CONCORSO DIRIGENTI SCOLASTICI

CONCORSO DIRIGENTI SCOLASTICI
QUELLO CHE IL TAR LAZIO NON HA DETTO

Come si intrecciano il rigore della giustizia amministrativa e la ragion di Stato? In nessun modo,  verrebbe da dire, eppure si è fatto un gran parlare, in questi giorni, del salvataggio del concorso a dirigente scolastico da parte del TAR Lazio prima e del Consiglio di Stato poi. Alcuni giorni fa il primo grado di giudizio ha annullato tutte le prove scritte, ma c’è qualcosa che è rimasto sottaciuto.
Il concorso, si sa, è stato segnato da una serie di episodi che hanno scatenato più e più ricorsi. Come qualcuno autorevolmente ha scritto i candidati, non potendo impugnarlo nel merito, si sono appigliati agli aspetti formali e il TAR Lazio, contro ogni mediatica aspettativa, ha dato loro ragione. Da un punto di vista giuridico, non si può che plaudire alla correttezza dell’operato del principale organo di giustizia amministrativa, e allora perché da più parti si pensa che ciò che è uscito dalla porta possa agevolmente rientrare dalla finestra con una sospensiva ad hoc? Davvero ha ragione il Ministero dell’istruzione quando sostiene che le motivazioni addotte in sentenza sono infondate? 

E perché il TAR Lazio non ha tenuto in considerazione l’oggettiva differenza di trattamento dei candidati sardi, che hanno avuto a disposizione le “Fonti bibliografiche e sitografiche per la prova in lingua” con quasi due mesi di anticipo? Basta andare sul sito del Ministero dell’Istruzione alla pagina dedicata alla prova scritta del concorso per dirigenti scolastici e verificare che in data 17/10/2018 e in data 12/12/2018 sono stati pubblicati elenchi IDENTICI, benché riferiti alla generalità dei ricorrenti nel primo caso e ai soli candidati sardi e agli ammessi con riserva nel secondo. È forse un caso che i candidati sardi abbiano ottenuto la più alta percentuale di ammissione all’orale, pari a quasi il 60%, mentre in altre regioni si è sfiorato a fatica il 30%? Alle prove di lingua erano riservati 20 punti su 100 e questo ha certo fatto la differenza.

“Ma come –chiederanno i soliti benpensanti- i genitori non sono contenti di avere un dirigente scolastico titolare fin dal primo settembre?”. No, niente affatto, perché negli ultimi quattro anni abbiamo avuto l’esperienza di candidati idonei di altre regioni che hanno assunto servizio in Toscana: chi ha abbandonato, chi passa le giornate a fissare il muro di fronte, chi delega in toto a lodevolissimi ma di necessità limitati vicepresidi, chi usa le sanzioni disciplinari come mezzo di ritorsione. Il punto è che le responsabilità che ricadono su un DS sono tante e tali che solo i più preparati e motivati riescono a gestirle efficacemente, senza esserne schiacciati. A questo punto, meglio continuare con le reggenze, in quanto la procedura concorsuale in atto non è neppure riuscita a garantire la selezione dei migliori.
Come subito emerse, nel corso della prova scritta ad alcuni candidati si cancellarono parte delle risposte. Vi sono poi state percentuali di ammessi sostanzialmente diverse nelle varie sottocommissioni (sintomo di criteri di valutazione non omogenei?) e ben cinque candidati, che già sapevano di essere stati bocciati allo scritto, sono stati ripescati in extremis grazie a una rivalutazione “anche in considerazione del punteggio positivo ottenuto nella prova di lingua”. È equità questa?

Notizie poco confortanti anche sul fronte delle prove orali: dalla sottocommissione buona (ma iniqua) che a una candidata in difficoltà con il quesito sui Revisori dei conti ha offerto la domanda di riserva, a quella severissima che pretendeva che il candidato rispondesse sugli IEK (Istituti di educazione post-secondaria in Grecia, N.d.R.) o sulla Convenzione di Lanzarote e che solo su quell’unico quesito fosse valutato. Viene da chiedersi: ma le varie sottocommissioni si sono parlate fra di loro? che tipo di dirigente stanno selezionando? perché i quesiti su Regolamento di contabilità e Codice dei contratti sono stati pochissimi? forse perché non era stato nominato nessuno competente in materia nelle sottocommissioni? Certo a noi che la scuola la viviamo serve qualcuno che conosca bene le norme, per tutelare i diritti di tutti, e abbia a cuore la scuola, per farla funzionare al meglio. A che serve aver interrogato alcuni candidati sul Piano dell’offerta formativa o sulla valutazione? non sono forse queste competenze in possesso di ciascun insegnante? Dov’è il valore aggiunto che un dirigente scolastico deve saper dare?

