Il racconto come aiuto allo sviluppo
cognitivo, affettivo ed etico-valoriale
di Immacolata Lagreca
Introduzione
È spesso consuetudine
della maggior parte delle scuole italiane trattare le arti narrative come
qualcosa di più “ornamentale” piuttosto che necessario, insomma qualcosa con
cui rendere piacevole il tempo e le lezioni. Per fortuna negli
ultimi anni la narrativa sta acquistando sempre più spazio nell’ambito della
didattica:
Assistiamo ormai da alcuni anni a profondi mutamenti
all’interno di svariate discipline scientifiche, mutamenti a loro volta
collegati a trasformazioni che hanno investito la cultura ed i modi di vivere
dei paesi ad avanzato sviluppo industriale e tecnologico. Alcune discipline
quali l’epistemologia, l’antropologia, la storia, la paleontologia, la
sociologia, la neuropsichiatria, la psicoanalisi, e la psicologia hanno, ognuna
nel proprio campo, sempre più messo in luce l’importanza del concetto di
narrazione. Le storie, siano queste costruite dallo scienziato che dalla
persona comune, sono apparse come modi “universali” per attribuire e
trasmettere significati circa gli eventi umani[1].
La narrazione, dunque, è
stata oggetto di precise analisi e di specifici studi da più punti di vista:
storico-antropologico, linguistico, socio-culturale, psicoanalitico. In anni
recenti c’è stato un interesse specifico per il pensiero narrativo dal punto di
vista psicologico e pedagogico. Mi riferisco in particolare alle ultime opere
di Jerome Seymour
Bruner[2], ma
anche ai trattati e alle opere scritte di accademici italiani, ad esempio ai
lavori dei pedagogisti Marco Dallari[3] e Duccio
Demetrio[4], al
contributo della filosofa Adriana Cavarero[5] e in
ambito psicologico agli studi di Andrea Smorti[6] e di
Maria Sbandi[7].
Narrare
rappresenta l’unico modo che l’essere umano possiede per far conoscere un
accaduto o la propria storia. Non è possibile, infatti, presentarsi al mondo se
non narrandosi.
Tutti i popoli della storia hanno fatto uso della narrazione. La narrazione
appartiene a tutte le culture, sia quelle che conoscono la scrittura sia quelle
che la ignorano. Il pensiero narrativo è da sempre una funzione del tutto
normale e comune. È la più accessibile di altre forme di pensiero.
Sia la
nostra esperienza immediata, quello che ci è successo ieri, sia il nostro
vissuto passato sono espressi sotto forma di racconto. È dunque attraverso il
meccanismo della narrazione che l’essere umano costruisce la sua realtà, il suo
mondo da sempre: il racconto dà forma alla nostra esperienza.
La narrazione è quasi sempre una modalità che si esprime in modo spontaneo
e inconsapevole. Il pensiero narrativo si applica fin dall’età prescolare, a
partire dai tre anni. I bambini che ancora non vanno a scuola non sanno leggere
e scrivere, ma sanno raccontare la loro vita, a volte anche inventando episodi
mai vissuti, mettendo in mostra competenze e abilità nel creare, ma anche nel
mentire). Si tratta, insomma, di una funzione fondamentale dei processi
cognitivi, rafforzata dal fatto di essere legata alla sfera emotiva.
La narrazione
come dispositivo interpretativo e conoscitivo
Esistono due modi principali in cui gli esseri
umani organizzano e gestiscono la loro conoscenza del mondo, anzi strutturano
la loro stessa esperienza immediata: il pensiero logico-scientifico e il pensiero
narrativo[8]. Il
primo sembra essere più specializzato per trattare di “cose” fisiche, cogliendo
il genere, la regola, l’universale; il secondo per trattare delle persone e delle
loro condizioni, coinvolgendo i sensi e l’immaginazione.
Il pensiero
logico-paradigmaticoconsente di costruire concetti e
categorie generali, di riconoscere nessi causali tra gli eventi, mentre
il pensiero
narrativo abbraccia una logica legata alle azioni umane
(desideri, emozioni, affetti e credenze) e alle interazioni tra individui
(regole e motivazioni sociali), questo tipo di pensiero assolve ad una funzione
molto importante: da senso e significato a quei contesti percepiti,
dal soggetto come inspiegabili e incomprensibili, consentendo l’
attribuzione e costruzione di significato alle varie esperienze.
