Petizione relativa alla legge 92/2019

Comunicato

Dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge 92/2019 (Introduzione dell’insegnamento scolastico dell’educazione civica), sette docenti del Polo Liceale di Monopoli – IISS Galilei – hanno deciso di scrivere una petizione da inviare al nuovo Ministro dell’Istruzione per esporgli tutte le ragioni di perplessità sulla legge in questione e chiederne una revisione. Con nostra grande sorpresa il 99 per cento dei colleghi (85 docenti) del Polo Liceale ha condiviso i punti della petizione e l’ha sottoscritta. Nelle prossime ore la invieremo al Ministro. Stiamo invitando molte altre scuole a fare altrettanto. Riteniamo che sia importante rimarcare con forza che la legge, della quale condividiamo lo spirito di fondo, prevede però l’introduzione di una nuova disciplina con modalità discutibili, chiedendo, ad esempio, ad ognuna delle altre discipline – con criteri non facilmente individuabili, anche in virtù di linee guida ancor oggi al vaglio del Consiglio superiore della pubblica istruzione – di fare un passo indietro per ricavare le 33 ore annue che verrebbero destinate all’insegnamento dell’educazione civica. Auspichiamo che la pubblicazione di questo comunicato possa indurre altre scuole ad operare per ottenere una revisione della legge nei suoi aspetti più problematici, così come essi sono descritti nella petizione.

Infine teniamo a chiarire che quella che esponiamo non è la posizione “ufficiale” della nostra scuola, ma il parere corale dei docenti che hanno redatto e sottoscritto la petizione.


Petizione

La recente approvazione della legge 20 agosto 2019, n. 92 ha introdotto l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole. Premettendo che condividiamo l’idea di fondo che anima tale legge, riteniamo tuttavia opportuno sottolineare con forza che l’applicazione della norma, così come essa è stata varata, non permetterebbe il raggiungimento dei fini che essa si pone per i seguenti motivi:

1) la legge obbliga le scuole a dedicare 33 ore annue al suddetto insegnamento, senza però incrementare il numero di ore settimanali; ciò significa che tali 33 ore dovranno essere letteralmente sottratte a quelle che erano previste dal curricolo fino allo scorso anno: non si tratta quindi di un’ora in più, ma di un’ora tolta alle altre discipline;

2) l’art. 13 della suddetta legge stabilisce che tale reintroduzione non deve comportare “nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”: ciò di fatto significa che estensori e firmatari della legge decidono che lo Stato non deve farsi carico di una riforma giudicata così importante, non essendo prevista alcuna risorsa per finanziarla (eccetto, come recita l’art. 6, una somma “destinata alla formazione dei docenti sulle tematiche afferenti all’insegnamento trasversale dell’educazione civica”, somma che però, chiarisce lo stesso articolo, è una quota (10%) della spesa annua per la formazione già autorizzata con la legge 107/2015, non stanziata con la legge 92/2019): si proclama un cambiamento, ma non si stanziano fondi per attuarlo. Francamente tutto ciò appare contraddittorio: se si considera così imprescindibile questa svolta, come mai non si è disposti ad investire per essa nemmeno un euro? Detto altrimenti: si chiede per l’ennesima volta alla Scuola di fare di più con le stesse risorse e si scarica sul docente il peso di far fronte a tale improba impresa. Questo atteggiamento, già poco giustificabile sul piano della coerenza, appare manifestamente offensivo per una categoria professionale già pesantemente marginalizzata nella vita di questo Paese;  

3) in genere l’insegnamento di una disciplina è vincolato a una formazione specifica e al superamento di un esame abilitante: in questo caso invece (e in particolare nella attuale, concitata fase di applicazione emergenziale e “sperimentale” della legge) disattendendo il dettato costituzionale per cui si accede ai ruoli pubblici per concorso (ivi inclusi i percorsi abilitanti),  gli insegnanti verrebbero investiti di una nuova responsabilità didattica senza alcuna formazione preliminare e senza il superamento di alcun concorso: per la prima volta in cattedra salirebbero docenti non formati o abilitati; la confusione – lo ribadiamo, soprattutto nel corrente anno scolastico – è facile a prevedersi e, in parte, si è già apertamente palesata;

4) la legge, all’art. 3, prevede un ventaglio di obiettivi di apprendimento troppo vasti ed eterogenei (laddove non manifestamente estranei a ciò che si debba intendere con “educazione civica”, a meno che non si voglia ampliare in modo vagamente onnicomprensivo il significato di questa locuzione) perché se ne possa ricavare una trattazione organica ed unitaria; tra gli altri, prevede la tutela “delle eccellenze territoriali e agroalimentari”, “l’educazione stradale” e “l’educazione alla salute e al benessere”; sottolineiamo ciò per rimarcare che non siamo affatto contrari alla reintroduzione dell’insegnamento dell’educazione civica, ma decisamente perplessi che quest’ultima possa includere, nelle modalità indicate dalla legge, gli argomenti succitati;

5) l’art. 5 – il più esteso della legge – si sofferma sulla cosiddetta “cittadinanza digitale”, dando per scontato che l’incremento dell’utilizzo delle tecnologie digitali sia di per sé sinonimo di potenziamento delle proprie competenze di cittadinanza, laddove invece la letteratura scientifica (vedi su tutti i lavori di Manfred Spitzer sugli effetti devastanti del digitale nel sistema scolastico tedesco) ha chiaramente dimostrato che dovunque il digitale sia stato ampiamente utilizzato ha peggiorato le capacità relazionali e cognitive dei ragazzi; la legge propone il digitale come uno strumento irrinunciabile per “interagire”, “partecipare” e promuovere “la crescita personale”: è sotto gli occhi di tutti quanto tutto ciò non venga affatto stimolato dall’uso degli smartphone.

Chiediamo che:

1) l’introduzione dell’insegnamento dell’educazione civica avvenga in altri modi, innanzitutto senza l’utilizzo dello stesso monte orario previsto settimanalmente fino allo scorso anno e che adesso la legge vorrebbe adoperato per insegnare una disciplina in più: adempiere al dettato della legge significherebbe fare sempre più cose, ma farle peggio, cioè più superficialmente, quindi inutilmente. Dunque revisione degli articoli 2 e 13 della legge;  

2) si intraprenda un percorso di seria riflessione sui danni del digitale (rivedendo l’articolo 5 della legge), così da individuare vie (legislative) per limitarne responsabilmente l’uso ipertrofico da parte degli adolescenti, al fine di recuperare una dimensione conoscitiva, emotiva e relazionale più confacente a quel che evolutivamente, psicologicamente, antropologicamente siamo.

