoterapia per 30 bambini a Palermo

Progetto pilota promosso dall’associazione ParlAutismo d’intesa con l’assessorato regionale all’Agricoltura e la cooperativa Nuova Sair. Gli obiettivi: promozione del senso di fiducia, della dimensione dell’autocontrollo, della socializzazione e della gestione delle emozioni dei bambini.

PALERMO. La terapia con gli animali, in particolare con cani e cavalli, per il miglioramento delle abilità di 30 bambini con autismo fino a 6 anni. E’ il progetto pilota Pet Therapy e Ippoterapia portato avanti con un protocollo d’intesa tra l’assessorato regionale all’Agricoltura della Sicilia nella persona dell’assessore Edy Bandiera, la cooperativa sociale Nuova Sair specializzata in servizi di assistenza socio-sanitaria e l’associazione delle famiglie ParlAutismo.

Il progetto che si svolgerà nell’ampia area verde dell’istituto sperimentale zootecnico di Palermo, ha la durata di 4 mesi e coinvolge i bambini con disturbo dello spettro autistico nell’ambito del loro quadro diagnostico (alto e medio funzionamento) coinvolgendoli in tre percorsi: ippoterapia, pet therapy e laboratorio ambientale. Gli obiettivi che l’intervento pilota vuole perseguire sono la promozione del senso di fiducia, della dimensione dell’autocontrollo, della socializzazione e della gestione delle emozioni dei bambini. Inoltre alle famiglie dei bambini viene proposto un percorso riabilitativo specifico al di fuori dei contesti riabilitativi tradizionali che sono solitamente quelli ambulatoriali. Al progetto lavoreranno 7 operatori: 3 tecnici della riabilitazione con animali con esperienza e formazione specifica, 2 psicoterapeuti cognitivo-comportamentali, per il laboratorio ambientale un agronomo esperto in laboratori sociali e un educatore.

Per l’Ippoterapia verranno utilizzati 2 cavalli e per la Per Therapy 2 cani. Ogni animale lavorerà in assetto individuale con i bambini. La presentazione del progetto è in programma per oggi pomeriggio nella sede dell’istituto sperimentale zootecnico di Sicilia in via Roccazzo, 85. Per l’occasione parteciperanno la presidente di ParlAutismo Rosi Pennino, la garante regionale delle persone con disabilità Giovanna Gambino, Caterina Costa responsabile dell’area sociale di Nuova Sair e l’avvocato Raffaele Bonsignore della Fondazione Banco di Sicilia.

“L’iniziativa rientra nel campo più vasto – spiega la presidente di ParlAutismo Rosi Pennino – di tutte quelle che abbiamo voluto portare avanti per andare oltre le terapie tradizionali. Probabilmente dieci anni fa ne sapevamo poco ma oggi si è andati avanti nel quadro degli interventi di valorizzazione di tutte le potenzialità dei nostri figli autistici. Durante il nostro percorso di consapevolezza, abbiamo imparato ad avere approcci nuovi sull’autismo insieme al lavoro dei professionisti in una prospettiva più ampia di sviluppo dell’autonomia e dei loro progetti di vita. Tutto questo ci ha portato gradualmente e con successo a sganciarci dalla terapia tradizionale che vedeva i nostri figli soli seduti a tavolino con il terapista. Oggi sappiamo che per esempio l’intervento in domiciliare del terapista che viene a casa con un progetto di presa in carico di tutta la famiglia per favorire la crescita dell’autonomia dei bambini è efficace per un concreto percorso di riabilitazione”.

“Insieme alle terapie domiciliari – continua Rosi Pennino – di notevole importanza sono le altre proposte che portano fuori bambini, giovani e adulti con autismo insieme alle loro famiglie. Finalmente hanno preso il giusto spazio le terapie in acqua, le attività sportive, la musica, la pittura e tante altre attività. Stiamo parlando di un approccio multidimensionale che deve riguardare l’accompagnamento degli autistici in tutte le realtà dove si esprime la loro persona. In una prospettiva ancora più ampia, non a caso nella nuova rete per l’autismo, abbiamo chiesto che vengano inserite nei centri diurni l’orto-cultura, la terapia con gli animali, quella in acqua e tutto ciò che consente di interagire con la vita reale uscendo concretamente fuori dalle mura domestiche”.

“Nel caso di questo progetto che abbiamo fortemente voluto come ParlAutismo si tratta di promuovere la terapia assistita con gli animali – aggiunge ancora Rosi Pennino -. Con il sostegno di Fondazione Banco di Sicilia si avvierà, infatti, la prima start up dedicata ai più piccoli. Grazie all’assessorato all’agricoltura, che si concretamente speso per mettere a disposizione gratuitamente il polmone verde dell’istituto zootecnico siciliano, con l’ausilio di cani e cavalli si vuole curare principalmente la relazione che per questo tipo di disabilità è fondamentale. L’appello che oggi verrà lanciato durante la presentazione del progetto sarà anche quello di riuscire a trovare altre linee di finanziamento per ampliare, nella seconda e terza start up, il progetto anche agli adolescenti e adulti”. (set)

Autonomia differenziata: il Governo si fermi

Autonomia differenziata: il Governo si fermi. In caso contrario sarà lotta dura contro lo scempio dei diritti che si sta preparando

La FLC CGIL  è pronta ad ogni forma democratica di lotta, a partire da azioni possibilmente unitarie di sciopero su tutto il territorio nazionale, contro lo scempio dei diritti che si sta preparando in materia di Istruzione.

Il Governo risponda innanzitutto alle richieste di incontro che abbiamo unitariamente avanzato e spieghi, alla luce del sole, cosa sta combinando con il cosiddetto progetto di autonomia differenziata.

Non è più sopportabile questo modo di procedere opaco, che si basa su annunci e dichiarazioni di stampa o su bozze di progetti fatti circolare per vedere l’effetto che fanno. Un modo di governare e di tenere il rapporto con i cittadini antidemocratico, autoritario, non trasparente e non rispettoso dell’intelligenza degli italiani.

Se sono vere le cose che si fanno circolare sulla regionalizzazione dell’istruzione, dei contratti collettivi di lavoro, della mobilità, dei concorsi, dei ruoli e degli stipendi del personale con conseguente negazione dell’universalità del diritto all’istruzione, la parola non può che passare alla mobilitazione e ad ogni forma democratica di lotta per fermare questa deriva autoritaria, negatrice dei diritti della persona e disgregatrice dell’unità nazionale.

Perché insegnare latino

Perché insegnare latino

di Maurizio Tiriticco

E’ un luogo comune abbastanza diffuso quello di dire che insegnare latino oggi ha poco senso e che non ha alcun senso apprenderlo! Spesso sentiamo dire che siamo così lontani da quel mondo e siamo così presi da tutte le innovazioni in atto che riandare al buon tempo antico costituisce soltanto una inutile fatica! E, come tutti i luoghi comuni, anche questo non ha alcuna attendibilità.

E’ importante, però, non arroccarsi su posizioni difensive che, forse, potevano avere un senso una volta, ma che oggi hanno scarsa probabilità di incidere. Uno dei luoghi più comuni – anche la difesa aveva i suoi luoghi comuni! – era quello assai diffuso per il quale con il latino si impara a ragionare; tant’è vero che i migliori scienziati – e così ancora si sente dire – sono sempre coloro che si sono formati al liceo classico! Ed una seconda circostanza era quella per la quale non sarebbe possibile conoscere il mondo contemporaneo, soprattutto il nostro di italiani, se non si è passati attraverso la cultura dei nostri padri!

In effetti, si trattava di affermazioni molto sommarie. Si può imparare a ragionare anche con mille altre strategie: al limite – e ci si perdoni! – gli stessi giochini di qualsiasi settimanale di enigmistica sono dei formidabili allenatori della mente! Il fatto, poi, che le menti migliori siano state formate grazie agli studi classici sarebbe tutto da dimostrare, anche perché tantissimi geni – ammesso che si possa ancora parlare di geni [1]– scienziati, artisti, scrittori, hanno espresso la loro capacità creativa indipendentemente da un curricolo di studi classici! E vi sono anche tanti soggetti che, pur avendo seguìto gli studi classici, sono finiti impiegati alle poste! Il condizionamento socioculturale è indubbiamente più forte, spesso, di un corso di studi: il fatto è che l’adolescente che si iscrive al liceo classico ha già tutte le chance per riuscire in quanto in genere viene sempre da una famiglia di un certo tipo che ha scelto per lui, in forza di una cultura pregressa, forse anche prima che nascesse!

Per tutta una serie di ragioni, si potrebbe anche dire che alla base della scelta degli studi classici c’è pur sempre un condizionamento di classe sociale! E forse è per questo complesso di ragioni che, negli anni della grande riforma della scuola media unica e obbligatoria – il dibattito che negli anni Cinquanta ha poi condotto alla legge 1859/62 – una delle grosse questioni che erano sul tappeto era quella se conservare o meno il latino che da sempre si studiava al ginnasio, dal primo al quinto anno, e che dalla riforma Bottai [2] continuò a studiarsi nella allora nuova scuola media.

La ragione di una battaglia per un abbandono del latino nella scuola media unica era fondamentalmente una: quel latino che da sempre – se non dalla riforma Bottai – aveva svolto una funzione discriminante tra una classe sociale destinata a diventare dirigente ed una destinata ai lavori subordinati, se conservato, avrebbe continuato a svolgere una funzione di selezione sociale, contraria allo spirito e alla lettera di una scuola obbligatoria aperta a tutti e per tutti formativa e orientativa; per cui, era invece necessario rafforzare l’insegnamento dell’italiano, quell’insegnamento che poi divenne educazione linguistica, per far sì che tutti i figli delle classi sociali subalterne, da sempre escluse da un patrimonio culturale linguistico nazionale, imparassero forse per la prima volta a padroneggiare la lingua comune.

Occorre anche pensare che, se si deve parlare di lingue morte, per la stragrande maggioranza dei bambini italiani imparare l’italiano era di fatto imparare una lingua morta! A casa e nel loro milieu socioculturale l’italiano era pur sempre una lingua “altra” rispetto al dialetto imperante. Era chiaro che tra due lingue “morte” sembrava necessario optare per l’italiano piuttosto che per il latino!

