Linguaggi e matematica: due assi veramente distinti?

Linguaggi e matematica: due assi veramente distinti?

Una riflessione su due dei quattro assi culturali del biennio obbligatorio, quello dei linguaggi e quello matematico (dm 22 agosto 2007, n.139)

di Maurizio Tiriticco

Nel documento che descrive i quattro assi culturali che devono essere considerati negli insegnamenti dei bienni dell’istruzione secondaria superiore investiti dall’innalzamento dell’obbligo viene opportunamente distinto l’asse dei linguaggi da quello matematico. Tuttavia, occorrerà assolutamente evitare che gli insegnanti di materie letterarie e quelli di matematica progettino percorsi formativi tra loro assolutamente diversificati. Infatti, occorre tenere presente alcune circostanze.

In primo luogo, non bisogna dimenticare che anche la matematica è un linguaggio, pur se, per certi versi, fortemente formalizzato. In secondo luogo, non va dimenticato che anche i processi linguistici delle informazioni formalizzate non possono sottrarsi al rigore delle scelte che l’emittente deve compiere se vuole che il messaggio giunga al ricevente non ambiguo e senza errori. Ed è il sintagma parte nominale-parte verbale che lo consente, purché da parte dei comunicanti si condividano codici e referenti. In effetti, tra un enunciato quale “la Camera ha approvato a maggioranza il disegno di legge x” e l’enunciato“tre per due eguale sei” non c’è differenza sotto il profilo della struttura comunicativa logico-formale.

Ma, quand’è che le due discipline si differenziano? Quando utilizziamo il veicolo orale per costruire informazioni, a volte queste, sia sotto il profilo della correttezza che sotto quello della pertinenza, provocano alcune perplessità. Chi ci vieta di dire che tre per tre eguale sei oppure che la Camera ha mangiato a sette ganasce il disegno di legge x? Ed ancora, chi ci vieta di dire che con gli stivali di Perrault si percorrevano sette leghe con un solo passo? O che il Minotauro del mito era figlio di Pasifae e di un toro? O che al suono delle trombe di Giosuè le mura di Gerico crollarono? Il fatto è che il linguaggio non matematico è ricco di metafore, sottintesi, inferenze, invenzioni surreali, che portano alla fiaba, alla favola, al mito, al racconto, alla poesia. Sono le forme di fronte alle quali la logica si arresta e l’analogico sopravanza il discreto. Da parte sua, peraltro, lo stesso linguaggio matematico non fa sconti e l’alta matematica veleggia anch’essa a cimentarsi sulle frontiere dell’impossibile quadratura del cerchio e di un 3,14 puntini puntini, tuttora irrisolto.

Le ricadute che riflessioni di questo tipo hanno sulla didattica, soprattutto quando chi insegna si deve cimentare sugli sconfinamenti della pluri-, dell’inter- e della transdiciplinarità, sono infinite. Se poi consideriamo che chi apprende ha sempre un atteggiamento pluridisciplinare e mal digerisce le partizioni che del sapere hanno operato coloro che fino a qualche anno fa costruivano programmi ministeriali ripartiti per discipline – o, peggio, per materie – ne consegue che nel biennio obbligatorio dobbiamo tutti assolutamente rimboccarci le maniche per ripensare le linee che ci sono indicate dal Miur e che dobbiamo assolutamente progettare per curricoli: in forza dell’autonomia! E’ una sfida di non poco conto. Ed è una sfida che deve coinvolgere ineluttabilmente anche la scuola media!

Insomma, la matematizzazione e i processi linguistici o, se si vuole, contare e parlare sono processi continui, anche se, in apparenza, sembrerebbero agli antipodi. Se pensiamo al verbo raccontare, costatiamo all’instante che in effetti il verbo contare ne costituisce un fattore fondante. Quindi occorre avviare una sorta di esplorazione – se si può dir così – su due discipline che in genere sono erroneamente considerate agli antipodi. Ovvero, la matematica e l’italiano o, se si vuole, l’insegnamento/apprendimento matematico e l’insegnamento/apprendimento linguistico.

Matematizzazione e processi linguistici

Con il termine matematizzazione si intende una funzione della nostra attività mentale che governa, disciplina ed ordina una serie di aspetti dei nostri pensieri – e, conseguentemente, della nostra stessa vita – a partire da quelli della più semplice quotidianità fino a quelli della ricerca scientifica più avanzata.

Così matematizziamo quando, al risveglio del mattino, ci alziamo, ci laviamo, ci vestiamo, facciamo colazione e coordiniamo tutti i nostri tempi per non giungere tardi al lavoro, o quando acquistiamo il giornale o saliamo sull’autobus. Apparentemente si tratta di azioni più che banali, ma di fatto l’aprire e chiudere un rubinetto, prepararsi il caffè, scegliere l’abito dall’armadio ed indossarlo, contare i soldi per il giornale, leggere i numeri sui display degli autobus in arrivo alla fermata, sono atti che richiedono operazioni mentali non indifferenti. Si tratta di riattivare nella nostra memoria una serie di contatti, di prese d’atto, di riconoscimenti, di discriminazioni e di scelte. Quindi dobbiamo distinguere e associare, ordinare e numerare, classificare e seriare, indurre e dedurre, e infine decidere e fare.

In genere si crede che le operazioni del quotidiano non impegnino più di tanto, in quanto l’abitudine alle reiterazioni rende in gran parte automatiche le operazioni stesse. E ciò rende possibile, ad esempio, che, mentre ci facciamo la barba, programmiamo la nostra giornata o pensiamo a come svolgere un certo lavoro; ed è una grande fortuna che al mattino non si debba ogni giorno “ricominciare da capo” a comprendere perché ci si debba alzare e come farlo, a non confondere un calzino con una camicia o una saponetta con una brioche. I processi apprenditivi servono proprio a questo: ad acquisire e a rinforzare conoscenze e processi, a farne quadri di riferimento e vere e proprie mappe mentali e operative da utilizzare tutte le volte che sia necessario.

Così, sono solo le “prime volte” che costituiscono motivi di mille difficoltà. Un bambino deve pazientemente imparare ad abbottonarsi il cappotto e ad allacciarsi le scarpe, come ad usare coltello e forchetta, e poi via via ad apprendere operazioni sempre più complesse, il leggere, lo scrivere, il contare e così via: tutte cose che costituiscono poi l’insieme della strumentazione necessaria per la sopravvivenza quotidiana. Le “prime volte” per l’adulto sono in genere più rare, ma non meno difficili: c’è una prima volta per la guida di un automobile, o per il viaggio aereo, o per l’aprire un conto in banca, o per utilizzare l’ultimo cellulare dalle funzioni sempre più ricche! O addirittura per affrontare una nuova esperienza di lavoro. Ebbene, se non avessimo interiorizzato ed automatizzato le operazioni della quotidianità, ci sarebbe poco spazio per nuovi apprendimenti; ma è proprio in questa capacità di potere apprendere ancora e di più che ci differenziamo dal mondo animale! Con tutto il rispetto che si deve agli animali, oggi sempre più costretti alla ricerca di nuovi habitat, in forza di un processo i antropizzazione che si fa sempre più incisivo ed invadente

D’altra parte, non si deve pensare che l’automatizzazione delle operazioni più semplici sia una garanzia per l’organizzazione della sopravvivenza quotidiana. Può capitare che il rubinetto della doccia non funzioni o che manchi l’acqua o che lo scaldabagno si sia rotto, o che il caffè che cerchiamo nel solito barattolo sia finito; o che l’abito che intendevamo indossare sia ancora in tintoria; o che ci sia un improvviso sciopero dei mezzi pubblici, e così via. Sono tutti casi in cui scattano processi mentali che potremmo definire superiori: si tratta di risolvere problemi, anche se piccoli, di analizzare il caso problematico, di formulare delle ipotesi, di operare delle scelte, di adottare strategie; a volte sarà anche necessario “rompere delle norme”. Si dovrà ricorrere ad una tazza di tè al posto del caffè o ricorrere a un abito non più alla moda. In effetti, possiamo dire che, quando si operano queste “rotture”, siamo sulla soglia della produzione creativa.

E’ sufficiente matematizzare?

Ma… è proprio su questa soglia che dobbiamo fermarci, in quanto andiamo oltre ai processi di matematizzazione.

In conclusione, possiamo dire che tutti noi matematizziamo, anche coloro che sono soliti dire che si sono dati agli studi letterari perché “in matematica andavano malissimo e non ci capivano niente”. Come se la produzione letteraria, e quella artistica in genere, non richiedesse anch’essa una solida base di matematizzazione! Se è vero che la poesia e la musica hanno il loro fondamento nel ritmo, è anche vero che il ritmo è numero, è misura, è ordine. Se è vero che le arti figurative si fondano sulla proporzione, sulla prospettiva, sul rapporto dei colori, dei volumi e delle forme, è anche vero che proporzioni e rapporti si ricercano e si producono matematizzando.

Matematizza, allora, l’uomo della strada, come il genio matematico, come il genio poetico. Certamente, l’uomo della strada – ma dopotutto anche il genio è, per le operazioni della sopravvivenza, un uomo comune – matematizza solo fino a un certo limite. Il genio va oltre, trova nuove soluzioni, infrange vecchie norme e ne crea, a volte, di nuove, che poi ad ogni buon conto spetterà ad altri infrangere: da Tolomeo a Galileo, da Galileo a Einstein, fino alla teoria quantistica, ed oltre ancora! Anche perché sembra che questo sia l’ineluttabile destino dell’uomo! La soluzione di un problema comporta che inevitabilmente se ne presenti subito un altro, superiore e più complesso.

Ma possiamo forse dire che la matematizzazione esaurisca le modalità del pensare e dell’operare umano? Certamente no! Infatti, vi sono altre operazioni, che del resto appartengono a tutti, al genio come all’uomo comune, che per altro provengono da altre molle del nostro interagire con gli oggetti, con gli altri, e con noi stessi!

Matematizziamo quando acquistiamo una camicia: ci assicuriamo che sia della nostra misura, che sia di buona qualità e che non presenti difetti di fabbricazione, verifichiamo se il prezzo è conveniente, andiamo alla cassa e paghiamo. Ma tra le tante camicie tutte adatte per noi, perfette e convenienti, ne scegliamo una, e solo una e non un’altra. Non solo, spesso andiamo di vetrina in vetrina, di negozio in negozio finché non sia scattata quella molla particolare che ci fa dire: “Questa sì che mi piace!”. Chi ci accompagna potrà concordare con noi sulla misura e sul prezzo (matematizza anche lui!) ma, potrà dire a sua volta: “A me non piace affatto!”.

