Performance 2016-2018

MIUR, l’Organismo Indipendente di Valutazione (OIV) conclude le attività sulle performance 2016-2018.

Recuperato il lavoro inevaso degli anni precedenti

(Giovedì, 25 luglio 2019) L’Organismo Indipendente di Valutazione (OIV) del MIUR ha concluso le attività previste per i cicli della performance dal 2016 al 2018. Sono state così validate le relazioni degli anni 2016, 2017 e 2018, consentendo dunque, al personale dipendente di percepire le corrispondenti premialità.

Ricostituito dal Ministro Marco Bussetti nel settembre 2018, all’esito di una selezione pubblica e dopo quasi due anni di vacanza, il nuovo OIV si è immediatamente impegnato nel recupero di una serie di documenti riassuntivi degli adempimenti previsti dalla normativa e dalle delibere della ex CiVIT/ANAC rimasti inevasi negli anni precedenti. Nel giro di un semestre, tutto il lavoro arretrato è stato portato a termine.

Uno degli obiettivi prioritari è stato l’aggiornamento del Sistema di misurazione e valutazione della performance, risalente al 2011, nonostante l’obbligo normativo di aggiornarlo annualmente. Il nuovo Sistema è stato varato con il DM n. 61 del 30 gennaio 2019.

È stata introdotta, per la prima volta, la cosiddetta performance di filiera, ovvero la valutazione del contributo fornito dagli Enti vigilati e/o partecipati all’organizzazione complessiva del Ministero, sulla base degli atti programmatici di settore e delle previste direttive contenenti le linee strategiche e gli obiettivi assegnati gli stessi Enti.

All’OIV è stato assegnato il compito di valutare i Capi Dipartimento, ma anche quello di supportare il processo di valutazione del personale dirigenziale, garantendo così imparzialità e trasparenza dei giudizi.

In base alle indicazioni del Ministro Bussetti, l’OIV ha ritenuto prioritario dare impulso a processi di rendicontazione sociale. È stato quindi promosso un gruppo di lavoro interdipartimentale preposto allo studio delle possibili modalità di rilevazione del grado di soddisfazione degli utenti, interni ed esterni, attraverso momenti di confronto, realizzando così una vera valutazione partecipativa.

L’iniziativa ha preso avvio in concomitanza con la prossima emanazione delle Linee Guida del Dipartimento della Funzione Pubblica che, nel prossimo autunno, avvierà una sperimentazione sul tema, alla quale il MIUR parteciperà. La finalità è incrementare il processo, già in atto, di passaggio da una concezione autoreferenziale dell’Amministrazione a una concezione sempre più rivolta ai bisogni e alle esigenze dei cittadini e degli utenti.

Fondamentale è stato anche l’apporto che l’OIV ha fornito nelle attività sul versante della prevenzione della corruzione, conformemente alle prescrizioni dell’ANAC.

Maturità, pregiudizi sul Sud

Maturità, pregiudizi sul Sud

Franco Buccino

(da La Repubblica ed. Napoli, 25 luglio 2019)

Siamo alle solite. Della maturità 2019, archiviate novità e simulazioni, superato lo scoglio di matematica con fisica, digerito le tre buste al posto della tesina, resta solo la polemica sulle regioni del Sud che hanno fatto incetta di 100 e lode. A cominciare dalla nostra regione, la Campania.

Una polemica che rischia quest’anno di essere più pungente del solito, sviluppandosi in un contesto di autonomia differenziata, che vede proprio sull’istruzione le maggiori contrapposizioni. I seri e compassati sistemi scolastici lombardo-veneti contro la gestione allegra e disinvolta delle prodighe scuole meridionali.

Premesso che, a scanso di equivoci, i dati forniti dal Miur confermano che nel Sud ci sono stati più 100 e lode che non altrove, bisogna forse guardare con più distacco e oggettività numeri e percentuali. A cominciare dalla Campania che ha il più alto numero di lodi, è vero, ma in numero assoluto, mentre in percentuale, cioè sul numero complessivo di diplomati, supera di poco la media nazionale, quasi 2% rispetto a 1,6%.