Bullismo, concorso di colpa per la reazione violenta della vittima

da Il Sole 24 Ore

di Andrea Alberto Moramarco

In caso di reazione violenta da parte della vittima di bullismo nei confronti del “bullo”, deve essere riconosciuto il concorso di colpa anche se l’aggressione è avvenuta in un secondo momento, dovendosi tener conto, sotto il profilo della causalità e in termini di equità, delle vessazioni precedentemente subite dallo studente, non tutelato dalla scuola. Ad affermarlo è la Cassazione con una densa ed articolata ordinanza (22541/2018), nella quale si dà rilievo altresì all’importanza dell’educazione impartita dai genitori ai propri figli.

Il caso
La vicenda prende le mosse da un litigio scoppiato nelle vicinanze di una scuola tra due studenti, all’esito del quale uno di essi riportava, a causa di un pugno sul volto, un’avulsione traumatica ad un dente ed escoriazioni al labbro. In seguito all’accaduto si apriva un procedimento penale nei confronti del ragazzo-aggressore, che si concludeva con una sentenza di non luogo a procedere, in quanto i giudici del Tribunale dei minorenni avevano rilevato la presenza della provocazione e perciò ritenevano l’alunno non meritevole di sanzione penale.

La controversia si spostava così dinanzi ai giudici civili, ai quali il ragazzo-aggredito chiedeva che gli fosse riconosciuto un cospicuo risarcimento del danno da parte del suo aggressore, nonché dei suoi genitori ex articolo 2048 Cc, in quanto responsabili in solido del fatto illecito commesso dal loro figlio minore. In tale sede emergevano poi più chiaramente due aspetti della vicenda: i continui atti di bullismo, a cui il ragazzo-aggressore avrebbe reagito, e la giustificazione della reazione di quest’ultimo da parte dei suoi genitori. In primo grado, il Tribunale escludeva la responsabilità dei genitori e riconosceva un concorso di colpa tra i due ragazzi, mentre la Corte d’appello al contrario riconosceva la responsabilità in base all’ articolo 2048 Cc ed escludeva il concorso di colpa dell’alunno aggredito.

Il ruolo dei genitori
La delicata questione giunge così in Cassazione, dove i giudici di legittimità chiariscono alcuni aspetti giuridici della vicenda e offrono al contempo importanti spunti di riflessione sull’importanza dell’educazione impartita dai genitori e sulla piaga del bullismo. Quanto al primo tema, la Suprema corte ricorda come per andare esenti da responsabilità i genitori avrebbero potuto e dovuto provare di aver impartito al proprio figlio «un’educazione consona alle proprie condizioni sociali e familiari», ovvero di aver «esercitato sul minore una vigilanza adeguata all’età e finalizzata a correggere comportamenti non corretti», sicché l’azione violenta del figlio non avrebbe potuto essere imputabile ad una loro negligenza educativa. I genitori, invece, si sono limitati a giustificare l’azione violenta del figlio quale risposta alla serie di soprusi di cui era stato vittima, «dimostrando di non aver percepito il disvalore della condotta del figlio e la gravità del fatto imputatogli». Pertanto, dal punto di vista giuridico, per la Cassazione sussiste una responsabilità dei genitori per il fatto illecito commesso dallo studente.

La piaga del bullismo
Quanto al tema del bullismo, i giudici di legittimità ritengono doveroso contrastare questo delicato fenomeno sociale, anche attraverso il riconoscimento di una sua valenza, in casi come quello di specie, dove non è sufficiente ragionare giuridicamente in termini di stretta causalità generale, ma è opportuno valutare in termini di equità la causalità individuale, dando cioè rilevanza alle costanti provocazioni subite nel tempo dal ragazzo che hanno portato ad una sua aggressione violenta. Ciò vale soprattutto quando la vittima degli atti di bullismo sia un adolescente, in quanto «la sua personalità non si è ancora formata in modo saldo e positivo» rispetto agli avvenimenti di cui è suo malgrado protagonista, essendo possibile che la sua reazione si risolva, «a seconda dei casi, nell’adozione di comportamenti aggressivi internalizzati che possono trasformarsi […] in forme di resilienza passiva e auto conservative, evolvere verso forme di autodistruzione, oppure tradursi, come è avvenuto nel caso di specie, nell’assunzione di comportamenti esternalizzati aggressivi».

Per i giudici di legittimità, inoltre, «il bullismo non dà vita ad un conflitto meramente individuale» e richiede «un coacervo di interventi coordinati» che possano arginare il fenomeno. Per il Collegio, che rimarca pesantemente l’assenza totale di una presa di posizione dell’istituto scolastico nei confronti dei bulli e contro il fenomeno del bullismo, è «doveroso che l’ordinamento si dimostri sensibile verso coloro che sono esposti continuamente a condizioni vittimizzanti idonee a provocare e ad amplificare le reazioni», soprattutto ove la vittima «venga lasciata sola nell’affrontare il conflitto».

Pertanto, dal punto di vista giuridico, in attesa che «si diffondano forme di giustizia ripartiva specificamente calibrate sul fenomeno del bullismo», per la Suprema corte è necessario condannare tanto i comportamenti prevaricatori quanto quelli reattivi, «senza mortificare le regole causali, né utilizzarle come giudizi di valore», accedendo ad una piano di valutazione complessiva di tutti i fattori concausali della vicenda.