Negli anni Cinquanta l’analfabetismo [3] conosceva ancora livelli considerevoli ed una battaglia educativa e culturale di fatto era anche una battaglia per un riscatto sociale! E nessuno può oggi disconoscere il ruolo che la scuola media ha svolto per la crescita sociale e civile del nostro popolo! Anche se, com’è noto, si doveva fare di più.

E’ trascorso mezzo secolo da quegli anni e l’acqua che è passata sotto i ponti ci spinge a considerazioni diverse sullo studio del latino e dei classici e sul loro valore formativo. Sono diverse le condizioni culturali e sociali del Paese, diversa è l’attenzione che oggi abbiamo nei confronti della funzione della scuola pubblica. L’avvio della autonomia, l’istituzione dell’obbligo formativo, l’innalzamento dell’obbligo di istruzione, i processi di riforma in atto, le nuove necessità di formazione iniziale e continua a fronte dei cambiamenti in atto nella cultura e nei profili professionali, a fronte delle innovazioni tecnologiche, della apertura all’Europa, con tutto quello che poi comporta il fenomeno della globalizzazione, costituiscono un insieme di fattori che non possono non proporre un ripensamento complessivo sulle finalità della scuola e sulla questione degli studi classici. O meglio, non tanto degli studi classici, con cui già si individuerebbe un canale formativo dedicato, quanto dello studio del mondo classico.

Oggi, la posizione nei confronti dello studio del latino, non può non essere diversa, rispetto a cinquant’anni fa: se allora il latino poteva essere penalizzante nei confronti di una popolazione di studenti obbligati e non acculturati (e la selezione scolastica, se il latino fosse stato disciplina di studio a tutto tondo, sarebbe stata ben più pesante di quanto effettivamente fu!), oggi può essere riconsiderato formativo per tutti.

Le riforme in atto non prevedono la generalizzazione del latino in tutte le scuole secondarie superiori, quindi quel “per tutti” può suonare utopistico, e lo è. La formatività del latino tuttavia non è una affermazione, ha una sua precisa ragion d’essere. Consideriamo che l’accesso all’uso della lingua (non parliamo di competenza, tanto meno di padronanza linguistica, che sono altra cosa [4]) “per tutti” oggi viene consentito non solo da una istruzione obbligatoria ormai generalizzata e consolidata, ma anche dalla diffusione delle tecnologie della informazione e della comunicazione.

La scuola, quindi, non parte da zero per quello che riguarda l’educazione linguistica, ma deve interrelarsi come filtro attivo e consapevole tra i soggetti in apprendimento e il mondo dei segni linguistici ai quali sono esposti. E ciò spesso avviene non senza fatica; a volte è più facile partire da zero che avere a che fare con soggetti che hanno già interiorizzato modalità espressive sommarie, approssimative e non sempre corrette. Forse la maestrina della penna rossa lavorava in condizioni più favorevoli. Comunque, è una questione che meriterebbe una riflessione più ampia di quanto queste poche pagine ci consentano.

A nostro avviso, lo studio del latino in quanto lingua e in quanto cultura classica assume un rinnovato valore, rispetto ai valori che da sempre lo hanno connotato e che per certi versi sono assai discutibili, a due condizioni: la prima è che lo si assuma in un impianto pluridisciplinare di Educazione Linguistica Integrata (ELI); la seconda è che se ne rinnovi profondamente la didattica.

Sotto il primo profilo, abbiamo già detto che un insegnamento linguistico attivo, in situazione, non traduttivo esercitativo, può attuarsi in modo produttivo se mette in moto le strutture profonde dei soggetti e non si limita alle comparazioni mnemoniche offerte dalle strutture superficiali dell’uso linguistico comunicativo, pur importanti, ovviamente, ma non esaustive ed estremamente labili. E bisogna anche considerare che in un’ottica ELI, laddove si mettono in moto le strutture profonde ed i campi semantici a cui si riferiscono, la parola non è solo segno linguistico, ma anche segno culturale! Ma riandiamo ad un non lontano passato: l’enunciato pulchrae puellae ad dearum templum rosas portant (e non ferunt perché si era ancora ai primi giorni di scuola!) – quante banali frasette ci hanno fatto tradurre nel primo ginnasio di un tempo! – ci riconduce alle vicende di un mondo in cui vi erano più divinità, e femminili anche, fanciulle sacerdotesse (con tutto ciò che si lega al concetto della pulchra puella!) e luoghi di culto con architetture particolari! Ripensando con l’ottica della nuova didattica a quella frasetta che serviva soltanto a farci esercitare sui primi costrutti grammaticali, ci verrebbero dei suggerimenti! Potrebbero intervenire più approcci disciplinari, la religione, la storia, l’archeologia, l’arte, la sociologia, laddove si dovesse costruire un percorso modulare di primo approccio alla lingua latina: un approccio diverso, di contenuti, più che di forme grammaticali!

Sotto il secondo profilo, va subito detto che peggior danno al latino non hanno potuto fare coloro – e si è trattato anche di studiosi – che lo hanno definito lingua morta. Se una lingua è morta perché non si usa, morta era anche la lingua italiana – come abbiamo constatato precedentemente – per quei bambini che comunicavano solo in dialetto!

A parte il fatto che il latino, come è noto, non è stato mai abbandonato in certi settori intellettuali, va anche detto che la considerazione circa la vitalità e… la mortalità (sic!) di una lingua implica anche altre variabili, un tempo non considerate in quanto la linguistica non era giunta ai risultati a cui oggi è giunta, grazie anche all’apporto della filologia, della psicolinguistica, della glottologia[5]. Si tratta, comunque, di una considerazione sulla quale si potrebbe discutere a lungo. In effetti, occorre anche pensare che oggi il latino come lingua della comunicazione è stato abbandonato anche dalla stessa Chiesa Cattolica, che per secoli ne è stata una custode scrupolosa. La presenza di parlanti latini è assai rara e per certi versi tale costume può considerarsi come una specie di hobby.

E’ vero che le lingue hanno una loro vita. Nascono, si sviluppano e muoiono nella misura in cui connotano la cultura materiale e immateriale di un gruppo sociale, piccolo od ampio che sia. Ma è anche vero che le lingue vanno pur sempre considerate non solo nella loro presenza esplicita in quanto scambio attivo, in quanto insieme di strutture superficiali, ma anche nella loro presenza implicita, in quanto etimi, regole grammaticali, repertori lessicali, significati semantici, in quanto insieme di strutture profonde. In effetti, anche chi non ha mai studiato latino ha nelle sue strutture un bonus che diventa buono, un malus che diventa male, malizia, ed un captivus che, per strane trasformazioni è diventato, cattivo; e certamente non sa che tra prigione e prendere non corre differenza a livello di strutture[6].

Vale per le lingue lo stesso discorso che oggi si fa a proposito del DNA, del codice genetico, delle strutture biologiche di una specie. In ciascun individuo vivente, pianta o animale, vi sono fattori ontogenetici, che l’individuo stesso costruisce nella sua esperienza di vita, e fattori filogenetici, che gli derivano dalla sua specie e che sono comuni a tutti gli individui. Questi ultimi fattori sono incancellabili, almeno per quei periodi storici sui quali gli esperti sono in grado di condurre le loro ricerche.

Se consideriamo, quindi, queste relazioni tra strutture profonde, costruitesi lentamente nel tempo, e le strutture superficiali che connotano un periodo definito e preciso[7], il latino è ben vivo nella nostra competenza semantica – se si vuole chiamare così l’universo dei segni di cui il parlante italiano dispone – anche se sarebbe difficoltoso fare un calcolo percentuale. Certamente, la stessa cosa non può dirsi nel caso di altre lingue, “morte” o vive che siano, per quanto riguarda certi radicali e/o certi apporti, dal sanscrito (la radice *id- dei Veda, di oida, di vidère e del nostro vedere) all’arabo (i noti vocaboli algebra, ammiraglio, arsenale, fondaco e così via) e allo stesso inglese (quant’è difficile dire andare a fare spese per negozi o fine settimana o elaboratore, quando disponiamo con maggiore familiarità di shopping, week end e di computer).

E’ per tutte queste ragioni che chi insegna, nel momento stesso in cui “provoca” le strutture profonde del suo alunno, riuscirà anche a fargli percepire, poi comprendere, poi interiorizzare che la lingua latina non è affatto quella lingua morta che in genere crediamo, e che i suoi monemi[8] e sintagmi riemergenti da un lontano passato non sono davvero quei morti viventi dei film di Romero (La notte dei morti viventi è del 1968, Zombi del 1978)! La lingua non conosce zombi!

E’ chiaro che chi insegna, se si pone nell’ottica di insegnare una lingua “morta”, già precostituisce per se stesso e  per l’alunno un percorso viziato in partenza, del quale forse lo stesso insegnante avvertirà una scarsa utilità. Sfatiamo allora un luogo comune! Si sente dire spesso che è assolutamente ridicolo cercare affannosamente definizioni latine per vocaboli come telefono, televisore, computer, internet, spinterogeno, diclodifeniltricloroetano, il noto DDT, o per espressioni come lampada alogena o tomografia assiale computerizzata. E non si pensa mai che lo stesso problema vale per l’italianissimo Manzoni, se vivesse con noi, ed anche per chissà quanti italiani di oggi che non sono soliti usare questi termini o/e non ne conoscono il significato! E sono termini che qualcuno ha pur dovuto coniare; si tratta di problemi di lingua che si pongono grazie allo sviluppo socioeconomico e commerciale, della ricerca scientifica e tecnologica! E quanti altri termini ancora saranno coniati… con grande gioia degli editori che ci sforneranno dizionari sempre più pesanti… e più cari!

Se poi si va più a fondo, si osserverà che un gran numero di questi vocaboli hanno radici latine o greche. Come è vero che il nostro bar viene, forse, dalla barra dei termopòli[9] e che i missili… ce li avevano anche i Romani: tutto ciò che in guerra poteva essere scagliato (missum) contro i nemici!

Indubbiamente, a proposito di questa problematica ci potrebbe essere anche una responsabilità di “come” l’insegnante stesso ha appreso il latino. Certamente, se ha scelto la facoltà di lettere perché non aveva alcuna confidenza con la matematica – o credeva di non averla[10]– questo sarebbe un segnale preoccupante!