E non ci si venga a raccontare che c’è premura, perché è risaputo che a un dirigente scolastico per formarsi adeguatamente al suo ruolo occorrono alcuni anni e possiamo –anzi dobbiamo- permetterci il lusso di attendere ancora qualche mese al meritorio fine di ottenere una procedura corretta che garantisca il meglio della dirigenza alla scuola italiana. Per rimanere nella concretezza, gli idonei campani, che presero servizio in Toscana il 19 ottobre di quattro anni fa, non hanno risentito certo di quella cinquantina di giorni di ritardo, bensì della procedura di selezione a monte. E forse del fatto che in Toscana non basta possedere l’autorità, occorre anche avere la credibilità e l’autorevolezza. Chi ha orecchie per intendere (se ha a cuore la scuola italiana) intenda per favore.

Vaccini, nessun obbligo per i genitori di presentare documenti a scuola entro il 10 luglio

da Orizzontescuola

di redazione

Non sarà necessario per i genitori dei bambini iscritti a scuola presentare la documentazione che attesta l’avvenuta vaccinazione degli studenti per l’iscrizione a scuola.

Nessuna documentazione da presentare entro il 10 luglio

Secondo quanto afferma l’ADNKRONOS, ciò è possibile grazie all’anagrafe vaccinale attivata dal Ministero della Salute che ha permesso l’automazione dei dati.

Sono le ASL che comunicano i dati alle scuole e se ci sono irregolarità esse sono state inviate entro il 10 giugno al dirigente. La presentazione dei documenti da parte dei genitori dovrà avvenire soltanto se verranno segnalate delle irregolarità.

L’ADNKRONOS scrive, inoltre, che “anche dal ministero dell’Istruzione confermano che il sistema è a regime e che i genitori non devono presentare documentazione a meno che non venga richiesta dalla scuola.

Le fonti ministeriali hanno confermato, sempre all’agenzia, che “sarà necessario presentare la certificazione cartacea delle avvenute vaccinazioni solo nel caso in cui, dopo lo scambio dei dati tra le Asl e le scuole, emergesse che il proprio bambino non sia in regola con gli obblighi previsti ai fini dell’iscrizione scolastica.”

Nuova normativa in ritardo

Le carenze in termini di diritto allo studio presenti nella legge Lorenzin sono al momento oggetto di riflessione in Parlamento con un DDL che si trova in Commissione Bilancio. Entro fine luglio, come riporta l’ADKRONOS, il testo potrebbe essere licenziato dalla Commissione Igiene e Sanità. Testo che, poi, dovrà essere calendarizzato e votato in Aula.


Vaccini, colpo di scena: i genitori non devono più portare i certificati a scuola, ci penseranno le Asl

da La Tecnica della Scuola

Di Alessandro Giuliani

Colpo di scena, avrebbe detto Mike Bongiorno. Ad una manciata di giorni di quella che sino a poche ore fa era considerata una scadenza perentoria, il 10 luglio, per la presentazione a scuola della certificazione comprovante l’effettuazione delle vaccinazioni obbligatorie o la richiesta di vaccinazione alla propria Asl, come previsto dalla legge Lorenzin, cade l’obbligo di consegna per i genitori: il ministero della Salute e il Miur, con una comunicazione congiunta prodotta nel pomeriggio di sabato 6 luglio, hanno fatto sapere che , essendo stata attivata l’Anagrafe nazionale vaccinale, i genitori non hanno più l’obbligo di presentare la documentazione, perché il Sistema automatizzato fa dialogare Asl e istituti scolastici.

Più facile scoprire chi si è astenuto dall’obbligo

In pratica, grazie all’anagrafe vaccinale, cade l’obbligo di presentazione dei certificati a scuola da parte delle famiglie. Questo non significa che cadrà l’obbligo. Anzi, perché sarà più facile riscontrare le mancate vaccinazioni obbligatorie.

L’anagrafe nazionale è stata introdotta, con decreto ministeriale del 18 settembre scorso, dal ministro della Salute, Giulia Grillo: tutte le Regioni hanno avviato da aprile la trasmissione dei dati, tranne le Province autonome di Trento e Bolzano che saranno presto a regime.