Insomma, la matematizzazione ci accomuna, ma altre operazioni ci differenziano. Ci soccorre il vecchio adagio secondo il quale in materia di gusti non si discute; ed infatti non c’è una regola che possa disciplinarli: appartengono a un mondo che non può essere matematizzato!

Così i gusti e le emozioni, le simpatie e le antipatie, l’annoiarsi di una situazione o il provarne piacere, il “mi piace” e il “non mi piace”, provare odio od amore, attrazione o repulsione, il sentirsi motivati oppure no, il sentirsi Ok o Non Ok, come vuole la psicologia transazionale, sono tutte sollecitazioni che appartengono ad una sfera del nostro essere che non rientra nella matematizzazione.

Accade così che ciascuno di noi matematizza quando deve acquistare i pensili per la cucina o l’armadio per la stanza di letto, o il servizio di bicchieri in ordine alla necessità di una coppia o di una famiglia molto numerosa. Così, va al negozio con in tasca il foglietto delle misure giuste, in relazione allo spazio che le pareti gli consentono! E sa che gli servono sei bicchieri per l’acqua e sei per il vino! Ma non matematizza quando sceglierà “quei” mobili e non “quegli” altri, “quei” bicchieri e non “quegli” altri e così via. Ma, ancora una volta matematizzerà quando disporrà i bicchieri nei pensili di cucina e non nell’armadio della stanza da letto, e i vestiti nell’armadio e non negli scaffali della libreria.

Il nostro quotidiano, cioè la nostra casa, le nostre attività, il nostro posto di lavoro, il nostro tempo libero, costituiscono le “espansioni” – se si può dir così – del nostro essere, pensare, operare. Rappresentano fisicamente, oggettualmente la duplicità del nostro mondo interiore, fatto di un complesso mix di matematizzazioni e di stati emotivo-affettivi, o meglio, di operazioni logiche e di moti interni dell’io. A volte tra le due dimensioni vi è continuità, a volte no. Nel primo caso si vive una situazione di appagamento, nel secondo una situazione di sofferenza: so che devo lavorare per vivere (matematizzazione) e il lavoro che faccio mi piace (gratificazione); so che il fumo fa male (matematizzazione), ma non posso farne a meno (frustrazione).

Matematizzazione e processi comunicativi

I processi che abbiamo messo a fuoco riguardano le modalità interattive dell’uomo a livello globale, con se stesso, con gli altri da sé e con il mondo esterno degli oggetti e dei concetti. Ai fini di questo scritto occorre individuare, tra queste modalità, quelle che riguardano la comunicazione umana, quella attività che è fatta dei simboli matematici e linguistici che, faticosamente costruiti nel corso della nostra lunga storia di essere umani, vengono utilizzati nelle relazioni interpersonali, negli studi, nella ricerca, nella pubblicizzazione e nella socializzazione delle informazioni.

Anche nel mondo della comunicazione possiamo individuare i poli estremi del puro e semplice far di conto e della espressione emotivo-affettiva. Ed inoltre, anche nel caso della comunicazione esistono i far di conto della quotidianità e quelli della ricerca matematica pura; come la quotidianità delle nostre emozioni e l’elevatezza della grande produzione poetica.

Ma i due poli sono veramente mondi tra loro separati, o tra di essi esiste un’ampia terra di tutti e di nessuno, in cui sarebbe estremamente difficile sceverare in assoluto il logico dall’emozionale? In altri termini, esiste veramente una discriminante tra il far di conto e il produrre parole, tra la produzione umanistico-letteraria e quella scientifica?

Si tratta di un’annosa e mai risolta querelle. Non intendiamo affatto ripercorrerla, anche perché andremmo fuori del tema del nostro discorso. Ci preme soltanto dire che, a nostro avviso, i due mondi sono molto più vicini di quanto si pensi.

Si potrebbe ricorrere alla trita esemplificazione che i grandi come Leonardo o l’Alberti erano letterati e scienziati, che il letterato Goethe si occupò proficuamente di mineralogia, botanica, ottica; si potrebbe richiamare la ormai classica tesi di Charles Percy Snow per il quale le due culture solo apparentemente sono due. Si veda il suo The Two Cultures and a Second Look, 1959, 1963, by Cambridge University Press, ovvero Le due culture, pubblicato da Marsilio nel 2005. In effetti non esistono due culture! In effetti afferma fortemente Snow che “colmare la frattura che separa le nostre culture è una necessità sia nel senso intellettuale più astratto, sia nel senso più pratico”.

Così il nostro Croce riteneva che poesia e non poesia fossero due categorie dello spirito non continue; ma che non fosse opportuno ricorrere ad una meccanica distinzione della poesia dalla non poesia. E sappiamo anche con quanta lucidità all’inizio del secolo futuristi ed ermetici, cubisti e formalisti, avvertissero come fosse necessario che parole, colori, suoni, ritrovassero vie originali e nuove di manifestazione, in piena libertà a fronte di quelle regole che – secondo loro – una certa tradizione culturale aveva imposto alle arti comprimendone la libertà di ispirazione e di espressione.

Così, a loro avviso, la parola doveva liberarsi dalla logica grammaticale, il colore dalle forme offerte dalla natura, le note dalla disciplina del pentagramma! Da questi assunti nacquero la poesia ermetica, la pittura astratta, la musica dodecafonica! Ciascun’arte doveva ritrovare al suo interno la ragione stessa della sua esistenza, indipendentemente dal renderne conto a criteri imposti da altre discipline. Insomma: ars gratia artis, arte come fine di se stessa, come assoluto regno di libertà.

Non ci interessa in questa sede analizzare le ragioni di quella ribellione, ma segnalare soltanto l’importanza di un fenomeno che ha segnato la nostra cultura e che ha anche, indirettamente, favorito l’avvio di studi più mirati sulle possibilità dei processi produttivi della nostra mente, studi che, ovviamente, hanno trovato corpo in discipline di recente costituzione, quali la psicologia cognitiva, la psicologia dell’età evolutiva, la psicologia genetica, la linguistica, la semiologia, e così via.

Ma contributi determinanti, a nostro avviso, sono pervenuti, da un lato, dalla informatica, che dalla teoria della informazione ha dedotto quei principi della inform-azione automa-tica – l’informatica, appunto – che nell’elaboratore elettronico ha trovato la diretta applicazione tecnologica, e, dall’altro, dagli studi sul cervello che solo fino a qualche anno fa era ancora considerato una sorta di inaccessibile scatola nera.

Due mondi alternativi ma… contigui!

Questi ultimi hanno permesso l’esplorazione delle aree attive dell’emisfero destro del cervello e di quello sinistro, ritrovando – parlando per grandi approssimazioni e senza entrare nel merito, il che richiederebbe ben altri discorsi – nel primo la sede dei processi emozionali, nel secondo la sede di quelli razionali. In effetti si tratta di due mondi separati. A rigore l’uno non può comprendere l’altro: da un lato la sfera della necessità, dall’altro quella della libertà. Ed è una contraddizione che ha afflitto non pochi filosofi del passato! Resta, comunque, il fatto che con le funzioni di un emisfero possiamo smentire quelle dell’altro, e viceversa.

Ricorriamo ad alcuni esempi, forse banali, ma significativi.

Con il cervello sinistro affermiamo che due più due fa quattro, anche se con il destro possiamo pensare che fa cinque o sei o che so io! Ciò che costituisce un errore rispetto alla funzione logica, costituisce una opzione, una possibilità per la funzione non logica. Si pensi ancora a tutti i sintagmi logico-matematici, a tutte le operazioni aritmetiche semplici come il due più due, e alle operazioni complesse, di algebra e di alta matematica, il cui esito è dato, predeterminato – possiamo dire – dalla stessa sequenza sintagmatica. Le operazioni logiche non ammettono varietà: se si formula una ipotesi, la soluzione attesa è una soltanto; se l’esito è diverso, è l’ipotesi che non è corretta. Si tratta, tutto sommato, di sintagmi conclusi in se stessi. Nell’equazione x + 2 = 5, x non può che essere 3!

Ma si pensi adesso ai sintagmi che riguardano la produzione linguistica. Com’è noto, i sintagmi sono insiemi coerenti di parole che costituiscono i nuclei logici con cui e su cui costruiamo i nostri discorsi di senso compiuto. Così, nella frase “il professore svolge la lezione”, “il professore” è un sintagma, “svolge la lezione” è un altro sintagma; ma anche “la lezione” costituisce un sintagma. E la frase può proseguire con altri sintagmi: “nell’aula” “della prima A” “sui problemi” “del decadentismo”. Nella frase compiuta, alcuni termini come “professore”, “svolge”, “lezione”, “aula”, costituiscono dei referenti lessicali oggettuali, altre parole come “il”, “la”, “nella”, “sui”, non hanno un significato e servono soltanto a far procedere logicamente la frase/pensiero.

Le parole assumono un significato quando sono associate secondo dati criteri, condivisi dall’emittente e dal destinatario. Ovviamente, parole associate a caso come “sigaretta caramella” o “brutto sfogliatella” non costituiscono sintagmi né danno luogo a frasi di senso compiuto. Con la serie infinita di tutti i possibili segni del vocabolario e della enciclopedia e di tutti i possibili sintagmi noi costruiamo i nostri discorsi logici. Operiamo attente selezioni lungo l’asse orizzontale delle sequenze sintagmatiche ricercando a volta a volta sull’asse verticale dei paradigmi la parola “giusta” da mettere al posto “giusto”.

Così, sull’asse dei paradigmi nominali scegliamo “il professore” e non “il neonato” o “il cane” o “Lucio Dalla” o “i soldati”; sull’asse dei paradigmi verbali scegliamo “svolge” e non “abbaia” o “canta” o “combattono”. Le possibilità di scelta sono moltissime, a seconda di ciò che vogliamo dire o della realtà che intendiamo rappresentare. Sono moltissime, ma non infinite, se intendiamo produrre discorsi “logici”, secondo il significato che convenzionalmente attribuiamo a questo termine. Così il professore può svolgere la lezione, leggere un libro, cantare, combattere, ma non abbaiare; d’altra parte né il neonato né il cane potranno svolgere una lezione, e così via.

Ma l’interessante sta proprio nel constatare che il cervello destro può produrre infinite frasi, e discorsi, gran parte delle quali, però, vengono “censurate” dal cervello sinistro. Possiamo dire indifferentemente “Maria mangia la carne”, “Maria abbaia”, “la carne mangia Maria”, ma il cervello sinistro ammette solo la prima frase… a meno che Maria non sia il nome di una cagnetta, o la carne una certa signora Carne, dedita alla antropofagia!!!