Ma, a prescindere da queste considerazioni, resta pur sempre il fatto – lo abbiamo precedentemente ricordato – che molti ricercatori, e non solo nel campo della linguistica, ritrovano nel latino una koinè diàlectos – una lingua comune – che, forse, non ritrovano nell’inglese! Ovviamente, non pensiamo che il giovane europeo di oggi sceglierà domani di parlare in latino come lingua comune. L’inglese ha ormai fatto breccia in quasi tutti i settori della produzione, della ricerca, degli scambi e di fatto controlla campi semantici – per dirla in gergo linguistico – che diventano sempre più numerosi. Non intendiamo assolutamente fare la guerra all’inglese in nome del latino, perché non siamo dei codini reazionari, ma siamo convinti che uno studio attivo ed interattivo del latino in età scolare sia anche funzionale ad un apprendimento produttivo dell’inglese.

Se la lingua è un atto…

Dicevamo più sopra, con una punta di ironia, che la lingua non conosce zombi! E’ certo, tuttavia, che quel papiro ritrovato in una grotta sul Mar Morto e sul quale studiosi di vaglia si sono prodigati per anni in ricerche e discussioni, costituiva per il pastore che lo aveva trovato una sorta di campione senza valore! Ed è quello che dovremmo riuscire a fare con i nostri alunni: far sì che a fronte di un testo dei nostri padri latini assumano l’atteggiamento dello scienziato curioso e non quello del pastore interessato soltanto alle sue pecore. Indubbiamente, non è una scommessa di poco conto.

Ci siamo soffermati nella precedente unità[11] sulla scelta operata per i programmi della scuola elementare dell’85, quando non si è voluta dare una definizione univoca del fenomeno lingua ma si sono assunti cinque diversi significati: e ciò per consentire agli insegnanti un ampio ventaglio di scelta in quanto educatori linguistici[12]. La quinta opzione è quella della lingua considerata come oggetto. Quando, cioè, abbiamo a che fare con un testo, letterario o meno, lungo o breve, dal De oratore al Marcovaldo, dal Cave canem al Vietato fumare, ci confrontiamo con un oggetto, del quale possiamo “servirci” o meno [13].

Ed i livelli di uso sono estremamente diversi. Il De oratore può rimanere sullo scaffale ad perpetuam rei memoriam: magari è una preziosa edizione del Settecento! E lo stesso può accadere per tanti altri volumi complessi e ponderosi: méga biblìon, méga kakòn, grande libro, grande male, diceva Callimaco rivendicando il diritto ad una linguaggio poetico immediato ed efficace[14]. Ed in quante persone c’è il rifiuto del libro a priori! La lingua come oggetto può avere due connotazioni. La prima è quella colta, che riguarda una espressione linguistica conclusa, definita, che si può accettare o meno, apprezzare o criticare, ma che pur sempre conserva, appunto, una sua oggettività, immutabile nel tempo! E’ il caso di un romanzo, di un poema, di un saggio, ecc.! La seconda è quella incolta, che riguarda tutti coloro che per diverse ragioni guardano al testo, al libro come a un qualcosa che non li riguarda e con cui mai avranno a che fare. Questa è del resto una condizione abbastanza generalizzata, purtroppo, e, forse, riguarda anche molti studenti nei loro primi approcci al testo; a meno che l’insegnante non riesca a mediare e a creare una felice interazione tra l’alunno e il libro.

In effetti, un testo, un libro, cessa di essere oggetto quando il fruitore non solo lo tira giù dallo scaffale polveroso – può anche essere una metafora – non solo lo legge, ma lo interroga e lo manipola, come ci ricorda Escarpit[15]. Di qui un’altra considerazione: per un mussulmano il Vangelo è un libro “oggetto”, ma il Corano è un libro “di uso”; e viceversa per un cattolico. Come il “vietato fumare” può essere un testo “oggetto” per il non fumatore, ma un testo “di uso” – ed in tal caso abbastanza frustrante – per un incallito fumatore!

La lingua, dunque, può essere anche “atto”, come dicono i filosofi analitici inglesi[16], in quanto svolge una precisa funzione/azione e sollecita una risposta. Le Tavole di Mosè, come le Leggi delle Dodici Tavole, erano per il popolo ebraico e quello romano precetti da seguire e non infrangere. La nostra Costituzione pone dei vincoli al presidente della Repubblica come a qualsiasi cittadino. Un “vi dichiaro marito e moglie” oppure “l’imputato è condannato a venti anni di carcere” non sono semplici testi, ma propongono ed impongono azioni! Le famose cartelle pazze che molti contribuenti ricevono dagli uffici delle tasse provocano spesso una infinita serie di azioni e reazioni!

Se la lingua è un atto, o meglio, se la lingua è anche un atto, ne consegue che, sotto un profilo didattico, sarà opportuno assumere che la scelta di questa tipologia sia la modalità migliore per suscitare interesse, provocare azioni, stimolare coinvolgimenti negli alunni, individualmente ed in gruppo. In altre parole, occorre scoprire come una lingua che alcuni credono morta, quindi non solo un oggetto, ma addirittura qualcosa di sepolto e dimenticato, possa, invece, essere utilizzata come una lingua viva, in grado di mettere in moto le nostre strutture profonde e dar luogo a strutture superficiali!

Nelle scuole della tarda latinità lo studio della lingua non era affidato tanto alla grammatica, sempre incerta a quel tempo, nonostante la litigiosità dei grammatici[17], quanto, invece, alla pratica locutoria. Le suasoriae, le controversiae e le disputationes costituivano esercitazioni retoriche, nell’accezione migliore del termine, con le quali e per le quali gli studenti si impadronivano del mezzo linguistico grazie a situazioni appositamente indotte dai maestri, ma che suscitavano interesse estremo perché sollecitavano l’inventiva e la creatività, sia sotto il profilo formale che sostanziale. Di fatto si trattava di analisi di caso – come potremmo dire oggi – e/o di giochi di ruolo o di simulazioni. Si dava un tema, o un dilemma, in genere legato alla professione che poi gli studenti avrebbero svolto. E le professioni per eccellenza erano quella politica, quella amministrativa, quella giudiziaria (come si giustifica il potere, come e con quali modalità si formulano e si scrivono le leggi, come si esercita la giustizia, come si difende un cliente); la professione del medico o quella dell’ingegnere si apprendevano in situazione, si imparavano facendo!

Insomma, non la lingua come sterile esercizio, ma come ricerca, gioco, provocazione, arte. Si ricordi che, laddove la ricerca scientifica non si avvale del metodo sperimentale, è la lingua come ragionamento – o il ragionamento come lingua – che la sostituisce. Si pensi a quel meraviglioso canto secondo del Paradiso in cui Dante e Beatrice si misurano in una dottissima controversia sulla natura delle macchie lunari. Si tratta di ingenuità a non finire di fronte a quello che noi oggi sappiamo sulla luna, grazie in primo luogo a Galileo che ebbe l’idea di levare in cielo quel cannocchiale che aveva inventato (o perfezionato) per la marineria della Repubblica veneta! Ma quelle ingenuità sono i ragionamenti che si conducevano nelle scuole medievali, laddove si discuteva anche dell’ombelico di Adamo, del sesso degli angeli, della natura umana o divina del Cristo! Che poi non erano certo graziose e gratuite amenità, se è vero che le scelte di altre credenze (le eresie) rispetto alla fede corretta (l’ortodossia) conducevano anche a sanguinosissime guerre!

La parola, quindi, come atto, come fatto, come cosa reale! E ciò non si verificava soltanto nella tarda latinità! La “persuasione rettorica”, di cui ci parla Emanuele Tesauro – e siamo in pieno Seicento[18]– non va considerata solo come un’astratta arte del dire ma anche come una possibilità che la lingua offre a fini esplorativi, di ricerca, di euristica e di ermeneutica, se si vuole, ovviamente secondo l’accezione migliore dei termini. Ma i nostri tempi non sono affatto da meno!

Oggi il linguaggio scientifico non è solo, e non è quello dominante. Esercitano una intelligente e pervasiva “persuasione rettorica” i pubblicitari del nostro tempo, quei persuasori occulti che da oltre mezzo secolo hanno imparato un’arte del produrre linguaggio che meriterebbe di essere studiata molto più di quanto abitualmente si fa[19].

Quando si accusano i pubblicitari, ma anche i politici, i giornalisti e gli stessi user di computer, di chat e di telefonini di fare scempio della lingua italiana, occorre fare un accurato beneficio di inventario. E’ chiaro che la lingua in quanto oggetto, in quanto trasmessaci dai nostri classici italiani, viene sempre costantemente aggredita, e deve essere ancora più chiaro che questa aggressione è molto più intensa oggi in quanto gli usi linguistici sono aumentati a dismisura. E’ più che logico che ai tempi dell’analfabetismo imperante (agli inizi del Novecento, nonostante un ormai avviato obbligo di istruzione[20], l’analfabetismo interessava il 50% degli italiani!) la lingua “oggetto” fosse quella dominante sulla quale, peraltro, venivano costruite le regole della grammatica[21].

Pertanto, come sbaglierebbe quell’insegnante di italiano che, arroccato come un neopurista (sic!) sulle regole grammaticali, perdesse di vista tutta la ricchezza comunicativa delle lingue “italiane diverse”, cioè delle altre infinite modalità con cui oggi i nostri giovani – e noi stessi – producono lingua e ne fruiscono. E a maggior ragione sbaglierebbe quell’insegnante di latino che avesse come unico referente la grammatica di uno Zenone o di un Tantucci.

Affrontare, quindi, il latino come lingua viva significa in primo luogo avere un atteggiamento confidenziale verso di esso,  friendly o benigne che sia! Non si tratta tanto di pretendere dagli alunni la conoscenza minuta di tutti gli amussis, buris, ravis, sitis e tussis – sempre mandati a memoria ma mai incontrati nei classici – o del fatto che spero, promitto e iuro reggono l’infinito futuro – che poi non è vero in assoluto – od una consapevole competenza nella traduzione esercitativa su tutte le regole e relative eccezioni della consecutio! Significa, invece, cominciare subito a presentare civiltà, storia, cultura, letteratura, testi in latino e in italiano, graduando ovviamente tutte le difficoltà sia di contenuto che testuali, ricercando analogie e differenze con l’attualità, e svolgendo gli incontri in aula, possibilmente avviando la conversazione in lingua. Occorre, ovviamente, precisare che, da parte nostra, non c’è alcun rilievo critico contro la “traduzione”; la questione è un’altra: che la traduzione non costituisca l’unico motivo e l’unico fine dell’insegnamento del latino!