Le due forme di pensiero non funzionano separatamente: la distinzione non è
mai netta né concreta, ma è indispensabile per orientarci di fronte alla
complessità dell’oggetto studiato. Non esiste, dunque, una cultura che sia priva di
entrambi, anche se alcune ne privilegiano uno rispetto all’altro.
La narrazione è il primo dispositivo
interpretativo e conoscitivo di cui l’essere umano, in quanto soggetto
socio-culturalmente situato, fa uso nella sua esperienza di vita[9].
Attraverso la narrazione l’essere umano conferisce senso e significato al
proprio esperire e delinea coordinate interpretative e prefigurative di eventi,
azioni, situazioni e su queste basi costruisce forme di conoscenza che lo
orientano nel suo agire[10]:
Infatti
la narrazione si occupa […] del materiale dell’azione e dell’intenzionalità
umana. Essa media tra il mondo canonico della cultura e il mondo più
idiosincratico delle credenze, dei desideri e delle speranze. Rende
comprensibile l’elemento eccezionale e tiene a freno l’elemento misterioso,
salvo quando l’ignoto sia necessario come traslato. Reitera le norme della
società senza essere troppo didattica, e fornisce una base per la retorica
senza bisogno di un confronto dialettico. La narrazione può anche insegnare,
conservare il ricordo o modificare il passato[11].
La
narrazione rappresenta anche, e soprattutto, la via attraverso cui dare forma
alla propria identità. Quest’ultima si modella e si struttura mediante il narrarsi agli altri,
grazie a un processo di negoziazione di significati.
L’identità narrativa, emerge tutte
le volte che ci presentiamo e ci raccontiamo agli altri e a noi stessi, proprio
perché lo facciamo in un modo unico e caratterizzante. La costruzione dei
significati è un processo sociale che nasce e si sviluppa all’interno di un
contesto storicamente e culturalmente determinato. Il soggetto quando racconta
la propria vita, attua, al tempo stesso un processo si assimilazione e
distinzione dagli altri.
La narrazione come dispositivo
interpretativo e conoscitivo, dunque, diventa un ponte che mette in
collegamento la realtà alla mente e che media l’attribuzione di significati. Essa è portatrice di valori euristici, poiché
mette in moto un processo di ricerca che tende alla stima, all’evidenziazione e
al miglioramento della cosa, permettendo di riaffermare il concetto di
apprendimento ad apprendere.
La funzione della narrazione
Attraverso
il pensiero narrativo l’essere umano realizza una complessa tessitura di
accadimenti ed eventi, utilizzando trame e intrecci paralleli e complementari,
mettendo in relazione esperienze, situazioni presenti, passate e future in
forma di racconto, che le attualizza e le rende oggetto di possibili ipotesi
interpretative e ricostruttive. La narrazione ha quindi una funzione epistemica,
ossia quella di innescare processi di elaborazione, interpretazione,
comprensione, rievocazione di esperienze, accadimenti, fatti, dando ad essi una
forma che renda possibile:
a)
descriverli e raccontarli ad altri;
b) tentare
di spiegarli alla luce delle circostanze, delle intenzioni, delle aspettative
di chi ne è protagonista;
c) conferire loro senso e significato, collocandoli nel contesto di copioni,
routine, repertori socio-culturalmente codificati.
Secondo il psicologo cognitivista
Jerome Bruner, la narrazione non è solo un piacevole passatempo, ma è uno dei
meccanismi psicologici fondamentali per l’individuo e per i gruppi sociali e
culturali. Le grammatiche della narrazione descrivono la struttura di questi
testi che sono caratterizzati da un forte impatto emotivo e dalla trasmissione
di valori e di ideali culturali.
Bruner[12]
individua così nove proprietà intrinseche al pensiero narrativo, che
esplicitano funzioni positive:
1. La sequenzialità: i fatti che sono narrati sono
organizzati attraverso una sequenza di tipo spazio-temporale.
2.La particolarità: il contenuto delle storie è un
episodio preciso.
3.La intenzionalità: è legata all’’interesse per le
intenzioni umane che guidano le azioni attraverso scopi, opinioni e credenze.
4.La opacità referenziale: il narrante, solitamente,
descrive “rappresentazioni di eventi” piuttosto che fatti oggettivi.