Per farla breve, concludo con una metafora. Noi umani disponiamo di due libri: uno nella mano destra, quello della grammatica o della matematica (corrisponde al cervello destro); l’altro nella mano sinistra, il vocabolario di tutte le parole e di tutti i numeri! Attenzione! Sono libri che, appena usciamo dal grembo materno, hanno le pagine bianche! In seguito, con lo sviluppo/crescita e con l’apprendimento, cominciamo a riempirle di lettere e di numeri. Le prime parole… mamma, pappa! E quanto tempo deve passare perché il bambino possa dire: “Mamma, voglio la pappa”! E poi quando piangerà perché la mamma ha dato a lui due caramelle ed al fratello più grande tre o quattro, è un gran segnale! Non sa contare, ma il poco e il tanto sono concetti che ha appreso!

E questo che segue è il punto centrale della analisi fin qui condotta. Esiste nella produzione linguistica la possibilità di produrre frasi e discorsi che hanno un alto potere informativo, per il fatto che sono costruiti secondo una logica e una coerenza da tutti condivisa. Ma esiste anche nella produzione linguistica la possibilità di produrre frasi e discorsi che hanno un potere informativo e comunicativo più forte proprio in forza del “non rispetto” della struttura logica. Alludiamo ai linguaggi espressivi, al linguaggio metaforico.

Logica e metafora

Com’è noto, non occorre confondere la comunicazione con l’informazione. La comunicazione costituisce il campo, il contesto spaziale, possiamo dire, in cui si veicolano le informazioni. Due persone che parlano sono situate in un campo in cui sono veicolate le informazioni che si scambiano. Per informazione intendiamo la pura e semplice informazione, logicamente rigorosa e che nulla concede all’enfasi della espressività, della retorica, dei tratti paralinguistici e sovrasegmentali, tutti fattori che giocano un ruolo importante ai fini del coinvolgimento dell’interlocutore.

Va però anche detto che nel linguaggio comune a volte per comunicazione intendiamo, invece, una particolare informazione quando è caricata di tratti spuri dal punto di vista logico, ma che vogliono intenzionalmente interessare, coinvolgere, a volte anche condizionare l’interlocutore.

Si guardi a queste esemplificazioni. Un conto è che un fruttivendolo dica al mercato: “comprate le mie pesche perché sono belle e buone”; si tratta di un linguaggio altamente informativo ma scarsamente comunicativo. Altro conto è che gridi con voce sonora e accattivante: “le persiche… donne… le persicheeeee!!!”. Si tratta di un linguaggio logicamente assai traballante, ma assai coinvolgente! E il “Taja ch’è rosso” é molto più eloquente di un “Acquistate le mie angurie che sono tutte mature”. Anche il registro svolge una funzione importante, se non determinante, ai fini degli scambi comunicativi. La semplice informazione “è morto il nonno” sarà pronunciata con toni diametralmente opposti se il parlante vuole esprimere il suo dolore per la perdita di una persona cara, od esprimere la sua gioia per il favoloso patrimonio che eredita!

Si pensi anche alla ricchezza del linguaggio metaforico! Secondo la logica, posso dire che “Marco mangia” e che “un leone divora”; posso anche dire che “Marco divora”, a condizione però che sia rientrato in casa affamato. Non dirò mai che un oggetto divora; eppure la mia automobile è così veloce che “divora i chilometri”! Il linguaggio poetico – alogico e non matematizzante – ci ha abituato a soluzioni assai originali: dal “padellon del ciel la gran frittata”, come il Marino identificava la luna, ai “gruppi di silenzio” del Lamento di Ignazio, fino alle arditissime metafore degli ermetici!

E si pensi quanto e come il linguaggio pubblicitario ci stia ormai abituando ad una dilatazione continua, in chiave metaforica, delle infinite possibilità linguistiche espressive. Un messaggio dell’Alitalia diceva: “Vi voliamo bene ancora di più.” Ed ancora: “Volvo V 40. La sicurezza si diverte.” “Milano brucia”… ma… nessuno spavento! E’ la pubblicità di uno show room di una casa di moda. E chi non ricorda il “Chi vespa mangia le mele”? La pubblicità del classico “motorino” che tanta fortuna ha avuto presso i nostri rgazzi… e non! Sono tutte espressioni che fanno a pugni con la logica, ma che sono più intriganti, più allusive, più persuasive di qualsiasi linguaggio che si limitasse alla pura e semplice informazione. E che dire di un accattivante “buonaseeeeeraaaaaaaaa….” del ragazzotto incoraggiato dal fatto che la signora tradita è disposta ad uscire con il primo che incontra? Non è certo il “buonasera” frettoloso, svogliato, formalissimo, con cui ci rivolgiamo all’inquilino della porta accanto con cui tutte le sere ci imbattiamo, ma di cui non ci interessa assolutamente un bel nulla!!!

Per concludere su questo punto, possiamo fare due constatazioni.

Le operazioni di matematizzazione svolgono una funzione preziosa ai fini dei linguaggi informativi, logico-matematici e logico-linguistici; e si tratta delle operazioni che permettono lo scambio quotidiano di informazioni, che possono avere fini diversi, come ci suggerisce ampiamente la teoria degli atti linguistici. Se fissiamo un appuntamento alle otto, se dobbiamo prendere il treno alle quindici e venti, se dobbiamo girare un assegno o riscuotere una somma, o mettere benzina, o chiedere dove si trova una via, non ci sarà molto spazio al di là del matematizzare. Il parlar metaforico ci servirebbe a poco.

Se, invece, siamo impegnati in un corteggiamento, o dobbiamo convincere qualcuno a far qualcosa per noi, è il matematizzare che serve a poco. Non diremo mai alla corteggiata che siamo un poco di buono o che siamo disoccupati. E, se debbo vendere la mia vecchia automobile, dirò che è perfetta, che non consuma nulla, che chi la compra fa un grande affare!

Però – e questa è la cosa meravigliosa – due attività così lontane l’una dall’altra, se non estranee, vengono prodotte ora separatamente, ora unitariamente, con continuità e contiguità, dalla stessa “macchina” cervello, che è poi quella macchina che ha permesso all’uomo di signoreggiare sulla natura, di riflettere sui suoi atti e su se stesso, di scegliere, volere, decidere in quella dimensione di libertà che nessun altro vivente possiede.

Insomma, questi due mondi, la cui convivenza appare agli studiosi una realtà pressoché impossibile per la contraddizione che la caratterizza, invece coesistono nel nostro cervello in una perfetta continuità. E contiguità! Come è possibile questo? Pare che la funzione di raccordo e di interazione reciproca tra i due emisferi sia svolta da quel corpo calloso che, allora, non si limiterebbe a essere soltanto quella struttura fisica che funge, tra loro, da sostegno e da ponte.

Informatica e linguaggi

E concludiamo con il discorso sulla informatica e sul computer. Che cosa hanno comportato questa nuova scienza e questo nuovo strumento nella nostra vita quotidiana, negli studi sulla lingua, nella applicazione nella ricerca e nella didattica?

Possiamo dire che il computer imita, replica e potenzia le operazioni logico-matematiche del cervello sinistro. Per il computer due più due fa quattro e altre soluzioni non può né produrle né immaginarle, costituiscono un error e basta! Però, è in grado di risolvere operazioni aritmetiche che implicano più numeri e cifre in frazioni di secondo, laddove noi, con carta e matita e con i criteri operativi che conosciamo impiegheremmo ore, se non giornate ed anni interi! Si dice che il computer è stupido perché non è capace di intuizioni, di passaggi analogici, nei quali invece il nostro cervello destro è maestro. Se chiediamo al computer “sai dirmi l’ora?”, mi risponderà “sì”, laddove, invece, ciascuno di noi, cogliendo il significato implicito della domanda, risponderà informandoci sull’ora del suo orologio. Il computer non conosce l’implicito, il sottinteso, il significato aggiunto, la connotazione, il registro, l’analogia; sa indurre e dedurre in ordine a passaggi logici, ma non sa compiere inferenze, che invece sono tipiche e fondamentali del nostro “operare” quotidiano. Si limita ad eseguire, passo dopo passo, processi, anzi procedure rigidamente gerarchizzate; infatti, il processo è più ricco e più vario rispetto ad una procedura! La procedura obbedisce a un programma pre-disposto, il processo implica percorsi che vanno anche al di là del progettato e del programmato.

Il computer vincerà sempre agli scacchi perché, laddove l’avversario uomo deve formulare il più gran numero di ipotesi possibili circa le mosse da compiere e le contromosse da evitare, magari non riuscendo a ipotizzare e formulare quella vincente, il giocatore computer le formula tutte ed in tempi rapidissimi.

Si suole dire che il computer – come tutte le macchine della narrativa fantascientifica – è incapace di emozioni. Il fatto è che mentre dei processi logici e delle attività di matematizzazione sappiamo ormai tutto per il determinismo che li caratterizza e li sostanzia – ed è per questo che siamo stati capaci di costruire i nostri replicanti elettronici – invece dei processi emozionali sappiamo poco e nulla, forse proprio perché, essendo la parte profonda della identità della nostra persona e della nostra specie, riesce estremamente difficile rappresentarla, oggettivarla, ricostruirla.

L’essere umano possiede l’immenso mondo della intuizione, del sentimento, del presentimento, del ricordo, della rimozione e dell’oblio; egli è capace di sperare e di credere, di immaginare e di sognare, di creare altri mondi frutto della fantasia, è capace di creare ordini morali ed estetici, valori e disvalori. Possiede questo immenso mondo, ma non è detto che sappia anche governarlo, anzi spesso ne è governato o ne è travolto. E si tratta pur sempre di intenzioni e di atti del cervello destro, che poi a loro volta portano a manifestazioni linguistiche altamente sofisticate e complesse, in cui le stesse regole della grammatica e le convenzioni lessicali sono costantemente ripercorse e rivisitate, modificate e arricchite, in senso diacronico e sincronico (per dirla con i linguisti) con il trascorrere del tempo ed il variare dei contesti ambientali.

Il computer è del tutto impotente in ordine a questa fenomenologia. Sa solo “giocare” con il caso e con la probabilità, sa indicarti delle soluzioni solo nella misura in cui sai inserire certi dati: a dati diversi, soluzione diversa! Ti aiuta laddove l’elaborazione dei dati richiederebbe tempo, fatica ed ampi margini di errore!