Si tratta di scegliere all’inizio delle attività didattiche una lingua latina che sia sganciata dalla sintassi ciceroniana e che possa ospitare anche un lessico aperto al nostro vocabolario. Se la lingua è anche atto, od essenzialmente atto[22], deve essere particolarmente attivato il versante della colloquialità sul quotidiano, sulla attualità, ovviamente a partire sempre da situazioni che si prestino ad un latino essenziale e semplificato.

Insomma, deve verificarsi ciò che accade con il bambino, quando passa dal balbettio alla lallazione e ai primi enunciati. Nessuno si meraviglia che un bambino di due anni non sappia discutere di relatività o di genetica o della fenomenologia di Husserl. Del resto, è lo stesso metodo che si adotta in qualsiasi scuola di lingua seconda, dove nessun alunno, neanche adulto e acculturato, affronterebbe illico et immediate le Idee per una fenomenologia pura! Poi spetterà al bambino, una volta cresciuto, o all’adulto, una volta che si è impadronito della lingua seconda, utilizzare la lingua appresa al livello standard o a quei complessi livelli delle lingue settoriali e specialistiche che, ovviamente, richiederanno ulteriori apprendimenti.

E’ noto che la lettura delle ricette o dei bugiardini[23]crea molte difficoltà a chi non è medico o farmacista. Del resto, siamo sicuri che i nostri lettori, perfetti conoscitori della lingua italiana, avranno molta difficoltà a comprendere come e perché i policheti hanno, ai lati di ogni metamero tanti parapodi! E, se poi non sanno che cosa è il serpollino… è semplice! Non è altro che un sermollino![24]

Concludendo, se si segue una linea didattica come quella sopra indicata, è possibile motivare allo studio del latino ed aprire la via alla formazione di futuri cultori ed anche di studiosi della lingua e della cultura latina. Certamente si tratta di una strada diversa, forse più impegnativa per gli insegnanti, ma più amichevole per i discenti. Di fronte ad una prospettiva, che può essere anche una sfida, una sola cosa è certa: che la didattica tradizionale segna più fallimenti che successi!

Come insegnare latino

E’ bene domandarci che cosa significa insegnare latino dal punto di vista della scelta che viene fatta nei licei e che poi è la scelta che si fa da alcuni secoli nei seminari e nelle accademie. Ed è una scelta che deriva dal periodo umanistico. Furono gli umanisti, nella loro sollecitudine forse eccessiva di far rivivere la classicità, a riandare al latino di Cesare e di Cicerone, o meglio a credere di riandare a quella lingua. Gli umanisti fecero una operazione estremamente astratta. Ruppero con il latino che ancora era vivo fin dalla tarda latinità in molti ambienti colti e meno colti e che aveva alle sue spalle una storia fatta di lenti e continui cambiamenti, ma tutti rispondenti alle esigenze naturali, se si può dir così, della comunicazione. Laddove i volgari si affermavano, la lingua latina continuava a rappresentare quella della comunicazione extravolgare.

Potremmo dire così che nacque una terza lingua latina, ammesso che le lingue possano essere circoscritte in modo tale da costituire un unicum in un’unica epoca; e le tre lingue erano: il latino scritto di Cesare e Cicerone, che ovviamente non era quello orale del popolo né quello dei legionari che lo diffondevano nelle province; il latino medievale, pur con tutte le sue differenziazioni diacroniche e sincroniche; il latino degli umanisti. Mentre i due primi latini avevano una loro giustificazione, da un lato quello della ricerca letteraria, finalizzata agli scopi che si pongono ad un parlante quando è tenuto ad affinare i suoi mezzi espressivi, dall’altro quello di una comunicazione che coinvolgesse il massimo degli interlocutori, anche a prescindere dalle raffinatezze, il latino degli umanisti non aveva altro fine che una dotta esercitazione fine a se stessa, anche se i “nobili” scopi di ridare vita alla lingua dei classici ne giustificava la scelta.

Gli umanisti di fatto imprigionarono il latino dentro un perfetto edificio grammaticale sui modelli di Cicerone e di Virgilio, codificandolo in grammatiche che irrigidirono la lingua e che con il corso degli anni finirono anche, per certi versi, con il mortificarla. Quando, con l’età dei Lumi, venne effettuata la scelta di rompere definitivamente con il latino nelle università, nella ricerca e nei rapporti tra i letterati e gli scienziati europei, questa non fu dettata tanto dal fatto che il latino non consentiva scambi di informazioni su referenti oggettuali che non avevano alcuna corrispondenza con un vocabolario che era quello di trecento anni prima, quanto dal fatto che questa mancata corrispondenza risiedeva proprio nella natura di una lingua che era stata “inventata” dagli umanisti.

Così a questo latino non rimase altro spazio che quello della Chiesa, delle sue funzioni, dei suoi seminari, dei suoi documenti ufficiali, delle lettere pontificie, alle quali attendevano studiosi di vaglia, i cosiddetti scrittori apostolici di maggior grazia. E, con una certa approssimazione, fu lo stesso latino che poi venne importato nelle scuole pubbliche degli Stati della Penisola e, più tardi, in quelle del Regno d’Italia.

Questo tipo di scelta fu letale per una reale espansione del latino in scuole che non fossero il liceo classico. Così il latino degli umanisti divenne anche il segno della differenza sociale: poteva studiare latino solo colui che fosse destinato alle professioni liberali, ma lo stesso latino non sarebbe servito a nulla per i “vili meccanici” destinati ai lavori manuali!

Fu così che questo latino, non quindi quel latino che avrebbe potuto essere il risultato vivente e sempre cangiante della sua evoluzione, venne adottato nelle scuole ed insegnato nelle stesse università per coloro che a loro volta lo avrebbero insegnato ai giovani del ginnasio e del liceo. E fu così che il latino divenne lingua “morta”!

Non tutti gli studiosi colsero il falso storico letterario e linguistico – se possiamo chiamarlo così – che sottostava a questa scelta. Anche perché, a livello di ricerca e di studi superiori, la cultura e il mondo latino conoscevano studiosi di rilievo anche in campo internazionale. Quando, poi, con la riforma Gentile del ’23, questa modalità dello studio del latino nelle scuole venne in un certo qual modo legittimato, di fatto il discorso a quale latino attendere venne concluso.

Ma fu proprio in quegli anni, quando ormai sembrava che il latino fosse realmente condannato a diventare lingua morta per sempre, che ebbero inizio riflessioni più attente nei confronti di questa lingua e della sua storia. Molti studiosi si rendevano conto che l’approccio e lo studio del latino effettuati con le modalità attuate nei licei avrebbero provocato più un allontanamento dal latino e dal suo mondo, che un invito allo studio, una sua reale riscoperta ed una sua valorizzazione.

Fu così che Joseph Cahour nel suo Manuel pour l’Etude de la Langue Latine adaptée aux usage de la vie moderne, edito a Parigi nel 1928 per le “Editions de la Pensée Latine”, sostenne la necessità di avvicinarsi al latino secondo un metodo vivo e colloquiale. Ed alla fine ritrovò che non era affatto necessario avviarsi nel complesso mondo di tutte le regole desunte dal latino classico nel quale era più facile perdersi che apprendere, ma mutuare, invece, le regole più semplici ed immediate del latino medioevale. Nasceva, così, la proposta di un latino semplificato che conobbe altri cultori e sostenitori[25]. Esiste anche il metodo Orberg. Prende il nome da Hans Henning Ørberg, un linguista e latinista danese (1920-2010). E’ chiamato anche metodo natura: si tratta di una metodologia per l’insegnamento del latino e del greco basata sulle strategie dell’apprendimento delle lingue dal vivo. Le lingue classiche vengono apprese come se fossero parlate, utilizzando testi che l’allievo può leggere e comprendere immediatamente senza traduzione e senza spiegazioni nella sua lingua materna. Ciò in linea di principio. Ma in realtà, la finzione non è mai all’altezza della realtà. Una lingua straniera, il francese, l’inglese, il cinese, ecc. si apprende sempre in una situazione,viva, reale, non fittizia.

In queste pagine introduttive non intendiamo entrare nel merito della proposta. Ci interessa, però, sottolineare il fatto che è possibile ricercare strade diverse e nuove per affrontare lo studio del latino che lo rendano fruibile e interessante fino al punto – ma questa è la sfida più difficile – che possa costituire uno strumento di formazione per tutti e che cessi di essere relegato solo in un percorso formativo destinato a pochi.

Da queste indicazioni emergono numerosi suggerimenti didattici. Va considerato, in primo luogo, quanto sia opportuno, e se lo sia, utilizzare il latino anche come lingua di comunicazione. Il che potrebbe costituire, in un percorso curricolare, un obiettivo di tipo strumentale, al fine di aiutare una sorta di familiarizzazione con la lingua. E’ certo che le strade per affrontare il latino nelle sue strutture grammaticali potrebbero essere anche diverse. Comunque, i suggerimenti didattici immediati che emergono dalle considerazioni fin qui svolte, potrebbero essere – con tutti i benefici di inventario del caso – i seguenti:

  • sarà opportuno avviare fin dal primo giorno di scuola la conversazione latina, come del resto si fa con l’insegnamento delle lingue seconde (del resto, anche la lingua prima materna si è appresa in situazione!), sollecitando, con le opportune tecniche interattive della conversazione mirata con piccoli gruppi, le strutture profonde dei parlanti facendo sì che emerga dalla conversazione stessa un primo sommario repertorio di regole e lemmi, indubbiamente approssimato e certamente non conforme con quanto indicato e descritto dalle grammatiche tradizionali;
  • saranno proposte le regole di un latino semplificato, utili ad un approccio amichevole ad una lingua seconda di uso, supportate da testi opportunamente selezionati dagli insegnanti e che siano di facile lettura e comprensione;
  • si procederà in seguito lungo due percorsi: uno sarà quello della intensificazione dello scambio reale in sede di conversazione che, dall’ambito iniziale puramente amicale e familiare, potrà avviarsi su terreni più ampi e generali; il secondo sarà quello della interrogazione del testo e della sua manipolazione[26], per dirla con Escarpit;
  • di qui il passo non sarà lungo verso ulteriori approfondimenti, che saranno quelli della lettura di testi, che via via saranno più complessi, e della produzione di testi compiuti orali e scritti in lingua latina;
  • in questa fase sarà anche opportuno accedere ad internet e ricercare quei siti, nazionali e non, con i quali lo scambio avviene in lingua latina; l’offerta è molto ampia, ma con opportuni motori di ricerca si potranno individuare quei siti grazie ai quali si potranno affrontare tematiche di interesse comune[27];
  • il percorso indicato, avviato inizialmente dall’insegnante di lingua, dovrebbe coinvolgere anche altri insegnamenti a seconda degli interessi che si manifesteranno da parte del gruppo alunni; la scelta è dovuta al fatto che la lingua non è un’astrazione, ma serve ad esplorare “oggetti”. In altre parole, se l’interesse del gruppo è per l’arte o per la fisica o per l’archeologia, gli scambi avverranno su specifici oggetti ad implementare conoscenze e competenze;
  • lungo questa strada si potrà rilevare come il latino possa adattarsi a quelli che sono i contenuti proposti dall’epoca in cui viviamo e che le soluzioni via via adottate saranno meno complesse e difficili di quanto non sembri;
  • in una scenario di questo tipo non saranno pochi gli alunni che chiederanno al latino qualche cosa di più, che vorranno perfezionare ed approfondire la ricerca anche in quel mondo dove e come il latino è nato. Di qui nasce l’approccio ai testi e alla cultura classica; di qui nasce quell’insegnamento che, stando alle indicazioni dei Programmi Brocca[28], prende nome di educazione letteraria. Si tratta di un punto di arrivo che, in un certo senso, premia quell’insegnante di lettere che del latino privilegia, e giustamente, l’ampia offerta dei testi e delle testimonianze materiali: dai monumenti civili e religiosi alle arti plastiche e figurative e quant’altro. Non c’è area dell’Europa e del Medioriente che non testimoni il passaggio della civiltà e della cultura latina! E senza alcuna retorica!

L’educazione letteraria

L’accesso diretto ai testi classici costituisce certamente per l’insegnamento e l’apprendimento della lingua e della cultura latina un fine interessante ed utile. Ovviamente non costituiscono un buon abbrivio mesi e mesi di insulse esercitazioni con tutte quelle puellae quae portant rosas ad aras… o con quegli improvidi nautae che hanno sempre a che fare con quelle infinite procellae quae maria fortiter vexant,… quando poi non occurrunt in furentes piratas! E’ il modo migliore per fare odiare il latino!

Il mondo latino ci offre di per sé, senza ricorrere ad infelici ed insulse invenzioni, infiniti esempi di letteratura interessante ed agevole anche per principianti. E non bisogna pensare soltanto alle favole di Fedro o ad alcuni passi di Cornelio e di Svetonio. E’ noto come in genere tali autori siano stati sempre considerati “facili” e per ciò spesso presentati nelle prime classi del ginnasio; ma in effetti, anche autori del genere presentano a volte notevoli difficoltà.

Nei periodi in cui la lingua latina si forma o si trasforma è possibile trovare testi agevoli e interessanti per tutto ciò che contengono implicitamente e che evocano.

Forniamo alcuni esempi soltanto, desunti dalla cultura delle origini, esempi che dovranno essere certamente contestualizzati, modularizzati con altri contenuti di storia, di storia del pensiero e del costume, dei primitivi culti pagani, con il greco e così via. Sono esempi scelti a caso, ma interessanti, a nostro avviso, per la loro semplicità di lettura e di immediata comprensione.

Molto dipende, ovviamente da come sono presentati dagli insegnanti e dai metodi di lavoro che si sceglieranno. Certamente, si tratta di testi che – come si suol dire – vanno molto al di là di quello che a livello esplicito dicono e che contengono elementi di cultura e di civiltà a volte non immediatamente evidenti, ma che un attento lavoro di analisi guidato dagli insegnanti potrà mettere alla luce.

Dindia Macolnia fileai dedit. Novios Plautius med Romai fecid, dalla cista Ficoroni ritrovata in Preneste. Una madre, una figlia un artigiano, un portaoggetti di bronzo in una città del Lazio; uno spaccato di vita cinquecento anni (?) prima di Cristo.

Si membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio esto (se un soggetto ha mutilato un altro e non raggiunge con lui un accordo, sia applicata la legge del taglione), dalle Leggi delle XII Tavole; uno stimolo per un discorso sul diritto antico, sul taglione, su una primitiva amministrazione della giustizia.

Virum mihi Camena insece versutum... L’incipit del poema di Livio Andronìco in versi saturni. L’Odysseus dell’Andra moi ennepe Mousa polutropon (l’incipit dell’Odissea omerica) diventa il nostro Ulixes. E, ad abundantiam, potremmo anche richiamare un altro incipit, quello del nostro neoclassicismo: Musa quell’uom dal multiforme ingegno

Quasi pila in coro ludens datatim dat se et communem facit… E’ il noto frammento della Tarentilla di Nevio: la donna che si offre a tutti, uno lo bacia, a un altro “fa il piedino”… ma il tutto senza alcuna palese volgarità.

Fato Metelli Romae consules fiunt, così si scaglia Nevio contro la famiglia dei Metelli; sullo sfondo le guerre puniche e il primo teatro romano, ma la risposta della grande famiglia non si fa attendere: Malum dabunt Metelli Naevio poetae.

E non possiamo non ricordare quello struggente frammento neviano, tratto dal Bellum Poenicum, ancora in versi saturni, in cui il poeta, rievocando le origini leggendarie di Roma, rappresenta la fuga da Troia delle mogli di Anchise e di Enea: Amborum uxores / noctu Troiad exibant capitibus opertis / flentes ambae, abeuntes lacrinis cum multis.

Musae, quae pedibus magnum pulsatis Olumpum, un altro incipit, questa voltain esametri: sono gli Annales di Ennio, l’alter Homerus della poesia latina. La lingua fa un passo in avanti, Ennio amplia il discorso di Nevio e vuole celebrare Roma al di là della vicenda punica.

Ed ora qualche esempio del tardo latino, quando la lingua dei classici comincia a cambiare, a corrompersi, diranno alcuni, ma… esiste una lingua migliore di un’altra? Questo già può costituire un interessante spunto di discussione.

Adriano è stato l’imperatore esteta e viaggiatore per eccellenza, e l’amico Floro così lo riprende: “Ego nolo Caesar esse, ambulare per Britannos, latitare per Germanos, Scythicas pati pruinas“. Ma Adriano prontamente gli risponde e lo riprende: “Ego nolo Florus esse, ambulare per tabernas, latitare per popinas, culices pati rotundos“. E come non ricordare quella “Animula vagula blandula hospes comesque corporis, quae nunc abibis in loca pallidula, rigida, nudula, nec, ut soles, dabis iocos… è un frammento dolcissimo, che Adriano, colto, curioso, raffinato, avrebbe scritto, stando al suo biografo, poco prima di morire.

Di tutt’altra pasta sono i primi apologisti cristiani. Come non ricordare la veemenza di un Tertulliano (II-III secolo) contro l’impero e contro i persecutori! Evviva il martirio: Semen est sanguis Christianorum! E i pericoli che possono venire dalle donne! La donna è, secondo Tertulliano, un essere che Dio ha voluto inferiore; essa è diaboli ianua, porta del demonio: tu, donna, hai con tanta facilità infranto l’immagine di Dio che è l’uomo. A causa del tuo castigo, cioè la morte, anche il figlio di Dio è dovuto morire; e tu hai in mente di adornarti al di sopra delle tuniche che ti coprono la pelle? I libelli famosi: De exhortatione castitatis, De virginibus velandis, De cultu feminarum: è bene che le donne portino il velo sempre, per non dare scandalo in pubblico. Del resto anche Ambrogio (IV secolo) si preoccupò di raccomandare alla sorella Marcellina (De virginibus) l’osservanza di casti costumi! E che dire di quel Giovanni di Antiochia (IV secolo) detto Crisostomo, χρυσόστομος, il Boccadoro, che così si esprimeva: “Che altro è una donna se non un nemico dell’amicizia, una punizione inevitabile, un male necessario, una tentazione naturale, una calamità desiderabile, un pericolo domestico, un danno dilettevole, un malanno di natura dipinto di buoni colori?”.Insomma, un buon materiale per un dibattito sulle pari opportunità!

Ma vi sono anche i poeti cristiani meno “arrabbiati”, se si può dir così. Ricordiamo quell’inno al mattino di Prudenzio (alcuni vi vedono l’Orazio dei cristiani), un linguaggio facile e pulito in dimetri giambici: Nox et tenebrae et nubila, / confusa mundi et turbida, / lux intrat, albescit polus, / Christus venit, discedite! Caligo terrae scinditu / percussa solis spiculo, / rebusque iam color redit / vultu nitentis sideris.

E alla fine del IV secolo incontriamo Eutropio con il suo Breviarium ab urbe condita, commissionatogli dall’imperatore Valente: un testo facile, senza pretese critiche, destinato ad un pubblico senza troppe esigenze. E’ utile per un approccio semplice e facile alla lingua latina.

Fecisti patriam diversis gentibus unam; / profuit iniustis te dominante capi; / dumque offers victis proprii consortia iuris. / Urbem fecisti, quod prius orbis erat. Siamo nel V secolo d. C. e Rutilio Namaziano, il gallo-romano, decisamente anticristiano si esalta alla missione dell’impero e non avverte che il 476 è alle porte!

E non può mancare Agostino, il numida. Siamo alla fine del IV secolo e Agostino in un giardino milanese, forse forte per la predicazione di Ambrogio, vive un momento intensissimo del suo itinerario spirituale: Et ecce audio vocem de vicina domo cum cantu dicentis et crebro repetentis quasi pueri an puellae nescio: “Tolle lege, tolle lege” (ed ecco all’improvviso dalla casa vicina il canto di una voce come di bambino, o di bambina forse, una cantilena: “Prendi e leggi, prendi e leggi”). E Agostino apre il Vangelo e legge a caso: “Non più bagordi e gozzoviglie, letti e lascivie, contese e invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non fate caso alla carne e ai suoi desideri”. E’ un passo dell’Epistola ai Romani.