I voti alti e le lodi, come sanno tutti, si incontrano nei licei; nei classici il numero delle lodi raggiunge il 5,3%. Ebbene, la maggioranza degli iscritti al classico li troviamo nel Lazio e nelle regioni meridionali. E poi, a far venire qualche dubbio che i prof del Sud siano di manica larga, c’è un dato fornito dal Miur anch’esso interessante. La Campania è la regione col maggior numero di diplomati con 60, che è il voto minimo per ottenere il diploma.

Rimane comunque il fatto che le lodi sono di più al Sud. In palese contraddizione con le prove Invalsi, che vedono la classifica completamente ribaltata. E riprende piede la responsabilità degli insegnanti al Sud. Gli stessi che davano un aiutino ai loro alunni nello svolgimento delle prove Invalsi, prima che introducessero i computer (ricordate!), ora alzano i voti agli esami ai loro studenti.

C’è qualche pregiudizio di troppo nei confronti dei ragazzi del Sud e dei loro insegnanti. Intanto gli insegnanti, la maggior parte, per anni hanno insegnato nelle scuole del Nord. Fontana e Zaia vogliono far di tutto per non farli tornare a Sud. E li capiamo: un continuo turn over è un problema serio per le scuole. E però è difficile immaginare che gli stessi docenti al Nord siano seri e preparati, al Sud fannulloni e ignoranti.

Le prove Invalsi non servono ad emettere sentenze, avrebbero un senso se ne facessero un buon uso i decisori delle politiche scolastiche. La valutazione degli alunni spetta ai loro insegnanti, essi sanno il punto di partenza, l’impegno e il contesto in cui i ragazzi si muovono. Sì, forse qualche volta danno un sessanta a uno che non raggiunge la sufficienza, e qualche lode a ragazzi bravi, molto al di sopra della media, ma non eccellenti. Non è facile stare nelle scuole del Sud, sia per gli studenti che per i docenti. Con tutti i problemi di spazi, sicurezza, laboratori e palestre inesistenti o malridotti, le difficoltà degli enti locali a garantire un dignitoso diritto allo studio, niente sul territorio con cui integrarsi.

E non li aspetta, spesso, un destino diverso quelli che prendono sessanta o 100 e lode. Si ritroveranno in piazza disoccupati o con le valige per andarsene al Nord e all’estero a cercare un lavoro.

Gli argomenti (caldi) dell’estate

Gli argomenti (caldi) dell’estate

di Stefano Stefanel

Gli argomenti – caldi – dell’estate scolastica sono puntualmente assurti, come ogni anno, alla debole attenzione mediatica del momento. I tormentoni dell’estate si possono riassumere in alcune questioni concatenate tra loro:

  • i risultati delle prove censuarie (Invalsi, Ocse, ecc.) dicono puntualmente che esiste un forte ritardo in una parte consistente dei nostri studenti rispetto agli standard attesi ( il tutto riassunto nella frase “il 35% degli studenti di scuola media non capisce un testo di italiano” ) e tutte le statistiche rinnovandosi danno lo stesso dato;
  • i risultati dell’esame di stato conclusivo (quinta superiore) mostrano evidenti esiti migliori al sud piuttosto che al nord, contraddicendo i dati di cui sopra;
  • bisogna mettere mano alla didattica.

Come ogni anno a commentare questi “tormentoni” vengono chiamati in primo luogo quelli che di scuola capiscono poco o nulla, perché le loro conoscenze sull’argomento si sono fermate quando hanno terminato di frequentarla. Parlo dei professori universitari, degli scrittori, dei manager, degli psicologi, dei giornalisti, che non si limitano ad esprimere un commento su una situazione oggettivamente drammatica, anche se nota da anni, ma danno consigli su come invertire la tendenza. E come tutti i consigli dati da chi non ne capisce niente trasformano il tormentone estivo in una simpatica sequela di stupidaggini. Cito alcuni esempi tratti dalla “cagnara mediatica” estiva: bisogna far imparare di nuovo le poesie a memoria, bisogna togliere il multimediale dalla scuola, bisogna proibire l’uso dei dispositivi a scuola, bisogna insegnare più grammatica, bisogna bocciare di più, bisogna dare voti più bassi e non promuovere con aiuti di vario genere, bisogna fare meno progetti e più didattica, bisogna smetterla con le competenze e tornare alle conoscenze, bisogna selezionare meglio i docenti, bisogna far mettere agli studenti il grembiule, bisogna insegnare nuove materie a scuola, bisogna far leggere i classici, e via di seguito con banalità di livello infimo spacciate come grandi idee pedagogiche.