Questo perché in una narrazione le storie non devono essere
necessariamente vere, ma verosimile, cioè possibili. Infatti il concetto di
opacità referenziale indica che la rappresentazione ha valore, non in quanto si
riferisce ad un evento concretamente esistente, ma in quanto rappresentazione
dello stesso.
5.La componibilità ermeneutica: consiste nel legame esistente
tra le varie parti della narrazione ed il tutto, dal quale dipende l’interpretazione
fornita.
6.La violazione della canonicità: nella narrazione c’è una fase
in cui le cose si snodano secondo le attese; questa viene chiamata la
dimensione “canonica” della narrazione. Quando, nella narrazione, si verificano
fatti inaspettati si inverte la linearità. La narrazione, quindi, affronta al
tempo stesso, la normalità e l’eccezionalità. Ogni persona cerca di
“normalizzare” ciò che non è ritenuto socialmente condiviso mediante la
“narrazione delle sue ragioni” o delle sue intenzioni che danno un
valore e un significato all’eccezionale.
7.La composizione pentadica: in ogni storia esistono almeno
cinque elementi: attore, azione, scopo, scena, strumento. Se questi elementi
sono in armonia tra loro, la narrazione procede in modo regolare.
8.La incertezza: la narrazione si snoda su un
piano di realtà dubbio; in quanto si colloca a metà strada tra
realtà e rappresentazione, quindi gli interlocutori possono “contrattare” i
significati da attribuire alla narrazione.
9.La appartenenza a un genere: ogni narrazione può
essere inserita in un suo genere o stile che tende a rimanere costante.
Il
racconto della fiaba come metafora della vita
La fiaba è una metafora dell’esperienza
umana. Le fiabe sono la raffigurazione di concetti astratti presenti nella
vita, come il bene, il male, il bisogno, la sfortuna, la morte. Le fiabe svelano
tutto ciò che non può essere detto altrimenti. Come nella vita, le fiabe
raccontano un percorso di crescita, un processo di individuazione pieno di
difficoltà, durante il quale non si ottiene “tutto e subito”.
La fiaba dà la traccia delle rappresentazioni di sé nel mondo, ma
anche dei rischi che ognuno dovrà affrontare: il principe deve partire per un
lungo viaggio nel quale è costretto ad affrontare pericoli e superare prove
prima di incontrare la sua principessa, insomma la foresta è grande e ci si può
perdere o si possono incontrare mostri … ma il bambino capisce che è necessario
vincere la paura e attraversarla.
Le fiabe sono anche storie di crudeli
distacchi: il bambino comprende che qualcuno che lo ha accompagnato nella vita
potrebbe lasciarlo per sempre e morire, per questo sono strumenti utili all’iniziazione
alla vita[13]. Attraverso esse, il
piccolo impara “indirettamente” ad andare al di là da sé, impara a superare il
dato immediato, esistenziale, e comincia a mettere “a problema” il suo essere
nel mondo, seguendo affascinato le vicende dei personaggi.
Per questo le fiabe, al di là della magia
di cui sono cariche, indicano lo sviluppo della capacità di elaborare ipotesi e
risolvere i problemi, avendo una grande qualità di favorire il processo etico-valoriale.
Esse sono, ancora, manifestazione di un avanzare di pari passo con il processo
conoscitivo e comportamentale che si realizza nel bambino. Esse consentono ai bambini di imparare importanti
lezioni di vita vivendole attraverso il filtro di personaggi e situazioni
irreali.
Ad esempio la
fiaba di Pollicino, scritta da Charles Perrault (1628-1703), insegna a stare
uniti nella difficoltà e, soprattutto, che con l’intelligenza si possono
ottenere molte cose, anche se si è molto piccoli.
Penso anche a Pinocchio
di Carlo Collodi (1826-1890), una storia alla conquista della umanità, dove si
possono incontrare tanti gatti e tante volpi, dove si può rimanere intrappolati
senza speranza (la pancia della balena), dove c’è un paese dei balocchi che
inganna, dove c’è sempre un aiuto materno (la Fata turchina) disposta ad
aiutarci ma mai a farsi prendere in giro, dove sono importanti i consigli che
insegnano l’amor filiale (del Grillo) e il dovere allo studio (del Granchio),
dove acquisire il senso del dovere.