Il cristianesimo, dunque, avanza. Ma quanta commozione possiamo nutrire per gli sconfitti! Giuliano, l’imperatore che è nipote di Costantino, vuole restaurare il paganesimo! E per questo porterà sempre con sé il marchio della apostasia. Ferito a morte in battaglia contro i Persiani (363), affida agli astanti il suo testamento. Ecco l’incipit del racconto che ne fa Ammiano Marcellino, un soldato di Antiochia, nel suo Rerum gestarum libri: Quae dum ita aguntur, Iulianus in tabernaculum iacens, circumstantes allocutus est demissos et tristes: “Advenit o soci nunc abeundi tempus e vita impendio tempestivum, quam reposcenti naturae, ut debitor bonae fidei redditurus, exulto…”. Qualche anno dopo (378) Teodosio proclamerà il cristianesimo religione di Stato!

Ma è sempre bene ricordare che con il passar del tempo (VI e VII secolo) la latinità si afferma anche in Europa. A Siviglia c’è Isidoro, in Gallia c’è Gregorio, in Bretagna c’è Beda il Venerabile, noto anche per aver profetizzato che, quando fosse caduto il Colosseo, sarebbe caduta Roma e con essa sarebbe caduto il mondo! “Quamdiu stabit Colyseus / Stabit et Roma; / Quando cadet Colyseus / Cadet et Roma; / Quando cadet Roma / Cadet et mundus”. Anche se sembra che il Colyseus di Beda fosse in realtà la colossale statua di Nerone, posta tra l’Anfiteatro flavio e il Tempio di Venere.

Si diffondono anche i Vangeli, che portano la buona novella della pace, della giustizia, dell’amore: Vade, vende omnia quae habes, da pauperibus et habebis thesaurum in caelis (Matteo, 19, 21). La loro lettura è assai agevole, semplice e lineare perché i destinatari sono tutte le popolazioni del mondo antico! Scritti in greco, poi in siriaco, in arabo, ed anche in latino, grazie alla Vulgata di san Gerolamo, forse come lingua franca per tutte le popolazioni dell’Impero!

E perché, poi, non andare a quei testi di un “primitivo” volgare, laddove è possibile cogliere quelle trasformazioni che pian piano hanno condotto da un latino certamente non classico e parlato da tutti a quella lingua che poi Dante ha nobilitato nel De vulgari eloquentia? La scritta murale Falite dereto co lo palo Cervoncelle / Albertel trai / Fili de le pute traite, l’indovinello Se pareba boves / alba pratalia araba / et albo versorio teneba / et negro semen seminaba, od il notissimo Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti[29], e tanti altri documenti ci testimoniano questo passaggio.

Ciò che abbiamo rappresentato sono delle pure e semplici spigolature alla ricerca di testi né “aulici” né “paludati”, che poi sono quelli che hanno sempre terrorizzato i poveri studenti e che in un certo senso fanno tremare le vene e i polsi! Sono spunti di testi che – lo ribadiamo – se opportunamente contestualizzati e modularizzati, possono costituire numerosi motivi di imparare facendo e, oseremmo dire, anche divertendosi!

Solo in seconda battuta, a nostro avviso, dovremmo giungere a proposte più impegnative. Con l’autonomia le scuole potranno adottare percorsi curricolari e soluzioni didattiche diverse, pur nel rispetto degli standard del sistema nazionale di istruzione.

Per quello che riguarda il latino, il greco e la cultura classica, potrebbero effettuarsi due scelte. La prima potrebbe essere una scelta di base, comune a tutti gli alunni – crediamo ad un latino per tutti! – senza però ricadere nell’errore di quella indicazione dell’articolo 2, commi 3 e 4, della Legge 1859/62 con la quale, per contentare sia i conservatori del latino che gli abolizionisti, si misero in seria crisi insegnanti e alunni[30]. La seconda scelta, che potremmo definire avanzata, sarebbe destinata a quegli alunni che dimostrano interesse per approfondimenti e ricerche mirate.

Si tratta di una ipotesi che, se ben progettata ed avviata – e questo è anche uno scopo del nostro corso! – potrebbe restituire allo studio delle nostre origini quella dignità che le è sempre stata negata. Di fatto, da un lato la bolsa retorica di una male intesa classicità e, dall’altro, la sua repulsa hanno costituito da sempre una polarizzazione che ha avuto conseguenze disastrose non solo per gli studi classici ma anche per gli studi in generale.

La messe di testi e di autori che ci viene offerta dal mondo classico, anche nei confronti di una sua attualizzazione, è enorme. Insegnanti che siano veramente padroni della cultura e delle lingue classiche non avrebbero alcuna difficoltà nella selezione di contenuti finalizzati ad un apprendimento quale da noi ipotizzato e proposto.

Basti pensare a quanta parte della classicità abbiamo perduta, dal punto di vista dei contenuti di insegnamento, in forza del fatto che la classicità dovrebbe essere sinonimo soltanto di un’aurea perfezione. Ma la perfezione, come è noto, non solo non esiste, ma finisce sempre con l’essere qualcosa di noioso e di stucchevole[31]. E la scelta dei contenuti, anche da parte ministeriale, mirava sempre agli autori del periodo aureo!

Molti anni fa, per l’uso delle scuole, si censuravano quei testi latini che si definivano troppo spinti e non presentabili ai giovani. E vi era anche una pretesa giustificazione: il mondo che esprimevano Muzio Scevola, Orazio Coclite, Cincinnato e le tante Lucrezie e Cornelie mal si conciliava – secondo una certa visione tutta di maniera – con i carmina priapea e con certi versi audaci di Catullo, per non dire poi dello sconcerto che provocavano certi affreschi pompeiani! Del resto, già nel medio evo solerti e pudicissimi copisti avevano provveduto a cassare codici poco “edificanti” per riscriverci sopra canti liturgici! Anche se poi qualche chierico birichino in una chiosa non troppo evidente a prima vista (la si ritrova spesso sui margini dei codici!) aggiungeva qualcosa del suo scurrile parlar quotidiano!

Ma oggi, con l’evoluzione dei costumi, che consente di parlare con libertà anche di temi che una volta erano considerati assai scabrosi, la lettura delle rocambolesche avventure di Encolpio e Gitone, e dei quel birbante di Eumolpo, o degli amori di Lucio e Fotide, non costituisce più un insulto alla morale!

E’ indubbio che il Satyricon e le Metamorfosi costituiscono due pilastri della narrativa mondiale. La gustosissima rappresentazione della cena di Trimalchione[32]od il finissimo humour della novella della matrona di Efeso o le vicende di Apuleio con la vedova Pudentilla, ed ancora la stupenda favola di Amore e Psiche sono dei veri e propri gioielli della capacità narrativa. Sottrarli ad un giovane che abbia il piacere della lettura è indubbiamente una violenza! Una scelta di questo genere implica sempre una assunzione di responsabilità da parte dell’insegnante: occorre sempre valutare se il piacere della lettura ha il fine in se stesso oppure se diventa soltanto una giustificazione per ricercare quei passi scabrosi che un certo tipo di morale difficilmente può accettare. Ma va anche detto che il panorama letterario è vastissimo, e le fonti infinite. Tutta la latinità ci offre un repertorio che spesso solo una cattiva didattica è stata capace di rendere repulsivo a migliaia di studenti.

In questo repertorio è possibile rintracciare e costruire gli itinerari formativi più diversi. Ne diamo solo alcuni esempi, senza alcun ordine gerarchico, su ciascuno dei quali è possibile un percorso modulare anche pluridisciplinare nel quale interagiscano lettura e comprensione di contenuti letterari, storici, ecc. con approcci ed eventuali approfondimenti grammaticali, anche sotto il profilo di un progressivo affinamento morfologico e di un arricchimento lessicale.

Ecco alcune indicazioni in proposito, che si prestano moltissimo a quelle attività di drammatizzazione che costituiscono una delle tecniche più motivanti e coinvolgenti ai fini di un apprendimento efficace.

1. Lettura, traduzione, confronto e messa in scena di testi teatrali latini e moderni

Anche se non disponiamo di testi compiuti di atellane e fescennini, possiamo selezionare testi da qualche scena di Plauto: il duetto di Mercurio e Sosia, ad esempio, dall’Amphitruo; lo spassoso dialogo tra Euclione e Megadoro, dall’Aulularia, con eventuali riferimenti con l’Arpagone dell’Avaro di Molière e con il film con l’avaro Alberto Sordi; sarebbero paralleli interessanti, ovviamente se sceneggiati!

2. La ricerca e la scoperta di opere meno note e singolari, per soggetto e per stile

Si può ricorrere ad alcune scene della Apocolokyntosis, la zucchificazione di Claudio, un’operetta che non è affatto di un Seneca minore! Un vero filosofo sa anche ridere. Si pensi al lamento funebre del coro che intona edite fletus, fundite planctus e che così prosegue: .resonet tristi clamore forum / cecidit pulchre cordatus homo / quo non alius fuit in toto / fortior orbe / ille citato vincere cursu / potera Celeres… Altro che con rapida corsa, lui che era zoppo! Una presa in giro gustosissima! Oppure si pensi all’incontro tra Ercole e Claudio, che è di una vivacissima comicità. E non mancheranno i confronti con il Claudio di Tacito e quello di Svetonio, ovviamente sempre con la tecnica della drammatizzazione.

3. La scoperta del Cicerone privato

Ed ancora è possibile drammatizzare la vita privata di un grande oratore: le lettere di Cicerone, a volte così semplici, a volte sommesse e dimesse a confronto del periodare delle grandi cause; ma non si dimentichi che in taluni casi sono difficili da comprendere e tradurre, forse più di altre opere considerate più impegnative. Si pongano alcuni testi a confronto: da un lato l’uomo che si preoccupa della famiglia, della salute di Terenzia, che vuole avere notizie da Attico e da Tirone sulle faccende domestiche, sul bilancio familiare, e, dall’altro, l’intrepido accusatore di Verre, di Catilina, di Antonio!

4. Scene di vita quotidiana

E ci sono i bei testi di Plinio il vecchio e quelli della corrispondenza di Plinio con Traiano (uno spaccato vivissimo della vita amministrativa di Roma e delle sue province) con tutti i riferimenti alle persecuzioni anticristiane. Superfluo ricordare i possibili collegamenti con il Traiano dantesco e con quel Panegirico con cui Alfieri bolla una pretesa arrendevolezza di un Plinio servile nei confronti di un Traiano tiranno! E c’è una lettera bellissima di Plinio a Tacito sulla morte dello zio, Plinio il vecchio, durante l’eruzione del Vesuvio del ’79. Evidenti i possibili collegamenti letterari con la Ginestra leopardiana, con Svevo, e quelli scientifici e archeologici: un’ampia messe di materiale per una rappresentazione scenica e per la confezione di un CDrom!