Italia «avara» nell’istruzione: spesa ferma al 3,6% del Pil

da Il Sole 24 Ore

di Eugenio Bruno, Claudio Tucci

L’Italia dell’istruzione spende poco. E soprattutto male. A ricordarcelo è stata ieri l’Ocse che ha presentato il rapporto annuale Education at a glance 2019. Quasi 500 pagine di analisi, statistiche e tabelle che viste dal di qua delle Alpi somigliano molto da vicino a un cahier de doléances in versione tricolore. In cui i nodi irrisolti del nostro sistema scolastico e universitario trovano spazio uno accanto all’altro: da una spesa complessiva pari al 3,6% del Pil (contro una media del 5%) a una percentuale di laureati ancora troppo bassa; da una classe docente in cui il 59% degli insegnanti ha più di 50 anni e in cui la parola “carriera” praticamente non esiste, a una percentuale di Neet quasi doppia rispetto al resto dei paesi industrializzati. Ed è con questo scenario che devono fare i conti il nuovo governo e il neo ministro Lorenzo Fioramonti. Anche in vista delle gradi sfide che già si profilano all’orizzonte da qui a dieci anni, come il calo di un milione di studenti e la necessità di sostituire metà dei prof in organico.

La spesa complessiva

Il quadro di insieme che esce dal rapporto dell’organizzazione parigina è sconfortante. Per finanziare la lunga filiera che va dalla scuola primaria all’università l’Italia investe più o meno il 3,6% del suo Pil contro il 5% di media Ocse. Con una forbice che cresce mano mano che il livello d’istruzione sale. Alle elementari la spesa italiana per studente ammonta a 8.000 dollari statunitensi (-6% della media Ocse); alla secondari sale a 9.200 dollari (-8% ); per arrivare agli 11.600 dollari dell’università(-26%). In un contesto generale che ha visto l’esborso per la scuola diminuire del 9% tra il 2010 e il 2016 laddove gli studenti sono calati, rispettivamente, dell’8 %(scuola) e dell’1% (università). Il punto è che, per la scuola, si continua però a spendere male, visto che quasi il 90% del bilancio del Miur serve a retribuire il milione e più di dipendenti. Per l’università, occorre invece uno scatto di reni.

Università in ritardo

Investire o meno negli atenei diventa ancora più importante in un paese come il nostro storicamente povero di laureati. Ebbene gli italiani in possesso di una laurea sono il 19% dei 25-64enni e il 28% dei 25-34enni. Laddove i nostri competitor viaggiano al di sopra del 30%(Germania), 40% (Spagna e Francia) o 50% (Regno Unito). Un gap che difficilmente colmeremo a breve se si iscriverà a un corso universitario il 37% degli under 25 contro il 45% di media Ocse. E infatti anche all’organizzazione parigina appare evidente che i nostri connazionali «hanno bisogno di ulteriori incentivi per iscriversi all’università e per laurearsi».

I nodi irrisolti della scuola

Dopo le varie stabilizzazioni di docenti precari degli anni passati la scuola italiana continua ad avere il corpo insegnante più anziano tra i paesi Ocse: raggiungiamo il 59% di prof ultra 50enni. Entro i prossimi 10 anni, quindi, dovremmo sostituire circa la metà degli attuali insegnanti (e già si annunciano nuovi concorsi nei prossimi mesi). Tutto ciò mentre i giovani in cattedra restano mosche bianche: tra i 25-34enni abbiamo appena lo 0,5% di docenti. Se è poi vero che lo stipendio dei professori è mediamente basso e piatto per tutta la carriera, è altrettanto vero che il numero di ore di insegnamento nette è inferiore alla media: alle superiori 617 ore di lezione contro 667; alle medie 671 contro 709.

L’emergenza Neet

Senza dimenticare l’emergenza nell’emergenza di chi a scuola non ci va proprio, né lavora: i cosiddetti «Neet». Che da noi sono il 26% dei 18-24enni, rispetto al 14% degli altri paesi Ocse. E qui vantiamo un record che troviamo solo in Colombia: un tasso superiori al 10% sia di inattivi che di disoccupati. Tra l’altro, di lunga durata. Dividiamo, stavolta con la Grecia, un altro “primato”: più della metà degli under 25 è rimasta senza un impiego almeno per un anno. Nonostante i proclami che accompagnano ogni rifinanziamento di Garanzia giovani.


Negli istituti tecnici occupati al 68% ma pochi iscritti

da Il Sole 24 Ore

di Cl. T.

C’è un segmento della scuola italiana che funziona piuttosto bene, ma purtroppo è poco conosciuto da famiglie e studenti: è l’istruzione tecnica e professionale. I numeri parlano di un paradosso di casa nostra. Che da noi i percorsi subito “tecnico-pratici” siano un passepartout per il lavoro ce l’ha ripetuto ieri persino l’Ocse: il 68% dei 25-34enni con una qualifica tecnico-professionale ha un impiego. Si tratta di una percentuale «simile» rispetto ai laureati; e viaggiamo addirittura «in controtendenza» rispetto alla maggior parte degli altri paesi Ocse dove il tasso di occupazione è superiore per i giovani adulti laureati. Eppure al momento della scelta della scuola secondaria questi dati non vengono pubblicizzati: il nuovo anno è appena iniziato e la percentuale di iscritti agli istituti tecnici si conferma al 31% del totale nei neo-ingressi; si scende al 14,4% tra i professionali. Vanno meglio i percorsi di istruzione e formazione professionale regionali (specie da Napoli in su).

Il punto è che “non si sfonda”; e questo paradosso ha un effetto diretto molto concreto: il forte mismatch in primis tra i settori manifatturieri, in deciso rialzo, evidenziato anche dalle inchieste condotte da questo giornale nelle scorse settimane. Tra i motivi alla base del mancato decollo dell’istruzione tecnica ci sono nodi di sistema, come il poco orientamento in uscita dalle scuole medie, la scarsa pratica laboratoriale, e di recente, l’alternanza scuola-lavoro dimezzata. Ci sono poi questioni culturali, come la diffusa tendenza a posticipare l’incontro con il lavoro. In Italia, ad esempio, è radicato il motto “prima studi, poi lavori”. Da noi, infatti, appena il 4,4% di under 25 studia e ha un contatto iniziale con le aziende, in Germania è il 36,8 per cento. A ciò si aggiungano due questioni che riguardano direttamente il mondo delle imprese: gli apprendistati duali sono pressoché impossibili, e mancano partnership strutturate tra scuole e imprese. Nel nostro ordinamento abbiamo le reti di scuole da un lato, le reti di impresa dall’altro. Non c’è una governance condivisa. In Italia il mismatch dipende anche dai bassi numeri sui laureati (e soprattutto laureate) nelle discipline Stem e da quelli ancora minori in uscita dal canale formativo, secondario e terziario, professionalizzante.