È bene sottolineare che le situazioni irregolari dei genitori che non hanno sottoposto i figli alle vaccinazioni obbligatorie per la frequenza scolastica verranno in pratica dalle Aziende sanitarie locali alle scuole, le quali provvederanno a richiedere i documenti eventualmente mancanti ai genitori.

Le sanzioni rimangono

In tal caso, una volta ricevuta la comunicazione formale di mancata vaccinazione, i genitori avranno dieci giorni di tempo per portarli a scuola: qualora ciò non dovesse accadere, scatteranno le sanzioni. Queste, nel caso di bambini da 0 a 6 anni prevedono il divieto di accesso agli asili nido e alle scuole dell’infanzia.

L’accesso in classe non sarà invece precluso per bambini e ragazzi nella fascia d’età da 6 a 16 anni.

Ma per tutti gli alunni, qualora i genitori dovessero rifiutarsi ripetutamente di far vaccinare i figli dopo colloqui e solleciti da parte delle Asl, scatteranno le sanzioni pecuniarie previste dalla legge.

Dopo i 16 anni, invece, sempre in base alla legge Lorenzin, non vi sono più obblighi.

I vaccini obbligatori e il testo in Parlamento

Ricordiamo che le vaccinazioni obbligatorie previste sono dieci: anti-poliomielitica, anti-difterica, anti-tetanica, anti-epatite B, anti-pertosse, anti-Haemophilus influenzae tipo b, anti-morbillo, anti-rosolia, anti-parotite, anti-varicella.

La novità del controllo automatizzato sulle vaccinazioni effettuate arriva mentre il Parlamento si accinge a decidere sull’obbligo vaccinale cosiddetto ‘flessibile‘, con le vaccinazioni che resterebbero obbligatorie solo “in caso di emergenze sanitarie o di compromissione dell’immunità di gruppo”.


Dispersione scolastica: persi 3,5 milioni di studenti in vent’anni. Numeri e soluzioni

da Tuttoscuola

Dispersione scolastica: dal 1995 a oggi 3 milioni e mezzo di studenti hanno abbandonato la scuola statale, su oltre 11 milioni iscritti alle superiori (-30,6%). Ragazzi e ragazze spariti dai radar della scuola, che sotto questo aspetto ricorda le famigerate performance della rete idrica italiana, che perde nel nulla il 35% dell’acqua. Un colabrodo. Di dispersione scolastica tratta l’ultimo dossier di Tuttoscuola, “La scuola colabrodo” di cui è uscita nel 2018 anche un’anticipazione su “L’Espresso” che ha dedicato la copertina proprio al tema del dossier di Tuttoscuola.

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Dispersione scolastica: i costi enormi dell’emorragia

Il costo è enorme: 55 miliardi di euro. E l’emorragia continua: almeno 130 mila adolescenti che iniziano le superiori non arriveranno al diploma. Irrobustiranno la statistica dei 2 italiani su 5 che non hanno un titolo di studio superiore alla licenza media e di un giovane su 4 che non studia e non lavora.

E l’istruzione superiore? Tra chi si diploma e si iscrive all’università, uno su due non ce la fa. Complessivamente su 100 iscritti alle superiori solo 18 si laureano. Ma poi un quarto dei laureati va a lavorare all’estero… E il 38% dei diplomati e laureati che restano non trovano un lavoro corrispondente al livello degli studi che hanno fatto. Un disastro.

Negli ultimi vent’anni certo si è provato a correre ai ripari, anche grazie a iniziative esterne di volontari e associazioni per prevenire il fenomeno della dispersione scolastica. E il tasso di abbandono scolastico è diminuito: tra il 2013 e il 2018 hanno detto addio in anticipo ai professori 151mila ragazzi, il 24,7 per cento del totale, contro il 36,7 del 1996-2000. Sicuramente risultati incoraggianti, ma ancora insufficienti, che non fermano la dispersione scolastica.

Perché spesso chi abbandona i libri così precocemente finisce nel buco nero dei Neet, quei giovani che non studiano e non lavorano di cui fa parte 1 ventenne su 3 del Mezzogiorno. Una catastrofe annunciata quella presentata dal dossier che si può evitare solo ripartendo dal sistema scolastico. Ma bisogna fare presto, perché mai come in questo caso vale davvero il detto “il tempo è denaro”.