Sempre in tema di sceneggiature, non si può dimenticare come e quanto certa poesia oraziana si presti alla drammatizzazione. C’è la satira del seccatore che offre anche numerosi spunti per la scenografia, la via Sacra, il Foro, le pendici del Campidoglio e quell’accenno agli Orti di Cesare in Trastevere. Soluzioni analoghe si possono anche trovare nella satira del viaggio a Brindisi: quanti paralleli tra la via Appia di allora e i nostri percorsi autostradali! Si può ricostruire una carta geografica dell’antica via e sovrapporla su una carta di oggi. Luoghi, nomi, situazioni!

5. Sceneggiature letterarie e ludiche

Strettamente legato alla drammatizzazione è il gioco di ruolo. La drammatizzazione richiede un copione da costruire e da realizzare nelle sue diverse parti. Il gioco di ruolo si affida più che altro a un canovaccio dove, appunto, sono assegnati dei ruoli da seguire – ed anche, a volte, da scambiare – ma da costruire poi nella azione effettiva; il che richiede una particolare inventiva ed immaginazione, ma è l’azione stessa che le sollecita e le fa esprimere. Ambedue le tecniche favoriscono una ricerca ed una produzione linguistica non indifferente, più aderente al testo nel primo caso, più affidata alla spontaneità nel secondo. La lite tra Romolo e Remo, le vicende di Mario e Silla, di Cesare e Pompeo… non possono diventare interessanti giochi di ruolo, costruiti dagli studenti anche con un latino semplice e famigliare?

6. La ricerca sul territorio

Un’altra attività potrebbe essere quella della ricerca sul campo o in situazione. Se si considera che non c’è località nel nostro Paese, piccola od estesa che sia, che non offra spunti per delle ricognizioni finalizzate a ritrovare quali testimonianze ci abbiano lasciato i Romani, o i Latini o quei popoli che prima o dopo di essi hanno vissuto ed operato. Dai Volsci ai Longobardi, dagli Equi ai Franchi, dai Sanniti agli Ostrogoti, chi non ha lasciato testimonianze, monumenti, lapidi, scritti vari ai quali accedere per ricostruire, conoscere, eventualmente riconoscersi!? Com’è noto, alla scuola dell’autonomia viene riconosciuto uno spazio curricolare locale, se si può chiamare così, che possa integrarsi ed interagire con il curricolo nazionale [33].

Si tratta di attività che si possono condurre con alunni di qualsiasi fascia di età. La questione è una soltanto: si vogliono fare dei latinisti – e questa era la presunzione del liceo di una volta, per tutte le ragioni che conosciamo – oppure, come è più giusto, si vuole aprire una finestra sulla nostra storia civile e morale, alla ricerca di origini dalle quali si possono anche prendere tutte le distanze del caso, ma che pur sempre vivono ancora nei nostri modi di essere, di pensare, di parlare?

Si tratta, a nostro avviso di aiutare i nostri giovani a riannodare le fila con quel mondo classico che una cattiva didattica, pretenziosa e seriosa, ha reso spesso ostico, incomprensibile e fastidioso!

Se è vero che tutto si può insegnare a tutti, è anche vero che è quanto mai necessario insegnare ai nostri giovani un passato che è qui. Basta svoltare l’angolo! Ma, con una didattica assolutamente nuova!

Bibliografia

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[1] La ricerca psicologica è molto cauta su questo terreno. Concorrono sempre fattori molto complessi, non solo biologico-naturali, ma anche familiari, sociali, culturali a creare le condizioni perché un soggetto possa esprimere una particolare capacità creativa. Al genio, comunemente inteso come un individuo isolato nato casualmente e chissà come, oggi non crede più nessuno.

Ci permettiamo di ricordare, incidentalmente, che per “cultura” – in senso antropologico – s’intende “l’insieme dei valori, delle tradizioni e dei costumi che caratterizzano la vita sociale di un popolo”, cfr. Il Grande Dizionario Garzanti della lingua italiana, Milano 1987

[2] Con la riforma del ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai (la sua “Carta della Scuola” è del 1939) i primi tre anni della scuola secondaria vennero così riformati: una scuola media con il latino, che apriva la strada a tutti gli ordini della scuola secondaria superiore; una scuola tecnico-professionale (scuola di avviamento); una scuola artigiana. Queste ultime due non consentivano alcun passaggio agli studi superiori. Lo studio del latino fungeva, quindi, come selettore sociale.

[3] Per analfabetismo si intende la mancanza di competenza linguistica per quanto riguarda il leggere e lo scrivere. Sotto il profilo antropologico-culturale, l’analfabetismo non è sinonimo di ignoranza; nei gruppi umani non acculturati alla scrittura la competenza alfabetica si esprime nelle abilità orali, che hanno una loro particolare ricchezza spesso non correttamente valutata dagli studiosi.

[4] Oggi tutti usano la lingua (si pensi alla stampa di massa, alla pubblicità, alla televisione, alla necessità di fruire di messaggi di avviso di ogni tipo, ecc.), ma spesso si tratta di un uso passivo e a volte anche scorretto. Altra cosa è la competenza, un uso attivo corretto e pertinente. Altra cosa ancora è la padronanza, una competenza specialistica, professionalizzante, che riguarda le funzioni euristiche della lingua (la lingua come strumento di riflessione e di ricerca) e creative (la lingua come strumento di produzione).

[5] Il latino è stata una lingua franca fino al 1700 in gran parte dell’Europa e ha svolto per secoli un ruolo simile a quello dell’inglese nell’epoca del computer. A questo proposito è bene segnalare che nell’ottobre 2001 è stato organizzato dal liceo Muratori di Modena e dall’associazione Amici del Muratori, con il patrocinio del dipartimento di Italianistica dell’università di Bologna, una iniziativa intitolata Apertis verbis, con una relazione del prof. Ivano Dionigi, docente di letteratura latina all’università di Bologna, su Il latino e l’Europa, eredità di un modello. E’ stata anche allestita una mostra dei volumi del fondo della biblioteca del liceo, con la collaborazione del coordinamento biblioteche del Comune di Modena. Sono stati esposti esemplari di opere a stampa che illustrano la presenza e la diffusione del latino, la sua funzione di lingua veicolare, il suo progressivo cedere di fronte all’affermarsi delle lingue nazionali.

[6] Necessitano alcune precisazioni. Dal vocabolario Palazzi-Folena ricaviamo alcune informazioni: il sostantivo male ha acquisito una sua autonomia nel 1294 e forse è da riferirsi al neutro malum; malizia viene dal latino malitia (usato già nel 1219 nel senso di “astuzia”); malato da male habitus (1259); cattivo da captivus (preso, catturato, prigioniero) è un esempio di slittamento semantico perché dalla condizione del prigioniero di guerra indocile e turbolento è derivato il senso morale di malvagio che ha assunto una sua autonomia nel 1312. Per quanto riguarda il nesso tra prigione e prendere, occorre notare che il sostantivo ci giunge dal francese prison (attraverso la pronuncia deformata italianeggiante prescione), che proviene dal latino popolare prensio, prensionis che rimanda al verbo prehendo da cui deriva il nostro prendere; la prima volta è usato in questa forma e senso nel 1158.

[7] Una posizione analoga la ritroviamo nel De Saussure (vedi il Corso di linguistica generale, pubblicato postumo nel 1916 dai suoi studenti), quando distingue la langue dalla parole. La langue è il repertorio linguistico, lessicale e grammaticale, del gruppo dei parlanti dell’hic et nunc; la parole è la lingua del singolo parlante, che ovviamente si innesta su quella del gruppo e se ne differenzia. Ed è grazie a queste differenze, a questi scarti comunicativi, che una lingua, poi, si trasforma, ora più lentamente, ora più velocemente a seconda delle relazioni più o meno intense e frequenti che si verificano tra i gruppi.

[8] Il monema è un segno-parola che comporta un significato; è costituito da un lessema più un morfema (am-are, -ato, -ore). E lessema, ovviamente, non ha nulla a che vedere con lessare, che viene dal tardo latino lixa, acqua calda.

[9] Non tutti concordano con l’origine di bar. E’ certo, comunque, che ci proviene dall’inglese bar, importato in italiano solo nel Novecento (1926, la prima occorrenza), e che in effetti in inglese deriva dalla barra o tavola che separa avventori e “baristi”, ma non risulta chiaramente in latino il sostantivo barra; il Palazzi-Folena dà barra italiano di etimologia incerta, e lo dice usato nel senso che ha ancora per noi nel 1348.

[10] Esiste un continuum tra processi logico-matematici e logico-linguistici, e se qualcuno pensa di “non essere portato” – in genere si dice sempre così – o per l’area linguistica o per quella matematica, è segno che un cattivo insegnante, o cattivi condizionamenti formativi, hanno svolto una sorta di imprinting negativo!

[11] Cfr. la nota 38 dell’unità 2.

[12] Vale la pena ricordare che preferiamo la dizione di educatore linguistico più che quella di insegnante di italiano o di lettere, in quanto rappresenta a tutto campo il ruolo e il compito a cui tale insegnante deve attendere: deve promuovere lingua più che rappresentare prodotti e regole!

[13] Le virgolette stanno a significare che un testo di narrativa possiamo leggerlo o meno, un cartello di divieto o di obbligo possiamo rispettarlo o meno. La medesima cosa avviene con una disposizione di legge, con una prescrizione religiosa e così via.

[14] Fu Apollo a suggerire a Callimaco: “Cerca le vie che i carri non percorrono e non spingere sulle orme di altri il tuo carro… Siamo tra quelli che amano il canto arguto della cicala, non il raglio dell’asino”.