Il computer è quindi una macchina estremamente limitata. Ciò non significa che non sia utile ai fini dell’apprendimento logico, logico-matematico e logico-linguistico. Ci aiuta, cioè, in tutti quei processi in cui apprendiamo a matematizzare, e matematizziamo quando facciamo calcoli e quando produciamo linguaggi informativi. Ci correggerà se scriviamo la parola “gomittolo” o la parola “scharpa”, ma non aiuterà il poeta a scrivere “gomitoli di fumo” o il pubblicitario a scrivere “la scarpa che respira”, perché le associazioni gomitolo-fumo o scarpa-respirazione implicano associazioni, passaggi e salti analogici che il computer, tutto digitale, è incapace di compiere.

Ovviamente, farà anche qualcosa di più rispetto a ciò che chi scrive con carta e penna in genere non percepisce sempre con la dovuta chiarezza, e, quindi, non apprende: cioè ci evita di procedere per brutte e belle copie in quanto ci rende possibile un continuum tra scrittura provvisoria e definitiva, ci aiuta nella divisione sillabica, ci dà la dimensione del periodo, del paragrafo, dell’impaginato, soccorrendoci con tutte le funzioni del work processor. Si tratta di un potente valore aggiunto rispetto alla scrittura carta-penna, sul quale valore la didattica della lingua ha già prodotto cose assai interessanti.

Il computer facilita e potenzia l’acquisizione della competenza produttiva logico-linguistica, quella della matematizzazione e del panletto (è il linguaggio che identifica e accomuna un gruppo sociale in genere ampio, è il linguaggio standard); ma è praticamente ininfluente a fronte della competenza produttiva linguistica espressiva e creativa. La poesia, il racconto, la riflessione originale in idioletto (lo stile che individua e identifica il linguaggio di una persona) nascono dalle vie analogiche della nostra competenza comunicativa, ed in tal caso il computer è un semplice strumento, come può essere la matita o la penna.

Dal punto di vista didattico, com’è noto negli ultimi anni si è andati ben oltre al tema e al riassunto e si sono ritagliate dal linguaggio comune – e conseguentemente adattate per lo sviluppo della competenza linguistica nel parlante allievo – le migliaia di occasioni della concreta produzione linguistica, dalla relazione al diario, dal verbale agli appunti, dalla annotazione alla riflessione, dall’avviso alla recensione, dalla locandina al manifesto, dal telegramma al biglietto, dalla scheda alla lettera, fino a tutte le tipologie del far poesia, raccontare, drammatizzare, e così via.

Ebbene, un insegnante preparato sa come accedere alla diversa strumentazione, cartacea ed elettronica, testuale ed ipertestuale, con tutti gli apporti che ci sono oggi dati dai cosiddetti testi misti (parola, immagine, suono) e dai linguaggi non verbali; sa come avviare gli allievi secondo strategie per le quali l’apprendimento linguistico procede di pari passo con l’ampliamento delle capacità di matematizzazione e di espressione comunicativa attivate in ordine alle diverse situazioni di vita reali dei discenti.

Si tratta di un insegnare/apprendere che tanto più è efficace quanto più riesce a far vivere agli allievi e agli stessi insegnanti situazioni che siano le meno “scolastiche” possibili! Ed è poi la scommessa che ci vede tutti impegnati nella costruzione di una scuola che sia veramente più che a tempo pieno e a spazio aperto!R

Esposto al Tribunale di Roma, Procura della Repubblica

“Duecentosettantuno candidati al “Corso-concorso nazionale, per titoli ed esami, finalizzato al reclutamento di dirigenti scolastici presso le istituzioni scolastiche statali”, bandito con decreto del Direttore Generale per il Personale Scolastico n. 1259 del 2017 del 23 novembre 2017, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 90 del 24 novembre 2017, rappresentati dagli avvocati Pierpaolo Dell’Anno e Giuseppe Murone, hanno presentato, in data 17 aprile 2019, un esposto alla Procura della Repubblica di Roma avente ad oggetto circostanze relative all’espletamento dello stesso. L’esposto sottopone all’attenzione dell’Autorità Giudiziaria plurime violazioni regolamentari, ridondanti in vantaggio di pochi in danno di tanti, essenzialmente afferenti al mancato espletamento della prova in data unica e in contemporanea, alla divulgazione in tempi diversi dei quadri di riferimento, alla diversa formulazione dei quesiti rispetto a quelli stabiliti dal bando di concorso, ai criteri di attribuzione delle prove nel procedimento di correzione, ai criteri di abbinamento codice/candidato, alle diverse percentuali di ammessi Regione per Regione, alle effettive modalità di espletamento della prova scritta nelle diverse sedi e ai differenti controlli ivi espletati, alla composizione e ai mutamenti delle commissioni esaminatrici, ai corsi di formazione, alle possibili fughe di notizie e al software Cineca. Gli esponenti hanno richiesto, allo stregua di ogni opportuno approfondimento investigativo, anche di carattere tecnico, e previa acquisizione di ogni utile incartamento concorsuale, che venga svolta ogni più incisiva indagine volta ad accertare le eventuali responsabilità penali correlabili alle violazioni e ai vantaggi in oggetto. Ciò allo scopo di comprendere le ragioni per le quali si sia inteso connotare di permeante oscurità un concorso pubblico improntato per legge ai parametri di legalità e trasparenza e determinare evidenti e inaccettabili disparità di trattamento tra i candidati. Gli esponenti intendono fornire il proprio contributo agli inquirenti nell’accertamento della verità, anche per il tramite dell’espletamento di attività investigativa difensiva, e desiderano estendere a quanti si trovano nella stessa posizione la possibilità di costituire voce unica e condivisa”.

Esiti Esami di stato Scuola secondaria II grado – A.S. 2017/2018

MIUR – Ufficio Statistica e Studi


Disponibile l’approfondimento statistico relativo agli esiti dell’Esame di Stato nella Scuola secondaria di secondo grado per l’anno scolastico 2017/2018. Secondo i dati rilevati dal Ministero, è stato ammesso all’Esame il 96% degli scrutinati. Il tasso di diplomati è stato in totale del 99,6%.

Le Regioni con più studenti ammessi: Valle d’Aosta, Basilicata, Molise
In tutte le Regioni la percentuale di promossi è superiore al 99% (con un 100% di diplomati in Valle d’Aosta), in linea con il 99,6% nazionale (era il 99,5% nel 2016/2017). Differenze più significative si riscontrano nelle percentuali di ammessi all’Esame. A fronte del 96% nazionale (96,1% l’anno precedente), le Regioni con la più alta percentuale di ammessi sono Valle d’Aosta (98,6%), Basilicata (97,9%), Molise (97,4%). In coda per numero di ammessi troviamo Trentino Alto Adige (94,5%), Liguria (93,6%), Sardegna (91,2%).

Aumentano i voti alti
Diminuiscono i voti bassi e aumentano quelli al di sopra del 70. Il 35,6% degli studenti si è diplomato con un punteggio superiore a 80/100 (era il 33,9% nel 2016/2017). Le lodi sono stabili all’1,3% (erano l’1,2% un anno prima). Aumentano i 100, dal 5,3% al 5,7%. I voti 91-99 salgono al 9% rispetto all’8,5%; gli 81-90 passano dal 18,9% al 19,6%. Crescono anche i voti 71-80, dal 28,6% al 28,9%. Diminuiscono sensibilmente i 61-70, dal 29% al 27,7%, e i 60, dall’8,5% al 7,8%.

Tra i percorsi di studio si registrano più lodi nei Licei (2,2%). Seguono i Tecnici (0,6%) e i Professionali (0,2%).

La più alta percentuale regionale di 100 e 100 e lode si registra tra gli studenti della Calabria (11,1%), seguita da Puglia (10,8%) e Umbria (9,5%). Le sole lodi vedono invece in testa Puglia (3%), Umbria (2,3%), Calabria (2,2%).

Il 50,4% dei diplomati: le ragazze si confermano le più brillanti
Le ragazze, che costituiscono il 50,4% dei promossi, si confermano le più brave. Sul 96% totale, è stato ammesso all’Esame il 97,8% delle studentesse, a fronte del 95,6% degli studenti. Così come, nel 99,6% totale dei promossi, c’è un leggero scarto a favore delle diplomate (99,7%) rispetto ai diplomati (99,4%).

L’indirizzo di studio con la più alta percentuale di diplomati sono i Licei (99,8%). In questo ambito il primato è per il Classico e per il Linguistico (99,9% entrambi). Seguono a pari merito i Tecnici e i Professionali, al 99,4%.

La Prima prova
Nella scelta della tipologia della prima prova dell’Esame di Stato, il 18,2% dei maturandi ha svolto la Tipologia A – Analisi del testo (scelta soprattutto nei Licei, con il 20,6%); il 65,5% ha scelto uno dei quattro ambiti della Tipologia B – Saggio breve o Articolo di giornale (anche su questa traccia sono primi i Licei, con il 69,7% delle scelte); La Tipologia C – Tema di argomento storico è stata scelta dall’1,3% (il primato è degli indirizzi tecnici con l’1,7%); ha optato per la Tipologia D – Tema di ordine generale il 15% (la traccia più scelta nei Professionali, con il 23,4%).

LOTTA UNITARIA

DI MEGLIO: “ALLA CHIUSURA DEL GOVERNO RISPONDIAMO CON LOTTA UNITARIA”
“L’unità del fronte sindacale non è in discussione: considerata la totale chiusura dimostrata  finora dal Governo anche rispetto alla semplice apertura di un dialogo sulle nostre rivendicazioni, confermiamo tutte le iniziative di lotta previste dalla piattaforma comune stabilita in totale accordo da tutte le cinque sigle sindacali rappresentative”. A dichiararlo è Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della FGU-Gilda degli Insegnanti.   

R. Lewis, Il più grande uomo scimmia del Pleistocene

Come inventare la Preistoria

di Antonio Stanca

   Soprattutto giornalista ed editore è stato l’inglese Roy Lewis. E’ nato a Felixstowe nel 1913 e qui è morto nel 1996 dopo una vita fatta di molte esperienze, attività commerciali, viaggi, lunghe permanenze all’estero, collaborazione con diversi giornali, iniziative editoriali, matrimonio, figlie ed anche opere di narrativa. Poche e tra queste il romanzo che sarebbe risultato il più divertente del ventesimo secolo, Il più grande uomo scimmia del Pleistocene. Lo scrisse nel 1960, quando aveva quarantasette anni, ed ultimamente è stato ristampato, per l’ennesima volta, dalla casa editrice Adelphi di Milano. Agli inizi l’opera era uscita in sei puntate e già allora era molto piaciuta ai lettori. Nel 2015 aveva avuto una riduzione cinematografica.