Dispersione scolastica: il dossier di Tuttoscuola

Il dossier di Tuttoscuola ha infatti calcolato quanto ci costa lo spreco generazionale generato dalla dispersione scolastica. Partendo dalla stima Ocse per cui lo Stato investe poco meno di 7mila euro l’anno a studente, per l’istruzione secondaria, il costo degli abbandoni si misura in media in 2,7 miliardi di euro all’anno. Addirittura, guardando ai vent’anni presi in considerazione dal dossier, la cifra diventa vertiginosa: 55,4 miliardi di euro.

Ma l’istruzione conviene non soltanto per i risparmi interni al sistema, ma anche per una serie di benefici che può garantire a livello sociale: la disoccupazione tra chi ha solo la licenza media è quasi doppia rispetto a chi è arrivato al diploma e quasi il quadruplo di chi è laureato; l’istruzione incide sulla salute, riducendo i costi per la sanità; comporta meno criminalità e meno costi per la sicurezza.

Prevenire la dispersione scolastica avrebbe costi molto più bassi di quelli che derivano dalla necessità di gestirne le conseguenze sociali. Servirebbe un grande piano pluriennale. Eppure l’attenzione oggi va molto di più al milione di migranti sbarcati negli ultimi vent’anni che ai tre milioni e mezzo di adolescenti italiani che nello stesso arco di tempo hanno abbandonato la scuola, rendendo più povero, dal punto di vista educativo e non solo, il paese.

Scuola che boccia: vale davvero di più?

da Tuttoscuola

di Giancarlo Sacchi

Nella storia della scuola dell’ultimo dopoguerra ci sono stati momenti in cui la ricerca didattica e l’innovazione hanno contribuito in maniera significativa allo sviluppo economico e sociale del Paese, inducendo anche l’opinione pubblica a guardare con fiducia alla qualità del nostro sistema scolastico per la sua capacità di costituire un “ascensore sociale” per tutti i giovani e aiutarli ad orientarsi nella società e nel mondo del lavoro, sostenendo allo stesso tempo le persone più deboli. Ma ce ne sono altri dove la carenza di orizzonti favorisce il dilagare di una sorta di “pensiero debole” sulla scuola che recupera le motivazioni nella selezione, capace di ristabilire, si dice, il valore del merito, lasciando da parte l’approccio ideologico della inclusione. La situazione attuale ha un carattere depressivo e dopo che la buona scuola si è ridotta ad un dibattito sulla situazione degli insegnanti sui media torna la questione delle bocciature.

Questi due elementi, merito e inclusione, non sono in contrapposizione, ma devono formare il carattere della scuola pubblica così come indicato dalla nostra Costituzione e ciò può avvenire attraverso il sapere, il soggetto che apprende e il contesto in cui si svolge l’azione formativa, che oggi è visto nella sempre più stretta relazione con il mondo del lavoro. Nell’azione dei docenti vi sono tendenze che fanno emergere uno o l’altro degli aspetti e ciò genera un dibattito che dovrebbe servire alla elaborazione del cambiamento ed invece spesso alimenta conflitti e speculazioni politiche.

Se al centro della didattica mettiamo il sapere si dovrà porre un limite per l’acquisizione accettabile o meno dei contenuti, se mettiamo l’allievo si tratta di incanalare le sue energie, poche o tante che siano, in una molteplicità di occasioni formative, se si pone il contesto, anche in considerazione della diversità degli ambienti di apprendimento, quello che conta sono le performance richieste dall’esterno e la capacità di una loro continua adattabilità. In un consiglio di classe tutto questo si trova in maniera superficiale e la mancanza di un coerente orientamento genera risultati disomogenei che si prestano anche a contestazioni sul piano legale.

La bocciatura rimane l’elemento della discordia ed anche in passato non era gradita, ma accettata non per il bene del ragazzo ma per la deferenza che la società esprimeva nei confronti dei docenti, cosa che oggi se vogliamo impaurisce i dirigenti scolastici, ma soprattutto fa lavorare gli avvocati per iniziativa delle famiglie. Vi sono docenti che in classe non riescono a lavorare a causa della condotta degli alunni e propongono la bocciatura come l’ultima speranza per riprendersi la dignità persa. È un’affermazione abbastanza diffusa, che deve però far riflettere sull’orientamento alla professione. Il risultato scolastico infatti è una cosa ed il modo con cui l’alunno lo consegue anche attraverso il comportamento in classe è un’altra. Un dibattito già affrontato ai tempi della promulgazione dello “statuto degli studenti e delle studentesse” che proponeva i diritti e i doveri degli studenti, proseguito con il “patto di corresponsabilità” che riguardava anche le famiglie. Ci si era in quell’occasione occupati anche delle sanzioni disciplinari ma in un’ottica di recupero motivazionale, mentre con il decreto Gelmini si torna ai provvedimenti dell’epoca fascista che agiscono sulla “condotta” in una forma solamente punitiva. È evidente che i due versanti hanno delle implicazioni, che già vengono contenuti nella valutazione dell’interesse e partecipazione nelle singole discipline; il così detto comportamento ha bisogno di una considerazione autonoma da parte del consiglio di classe, magari inserito nell’ottica di “cittadinanza e Costituzione”. Tale distinzione sarà sempre più efficace se i risultati verranno rilevati in modo diverso, come già accade, in differenti ambienti di apprendimento.