Eppure, nonostante questi “freni”, l’istruzione tecnico-professionali si conferma una formazione di livello, e, sempre secondo l’Ocse, rappresenta «un percorso efficace per l’ingresso nel mondo del lavoro». «Ne siamo convinti da sempre – ha spiegato Cristina Grieco (Toscana), coordinatrice degli assessori regionali a Istruzione Lavoro -. Serve rilanciare questi percorsi, rafforzando l’orientamento».

Non c’è dubbio che la fotografia scattata dall’Ocse «mostra il valore dell’istruzione tecnica italiana – ha aggiunto Gianni Brugnoli, vice presidente di Confindustria con delega all’Education -. In Italia chi ha un diploma tecnico ha le stesse chance di trovare lavoro di un laureato, perché forte è l’interazione tra queste scuole e le imprese. Stiamo parlando di percorsi di altissima qualità che nobilitano i ragazzi con una formazione che garantisce occupazione. Credo che sarebbe corretto rinominare gli istituti tecnici “Licei Tecnici”. Una provocazione che riuscirebbe da un lato a riconoscerne l’eccellenza e, dall’altro, a renderli più attrattivi».

Meno ore frontali più tecnologia, il modello Finlandia sulla scuola

da Il Sole 24 Ore

di Claudio Tucci

L’innovazione della scuola italiana passa dal modello finlandese e, più in generale, da quello Nord Europeo: un orario scolastico ridotto e nuove tecnologie per mettere a punto insegnamenti trasversali. Per il neo ministro dell’Istruzione Fioramonti è anche necessario proseguire sulla strada dei concorsi per insegnanti

Alle prime uscite pubbliche il neo ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, ha fatto riferimento al modello finlandese per innovare la scuola italiana e ha assicurato di voler proseguire sulla strada dei concorsi anche per superare un precariato in cattedra ormai dai numeri record. Ha anche detto di voler incrementare i fondi per scuola e ricerca. Nelle linee programmatiche del nuove esecutivo giallo-rosso si parla espressamente di miglioramenti economici per i docenti.

GUARDA IL VIDEO – Emergenza professori: nelle scuole è corsa ai supplenti

Il modello finlandese
I punti salienti del modello finlandese, e più in generale Nord Europeo, di scuola passa per un orario scolastico ridotto e nuove tecnologie per mettere a punto insegnamenti trasversali, con l’uso di linguaggi più semplici e accessibili e un modo divertente e accattivante per avvicinare gli studenti alle materie più ostiche, come la matematica. Primo ciclo e superiori hanno durate diverse, e queste ultime sono strutturate sulla falsariga degli atenei, in cui “pesa” l’insufficienza anche in una singola materia. In Finlandia il finanziamento pubblico dell’istruzione è più elevato di quello italiano, e il sistema di valutazione di studenti e docenti è molto avanzato.

Precariato
A prescindere se diventeremo più o meno simili alla Finlandia, l’altro impegno, concreto, indicato da Fioramonti sono i concorsi. Il precedente governo aveva previsto un pacchetto di selezioni, anche per stabilizzare i precari storici. Lo scorso 6 agosto è stato approvato, sempre dal precedente esecutivo, un decreto “Salva precari” con la formula «salvo intese» per tutelare i circa 55mila docenti, non abilitati, della terza fascia con oltre 36 mesi di servizio alle spalle. I sindacati premono per sbloccarlo. Il ministro ha fatto intendere che per i concorsi riservati sarà dato più spazio alla meritocrazia: dunque per essere assunti, anche i precari storici dovranno dimostrare di avere competenze e conoscenze idonee per l’insegnamento, come da sempre chiedono i parlamentari M5S. Fioramonti è poi tornato su un suo “cavallo di battaglia”: le tasse di scopo per ottenere risorse aggiuntive per finanziare scuola e ricerca. L’obiettivo per lui è avere una scuola di qualità e tornare alla figura di insegnante «che sia un punto di riferimento».

Il nuovo Ccnl
In vista della manovra, poi, Fioramonti avrà davanti a se un altro nodo: trovare i soldi per rinnovare il Ccnl. Il precedente ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, aveva parlato, per gli insegnanti, di «aumenti a tre cifre». Per assicurare i 100 euro e gli 11,5 medi dell’elemento perequativo, secondo i primi calcoli del Miur, servono circa 2,2 miliardi. Di questi 800 milioni sono già previsti nella precedente legge di bilancio. Occorrerà recuperare i restanti 1,4 miliardi.

«InspirinGirls – Il futuro come lo vuoi» compie due anni

da Il Sole 24 Ore

di Redazione Scuola

Compie due anni il progetto InspirinGirls, promosso nel nostro Paese da Valore D, in partnership con Eni, Intesa Sanpaolo e Snam, e con il patrocinio del Miur. Il progetto sta portando tra i banchi delle scuole medie professioniste, scienziate, sportive e manager che possano spronare ragazze e ragazzi a non porsi limiti nella definizione del proprio percorso e a seguire le proprie ambizioni, qualunque esse siano, libere da stereotipi di genere ancora molto radicati nella nostra società.

Il progetto InspirinGirls è arrivato in Italia nel 2017 e ad oggi le role model hanno incontrato oltre 17mila ragazzi in 236 scuole in 52 province e 18 regioni italiane. Il loro è un messaggio forte che ha eco anche dopo l’incontro, così come emerge dall’indagine di InTribe promossa da Valore D, per capire quali preconcetti hanno i ragazzi, come gli adulti influenzano il loro modo di pensare e qual è l’impatto degli incontri.

In base alla ricerca – che ha coinvolto 2.948 ragazzi e ragazze in tutta Italia – la maggioranza di loro ricorda molto bene l’incontro con la role model, in particolar modo le ragazze (67%, rispetto al 54% dei maschi), con un particolare impatto nel Sud Italia. Quasi tre quarti (73%) dei ragazzi ha condiviso l’esperienza con la propria famiglia, aprendo un dialogo sul proprio futuro. Sono le ragazze ad averne parlato a lungo (il 21% rispetto al 15% dei maschi), con una percentuale ancora maggiore al Sud (il 27%). L’argomento che è stato ripreso anche in classe con i professori dalla maggioranza degli studenti (70%).