   Da vecchio Lewis scriverà alcuni racconti ma sarà questo romanzo a consacrare per sempre la sua fama. Rientra nel genere della fantascienza umoristica. In esso la voce narrante è di Ernest, uno dei figli di quell’uomo scimmia del titolo. Egli dice di tutto quanto la sua famiglia ha dovuto patire prima di giungere ad avere una certa sicurezza, una certa tranquillità, a non soffrire più dei pericoli che venivano dall’esterno.

   Si sta dicendo di una famiglia del Pleistocene, cioè della Preistoria, dell’era quaternaria, di quando comparvero i primi ominidi e Lewis la presenta come se si trattasse di una famiglia dei tempi moderni tanto uguali a quelli che avvengono oggi fa apparire i pensieri, gli scambi, i rapporti tra i familiari di allora. E’ la  nota curiosa della narrazione: in quella famiglia preistorica, numerosa, con tanti figli e tanti parenti, ognuno interpreta un ruolo, ognuno rappresenta un modo, un aspetto della futura umanità. Lewis fa di una situazione di tre milioni di anni fa, periodo del Pleistocene, una vicenda moderna, fa pensare, fa parlare, fa agire delle scimmie come se fossero persone d’oggi. Ogni componente di quella famiglia ha il suo nome, ognuno ha le sue caratteristiche, c’è chi è volenteroso, assiduo nell’applicazione, chi è pigro, svogliato, chi è rivolto alla contemplazione, chi all’attività artistica, chi alla caccia. Tra le donne ci sono quelle che preferiscono il lavoro domestico, la condizione di sottomissione all’uomo e quelle che, invece, vogliono primeggiare. Edward, il capofamiglia, è rivolto all’invenzione, alla scoperta di nuove tecniche, di nuovi strumenti, all’applicazione di nuovi modi di stare, di vivere. Suo fratello, Jan, è, invece, piuttosto restio ad accettare le novità, è piuttosto conservatore.

   Si pensi che nella preistoria nessuno sapeva ancora di modi di stare, che questi sarebbero diventati propri dell’umanità futura, che questa doveva ancora formarsi. Incuriosisce, fa ridere che lo scrittore abbia avuto una simile idea, che abbia inteso rappresentare tramite gli uomini primitivi quelli moderni, che come questi li abbia fatti pensare, parlare, agire. Sembra che il Lewis abbia voluto creare un collegamento, far intravedere una continuità tra prima e dopo pur tenendo conto che quel prima era molto remoto, era preistorico. Ma di là da ogni supposizione, un’invenzione rimane la sua, escogitata e realizzata al solo scopo di riuscire comico, di ottenere effetti umoristici. Né altro poteva aspettarsi lo scrittore quando rappresentava quell’Edward sempre intento a scoprire, ad inventare nuovi mezzi, ad indicare nuove forme di vita quasi fosse uno scienziato, un pensatore d’oggi. Scoprirà il fuoco, imparerà a produrlo, lo utilizzerà per la difesa dei luoghi abitati, per la cottura della carne degli animali uccisi durante la caccia, renderà più robuste le punte delle lance usate per questa, scoprirà l’arco, pur esso molto utile per la caccia, stabilirà che è bene sposarsi tra estranei, non tra familiari. Grazie a lui cambierà completamente la vita delle scimmie che fino ad allora era avvenuta sugli alberi. Cominceranno a vivere per terra e vi rimarranno per sempre.  Ma come ogni inventore, come ogni genio Edward vorrà diffondere la conoscenza delle sue scoperte mentre in casa i figli non intendono farlo perché vogliono essere i soli, gli unici a godere di esse, vogliono farne il loro segno distintivo, il loro privilegio. Fingendo un incidente uccideranno, quindi, il padre dal momento che non riuscivano a ridurlo alle loro idee.

   Finirà così il romanzo del Lewis mostrandosi fino alla fine impegnato ad ammodernare una situazione preistorica, a farla attraversare da molti particolari della vita attuale, a creare questa combinazione, questa alternanza, questa sovrapposizione, a farne motivo continuo di comicità.

Sciopero 10 maggio

Il 10 maggio la scuola sciopera insieme a tutto il resto del Pubblico Impiego.

Al centro della nostra piattaforma, la questione del precariato. L’USB P.I. Scuola è impegnata da anni in una lotta lunghissima, che non intende scendere a compromessi, contro le principali criticità del mondo della scuola. Il precariato è senza alcun dubbio una delle più vistose anomalie del sistema. Il nostro obiettivo è ottenere la stabilizzazione immediata di quel personale della scuola che, di fatto, è stato sfruttato anno dopo anno per far sì che il sistema scolastico potesse funzionare. Nessun governo ha avuto ad oggi la volontà di porre al centro della propria agenda politica la scuola. I precari sono sempre stati ignorati.

Da sempre ci proponiamo di rappresentare in ogni mobilitazione e ai tavoli contrattuali i diritti dei docenti e del personale ATA precario. Lo abbiamo fatto anche in occasione del rinnovo contrattuale del CCNL 2016/18, quando abbiamo chiesto l’equiparazione dei diritti dei precari a quelli del personale di ruolo e denunciato la firma di un contratto che non ha recepito nessun nuovo diritto contrattuale per i precari a cui si continua a richiedere sempre e solo doveri. Purtroppo, CGIL-CISL-UIL, seguiti in un secondo momento da SNALS e GILDA, hanno siglato l’accordo con il governo e resa vana ogni nostra richiesta.

Noi chiediamo l’assunzione a tempo indeterminato di tutti i lavoratori che abbiano effettuato almeno tre anni di servizio (180×3) negli ultimi dieci. Ci sembra una soluzione giusta. Di più, ci sembra una scelta necessaria. La stabilizzazione è un diritto acquisito in virtù del servizio. La scuola italiana soffre a causa dell’assenza di risorse e investimenti. La stabilizzazione dei precari migliorerebbe la qualità di tutto il sistema.

Finora abbiamo ottenuto troppo poco, l’esecutivo ha ascoltato solo in parte le nostre richieste. La percentuale del 30% dei posti riservati ai precari con servizio infatti non può essere considerata un buon risultato. È troppo poco! Noi avevamo chiesto, come estrema ratio rispetto alla nostra proposta di seguito riportata, l’80% dei posti.

Il 30 novembre siamo già scesi in piazza con una piattaforma chiara che poneva al centro due punti a nostro parere necessari per il rilancio della scuola pubblica statale: l’ampliamento dell’organico, con la trasformazione delle cattedre “di fatto” in posti “di diritto”, e l’immissione in ruolo immediata, senza alcun concorso, per tutti i docenti con 36 mesi di servizio.

Oggi ribadiamo la stessa posizione e pertanto chiediamo:

  • Un bando riservato per la costituzione di una graduatoria permanente provinciale per chi ha 3 anni di servizio (180×3 anche non continuativi). La graduatoria, per soli titoli, vedrà l’inserimento di coloro che sono presenti nelle terze fasce delle graduatorie d’istituto e hanno maturato 3 anni di servizio negli ultimi dieci anni, e servirà per il conferimento delle assunzioni a tempo indeterminato e per il conferimento degli incarichi di supplenza annuali (31/08) o fino al termine dell’attività didattica (30/06) e verrà utilizzata una volta esaurite le GAE provinciali, le GM e le GMRE regionali. La graduatoria per gli incarichi a tempo determinato sarà utilizzata in subordine a quella provinciale degli abilitati di seconda fascia.
  • Che il prossimo rinnovo contrattuale sancisca l’equiparazione giuridica del personale precario con quello a tempo indeterminato, mettendo fine ad una differenziazione ingiusta perpetrata dai sindacati firmatari.
  • Nelle more della realizzazione della graduatoria provinciale, chiediamo, in relazione al prossimo concorso, l’80% dei posti riservati.
  • Nell’eventualità che il quadro politico e le scelte governative non vengano incontro alle nostre richieste, consideriamo l’avvio di un percorso abilitante speciale l’extrema ratio per garantire la professionalità dei docenti precari con tre anni di servizio.

Il 10 MAGGIO scendiamo in piazza! È arrivato il momento di ottenere dal governo le nostre rivendicazioni

Spendiamo più per gli interessi sul debito che per la scuola

da Il Sole 24 Ore

di Marzio Bartoloni

Se il futuro di un Paese si misura sugli investimenti che si fanno sulla formazione e l’istruzione dei propri giovani l’Italia non solo prevede in futuro di ridurli – in vista anche della diminuzione del numero degli studenti – ma a politiche invariate con il debito in crescita tra 15 anni spenderemo in interessi il doppio di quanto facciamo per la scuola. A certificarlo è il Def del Governo che intanto ribadisce come già il costo annuale del nostro debito superi quello per l’istruzione: nel 2020 la spesa per interessi sarà del 3,6% del Pil contro il 3,5% in istruzione. Una china che agli studenti non piace: «È inaccettabile continuare a non considerare l’istruzione come una priorità»

Già prima della crisi il nostro Paese si trovava nella seconda metà della classifica europea per percentuale di spesa in istruzione rispetto al Pil. Dal 2011 invece si colloca stabilmente negli ultimi posti. Nel 2016 (ultimo anno disponibile con i dati Eurostat) risultava quintultima tra i 28 paesi dell’Unione europea. E ora, come già anticipato daScuola24 l’istruzione si conferma un “capitolo di spesa” poco attrattivo anche per il governo giallo-verde: Nel 2020, è scritto a pagina 99 del «Def», appena approvato dal governo, la spesa per questo settore rispetto al Pil scende al 3,5 per cento. Nel 2025 si passa al 3,3; nel 2030 al 3,2; nel 2035 al 3,1 per cento. «A partitre dal 2022 tale riduzione – si legge ancora nel Def – è essenzialmente trainata dal calo degi studenti indotto dalle dinamiche demografiche. Il rapporto riprende a crescere leggermente nella parte finale del periodo di previsione attestandosi intorno al 3,4% nel 2070». La cosa che colpisce è, a parte la bassa propensione a investire nell’istruzione che arriva ormai da molto lontano, il fatto che ormai il nostro Paese spende e spenderà sempre di più per pagare il suo debito (arrivato quasi al 135% del Pil). Sempre nel Def si calcola che la spesa per interessi passerà dal 3,6% del Pil nel 2020 al 4,4% nel 2025 per schizzare poi al 5,5% nel 2025 e al 6,3% nel 2035. In pratica tra quindici anni – a politiche invariate – spenderemo il doppio per interessi sul debito che per finanziare l’istruzione dei ragazzi.