Penso altresì
alla fiaba dei tre porcellini, racconto tradizionale europeo di origine
incerta, pubblicato per la prima volta nella metà dell’Ottocento, che affronta
il tema della crescita e illustra chiaramente che non si può vivere governati
dal principio del piacere e del divertimento. I tre porcellini sono la rappresentazione del bambino che
cresce e la favola insegna in maniera semplice quanto sia importante agire sotto la guida del principio di realtà:
la vita è piena di pericoli (il lupo famelico) e bisogna impegnarsi
senza pigrizia in ciò che si fa (cosa che fa solo il terzo porcellino che
costruisce una casetta di mattoni) per poterli sfuggire.
Infine penso al Brutto Anatroccolo di Hans Christian Andersen (1805- 1875), la fiaba della fiducia in sé, l’invito coraggioso a non tradire mai ciò
che si è, anche quando non si ricevono conferme dagli altri. Ma anche la fiaba che insegna che nella vita ci sono delle persone “diverse” da noi, ma
non per questo hanno
meno valore o talenti di noi.
Indubbiamente, dunque, le fiabe insegnano
la vita e l’arte del vivere, preparano a comprendere la coesistenza
conflittuale del bene e del male in ogni azione umana, aiutano a entrare in
contatto con i problemi della vita e insegnano ad affrontarli efficacemente[14]. Non
a caso in un discorso pronunciato nel 1970, in occasione del conferimento del
prestigioso Premio Andersen, Gianni Rodari riprese un concetto scritto nel suo La
freccia azzurra[15]: la narrazione delle fiabe,
sia quelle vecchie sia quelle nuove, possono contribuire a educare la mente,
perché la fiaba è il luogo di tutte le ipotesi: essa ci può dare delle chiavi
per entrare nella realtà per strade nuove, può aiutare il bambino a conoscere
il mondo.
La narrazione a scuola
La scuola è il luogo dove si impara. La scuola è un contesto ben
delimitato, finalizzato all’apprendimento. Fine della scuola è quello di
“preparare al mondo”, ossia quello di fornire le competenze che servono per
affrontarlo.
Se pensiamo che fin da
piccolo l’essere umano, di qualsiasi provenienza culturale, è in grado di
apprezzare le storie e che è sotto la forma della storia che egli gioca ed
esprime il suo mondo, si capisce che la narrazione svolge una funzione
pedagogica essenziale e, a giudicare dalla sua tenuta nei secoli, fa bene alla
mente rispettando il suo naturale processo di funzionamento. Per questo l’utilizzo
della narrazione a scuola è un processo che aiuta sia l’apprendimento sia la
“preparazione al mondo”. Oltre a tutti i vantaggi strutturali della narrativa,
occorre ricordare che essa consente di andare al cuore dei significati non
soltanto esistenziali, ma anche sociali.
Per aiutare gli allievi, suggerisce Bruner, che gli insegnanti devono
partire dal cuore della narrazione: la crisi. Insegnare a partire da crisi,
passate e attuali. Indagare sulle cause, sulle motivazioni. Identificare i
protagonisti, analizzare i valori che sottendono le loro azioni e le loro
decisioni, estrarre intenzioni e moventi, riconoscere le particolarità, l’eccezione.
Determinare i tempi e i luoghi in cui si snodano in modo sequenziale i
cambiamenti del reale. Abbozzare delle soluzioni, un possibile futuro.
Quando si
parla di narrazione non ci limita ovviamente alla sola narrazione di tipo
verbale ovviamente, l’operazione narrativa, infatti, può avvenire attraverso
vari canali, dal linguaggio parlato, alla scrittura, all’immagine video e così
via. Per questo diventa uno strumento utile a scuola.
Lo strumento narrativo può essere
pensato anche come approccio multidisciplinare, in quanto esso non si
identifica soltanto con la storia fantastica, ma consente la rappresentazione
di contenuti e l’acquisizione di linguaggi specifici che appartengono al
racconto storico, geografico o scientifico.
Insegnare con la narrativa non significa insegnare stimolando solamente o soprattutto
il pensiero narrativo. La narrativa didattica, se di buona qualità, è in grado
di integrare e stimolare entrambe le modalità di pensiero: per questo motivo
può essere applicata con successo anche a quelle materie dove è indispensabile
utilizzare la logica paradigmatica tradizionale[16].
A maggior ragione, uno stimolo narrativo è l’ideale per stimolare l’approccio
con le nuove tecnologie, anche per i bambini più piccoli.