Gli incontri hanno quindi contribuito a far riflettere i ragazzi e le ragazze sulle proprie scelte per il futuro lavorativo: la grande maggioranza di loro (67%) ha dichiarato che la role model ha influenzato questa scelta, in particolar modo per le ragazze (72% rispetto al 62% dei ragazzi).

Il 24% del totale rispondenti dichiara di aver capito di poter scegliere qualsiasi tipo di lavoro, il 19% di poter realizzare i propri sogni (tot. 43%). È interessante osservare come i ragazzi delle scuole del Sud abbiano recepito con più forza il messaggio che “non ci sono lavori da maschi e da femmine” (il 13% di loro rispetto alla media dell’8% del resto d’Italia).

Questi risultati confermano quanto ancora gli stereotipi di genere siano presenti nell’educazione dei ragazzi e ne influenzino il futuro. Prima dell’incontro infatti il 39% dei ragazzi erano convinti che ci fossero «lavori da maschi e lavori da femmine», soprattutto i ragazzi (44% rispetto al 35% delle ragazze). Interessante notare che da un anno all’altro – dalla seconda alla terza media – questi stereotipi di genere si rafforzano (dal 36% al 45%) ma che nelle famiglie dove entrambi i genitori lavorano questo dato è inferiore, a conferma dell’importanza dei modelli di comportamento.

L’indagine è stata completata da una serie di incontri – a Milano, Roma e Palermo – per approfondire in maniera qualitativa i risultati. In tutte e tre le città i dialoghi con i ragazzi hanno confermato con maggiori dettagli i risultati dell’indagine e l’impatto particolarmente significativo tra i ragazzi delle scuole del Sud.

«I risultati di questa indagine – ha spiegato Barbara Falcomer, direttrice generale di Valore D – confermano la validità del progetto e quanto sia fondamentale lavorare sui pregiudizi di genere, ancora così radicati in famiglia e a scuola, per consentire sia ai ragazzi sia alle ragazze di esprimere al meglio il proprio potenziale. Il dato che ci fa particolarmente piacere è che l’incontro con le role model attivi un confronto successivo con insegnanti e genitori, aspetto cruciale per lavorare a 360° sul cambiamento culturale».

Sarà l’anno della «supplentite» Tutte le incognite della partenza

da Corriere della sera

G.F.

Sarà l’anno dei supplenti con buona pace delle riforme e dei proclami degli ultimi anni. Però gli otto milioni di studenti che in questi giorni stanno riprendendo la scuola troveranno ad accoglierli 2.000 nuovi presidi e dunque c’è da pensare che ogni scuola avrà il suo dirigente. Quanto ai prof, invece sarà una vera e propria lotteria: chi avrà pescato il biglietto fortunato troverà l’orario completo, gli altri dovranno aspettare i supplenti. Quest’anno è previsto un record di contratti lunghi (tutto l’anno scolastico o quasi) anche per i neolaureati o gli universitari che si metteranno a disposizione dei presidi secondo la procedura «mad»: se un preside non trova un insegnante in nessuna graduatoria può rivolgersi a loro. I rischi maggiori sono destinati agli studenti con disabilità che richiedono l’insegnante di sostegno: i conti fatti dai sindacati in questi giorni certificano la mancanza di 60 mila professori specializzati (dei circa 150-200 mila supplenti complessivi) per quest’anno scolastico: si procederà cercando nelle altre graduatorie con supplenti vari.

Già nelle prossime settimane il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti dovrà — prima di mettere mano alle riforme annunciate dal premier Conte su scuole e asili — sciogliere alcuni nodi che sono rimasti irrisolti. Due riguardano gli insegnanti: si tratta di bandire i concorsi tanto attesi per quasi settantamila posti. Soltanto se l’iter sarà senza intoppi si può sperare di avere nuovi prof per il prossimo anno scolastico e ridimensionare la «supplentite».

Il secondo riguarda il decreto che non a caso si chiama «salva-precari»: servirebbe a dare l’accesso a percorsi di immissione in ruolo abbreviati e facilitati ai precari che hanno almeno tre anni di lavoro nelle scuole. Per gli studenti intanto le incertezze del nuovo anno sono anche altre: innanzitutto l’educazione civica. Fioramonti ha detto che farà di tutto perché la sperimentazione parta da subito ma il consiglio superiore dell’Istruzione si pronuncerà soltanto domani sulla proposta di far partire comunque la nuova materia anche se ad anno scolastico già iniziato, poi serve un decreto del ministro: le scuole intanto si stanno preparando a questa nuova materia non materia che avrà il voto in pagella ma per la quale si useranno ore «rosicchiate» qua e là nell’orario scolastico. Tra i primi provvedimenti poi Fioramonti dovrà decidere che cosa fare con le prove Invalsi della quinta superiore: al momento sono requisito obbligatorio per essere ammessi alla maturità. Il ministro Bussetti aveva fatto una moratoria di un anno prima di far entrare in vigore le nuove norme e nei mesi scorsi sembrava intenzionato a rendere definitiva la sua decisione di considerare facoltativa la prova delle competenze. Addirittura avrebbe voluto renderla non obbligatoria anche in terza media. Ma finché il nuovo ministro non si esprimerà con un decreto, le prove restano obbligatorie.

Dovrebbe invece essere archiviata la pratica dei vaccini, dopo la confusione degli anni scorsi: sono obbligatori per andare a scuola e chi non è vaccinato dovrà pagare una multa (mentre negli asili sarà rimandato a casa). Le Asl si stanno adeguando per i controlli su tutto il territorio nazionale.