I più presenti in questa sequela di banalità sono professori universitari in servizio o in pensione (Galli della Loggia, Cacciari, Asor Rosa, ecc.), che vogliono occuparsi di ciò che ignorano e cioè la scuola, avendo fatto i professori universitari di un’elite studentesca, che loro dileggiano, ma che è tutto quello che abbiamo. Ma anche giornalisti e scrittori non sono da meno (D’Avenia, Augias), mentre gli psicologi guidati da Paolo Crepet e Umberto Galimberti si attestato sulla linea delle bocciature di massa salvifiche.

Non è facile entrare in questo guazzabuglio con argomentazioni sensate, anche perché chi è esperto di scuola (i dirigenti scolastici lo dovrebbero essere, ma – come potrebbe chiosare un 5 Stelle – “chi lo ha detto?”) analizza il problema in forma sistemica e non casuale. Il problema è che nessun uomo di scuola ha lo spazio mediatico che hanno i professori, gli scrittori, gli psicologi e i giornalisti e dunque  il rimando alla scuola del passato non tiene conto del fatto che è la scuola del passato che non vuole morire e che ci ha ridotto così. A scuola si parla di competenze, ma la fanno da padrone le mnemoniche conoscenze, spesso sbagliate perché la memoria inganna, ma il web no e dunque oggi – a differenza di ieri – se un grande professore cita un dato sbagliato o una data sbagliata in un attimo si scoprono il dato giusto o la data giusta e la conoscenza mnemonica va dove deve andare.

Non mi proverò neppure ad entrare nel complesso discorso sulla scuola di oggi, anche perché di solito lo faccio in maniera più distesa e documentata davanti a platee competenti. Però almeno sui punti centrali del tormentone mi permetto di dire due parole.

BOCCIATE, BOCCIATE, QUALCOSA RESTERA’

            L’idea che bocciando più studenti le cose andrebbero meglio cozza su alcune evidenze scientifiche facilmente enunciabili:

  • abbiamo la più alta dispersione dell’area OCSE e questo è considerato un enorme problema, tant’è che i trattati internazionali ci imporrebbero di diminuire la dispersione, mentre bocciando di più la dispersione solo aumenta;
  • una volta bocciati per gli studenti non c’è altra strada che rifare quello che hanno fatto l’anno precedente sperando vada meglio e quindi l’unico rimedio che abbiamo per recuperare le bocciature è la speranza che il soggetto bocciato si redima;
  • le classi piene di bocciati sono le peggio gestibili, con soggetti spesso patologici, fuori età, fuori contesto, fuori controllo;
  • sostenere la tesi delle maggiori bocciature significa sostenere la tesi di una classe docente perfetta a fronte di una classe discente imperfetta e dunque far ricadere solo sugli studenti i problemi del sistema;
  • disallineando con le bocciature gli studenti dalla propria età anagrafica non si fa che ritardare per quelli deboli l’ingresso nel mondo del lavoro, con curricoli scadenti e dunque perdenti.

Se le scuole avessero un piano per il recupero, la bocciatura in alcune materie sarebbe doverosa, ma, poiché chi viene bocciato deve rifare tutto, la pratica oltre che essere costosa è nociva e inutile. Chi va male per lo più continua ad andare male. C’è un’ossessione italiana per il “basso” che le preclude di guardare in alto e di vedere che il sistema migliora se migliora la sua parte alta e mediana. Invece interesse zero per gli studenti bravi ed ossessione punitiva per quelli che non ce la fanno: tipica idea universitaria dove i professori hanno come riferimento solo i più bravi e degli altri non si occupano, scambiando il proprio sistema di selezione delle eccellenze per la scuola di base.

VOTI AL SUD E VOTI AL NORD

            Il nord si indigna per i voti della maturità al sud. In realtà il nord rigoroso è ossessionato dai suoi studenti peggiori (che vuole bocciare e che boccia) e non sa tutelare i suoi studenti migliori come fa il sud. Per avere 100 o 100 e lode bisogna coltivare lo studente almeno dalla terza se non da prima, valorizzando quello che sa fare e non tenendogli i voti bassi per poi scoprire all’esame di stato che con quei voti di terza e quarta non può arrivare a 100 neppure se lo merita.