«Come i Governi precedenti, quello attuale non intende guardare al futuro, al nostro futuro: le condizioni in cui versano le scuole e università sono una vergogna nazionale e una condanna per la nostra generazione», avverte Giacomo Cossu, coordinatore nazionale della Rete della Conoscenza.
«Già in questo autunno in Legge di Bilancio sulla scuola sono stati tagliati 60 milioni di euro senza nessun investimento sul diritto allo studio mentre i tassi di dispersione scolastica raggiungono picchi del 33%», aggiunge Giulia Biazzo, coordinatrice nazionale dell’Unione degli Studenti -, mentre si continua a disinvestire sulla scuola e si sottovaluta la fondamentale necessità di investire nella formazione come pilastro di questo Paese in cui non esistono forme di reddito di formazione, il progetto leghista del Miur prende piede con il progetto di autonomia differenziata». Negative anche le prospettive per l’università secondo Alessiìo Bottalico coordinatore nazionale di Link Coordinamento Universitario: «La retorica del cambiamento di questo Governo è stata definitivamente distrutta. Già nella Legge di Bilancio ci sono stati accantonamenti su Università, diritto allo studio e ricerca, con atenei senza docenti e con aule che crollano a pezzi e tanti studenti che rischiano di rimanere senza borsa di studio ed impossibilitati nel portare avanti il proprio percorso di studi. Per questo stiamo costruendo una proposta partecipata dagli studenti sul diritto allo studio e insieme ai ricercatori abbiamo lanciato assemblee per rimettere al centro un’idea di Università finanziata. pubblica e gratuita»,

In Italia il 10% dei minori ha genitori immigrati. Il Garante per l’infanzia: più inclusione

da Il Sole 24 Ore

di Alessia Tripodi

Un minorenne su dieci, in Italia, ha genitori immigrati. Si tratta di un milione di under 18, equamente ripartiti tra maschi e femmine, che a causa della provenienza della loro famiglia, affrontano discriminazioni e malintesi, come quello di essere considerati stranieri, anche se parlano e vivono da italiani. È l’allarme lanciato dall’Autorità garante per l’infanzia (Agia), che ha messo a punto una serie di raccomandazioni anti-discriminazione rivolte a ministeri, regioni, comuni, servizi sociali, assistenti sociali e giornalisti. Le proposte sono contenute nel documento “L’inclusione e la partecipazione delle nuove generazioni di origine immigrata. Focus sulla condizione femminile”, realizzato con l’Istituto degli Innocenti di Firenze e presentato ieri a Roma.

I numeri
Secondo i dati Istat, aggiornati al 1° gennaio 2018, in Italia gli under 18 con genitori immigrati sono 1.041.177 su un totale di popolazione minorile di 9.806.357 ragazzi. Dal 1993 al 2014, sempre secondo l’Istat, sono nati nel nostro Paese quasi 971 mila bambini da genitori stranieri, con una tendenza alla crescita che si è però invertita negli ultimi anni: dopo oltre vent’anni di incrementi, stanno diminuendo le nascite da genitori immigrati in Italia. Erano quasi 80 mila nel 2012, nel 2015 erano poco più di 72 mila, e alla fine del 2017 erano 67.933 quelli con entrambi i genitori di origini immigrate. Si tratta comunque di quasi il 15% delle nascite complessive, con marcate sperequazioni territoriali: si va da punte superiori al 20% nelle regioni settentrionali a un 5% nel Mezzogiorno e nelle Isole. Fino a qualche anno fa, la maggioranza di questi bambini e ragazzi era nata all’estero e poi ricongiunta. Oggi invece la grande maggioranza è nata in Italia: oltre 7 su 10. Ragazzi che – emerge dallo studio – si trovano a far da mediatori tra due culture, quasi fossero talora genitori dei loro stessi genitori.

Le raccomandazioni
Tra le raccomandazioni presentate dal Garante c’è la sensibilizzazione del personale che entra in contatto con bambini e ragazzi di nuova generazioni sulle loro specificità culturali, in particolare a scuola. E ancora: la presenza di mediatori linguistici e culturali ai colloqui dei genitori con gli insegnanti. Particolare attenzione è stata attribuita, a scuola, alla cultura della prevenzione, in termini di educazione alla relazione e alla salute riproduttiva e sessuale e, presso i consultori, all’informazione sull’esistenza di sportelli di educazione alla salute e alla sessualità.

La Garante: nuova generazione ha pari diritti
«Quelli di nuova generazione sono bambini e ragazzi per i quali i diritti della Convenzione di New York valgono come per tutti i loro coetanei», ha dichiarato la Garante per l’Infanzia, Filomena Albano. «Fino a qualche anno fa – ricorda – erano soprattutto ragazzi nati all’estero. Oggi la maggioranza, sette su 10, è nata in Italia. Con lo studio avviato a maggio scorso dalla Consulta delle associazioni e delle organizzazioni dell’Agia abbiamo rilevato buone pratiche e criticità, grazie a docenti universitari, esperti, magistrati, avvocati e rappresentanti delle associazioni dei ragazzi di seconda generazione e delle comunità straniere in Italia». «Abbiamo ascoltato – ha proseguito – la voce dei ragazzi di
nuova generazione, e ne sono scaturite una serie di indicazioni sulle azioni possibili per la loro inclusione e partecipazione. Azioni che le istituzioni, in particolare la scuola, gli operatori, i professionisti e le organizzazioni sono sollecitate a porre in
atto». Così come «l’Ordine dei giornalisti, che abbiamo invitato a collaborare – aggiunge – perchè anche il linguaggio e le narrazioni che riguardano i giovani immigrati hanno bisogno di una revisione».

Precari, compromesso M5s-Lega

da ItaliaOggi

Alessandra Ricciardi

Obiettivo, depotenziare lo sciopero della scuola del 27 maggio. Per riuscirci non c’è tanto tempo. E la soluzione che si metterà in campo comunque sarà parziale rispetto alle attese e alle richieste. Ma comunque sarà una risposta. A prepararla è il ministro dell’istruzione, università e ricerca, Marco Bussetti, dopo il vertice di maggioranza Lega-M5s che si è tenuto la scorsa settimana sul precariato nella scuola. Nessuno spazio di trattativa, invece, sull’università.

In questi giorni si terrà il secondo round che dovrà definire i dettagli dell’operazione. Il veicolo legislativo individuato è il decreto legge Crescita. Ad evidenziare che la soluzione è frutto dell’accordo tra i gruppi di maggioranza, il testo verrà proposto come emendamento parlamentare.

Per il reclutamento è confermato il ricorso al concorso ordinario, per il 2020 si prevede l’immissione in ruolo di 67 mila nuovi docenti, 50 mila per le scuole medie e superiori, dei quali 7 mila sull sostegno, e 17 mila per infanzia e primaria. Per dare risposta ai precari di terza fascia, con più di tre anni di servizio alle spalle, ci si è accordati per la previsione di una quota di riserva nella selezione ordinaria, strada preferita al concorso riservato su cui tra l’altro pende a maggio il giudizio della Corte costituzionale.

E dunque per i precari già al lavoro si prefigura la partecipazione alla selezione ordinaria con una riserva dei posti a cui poter accedere che dovrebbe essere fissata, secondo quanto risulta a ItaliaOggi, al 35%. Questa la mediazione tra le istanze della Lega, che puntava al massimo, il 50%, e quelle del Movimento5stelle, che invece ha evidenziato la necessità di una riserva più bassa di posti. Per tutti i triennalisti non ci sarà la prova preselettiva, ipotesi finita sul banco degli accusati per aver svantaggiato in passato aspiranti docenti più adulti rispetto a quelli freschi di laurea.

Niente da fare invece, salvo colpi di scena, per il concorso straordinario. E neppure per un eventuale Pas, il percorso abilitante speciale, che sarebbe di aiuto ai precari per l’immissione in graduatoria nell’ipotesi di una riapertura a 360% delle Gae. Entrambi niente affatto sgraditi agli ambienti della Lega che ne hanno evidenziato i benefici anche in termini di celerità rispetto alla procedura concorsuale.

La selezione ordinaria che sarà avviata per l’estate non consentirà ai futuri vincitori di salire in cattedra prima dell’anno scolastico 2020/2021. Per il prossimo settembre dunque si prospetta una situazione critica, con circa 80 mila cattedre che potrebbero andare a supplenza sull’organico di diritto, oltre ai posti che andranno coperti in organico di fatto. La somma potrebbe arrivare a sfiorare i 120 mila-150 mila contratti di supplenza.

«Il concorso ordinario annunciato dal ministro è una risposta ma non è la sola necessaria. Non è sufficiente a dare continuità e stabilità alla scuola», evidenzia Pino Turi, segretario della Uil scuola, «i tempi del concorso infatti sono incompatibili con la situazione di vera e propria emergenza che avremo a settembre e che richiede soluzioni straordinarie». Anche l’imminente rinnovo delle Gae non è una chance, «ci si limiterà ai soli trasferimenti di provincia, senza nuovi ingressi, e dunque non basteranno ad assicurare il fabbisogno di docenti», ragiona la numero uno della Cisl scuola, Maddalena Gissi, «logica ed equità vorrebbero che si imboccasse la via di una stabilizzazione dei rapporti di lavoro precario in atto». Prende atto dei buoni proposti del ministro, Francesco Sinopoli, segretario della Flc-Cgil, «ma non si va da nessuna parte senza l’avvio di una fase transitoria e straordinaria di reclutamento e il rilancio degli investimenti per i settori della conoscenza». Lo sciopero infatti resta confermato.

Le Gae riaprono i battenti anche ai vecchi prof depennati

da ItaliaOggi

Carlo Forte

Al via la riapertura delle graduatorie a esaurimento. Entro la fine di aprile sarà emanato il decreto sull’aggiornamento delle graduatorie a esaurimento. E il termine ultimo per la compilazione e l’inoltro delle domande sarà fissato entro la seconda metà di maggio. È quanto è emerso durante una riunione che si è tenuta il 10 aprile presso il ministero dell’istruzione tra i rappresentanti dell’amministrazione e delle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto di lavoro: Cigl, Cisl, Uil, Snals e Gilda-Unams.

Nelle graduatorie ad esaurimento (Gae) sono iscritti solo docenti in possesso di abilitazione all’insegnamento, vengono costituite su base provinciale e sono suddivise in tre fasce. Nella prima fascia sono inclusi i docenti che alla data di entrata in vigore della legge 124/99 (25 maggio 1999) risultavano inclusi nelle graduatorie del cosiddetto doppio canale. E questa fascia è ormai quasi esaurita, salvo alcune classi di concorso di nicchia. La seconda fascia è costituita, invece, con aspiranti docenti che al 25 maggio 1999, avevano maturato i requisiti per entrare nelle graduatorie del doppio canale. Infine, la terza fascia è costituita dagli aspiranti insegnanti che avevano conseguito l’abilitazione all’insegnamento prima dell’entrata in vigore della legge 296/2006 (13 giugno 2006). Vale a die, prima della trasformazione delle graduatorie da elenchi permanenti in graduatorie a esaurimento, definitivamente precluse a nuovi inserimenti.