La stabilità del personale misura base per la qualità della scuola

da ItaliaOggi

di Francesco Sinopoli-segretario generale Flc-Cgil

Quando pensiamo alla scuola, in questa fase movimentata della vita politica italiana, non possiamo fare a meno di dire che essa ha bisogno di cura, vicinanza, rispetto, direi di attenzione amorevole. Categorie che non abbiamo remore a richiamare dal momento che esse sono mancate nel comportamento di chi ha agito sul piano politico in questi ultimi decenni: tagli a personale e tempo scuola, riforme talvolta definite epocali ma che invece hanno portato, per fortuna senza riuscirci pienamente, alla deformazione del nostro sistema di istruzione. Non vogliamo ripercorre la via crucis che dalla Moratti passando per Gelmini fino alla Buona scuola essa ha dovuto percorrere. Ancora ne subiamo le conseguenze e anzi alcuni cascami della buona scuola attendono di essere definitivamente cancellati dalla normativa vigente.

Stabilità dell’insegnamento, di direzione e del servizio amministrativo: è la prima misura alla base di ogni obiettivo di qualità nel processo pedagogico-didattico. Pervicacemente non si vuole capire che, senza la continuità di rapporto didattico assicurato dallo stesso docente nei vari cicli scolastici, di direzione assicurata dallo stesso Dirigente nella guida degli Istituti, di conduzione amministrativa assicurata dal medesimo Dsga e personale Ata, non vi è qualità nella didattica.

E invece una certa, stolida, demagogia, di chi non ha per nulla a cuore la scuola pubblica, scambia le nostre richieste di stabilizzazione del personale come sanatoria. Non è affatto così: la normativa europea (stabilizzare dopo tre anni di contratti a temine), le necessità di personale che abbia serenità di condizione lavorativa, lo stesso buon senso impongono di avere una scuola con personale reclutato regolarmente ogni due anni, in grado di progettare il percorso didattico nel medio lungo periodo e di stabilire una relazione pedagogica che è il sostrato su cui si può costruire una didattica solida e creativa. E il medesimo discorso vale per la direzione delle scuole e delle segreterie: queste ultime sono scoperte in misura inaccettabile nonostante i nostri continui appelli. Infine dovrebbe far riflettere il fatto che quest’anno siano rimaste scoperte oltre il 50% delle 53 mila cattedre destinate alle immissioni in ruolo e che per la prima volta nella storia vengono esaurite anche le graduatorie Ata. Ecco perché è urgente che venga messo sul binario operativo il decreto legge per indire i concorsi riservati per docenti con tre annualità, compresi i facenti funzioni di Dsga.

Concorsi e merito per i docenti

da ItaliaOggi

di Andrea Gavosto* *direttore Fondazione Agnelli

L’anno scolastico si apre con una sola buona notizia – i nuovi dirigenti scolastici usciti dal concorso infine al loro posto – e diverse negative: fra queste, aumenterà ancora il numero dei supplenti annuali, forse toccando il record di 200 mila.

Su un orizzonte più ampio a preoccupare davvero è, tuttavia, il quadro drammatico degli apprendimenti fornito dalle prove Invalsi. Al termine del ciclo di studi, al quinto anno delle superiori, uno studente su tre non raggiunge in italiano, matematica e inglese il livello di competenze minimo definito dallo stesso Miur; in molte regioni del Sud, questa percentuale sale al 50%. A partire dalla scuola media, i livelli di apprendimento nel Mezzogiorno crollano rispetto al Nord, raggiungendo all’ultimo anno divari che corrispondono a due anni di studio. Gli istituti tecnici e professionali sono dappertutto in forte ritardo rispetto ai licei. Anche quando dello stesso indirizzo e della stessa regione, le scuole mostrano fra loro differenze marcate, a riprova di quanto i risultati dipendano dalla qualità di docenti e dirigenti. Nel frattempo, è nato il governo M5s-Pd. Che cosa dovrebbe proporsi per rimediare a questi fallimenti della nostra scuola? Indico tre interventi prioritari.

Il primo riguarda la selezione e formazione degli insegnanti. Il meccanismo di reclutamento non funziona più: di anno in anno si aggrava la carenza di docenti di ruolo in molte materie (scientifiche, ma non solo). Il fenomeno dal Nord si sta estendendo ad altre regioni ed è la prima spiegazione per l’incredibile numero di supplenti. I governi precedenti hanno quasi sempre provato a rispondere con sanatorie – come il concorso straordinario del ministro Bussetti, in stand-by per la crisi di governo – che non hanno risolto il problema, ma impoverito la qualità degli insegnanti. Serve un meccanismo di accesso continuo alla professione (come concorsi regolari), una valutazione più rigorosa delle competenze disciplinari e soprattutto didattiche dei nuovi assunti (e una più seria manutenzione di quelle dei docenti in servizio). Ogni dirigente scolastico dovrebbe poi avere la possibilità di scegliersi i docenti che servono al suo istituto.

Il secondo intervento riguarda la carriera docente. Una volta in ruolo, l’unica progressione salariale è – come noto – per anzianità. Ma, senza un riconoscimento della qualità del lavoro, si attira nella professione chi è meno disponibile a impegnarsi e ad assumere anche responsabilità organizzative. Aumenti retributivi a pioggia – ne hanno parlato esponenti sia dei 5S sia del Pd – avrebbero poco effetto. Servono invece incentivi – come scatti di carriera legati al merito e a un orario di lavoro più ampio – affinché giovani laureati di qualità scelgano l’insegnamento.

Terzo, prolungare il tempo scuola. Sappiamo che più ore trascorse a scuola (non solo a lezione) funzionano come antidoto all’abbandono, purtroppo di nuovo in crescita soprattutto fra le ragazze. In Italia, la scuola al pomeriggio esiste solo alla primaria e quasi solo al Nord: estendiamola almeno alla media e su tutto il territorio nazionale. Se ne gioverebbe – e tanto – l’innovazione didattica.

E l’università? Con appena l’1% del Pil, in Italia spendiamo davvero troppo poco nell’istruzione terziaria, molto sotto la media europea. Così è difficile aumentare la quota di laureati. Un segmento dell’offerta universitaria che da noi manca quasi del tutto, a differenza del resto dell’Europa continentale, è quello professionalizzante. Dopo alcuni esperimenti, è ora di svilupparlo in modo serio, per dare sbocchi occupazionali di qualità e aiutare la capacità innovativa del sistema delle imprese.