Chi pensa al sapere non ha problemi a selezionare: per chi esce dall’otium c’è il negotium, peccato che i contenuti non siano così chiari come un tempo, complice il progresso tecnologico; chi si dirige verso Giovannino, quello che c’è e non come noi vorremmo che fosse, deve anche pensare al latino, ma è il ragazzo che deve trovare il suo orientamento secondo una “selezione positiva”; è la motivazione che educherà al sacrificio. Chi vuole raggiungere delle competenze, cosa di cui oggi i docenti si dovrebbero occupare in prevalenza, deve necessariamente lavorare per progetti, i quali dovranno raggiungere risultati in modo progressivo in termini di crediti, che vadano oltre al titolo finale da conseguire, verso un apprendimento permanente, in relazione ai cambiamenti delle esigenze del lavoro e dello sviluppo sociale, pensando all’attualizzazione dei contenuti.

La percentuale di ripetenze, in assenza di criteri standardizzati, varia molto sul territorio nazionale, non solo verso il basso, ma anche verso l’alto. Se da una parte la selezione dovrebbe essere  il segno distintivo della meritocrazia (ma chi definisce il merito di chi?), dall’altra un certo abbondare di 100 e lode alla maturità viene dato come promozione sociale. L’OCSE ha più volte suggerito al nostro Pese la prevenzione dell’insuccesso, soprattutto attraverso l’innovazione e la creazione di nuove opportunità. In sede internazionale si pensa che la ripetenza sempre uguale sia un inutile dispendio di denaro da investire meglio in una più pertinente azione orientativa, anche prima che arrivi la sentenza di fine anno.

Le bocciature, quelle praticate che già non sono poche a livello statistico, o auspicate da chi pensa che il successo scolastico sia da confondere con un retaggio postsessantottino, sono diventate oggetto di sondaggi al posto di studi in sede pedagogico-didattica, come se non si trattasse di trovare metodi più efficaci di apprendimento, ma di ricercare un consenso da parte dell’opinione pubblica. Andando ad indagare in mare aperto è facile spuntare un giudizio abbastanza severo da parte di chi proietta sugli altri il proprio passato e non pensa al miglioramento pur necessario di certi strumenti per l’avvenire. Sembra altrettanto inefficace utilizzare tali indagini per ricattare i politici: la buona scuola ha dimostrato che non paga una captatio benevolentiae giocata solo sulla sistemazione dei docenti, senza avere una chiara visione delle prospettive verso le quali orientare il sistema.

Giocare sui termini, accoglienza o rigore, insinuando contraddizioni tra le scelte politiche in linea con il sentire comune ed i comportamenti permissivi dei singoli docenti non aiuta ad affrontare il vero problema: la qualità della didattica, che non va intesa nel senso di quantità di sapere tout court, ma che dia a ciascuno in modo appropriato ciò di cui ha bisogno per non far restare indietro nessuno. La funzione della scuola più che ad una visione astratta e ideologica di merito deve assecondare gli apprendimenti in relazione agli obiettivi da raggiungere.

Una discrasia esiste nel nostro ordinamento tra una valutazione delle competenze di ciascuno per l’attribuzione dei crediti progressivi spendibili nel tempo, nei percorsi formativi e nel mondo del lavoro, o misurabili nella media dei risultati ottenuti al momento degli esami. C’è da chiedersi infatti se ai futuri datori di lavoro sia più utile un portfolio dai quale estrarre la preparazione in modo analitico e polivalente, piuttosto che un titolo che segna una terminalità riassunta secondo indicatori numerici di difficile interpretazione. Forse davvero gli esami rimangono un retaggio gentiliano ed al posto del suddetto decreto Gelmini si potrebbero riportare alla luce le schede che ritraevano l’alunno ed il suo processo di apprendimento.