Le graduatorie sono provinciali e sono aggiornate ogni tre anni. Questa volta, però, dall’ultimo aggiornamento sono decorsi 4 anni. Perché la legge 21/ 2016, che ha convertito il decreto legge n.210 del 30 dicembre 2015 ha disposto che il termine per aggiornare le Gae già aggiornate per il triennio 2014/2017, venisse prorogato all’anno scolastico 2018/2019 per il triennio successivo. Anche quest’anno il governo, in prima battuta aveva deciso di prorogare gli elenchi di un ulteriore anno introducendo un apposito emendamento al decreto semplificazioni. La presidenza della repubblica, però, aveva eccepito che tale emendamento e diversi altri, non fossero compatibili con la materia del decreto. E il governo ha fatto marcia indietro ritirando l’emendamento.

Gli aspiranti docenti inclusi nelle Gae hanno anche titolo ad entrare nella prima fascia delle graduatorie di istituto conservando il punteggio e la fascia di inserimento in graduatoria a esaurimento. In pratica, le graduatorie di istituto di prima fascia vengono a loro volta suddivise in tre sottofasce. Ognuna delle sottofasce corrisponde alla fascia di inserimento in graduatoria a esaurimento dell’aspirante incluso nelle graduatorie di istituto. Gli aspiranti conservano anche il punteggio. Nella seconda fascia delle graduatorie di istituto vengono inclusi, invece, gli aspiranti in possesso dell’abilitazione all’insegnamento, ma che non risultano inclusi nelle graduatorie a esaurimento. E nella terza fascia, coloro che risultano in possesso del soli titoli di accesso al posto o alla classe di concorso di interesse.

Quest’anno l’accesso alle Gae sarà consentito anche agli aspiranti docenti che sono stati depennati dalle Gae per non avere presentato a suo tempo la domanda di permanenza negli elenchi. In ogni caso, la domanda di permanenza negli elenchi dovrà essere presentata anche coloro che non hanno ulteriori titoli da far valere in sede di aggiornamento. Chi non lo farà sarà depennato dalle Gae, ma l’effetto del depennamento avrà valore solo per il triennio di vigenza delle graduatorie e, alla successiva riapertura, avrà comunque titolo a chiedere di esservi nuovamente inserito.

Insieme all’aggiornamento o alla mera permanenza sarà possibile chiedere il trasferimento da una provincia ad un’altra. In questo caso gli interessati otterranno il trasferimento per tutte le graduatorie dove risultano attualmente inclusi. Il cambio di provincia potrà essere richiesto anche se nella provincia di destinazione le graduatorie a cui sono interessati risulteranno esaurite. E’ ragionevole ritenere, dunque, che vi sarà un massiccio esodo dalle graduatorie del Sud a quelle del Nord. Sebbene va anche detto che, dopo il piano assunzionale attuato per effetto delle legge 197/2015, le graduatorie a esaurimento, ormai, contengono poco più di 16mila aspiranti contro gli 80mia di qualche anno fa.

I docenti che hanno prestato servizio nelle classi di concorso di indirizzo dei licei musicali potranno utilizzare il servizio, a loro scelta, nelle graduatorie delle classi di concorso ex A031, A032, A077 ma, in ogni caso, non potranno far valere più di 6 mesi per ogni anno.

Infine, per quanto riguarda l’accesso agli elenchi dei riservisti, nel corso della riunione è emersa la volontà dell’amministrazione di consentire a coloro che hanno acquisito i titoli validi ai fini della riserva dei posti, di cui alla legge 68/99, di perfezionare la documentazione relativa all’iscrizione al collocamento speciale anche all’atto della presa di servizio, fermo restando che l’iscrizione dovrà avvenire in stato di disoccupazione.

Nuova valutazione, la Crui dice sì

da ItaliaOggi

Alessandra Ricciardi

Le università concordano, sulla valutazione occorre cambiare registro. Pieno appoggio dunque al nuovo indirizzo fortemente voluto dal ministero guidato da Marco Bussetti per una valutazione del sistema universitario più snella e meno burocratica, concentrata sulle funzioni primarie, e dunque su didattica e ricerca. Nei giorni scorsi, l’assemblea della Crui, la conferenza dei rettori italiani, all’unanimità ha dato parere favorevole al documento predisposto dal capo Dipartimento università e ricerca del Miur, Giuseppe Valditara, che segna l’avvio della riforma.

Il sistema universitario, è l’analisi, ha compiuto nel decennio scorso una transizione completa da un sistema di autonomia senza valutazione, «autonomia irresponsabile», a un’autonomia regolata da una valutazione estremamente puntuale e rigorosa, «come raramente riscontrabile negli altri settori della pubblica amministrazione o nei sistemi universitari internazionali». Un eccesso che ha portato a svilire le funzioni tipiche delle università a favore di un impegno crescente sul fronte degli adempimenti burocratici.

«È quindi sicuramente giunto il momento di passare a un’autonomia autenticamente responsabile… ne guadagneranno la produttività delle università e la soddisfazione e il benessere di docenti e personale», concordano i rettori. Un ripensamento che però, aggiunge la conferenza presieduta da Gaetano Manfredi, non può prescindere dalla considerazione che l’attività dell’Anvur, l’agenzia nazionale di valutazione, quale organismo terzo e indipendente dal decisore politico e dai soggetti valutati, «ha rafforzato le attività di ricerca di tutti gli atenei e la credibilità internazionale del sistema italiano della ricerca». E dunque l’auspicio è che il miglioramento del sistema non metta in dubbio la centralità dell’agenzia.

Nel documento predisposto da Valditara, il sistema vigente è accusato di aver introdotto una «dittatura dell’algoritmo» all’origine di una «serie di distorsioni» nella valutazione dei singoli atenei.

Da qui la necessità di un radicale ripensamento, dall’accreditamento dei corsi alla predisposizione delle soglie per l’abilitazione, che liberi il sistema da inutili orpelli e faccia da corollario a una valutazione dei risultati e dei prodotti, che premi davvero il merito e sanzioni il demerito. «Una valutazione con una prevalenza di indicazione di buone pratiche, fatta di poche prescrizioni, che abbia nella flessibilità il suo scopo e nella certezza del premio e della sanzione il suo strumento forte di induzione al risultato positivo», si legge nel documento, «con regole ed indicazioni legate alle diversità delle singole aree scientifiche e dei singoli territori in cui la formazione e ricerca incidono e si sviluppano, che tenga conto anche delle variabili legate alle differenti situazioni e modalità di espressione della scienza e di produttività e redditività immediata o dilazionata nel tempo della stessa». La Crui, con alcuni suggerimenti, ha detto sì.

Le impronte della discordia

da ItaliaOggi

Nicola Mondelli

È in via di approvazione, non senza contrasti nelle Commissioni parlamentari e proteste soprattutto da una parte dei presidi e del personale Ata, la legge che, al fine di verificare l’osservanza dell’orario di lavoro dei dipendenti pubblici e di contrastare e prevenire il fenomeno dell’assenteismo, impone alle amministrazioni pubbliche, ivi comprese le scuole di ogni ordine e grado, di installare sistemi di verifica biometrica dell’identità (impronte digitali) e di videosorveglianza degli accessi, seppure nel rispetto dei principi di proporzionalità, non eccedenza e gradualità sanciti dall’art. 5, paragrafo 1, lett. c) del regolamento Ue 2016/679.

Contrasti in Commissioni. Nel disegno di legge avente per oggetto interventi per la concretezza delle azioni delle pubbliche amministrazioni e la prevenzione dell’assenteismo, approvato dall’Aula di Palazzo Madama il 6 dicembre 2018, al comma 4 dell’art. 2 , quello contenente appunto le misure per il contrasto all’assenteismo, si sosteneva che tali misure dovevano trovare applicazione sia nei confronti del personale docente ed educativo che dei dirigenti scolastici seppure con le modalità stabilite con decreto del ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, di concerto con il ministro per la pubblica amministrazione.

Di parere contrario è stata invece l’Aula di Montecitorio che il 12 aprile ha approvato un diverso testo del comma 4. Dispone infatti tale comma che «il personale ed educativo degli istituti delle scuole di ogni ordine e grado e delle istituzioni educativa è escluso dall’ambito applicativo di cui in premessa». Relativamente ai dirigenti scolastici il comma emendato dispone che i dirigenti dei medesimi istituti, scuole ed istituzioni sono soggetti ad accertamento esclusivamente ai fini della verifica dell’accesso secondo modalità e con decreto del ministro per la pubblica amministrazione, di concerto con il ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Nessun riferimento, neppure nel comma emendato, al personale amministrativo, tecnico ed ausiliario.

Le proteste dei sindacati. Anche se attenuate rispetto ai contenuti dell’art. 2, comma 4, approvato dall’Aula di Palazzo Madama, le proteste sindacali restano pesanti anche nei confronti del comma 4, come emendato dai deputati. sia per l’assenza di alcun riferimento al personale Ata che per quanto si riferisce ai dirigenti scolastici.

Secondo Pino Turi, segretario generale della Uil Scuola Rua, le misure proposte per le pubbliche amministrazioni mal si applicano al sistema di istruzione che è basato su libertà e partecipazione. L’attività amministrativa ne rappresenta solo una parte. Non servono controlli ma misure concrete per risolvere i problemi più urgenti. Parlare di furbetti nella p.a. e inserire dentro anche i dirigenti scolastici serve a dividere e oscurare l’attualità quali gli scandali dell’Umbria e del Veneto.