            La polemica sui voti al sud mostra la stessa faccia della richiesta di bocciature: l’assenza di una strategia vera per gli studenti più bravi e motivati per preservarne la bravura in funzione degli studi universitari e del lavoro. Il sud produce un sacco di ottimi studenti dentro un sistema scolastico complessivamente in fortissima crisi. Il problema non sono i voti alti che fanno bene alla società, ma il livello molto basso di tanti suoi studenti e i tassi preoccupanti di dispersione scolastica.

            L’esame di stato di quest’anno è stato improvvisato con metodologie introdotte ad anno in corso, ma è certamente andato nella direzione della certificazione di competenze e non del nozionismo di inizio estate. E’ un esame migliore di quello precedente, ma comunque un grande spreco di soldi e di tempo per una prova di iniziazione utile solo per fare da spartiacque tra la giovane e la matura età. Personalmente trasformerei la quinta superiore in un anno misto (scuola/università, scuola/mondo del lavoro) abolendo l’esame e l’inutile seconda prova difficile e solo penalizzante, sostituendo il tutto con una tesi su quando appreso in questo anno misto, sulla scia di quanto avviene all’Università: anche perché se bocciare un tredicenne o un quindicenne è atroce, bocciare un diciannovenne è una pura stupidaggine, perché lo si ritarda e basta nel suo ingresso all’università o nel mondo del lavoro spianandogli la strada verso il divano e l’attesa di una raccomandazione che lo collochi da qualche parte. Mentre sarebbe molto utile avere graduazioni reali sulle competenze degli studenti in uscita dal sistema scolastico.

DIDATTICA MON AMOUR

            I commentatori, convinti di essere anche sapienti, non si limitano a descrivere la “Waste Land” della scuola italiana, ma dispensano anche consigli, che qualunque pedagogista considererebbe da bocciatura in un qualunque esame di scienze della formazione. Anche qui in forma molto sintetica indico alcuni punti centrali, partendo dalla questione dell’uso degli strumenti multimediali:

  • la battaglia contro gli strumenti digitali ha più a che vedere con la Sacra Inquisizione che con la pedagogia: lo studente non dovrebbe avere contatti col web a scuola e questo imporrebbe un impianto poliziesco che neppure il Partito Comunista Cinese (che di repressione se ne intende) riesce a tenere in piedi;
  • la battaglia contro gli strumenti digitali è solo oscurantista perché da un giudizio di valore sul mondo che si trasforma, viene combattuta solo al mattino lasciando il resto del tempo di studio dello studente a connessione libera;
  • l’idea di tornare al sapere chiuso tra libri e enciclopedie va contro il meccanismo per cui col BYOD (Bring You Our Device) vivo con un’enciclopedia universale sempre addosso e sempre consultabile, magari se qualcuno mi insegna come fare rendendosi conto che “da pagina 72 a pagina 98” non vuole più dire nulla.

Da qui deriva tutto il resto. Una parte di questo “resto” si può sintetizzare così;

  • gli studenti non imparano a memoria poesie, ma tante altre cose;
  • gli studenti studiano meno grammatica ma scrivono e leggono tanto di più, solo che scriviamo e leggiamo cose diverse dai libri, quindi l’approccio per migliorare la comprensione deve battere strade diverse da quelle battute un tempo;
  • gli studenti comunicano molto, ma soprattutto in forma sintetica e nessuno insegna loro come si fa, per cui a scuola si insegna come espandere la lingua, mentre il mondo vive di sintesi;
  • la classe docente valuta senza aver mai studiato valutazione, cioè lo fa in forma empirica su standard per lo più culturali auto definiti e valutati secondo parametri propri (una cattiva prassi valutativa è l’anticamera della dispersione);
  • la nostra arretratezza nasce soprattutto dalla nostra rigidità e dal privilegiare l’anzianità sul merito con ricadute di non poco conto sugli studenti più deboli lasciato spesso in mano a docenti disciplinaristi poco in linea col mondo che cambia.

Così, giusto per concludere: si dice che gli studenti leggono poco e si informano solo sul web. Un’indagine interessante sarebbe quella tendente a stabilire il numero dei docenti che la mattina comprano il giornale. Io lo ritengo un dato sconosciuto ma significativo.