[15] Il sociologo della letteratura Robert Escarpit alcuni anni fa distingueva, per quanto riguarda la produzione e la fruizione dell’oggetto libro, tre attori, l’autore, l’editore e il lettore e ritrovava tutti i legami che corrono tra loro: l’autore propone, l’editore commissiona il libro e lo pubblica, il lettore lo acquista e lo consuma: o meglio, lo legge, lo interroga e lo manipola, così si esprime Escarpit. Si configura così un triangolo virtuoso di azioni e reazioni che poi di fatto costituiscono il mercato del libro Si tratta delle tre funzioni fondamentali che riguardano la fruizione di un testo: a) la lettura “superficiale”, la comprensione del suo valore esplicito; b) la lettura “profonda”, la comprensione del suo valore implicito, del significato che è sotteso; c) l’intervento sul testo, cioè il giudizio personale che il lettore ne dà, se lo accetta o lo rifiuta, in tutto o in parte. La Théorie générale de l’information et de la communication, di Robert Escarpit è del 1976 (Hachette, Paris); la traduzione italiana è del ’79 (Editori Riuniti, Roma). I rapporti tra i tre attori, l’autore, l’editore e il lettore, non sono gratuiti, ma condizionati dal contesto socioculturale in cui economia, ideologia e linguaggio costituiscono fattori fortemente condizionanti. Escarpit non sottovaluta il ruolo che svolgono la pubblicità, la critica e i premi letterari ai fini della diffusione e del successo di un libro. In tale situazione il lettore crede di essere “solo” quando sceglie seguendo i “suoi” gusti e tendenze, ma in effetti l’acquisto di un libro obbedisce a precise regole di mercato. Si ricordi che Escarpit pensava e scriveva in un clima in cui era ancora forte l’influsso pessimistico de L’uomo ad una dimensione di Marcuse e, più in generale, dei filosofi francofortesi.

[16] Si allude alla scuola di J.L. Austin e J.R. Searle. Di quest’ultimo ricordiamo Speech Acts, Cambridge University Press, London, 1969 (in italiano, Atti linguistici, saggio di filosofia del linguaggio, Boringhieri, Torino, 1976). Si veda anche M. Sbisà (a cura di), Atti linguistici, Feltrinelli, Milano, 1978.

[17] Ricordiamo Carisio, Donato, Prisciano.

[18] E’ nel Seicento, con la nascita della critica letteraria, con l’accezione che siamo soliti darle, che si cominciano a distinguere nei testi gli aspetti che, con una terminologia del nostro tempo, potremmo definire “cognitivi”, ad esempio i rapporti di ricerca, i saggi, da quelli “emotivo affettivi”, la poesia, il racconto. Tra gli autori più significativi in tal senso è da considerarsi, appunto, Emanuele Tesauro, gesuita torinese (1591-1675), autore tra l’altro del Cannocchiale aristotelico.

[19] The Hidden Persuaders è il titolo di un famoso libello che un giovane insegnante di giornalismo dell’Università di New York, Vance Packard, pubblicò nel 1957 (l’edizione italiana, I persuasori occulti, per le edizioni Einaudi, è del 1958). Era la prima volta che si affrontavano con dovizia di dati e di esempi quanto numerose siano le offerte insite nella lingua ai fini del perseguimento di obiettivi di convinzione, persuasione, consenso. Di questa tematica si è occupato anche Robert N. Bostrom, La persuasione, Nuova ERI, Torino 1990 (l’edizione in inglese è dell’83). Non deve meravigliare che in questa società sempre più complessa, in cui le relazioni umane, le interazioni di gruppo sono sempre più numerose ed intense, sia a livello amicale che nella organizzazione del lavoro, questa problematica sia all’ordine del giorno. Del resto lo stesso Jakobson già aveva introdotto a suo tempo il tema quando, tra le sei funzioni linguistiche da lui individuate, descrisse quella che chiamò funzione conativa (dal latino conàri, tentare, mettere alla prova): si veda R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano, 1966.

[20] Le leggi istitutive dell’obbligo, anche se parziale rispetto alla concezione che ne abbiamo oggi, sono del 1859 (la Legge Casati) e del 1877 (Legge Coppino).

[21] Giova ricordare che da sempre i grammatici hanno avuto come oggetto di studio la lingua scritta. E’ merito della linguistica contemporanea l’avere assunto come oggetto di studio anche la lingua parlata per la quale, come è noto, tante regole grammaticali si infrangono rumorosamente!

[22] Si pensi al fatto che l’uso quotidiano della lingua, che poi è essenzialmente orale, è in larghissima percentuale costituito di “atti”. Non solo quando chiediamo se è pronto il pranzo o se ha telefonato Filippo, ma anche quando compiliamo un assegno o quando aspettiamo quell’autobus 35 che non arriva mai! E continuiamo a leggere tanti numeri, 90, 32, 77 e 59 che non fanno altro che aumentare la nostra indignazione. Se invece i quattro numeri sono quelli del lotto che corrispondono a quelli della cartella da noi giocata, allora esplodiamo di gioia! I numeri sono gli stessi ma quali diversi effetti producono!

[23] I bugiardini sono quei foglietti che, acclusi dentro le confezioni dei medicinali, ne spiegano (o dovrebbero farlo!?), con caratteri piccolissimi e spesso illeggibili, composizione, controindicazioni e posologia.

[24] I policheti sono dei vermi che ai lati di ogni metamero, cioè di ogni segmento del loro corpo, presentano delle setole, i parapodi, che svolgono una funzione locomotoria. Il serpollino, in popolare toscano sermollino, è una pianta delle labiate, il timo.

[25] A questo proposito, ci sembra opportuno riportare, a titolo di cronaca o di provocazione, quanto afferma Bruno Bosso, un sostenitore del latino semplificato: “Se vogliamo far rivivere il latino come lingua viva d’Europa, cioè parlata da ampi strati della popolazione europea, come appunto era nel medio evo, è dal latino medievale che dobbiamo ripartire, perché più semplice e più snello di quello classico e imperiale, più vicino ai problemi ed alle necessità della vita contemporanea con l’evolversi della quale sempre anch’egli si evolveva e le stava al passo. Un latino moderno, colloquiale, cioè della conversazione quotidiana di oggi, deve essere una ulteriore evoluzione del latino medievale, cioè una ulteriore semplificazione e snellimento perché la vita moderna richiede soprattutto facilità di comprensione e semplicità di espressione. Non dimentichiamo che viviamo in un mondo dominato in ogni sua manifestazione dalla rapidità, dalla semplicità e dalla chiarezza”. Si veda B. Chiosso, Latino semplificato, Fusconi editore, Bologna, 1997, pag. 27.

[26] Si manipola un testo quando si interviene su di esso per modificarlo, come per esempio nella trascrizione di un’opera letteraria nella sceneggiatura di un film, ecc.

[27] Un sito nato recentemente a Palermo ha questo indirizzo: www.cirlapa.org, ovvero Circulus Latinus Palermitanus. Si apre con queste espressioni: Cur circulus noster conditus sit? Quid persequamur? Inceptum nostrum hic describimus. Hin tangas (ovvero, clicca qui!). Segue l’esortazione ad iscriversi al circolo perché: Latine colloquemur, ludemus, cenabimus, peregrinabimur, nec umquam inter nos vigebunt linguae vernaculae.

[28] Abbiamo già avuto occasione di dire che in questi programmi vengono distinti, per lo studio dell’italiano – ovviamente estensibile anche allo studio del latino, se inteso come lingua viva – le abilità linguistiche, la riflessione sulla lingua e l’educazione letteraria.

[29] Si tratta della iscrizione della basilica di San Clemente in Roma, del cosiddetto indovinello veronese (da un codice della Biblioteca Capitolare) e della Carta capuana. Quest’ultima, databile al 960, costituirebbe il primo documento di un volgare che ormai si avvia a diventare il nostro italiano.

[30] Il testo recita testualmente: “Nella seconda classe l’insegnamento dell’italiano viene integrato da elementari conoscenze di latino, che consentano di dare all’alunno una prima idea delle affinità e differenze tra le due lingue. Come materia autonoma, l’insegnamento del latino ha inizio in terza classe: tale materia è facoltativa”. Le conseguenze furono che gli alunni non impararono più né il latino né l’italiano! Negli anni successivi si corse ai ripari; i due commi vennero abrogati con la Legge 348/77; e con i programmi del ’79 si scelse la strada del “riferimento all’origine latina della lingua e alla sua evoluzione storica” (punto c. delle indicazioni programmatiche dell’italiano).

[31] Nel periodo fascista certi insegnanti insistevano nel comparare l’oraziano Alme sol possis nihil urbe Roma visere maius … con il “Sole che sorgi libero e giocondo   ”, e con le stesse note facevano cantare l’ode oraziana!

[32] Dalla cena si possono anche evincere una serie di indicazioni sulla cultura alimentare dei Romani. E sarebbe anche opportuno, se si vuole sperimentare concretamente di quali alimenti disponevano i Romani e come li cucinavano, vedere il De re coquinaria di Apicio, il noto cultore della crapula di età tiberiana. E’ un manoscritto a cui la tradizione ha messo copiosamente le mani con molti rifacimenti – l’interesse per questo genere di cose è sempre stato vivissimo, anche in quel primo medioevo che molti ci descrivono squallido e triste! – ma che costituisce ancora oggi una fonte preziosa di informazione ghiotte, e non solo sotto il profilo linguistico! Un bel pranzo confezionato sulle ricette di Apicio costituirebbe l’esito godereccio di un modulo di studio veramente trasversale e operativo!

[33]   Si veda il Regolamento attuativo dell’autonomia, il DPR 275/99, articolo 8.

Adeguamento alla normativa antincendio

“Con queste risorse avviamo per la prima volta uno specifico Piano per l’antincendio, dando alle comunità scolastiche risposte attese da anni. La sicurezza dei nostri istituti e quindi dei nostri ragazzi passa anche da questo – sottolinea il Ministro – Non possiamo tralasciare alcun aspetto. Questo stanziamento conferma ancora una volta la grande attenzione di questo Governo all’edilizia scolastica. I 114 milioni costituiscono una prima tranche di fondi attraverso i quali ottenere la certificazione antincendio, ai quali seguiranno altri investimenti. Lavoreremo, inoltre, con gli Enti locali per portare avanti questo impegno”.

Gli Enti Locali che beneficeranno di queste risorse avranno 12 mesi di tempo per aggiudicare i lavori di adeguamento alla normativa antincendio e potranno richiedere subito, all’atto del finanziamento, l’anticipazione del 20% dei fondi.

In allegato, la tabella con il riparto delle risorse tra le Regioni che hanno individuato gli interventi prioritari da finanziare.