Per Maddalena Gissi, segretaria generale della Cisl Scuola, è invece proprio difficile capire il senso dell’emendamento approvato dai deputati nel quale si esclude esplicitamente il personale docente ed educativo «e nulla si dice del personale Ata che quindi si presume resti soggetto all’applicazione delle norme generali, mentre si rinvia per i soli dirigenti scolastici» soggetti ad accertamenti esclusivamente ai fini della verifica dell’accesso ad un apposito decreto. «Mentre le nostre scuole cadono a pezzi per la cronica mancanza di manutenzione, mettendo in serio pericolo l’incolumità di migliaia di studenti, docenti e personale della scuola, c’è chi sceglie di utilizzare le già scarse risorse per dotare le oltre 42 mila sedi scolastiche di rilevatori biometrici che controllino i movimenti giornalieri dei dirigenti scolastici», attacca Francesco Sinopoli, segretario Flcg-Cgil. I nuovi controlli, insieme ai ritardi per la definitiva sottoscrizione del contratto di categoria, sono tra l’altro alla base dello stato di agitazione proclamato per i dirigenti scolastici da Cgil, Cisl, Uil e Snals che prelude alla dichiarazione di sciopero. Drastico anche il giudizio del presidente dell’Anp, Antonello Giannelli, secondo il quale «il dirigente scolastico non ha un orario fisso di lavoro, per lui contano i risultati. Sottoporli alle rilevazioni è un insulto». Una lettera aperta ai presidenti di camera e senato è stata inviata nei giorni scorsi proprio dall’associazione presidi per chiedere di intervenire sulla norma.

Per il ministro per la Pubblica Amministrazione, Giulia Bongiorno, le accuse non solo si basano su una erronea lettura della norma, ma sono anche fuorvianti: non tengono conto del fatto che ancora non è stato emanato il decreto sulle modalità attuative per i dirigenti. L’applicazione dei sistemi di controllo ai presidi, che fanno parte della categoria dei dirigenti pubblici contrattualizzati, è finalizzata non a rilevare il rispetto dell’orario di lavoro, precisa la ministra, ma a rendere più trasparente la loro presenza in servizio «e non si introduce affatto, come qualcuno ha sostenuto, l’obbligo di un orario settimanale di lavoro, ma l’utilizzo di strumenti di identificazione tecnologicamente avanzati».

La legge sulla concretezza e la prevenzione dell’assenteismo, in questi giorni all’esame in seconda lettura dell’Aula di Palazzo Madama, dovrebbe essere definitivamente approvata, salvo imprevisti al momento non ipotizzabili, non oltre la fine del corrente mese.

Tra dieci anni, 55 mila posti in meno

da ItaliaOggi

Angela Iuliano

Abbiamo un problema demografico a scuola. A lanciare di nuovo l’allarme è Stefano Molina della Fondazione Agnelli, intervenendo alla presentazione dell’ultimo quaderno dell’associazione Trellle. Fatta 100 la popolazione tra i 6 e i 16 anni in Europa nel 2015, l’Italia nel 2030 avrà perso 85 studenti mentre in altri Paesi il loro numero aumenterà, con la Germania e il Regno Unito che, ad esempio, ne avranno +109, la Svezia +125. In un decennio, spiega, «il panorama demografico sarà profondamente cambiato». La popolazione tra i 3 e i 18 anni, infatti, sarà scesa nel 2028 a 8 milioni, rispetto agli attuali 9 milioni circa. Motivo principale: la diminuzione del 10% del numero di madri potenziali e della loro propensione ad avere figli, con un -6% di tasso di natività in un decennio.

La contrazione demografica investirà la scuola materna (vedi ItaliaOggi del 2/4/2019 ), con un -17% al Sud. Più forte il calo alla primaria: -16% al Nord, -19% al Sud e -14% al Centro. Alle medie la crescita al Centro-Nord continuerà ancora qualche anno per effetto di un piccolo baby boom dei figli degli immigrati. Ma nel 2028 il calo sarà comunque del 9% al Centro, del 10% al Nord e del 19% al Sud. Anche la popolazione scolastica delle superiori crescerà ancora per un decennio al Centro e Nord, rispettivamente del 6% e del 4%. Al Sud, al contrario, proseguirà il declino: -13%. Impressionanti i dati regionali. Con la Sardegna che alla primaria avrà perso ben il 24% degli studenti, la Campania il 20%. Si avranno così -6.343 classi alla materna, addirittura -17.956 alla primaria, – 9.420 alle medie e -3.002 alle superiori. Questo si tradurrà in diminuzione dei posti o di cattedre: -55.600. In particolare, la primaria ne perderà 22.100, le medie 15.700, la scuola dell’infanzia 12.600 e le superiori 5.200.

Di conseguenza, si avrà un raffreddamento delle mobilità territoriale dei docenti, perché diminuiranno le opportunità di trasferirsi dal Sud al Centro-Nord per entrare in ruolo. A soffrire sarà anche il rinnovo del corpo docenti, per un rallentamento nel turnover. Con scuole superiori con un quarto degli insegnati con più di 60 anni. «Quando si parla di demografia si tende a fare interventi strategici», commenta Molina, «ma la cabina di regia nel sistema italiano che gestisca l’evoluzione demografica della popolazione scolastica non si è ancora vista».

Tempo lungo obbligatorio per tutti dai 3 ai 14 anni

da ItaliaOggi

Emanuela Micucci

Una scuola a tempo lungo per tutti. È la riforma del sistema scolastico italiano disegnata dall’associazione Treellle nel quaderno «Il coraggio di ripensare la scuola», presentato la scorsa settimana alla Luiss a Roma. Per massificare l’efficacia della formazione scolastica e ridurre al minimo i forti condizionamenti socio-economici e culturali, Treellle prone un ingresso a scuola precoce obbligatorio per tutti a 3 anni di età e a tempo lungo, cioè 8 ore al giorno più la mensa: una scuola d’infanzia, primaria e media obbligatoria, a curriculum unico, ma che negli ultimi due anni presenta diverse opzioni sia per dare spazio a interessi e motivazioni personali degli alunni sia in funzione orientativa. Un tempo lungo in cui la mattina è dedicata alle lezioni disciplinari e il pomeriggio al attività formative di diversa natura come arte, musica, sport, gioco, teatro, volontariato.Ad accompagnare gli studenti nelle attività pomeridiane non sono gli insegnati ma co-educatori, scelti dalla scuola e non dal Miur o dall’usr, assunti per chiamata su competenze e non su graduatorie e punteggi, con finanziamenti aggiuntivi. Così si offre alle famiglie un servizio sociale serio in un ambiante formativo e controllato, tenendo i ragazzi al sicuro da bullismo e comportamenti antisociali e sottraendoli al rischio di un tempo vuoto o all’azione diseducativa dei social e alla pervasità di internet e videogiochi. Inoltre, osserva Antonio Petrolino del ForumTreellle, «si offre spazio progettuale all’autonomia delle scuole, che potrebbero finalmente progettare un’offerta tagliata a misura dell’utenza, fuori sella rigidità delle ore curricolari antimeridiane». Un tempo disteso, infine, per l’educazione dell’intelligenza emotiva e per l’attitudine a vivere con gli altri, privilegiando attività collaborative e solidali.

Dopo le medie Treellle è la scuola a indicare il percorso di studi, con il supporto di psicologi e consiglierei del lavoro, sulla base degli interessi, dei punti di forza ma anche dei limiti dell’alunno. «L’orientamento indicato dalla scuola sarà vincolante per la famiglia», sottolinea il presidente di Treellle Attivo Oliva. Alle superiori i tre percorsi, licei, istituti tecnici e istituti professionali, sono nettamente differenziati nei contenuti e nel metodo: i licei per l’università e le professioni liberali, i tecnici per i politecnici, le facoltà scientifiche applicate o gli Its, i professionali per il mondo del lavoro o gli Its. A parziale correttivo consistenti quote di opzioni, che servono anche a sostenere al riorientamento. La scuola superiore dura 4 anni per ragioni di risparmio, per allinearsi agli altri Paesi europei, perché il tempo formativo è superiore. Ipotizzando anche di ridimensionare i contenuti, ponendo alle superiori le basi su cui costruire nel percorso di studi successivo.

I costi aggiunti derivano quasi tutti dal tempo lungo: parte delle risorse possono venire da economie interne, pari a circa la metà dei costi prevedibili, parte da un aumento del livello di spesa complessivo per l’istruzione per portarlo alla media europea. L’avvio della scuola del tempo lungo è progressivo, finanziando con il sistema delle quote capitarie su 200 scuole volontarie ogni anno, per passare a regime in 5 anni. Tra le altre proposte di Treelle, nuovi percorsi universitari ad hoc e stipendi più alti, pari al livello europeo, e la riforma della governance che attribuisca il potere decisionale all’utenza e al territorio.

Skill inadeguate per il 35% delle aziende

da ItaliaOggi

Angela Iuliano

Per il 35,2% delle imprese, circa 500 mila, le competenze e le conoscenze dei propri lavoratori sono da aggiornare. Il settore più interessato è istruzione, sanità e servizi alle persone, che registra anche una crescita di fabbisogno formativo rispetto al 2014 del +6,2%, rispetto al dato medio nazionale del 2,4%. Con i docenti della scuola pre-primaria tra le figure per le quali si segnalano più marcate esigenze di aggiornamento. Se le carenze formative, in generale, riguardano soprattutto le competenze più che le conoscenze disciplinari, c’è un gap trasversale a tutte le professioni relativo alle scienze umanistiche, con una forte indicazione di fabbisogno di conoscenza della struttura e dei contenuti non solo di una lingua straniera ma anche della lingua italiana. È quanto emerge dall’indagine Inapp su «Professioni e competenze nelle imprese (Pec-Inapp)», giunta alla terza edizione (www.inapp.it). Sono, allora, necessari, spiega Inapp, «politiche e sistemi della formazione in grado di sostenere il processo di adeguamento e rafforzamento delle competenze». Del resto, la concentrazione dei fabbisogni di aggiornamento nei servizi e nei segmenti della manifattura a più alta intensità tecnologica (37,7% chimica, 36,9% elettronica, 35,3% energia, acqua e rifiuti e 34,4% metalmeccanica), «indica come gli stessi siano strettamente connessi al processo di cambiamento tecnologico». Confermando la «complementarità tra innovazione tecnologica e formazione svolta all’interno delle imprese». Ma i fabbisogni sono particolarmente rilevanti anche nell’ambito dei servizi che riguardano le attività di istruzione, sanità e servizi alle persone (47,8%) e il settore comunicazione, attività finanziarie e altri servizi alle imprese (38,6%).

Le competenze di cui si chiede una aggiornamento maggiore sono il problem solving, la capacità di pianificare l’utilizzo delle risorse e le abilità di tipo tecnico e competenze di tipo comunicativo e relazionale. Ad avere maggiore difficoltà nel prefigurare i fabbisogni ed elaborare strategie di medio-lungo periodo sono le piccole e medie imprese. Tanto che per l’Inapp si potrebbe determinare «il paradosso di una disoccupazione derivante dalla scarsa adozione di nuove tecnologie». Fenomeno che «dovrebbe indurre a calibrare le politiche di formazione e di stimolo all’introduzione di innovazioni tecnologiche in modo da supportare in misura più intensa i comparti».