Considerando il fatto che l’attività cognitiva del bambino è inscindibile
dalle sue emozioni, considerando anche che la relazione con l’adulto rimane
irrinunciabile nello sviluppo globale del bambino, la narrativa (ma anche il
gioco) sono sicuramente gli strumenti ideali per mediare l’avvicinamento dei
bambini più piccoli a materie “difficili” e alle nuove tecnologie.
Per la sua forte valenza emotiva, la
narrazione ha importanti e positive implicazioni sul piano psicologico. Quando
ascoltiamo o raccontiamo una storia, ci sentiamo emotivamente coinvolti e
possiamo gestire le nostre emozioni attraverso modalità adeguate di
espressione. I bambini si sentono gratificati da un’attività motivante e
apprendono senza che la loro autostima subisca contraccolpi perché vivono la
narrazione come un’attività ludica, che non crea loro ansia e non li pone in
competizione con i compagni di classe con la richiesta di prestazioni al di
sopra delle loro possibilità. Possiamo quindi comprendere come la metodologia
della narrazione possa essere adottata efficacemente anche con alunni che
evidenziano caratteristiche speciali e bisogni particolari.
Per questo, sul piano formativo, la
narrazione costituisce un efficace mezzo di riflessione per la costruzione di
significati interpretativi della realtà e dunque per la diffusione di valori
culturali; sul piano educativo, essa rappresenta un formidabile strumento per l’apprendimento,
permettendo l’organizzazione del pensiero per scambiare esperienze e conoscenze
attraverso l’attivazione di molteplici abilità: cognitive, linguistiche,
mnemoniche, percettive, attentive.
Sostiene Bruner: «Solo la narrazione consente di costruirsi
una identità e di trovare un posto nella propria cultura. Le scuole devono
coltivare la propria capacità narrativa, svilupparla, smetterla di darla per
scontata»[17], poiché per la crescita
dell’individuo è indispensabile individuare la propria identità culturale e
sociale.
Vediamo nello specifico il nesso
positivo che si instaura tra la narrazione e la formazione.
La narrazione e la formazione
Il processo formativo è sempre e comunque peculiarmente narrativo: si
racconta e ci si racconta, altrimenti il sapere sarebbe condensabile,
specialmente oggi, in supporti cartacei o magnetici, più o meno miniaturizzati,
il processo formativo è invece intrinsecamente relazionale e nella
relazionalità la negoziazione del proprio sé con quello altrui è elemento di
vitale importanza, in questo senso la narrazione può trovare la propria
validazione come strumento di formazione. Ma oltre al ruolo di strumento si può
supporre alla narrazione una valenza di soggetto del processo formativo, il
narrare le storie dell’impresa può essere, ad esempio, lo strumento migliore
nelle attività formative tese a motivare o a costruire valori ed obiettivi condivisi,
il narrare la propria storia si sgancia, con i contributi teorici degli ultimi anni,
dal contesto terapeutico per riferirsi a quello che possiamo definire, genericamente,
il contesto dell’empowerment (la conquista della
consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni,
sia nell’ambito delle relazioni personali sia in quello della vita politica e
sociale).
Il narrare formativo è la costruzione di significati, la costruzione di
realtà possibili, non soltanto confinate nel mondo del virtuale, ma anche del
futuribile.
Recentemente un testo importante come quello curato da Kaneklin e Scaratti[18] ha ribadito
il valore della narrazione come strumento indispensabile per la costruzione di significati
e per la facilitazione dei processi di cambiamento sociale ed organizzativo. Il
punto di vista narrativo risulta infatti connesso alla modalità esperite dai
soggetti di attribuzione di senso agli eventi e alla realtà. Inoltre
consente di ricollocare la funzione formativa all’interno
di una duplice tensione, che si tratta costantemente di alimentare e
regolare: quella inerente la prospettiva di restituire ai soggetti una maggiore
capacità di collocarsi, grazie alla formazione, all’interno di processi più generali
e complessi, individuando percorsi e storie esistenziali e lavorative più soddisfacenti
e significative[19].