Altro che classi pollaio: l’emergenza è il calo demografico

da ItaliaOggi

Emanuela Micucci

Nel 2028 ci sarà 1 milione di studenti in meno, pari a 6.348 sezioni. Si perderanno 55.600 cattedre. È l’evoluzione demografica della popolazione scolastica, strettamente collegata alla denatalità, una delle sfide più urgenti della scuola italiana. Un’urgenza che impatta anche nella lotta alle cosiddette classi pollaio, indicata dal nuovo titolare del Miur Lorenzo Fioramonti come priorità. Una proposta di legge sul tema, promossa al M5S con prima firmataria Lucia Azzolina, è arenata da mesi alla Camera. In un decennio, secondo le stime della Fondazione Agnelli, il panorama demografico della scuola in Italia sarà profondamente cambiato. La popolazione tra i 3 e i 18 anni sarà scesa nel 2028 a 8 milioni, rispetto agli attuali 9 milioni circa, a causa soprattutto della diminuzione del 10% del numero di madri potenziali e del loro tasso di natavità. Un trend così declinante che non c’è in nessun altro paese europeo. La contrazione demografica investirà in modo progressivo e differenziato tutte le aree e regioni d’Italia. Colpirà prima la scuola materna. I bambini tra i 3 e i 5 anni, infatti, diminuiranno ovunque, già da oggi, portando nel 2028 a un perdita di 6.348 sezioni, a regole vigenti. Le previsioni nazionali sono di 12.600 posti in meno. Più forte il calo alla primaria: -17.956 classi. Alle medie – 9.420 ed alle suepriori -3.002. Questo si tradurrà in diminuzione dei posti o di cattedre che, a differenza del passato, investirà anche le regioni del Nord: -55.600. In particolare, la primaria ne perderà 22.100, le medie 15.700, le materne 12.6000 e le superiori 5.200. Di conseguenza, si avrà un raffreddamento delle mobilità territoriale dei docenti. A soffrire sarà anche il rinnovo del corpo docenti, per un rallentamento nel turnover. Con conseguenze probabili anche sulla didattica.

Uno scenario che comporterebbe anche un risparmio di 402 milioni di euro annui per la sola scuola dell’infanzia. Il calo demografico invita, poi, a ripensare il tema delle classi pollaio. Perché, sottolineano i presidi di Disal, «fa presumere nei prossimi anni la costituzione di classi numericamente più adeguate». Mentre occorrerebbe guardare all’intera visione didattico-organizzativa. Perchè il miglioramento della qualità degli apprendimenti, aggiungono i dirigenti Andis, «non si determina con la semplice riduzione del numero degli alunni per classe, ma presuppone anche che i docenti abbiano conseguito adeguati livelli di professionalità». Ancora prima, però, occorrerebbe conoscere il numero delle classi pollaio. Dati che proprio Fioramonti, allora viceministro dell’istruzione, presentò alla Commissione Cultura della Camera come contributo alla discussione della pdl Azzolina. Le classi sopraffollate risultavano essere in tutta Italia 19.096, il 5,17% del totale. Mentre ben 154.730, cioè quasi la metà, era sotto il limite minimo di alunni. Per un potenziale numero complessivo di 5.195 classi sovranumerali alla materna, il 12,22%. Alla primaria 4.993, il 3,87%. Alle medie 7.331, il 9,48%. Infine, alle superiori 1.577 classi, appena l’1,31% del totale. Inoltre, per mandare avanti la riforma M5s andrebbero riviste le coperture, calcolate in 338.500.000 euro per il 2019, 1.180.000.000 per il 2020, 1.715.100.000 per il 2012 e 2.130.000.000 dal 2022. I tecnici della Camera, infatti, hanno sottolineato la mancanza di finanziamenti previsti per attuare la norma, non essendoci soldi sufficienti a causa degli accantonamenti previsti dal Mef nella manovra del governo M5S-Lega.

Prova del nove sul contratto Stop a nostalgie della 107

da ItaliaOggi

di Pino Turi

Una scuola statale, nazionale, basata sul dettato costituzionale è il modello che perseguiamo e che intendiamo condividere con il nuovo ministro, nel solco di quanto già definito con il precedente governo Conte. La nostra posizione di netta contrarietà a ogni ipotesi di regionalizzazione del sistema di istruzione è nota. Il neoministro Fioramonti ha, in passato, fatto dichiarazioni che vanno in questa stessa direzione. Restano dirimenti altri tre punti su cui attiveremo il confronto: investimenti per dare dignità alla funzione docente; la risoluzione del problema del precariato; un assetto organico anche agli uffici di segreteria funzionali a una buona didattica.

Negli anni della crisi, la scuola è stata scelta come palestra di sperimentazioni neo liberiste che hanno tentato di piegarla a servizio, come un supermercato che deve rispondere ai suoi clienti che, per definizione, hanno sempre ragione. Da questa visione sono derivati: il preside manager, la competizione, il risparmio. Tutti elementi che hanno prodotto autentici mostri come la legge sulla Buona scuola e la teoria dell’autonomia differenziata. Una sorta di allucinazione collettiva, interrotta solo episodicamente da editoriali e da approfondimenti che parlano di una scuola che trasmette emozioni e cultura, che suscita la curiosità degli studenti. È questo il modello di scuola che ci vede convinti sostenitori, in rappresentanza di un gran numero di lavoratori e di cittadini che in questi anni ci hanno dato sostegno. Vogliamo sperare che il neoministro tenga per se la delega sulla scuola, che non può essere gestita da qualche nostalgico, di cui il mondo della scuola farebbe volentieri a meno.

Sarà importante capire, in questi primi giorni, come si muoverà il Governo: da lì valuteremo se si tratta della volta buona per realizzare il cambiamento. Investire sulla scuola è il mantra di ogni campagna elettorale. Quando si fanno i governi, poi, restano solo le buone intenzioni. Si dovrebbe, per una buona volta, smettere di utilizzarla come terreno di scontro politico e considerarla, per dirla con Piero Calamandrei, una istituzione costituzionale, un bene dell’intera comunità nazionale. La vera novità consisterebbe nel reperire le risorse per rinnovare il contratto per ridare dignità e ruolo al personale che rappresenta l’elemento costitutivo di quella comunità educante che dà linfa vitale alla democrazia e partecipazione di questo paese. La scuola deve formare cittadini consapevoli e non consumatori anonimi. Quanto alle prescrizioni, sarà bene evitare sia i modelli liberisti della legge 107 che l’accettazione di ogni forma di autonomia differenziata in materia di istruzione.

