Scuola vecchia e scuola nuova

Scuola vecchia e scuola nuova

di Maurizio Tiriticco

Giovanni Pacchiano su “la Repubblica” del 3 agosto pubblica un articolo dal titolo per certi versi accattivante: “Vecchia scuola come eri bella”. E dal sottotitolo ancora più accattivante! “C’era una volta un luogo emotivo fatto di presidi-custodi e lezioni di vita. Con lavagne non multimediali”. Comincio ad avanzare qualche sospetto! Poi vado all’occhiello e leggo: “L’analfabetismo di ritorno”. I sospetti si aggravano! Leggo! E constato che si tratta di tutto un rimpianto per la scuola di un tempo! Ed anch’io, con i miei novant’anni e passa, qualche bel ricordino ce l’ho, e mi scappa pure qualche lacrimuccia. Procedo nella lettura e poi incappo nel passo che segue e che copio:
“E che dire dell’insegnante che deve evitare il più possibile la lezione frontale, ma impegnarsi ad organizzare attività, individuali e collettive, di apprendimento, di ricerca, di scoperta, di organizzazione, di produzione. Un facilitatore e un intrattenitore”. Nessuna obiezione, finora, ma poi segue un’affermazione categorica: “La lezione frontale rimane un momento indispensabile dell’insegnamento”. Dell’insegnamento, appunto! E qui casca l’asino, come si suol dire. Pacchiano sembra dire: Tutte le altre “cosucce” che si possono fare in un’aula, le si facciano pure! I tempi sono cambiati! E pure gli studenti! Quindi… “divertitevi pure”, ma cardine del buon insegnamento resta pur sempre la lezione frontale! Insomma, a detta di Pacchiano, tutte le ricerche, e le pratiche, che sono state condotte in fatto di didattica – la pedagogia è un’altra cosa: è una disciplina di ricerca – in questi ultimi anni, se non decenni, sono acqua fresca! La lezione frontale – secondo Pacchiano – è pur sempre il cardine di una buona e produttiva attività di insegnamento. E forse anche salvifica per una scuola in crisi? Questo non lo so!
Consiglio a Pacchiano di leggere attentamente le Indicazioni Nazionali che disciplinano le attività di apprendimento/insegnamento nell’istruzione obbligatoria e nei Licei; e le Linee guida, che disciplinano le attività di apprendimento/insegnamento negli Istituti Tecnici e negli Istituti professionali. Attenzione: sottolineo l’espressione apprendimento/insegnamento e l’adozione della slash invece del trattino. Il trattino divide; la slash invece sottolinea la contiguità, la continuità. E l’apprendere “viene prima” dell’insegnare! Nei citati documenti ministeriali si indicano didattiche inclusive e motivanti, nonché la didattica laboratoriale, che non riguarda la presenza di un laboratorio in senso stretto, di fisica, chimica od altro. Viene suggerita in quanto didattica che potremmo definire partecipativa, coinvolgente. Che implica anche e soprattutto un insegnante diverso, che non “fa lezione”, ma adotta strategie perché gli alunni siano attivi, pongano domande. Il che, ovviamente, non è cosa facile! Animare e coinvolgere un gruppo implica una particolare competenza e professionalità. Perché dunque la didattica laboratoriale?
Mi piace citare dal web Giovanni Marconato, psicologo e formatore, che così si esprime in proposito: “La didattica laboratoriale è una strategia di insegnamento e di apprendimento nella quale lo studente si appropria della conoscenza nel contesto del suo utilizzo. Questo in contrasto con la didattica convenzionale in cui la conoscenza viene proposta agli studenti in isolamento da ogni suo utilizzo e per le sue caratteristiche generali. La didattica laboratoriale tende a superare due tra le cause principali di un apprendimento superficiale, riproduttivo e che genera un transfer limitato delle conoscenze all’interno e all’esterno della scuola: la separazione dei momenti di costruzione e di utilizzo della conoscenza e la natura decontestualizzata del sapere”.
E qui entra in gioco il ruolo dell’insegnante, il quale, passo dopo passo, costruisce con gli studenti la sua attività. Nei miei numerosi scritti in materia, sempre reperibili sul web, sono sempre ricorso alla grande lezione di Dario Fo! Grande attore nel recitare e nel rappresentarci ampi squarci della cultura di certi periodi nella nostra storia popolare. Come non ricordare il suo “Mistero buffo”? Copio dal web: “Presentato per la prima volta come giullarata popolare nel 1969, è di fatto un insieme di monologhi che descrivono alcuni episodi ad argomento biblico, ispirati ad alcuni brani dei vangeli apocrifi o a racconti popolari sulla vita di Gesù. Ebbe molto successo e fu replicato migliaia di volte. È recitato in una lingua reinventata, una miscela di molti linguaggi fortemente onomatopeica detta grammelot, che assume di volta in volta la cadenza e le parole, in questo caso, delle lingue locali padane”.
Ebbene, la drammatizzazione di quei testi operata dal consumato attore che era Dario Fo, coinvolgeva e fortemente, il suo pubblico. Rendere attuali e vivi testi di tanti anni fa ed assolutamente ostici alla lettura, fu una grande lezione che Fo ci dette! E mi dette personalmente. Come rendere appetibile un canto di Dante od un capitolo dei Malavoglia ad una platea di studenti di oggi, attratti e distratti dai mille messaggi che la società contemporanea veicola in tempi ridottissimi? E’ cosa certa che l’insegnante vagheggiato da Pacchiano, serioso e compos sui, è condannato ad un sicuro fallimento. La vecchia scuola era bella e non può riproporsi oggi. A tempi diversi una scuola diversa! Oggi diversi sono gli studenti e diversi devono essere gli insegnanti. Rimpiangere la vecchia scuola è solo una gran perdita di tempo! Concludendo, è il concreto “comportamento insegnante” in aula, oggi, che determina in negativo o in positivo l’esito della sua attività. Mirata sempre a far raggiungere a ciascun alunno il suo personale “successo formativo” come recita la norma!