Se alla funzione
formativa si assegna, nella nuova ottica della formazione continua, un valore
di empowerment individuale, di implementazione delle capacità di riduzione
della complessità o perlomeno di “governo” della complessità stessa, se è vero,
come sostiene (in un altro dei molti libri che in questo periodo fioriscono sul
raccontarsi) Daniel Taylor, che ognuno è il prodotto delle storie che ha
ascoltato, vissuto e anche di quelle che non ha vissuto[20], allora
risulta inevitabile nei contesti
formativi trovare spazio
alla narrazione, come oggetto, strumento e soggetto del processo.
Ci sembra fondamentale
il contributo della pedagogia narrativa, in questo senso, pedagogia narrativa
che non significa semplicemente implementare l’utilizzo della narrazione
tramite storie, romanzi, racconti… nell’educazione la narrazione non deve essere
oggetto, ma soggetto del percorso educativo ovvero
il
narrare come forma costitutiva e principio epistemologico dell’elaborazione
pedagogica. Come dire: educare narrando, dare un impianto narrativo al
percorso educativo, concepire l’educazione non solo come tempo e luogo
delle spiegazioni, della trasmissione del conoscere, ma anche come ascolto
reciproco tra soggetti narranti la cui identità è anzitutto un’identità narrativa.[21]
L’uomo odierno ha “sete”
di narrazione perché nella narrazione ritrova spazio e tempo per la propria
vita.
La formazione crediamo
quindi non possa rinunciare alla propria dimensione intrinsecamente narrativa,
in almeno tre direzioni:
– una formazione
composta essenzialmente di narrazioni, che sappia valorizzare cioè la
dimensione narrativa dei “contenuti”: raccontare l’impresa, raccontare la motivazione,
raccontare la comunicazione, ma persino raccontare l’informatica;
– una formazione
pedagogica, esperta nell’analisi delle narrazioni, preoccupata di tenere deste
le capacità narrative della comunità civile, che miri ad insegnare, ad
ascoltare narrazioni ed a produrre narrazioni. Ecco l’educazione alla memoria,
ad una memoria collettiva socialmente legittimata come chiave di lettura anche
di periodi di crisi;
– una formazione al
diario, all’autobiografia (forse l’ambito più indagato dei tre) che
non
è solo un modo di raccontarsi, un disvelamento a sfondo narcisistico, o una spiegazione/giustificazione
post hoc delle scelte compiute nel corso dell’esistenza. […] infatti,
scrivere la propria storia è un modo per apprendere qualcosa su di sé. Scriverla
perché sia letta è un modo per formare altri alla comprensione di sé[22].
Tre direzioni, che sono
anche motivazioni, e che possono essere assunte come proprie dalla formazione,
come un augurio per l’apertura del prossimo millennio, perché si comincino a
raccontare storie e non si abbia paura, in tanti ambienti di essere capiti, di
raccontarsi, di raccontare, di fondare anche narrazioni che abbiano la pretesa
di non spiegare qualcosa, come i grandi testi fondativi di utopie e religioni,
ma di aggiungere senso.
Conclusioni
Concludendo questo lavoro, si può
affermare che le narrazioni aiutano lo sviluppo cognitivo, affettivo ed
etico-valoriale. L’aspetto cognitivo del bambino è sviluppato attraverso
l’arricchimento della conoscenza, l’ampliamento degli orizzonti intellettuali e
culturali, l’esercizio di pensiero, stimolando la formazione di idee,
sollecitando le facoltà logiche, affinando lo spirito critico e l’autonomia di
giudizio e potenziando le capacità linguistiche ed espressive; l’aspetto
affettivo è potenziato grazie al fatto che i racconti sviluppano e risvegliano
emozioni e sentimenti, arricchiscono la fantasia e sollecitano l’immaginazione;
l’aspetto etico-valoriale è impreziosito dall’attivazione di processi di
identificazione essenziali per l’interiorizzazione di modelli, norme e valori
nonché per l’acquisizione di adeguate norme comportamentali.
L’uso dei racconti dunque riporta a un
apprendimento attivo, in grado di stimolare il senso critico e di aprire la
mente all’accoglienza di tutte le discipline. L’uso dei racconti a scuola,
inoltre, oltre a permettere una sinergia fra le materie di studio, può favorire
l’integrazione dei ragazzi con bisogni educativi speciali.
Il
raccontare è in definitiva una modalità di interazione con il bambino assai
ricca di potenzialità. Gli scambi comunicativi che l’accompagnano e la notevole
circolazione di informazioni che caratterizzano questa attività incentrate sul
materiale scritto, sono oggi riconosciuti fondamentali non solo ai fini dello
sviluppo del linguaggio orale, ma anche della letto-scrittura, della memoria e
in generale per la crescita conoscitiva ed emotiva del bambino.
Il
racconto non è solo utile a scuola, ma anche nelle relazioni fuori dal contesto
scolastico, per questo raccontare e ascoltare racconti sono utili perché
servono a stimolare continuamente processi
di elaborazione, interpretazione e comprensione del nostro Io, riempendo
la nostra vita dalle emozioni.
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[1] A. Smorti
(a cura di), Il sé come testo, Giunti, Firenze 1997, p.10.
[2] Si farà riferimento spesso in questo
lavoro allo psicologo statunitense Jerome Bruner.
[3] Cfr. i suoi La
comprensione narrativa, in M. Tarozzi
(a cura di), Il governo della TV.
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Milano 2007, pp. 153-160; Testi in testa. Parole e immagini per educare
conoscenze e competenze narrative, Erickson, Trento 2012.
[4] Cfr. il suo Raccontarsi. L’autobiografia
come cura di sé, Raffaele Cortina, Milano 1996.
[5] Cfr. il suo Tu che mi guardi, tu che
mi racconti, Feltrinelli, Milano 1997.
[6] Cfr. il suo Il pensiero narrativo,
Giunti, Firenze 1994.
[7] Cfr. il testo collettaneo da lei curato:
La narrazione come ricerca del significato, Liguori, Napoli 2003.
[8] Lo psicologo
statunitense Jerome
Seymour Bruner li chiama pensiero propositivo o
paradigmatico e pensiero narrativo. Cfr. J. Bruner,
A Study of Thinking, John Wiley & sons, New York, 1956. trad. it. Il pensiero. Strategie e categorie, Armando, Roma, 1969.
[9]
Cfr. J. Bruner, Actual
minds, possible words, Harvard University Press, Cambridge 1986, trad. it. La mente a più dimensioni, Laterza, Roma-Bari 1988.
[10] Cfr. A. Smorti, Narrazioni. Cultura, memorie, formazione del Sé, Giunti, Firenze
2007.
[11] J. S.
Bruner, Acts of Meaning,
Harvard University Press, Cambridge 1990, trad. it. La
ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp.
62-63 (ora 2000).
[12] Cfr. J. Bruner, Il pensiero. Strategie e
categorie, cit.; Id, The culture of education, Harvard University Press, Cambridge 1996, trad. it. La cultura
dell’educazione,
Feltrinelli, Milano 1996.
[13] Cfr. E. Benini, G. Malombra, Le
fiabe per affrontare i distacchi della vita, Franco Angeli, Milano 2008.
[14] Cfr. sull’argomento B. Bettelheim, The Uses of Enchantment. The
Meaning and Importance of Fairy Tales, Knopf, New York 1976,
trad. it. Il mondo incantato. Uso, importanza e significati
psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, Milano 2001; F. Borruso, Fiaba e identità, Armando, Roma 2005.
[15] Editori Riuniti, Roma
1964. Cfr. anche dello stesso autore, Grammatica
della fantasia, Einaudi, Torino 1973.
[16] Ad esempio
Anna Cerasoli, ex insegnante di matematica, ha scritto numerosi manuali
scolastici scrivendo di matematica in forma narrativa. Tra i suoi libri: Diamo i numeri. Tre tappe nel mondo della
matematica,Sperling & Kupfer, Milano
2007; Matematica amica, Feltrinelli, Milano 2016.
[17] J. Bruner, La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti
per la scuola, cit., p. 55.
[18] C. Kaneklin,
G. Scaratti (a cura di), Formazione
e narrazione, Cortina, Milano 1998.
[19] Ivi,
p. XI.
[20] D. Taylor, The healing power of stories. Creating Yourself Through the Stories of Your Life, Doubleday,
New York 1996, trad. it. Le storie ci
prendono per mano. L’arte della narrazione per aiutare la psiche, Frassinelli, Piacenza 1999.
[21] A. Nanni, La pedagogia narrativa: da
dove viene e dove va, in R. Mantegazza
(a cura di), Per una pedagogia narrativa, EMI, Bologna 1996, p. 40.
[22] L. Formenti, Prefazione all’edizione
italiana di: M.S. Knowles, La
formazione degli adulti come autobiografia, Cortina, Milano 1996, p. X.
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