*segretario generale Uil scuola

Ripartire da una conferenza nazionale sulla scuola

da ItaliaOggi

di Maddalena Gissi

Inevitabile, ogni volta che si insedia un nuovo governo, essere interrogati sulle priorità. Io ne sottolineo tre, partendo dal rilancio di una fondamentale questione di metodo: da troppo tempo la scuola soffre il disagio alimentato da un malinteso protagonismo della politica, che ha trasformato le sacrosante prerogative del Legislatore in una sorta di esercizio esclusivo e autoreferenziale del potere di decisione anche su materie come istruzione e formazione. E così si è ritrovato in balia delle alterne stagioni politiche un grande bene comune come la scuola. Che appartiene all’intero Paese, non a governi e maggioranze pro tempore; che richiede scelte meditate, sostenute dal più ampio consenso e definite attraverso percorsi che vedano attivamente coinvolto il corpo professionale cui è affidata la messa in atto di ogni modello pensato dalla politica. In un fascicolo inviato a tutte le forze in campo prima delle elezioni del 4 marzo 2018 lanciavamo la proposta di una Conferenza nazionale sulla scuola, passaggio fondamentale per ricondurre a modalità più proficue e costruttive il dibattito sulle politiche per istruzione e formazione, individuando anche le aree tematiche su cui concentrarsi. La richiesta può sembrare irrealistica in un contesto dominato da contrasti e rissosità, noi la consideriamo rispondente a un’esigenza fortissima, ridare al sistema stabilità e serenità. Senza nuove avventure o nostalgie per norme di cui abbiamo già corretto per via contrattuale le più evidenti brutture.

Le altre due questioni su cui vorrei porre l’accento sono reclutamento e precariato, e rinnovo del contratto. Sul reclutamento resta in tutta la sua urgenza e necessità il pacchetto di misure contenute nel decreto sul precariato “congelato” dalla crisi di governo. Anche il nuovo ministro riconosce la necessità di rimetterlo in pista, pur accennando a non meglio precisate modifiche. Quel decreto è frutto di un confronto approfondito tra sindacati e Miur, un lavoro impegnativo e serio, attento a coniugare diritti dei precari ed esigenze di qualità del sistema. Non è una sanatoria di basso profilo, come qualcuno l’ha voluta dipingere, ma un atto di doveroso riconoscimento per esperienze pluriennali di lavoro, delineando peraltro percorsi abilitanti lunghi e impegnativi. L’unico limite è per noi il suo carattere esplicitamente transitorio, mentre crediamo che un sistema rivisitato e aggiornato di «doppio canale» sia la soluzione più opportuna da prefigurare a regime. Sul nuovo contratto, la legge di Bilancio porterà alla verifica dei fatti le belle parole che ancora una volta ritroviamo in un programma di governo o in dichiarazioni alla stampa. Ci attendiamo che l’affermata volontà di dare più giusto riconoscimento al lavoro di tutto il personale della scuola, in primo luogo riallineando al resto d’Europa le sue retribuzioni, trovi nella legge un riscontro coerente e conseguente.

*segretario generale Cisl scuola

Un Miur nuovo per Fioramonti

da ItaliaOggi

Alessandra Ricciardi

È stata una gestazione lunga, quella della riorganizzazione del ministero dell’istruzione, università e ricerca, che è approdata con le nomine sulle direzioni generali alla Corte dei conti solo agli inizi di agosto, alla vigilia della crisi di governo. E che ora risulta ancora bloccata alla Corte per il controllo di legittimità. Sono dunque bloccati i decreti di nomina dei direttori scolastici, sia centrali che regionali. E al Miur, in attesa di conoscere eventuali rilievi, si dà ormai per scontato, salvo sorprese, che saranno tutti rivisti e ridefiniti dal nuovo ministro dell’istruzione e università e ricerca, Lorenzo Fioramonti. Del resto, conosce bene uomini e macchina del ministero di cui è stato fino alla scorsa settimana viceministro. La discontinuità che ha promesso sul suo ministero potrà dunque misurarsi anche sulle posizioni apicali centrali che regionali. Certamente riguarderà il gabinetto, con un nuovo capo al posto di Giuseppe Chinè, consigliere di stato, con un’ampia esperienza alle spalle (capo di gabinetto con Giulio Tremonti al ministero dell’Economia, dove è rimasto anche con Mario Monti, dal 2013 alla Salute al fianco di Beatrice Lorenzin). Nuovi anche i sottosegretari in arrivo: tramontata la conferma del pentastellato Salvatore Giuliano, in pole sono dati Anna Ascani, giovane deputata del Pd, insegnante, che ha competenze trasversali a scuola e università ed è considerata vicina a Matteo Renzi. Sul fronte pentastellato, dovrebbe spuntarla Lucia Azzolina, deputata della commissione cultura, anch’essa docente che conosce il mondo del precariato. Ancora in campo Francesco D’Uva, capogruppo M5s alla camera.

Al primo consiglio dei ministri, Fioramonti ha annunciato che riprenderà l’iter del decreto sui precari della scuola, dove si riapre il fronte dei test di ingresso per Pas e concorso riservato. I sindacati avevano concordato con la Lega che non ci sarebbero stati sbarramenti in ingresso. Pd e M5s invece concordano sulla necessità di una maggiore selezione che premi il merito più che l’anzianità di servizio. Il nuovo testo dirà il tasso di discontinuità del governo giallorosso rispetto al gialloverde.

Un segnale è atteso anche sui precari della ricerca, a cui Fioramonti ha promesso un percorso di stabilizzazione.

E poi c’è il dossier spinoso del contratto, essenziale per la valorizzazione della professione docente e Ata e che è uno dei punti chiave dell’intesa sottoscritta in primavera dai sindacati con il premier Giuseppe Conte. Intesa di cui ora le sigle chiedono l’attuazione e il rispetto. Decisiva la partita finanziaria.

Fioramonti ha annunciato battaglia per reperire almeno 2 miliardi di euro per la scuola e 1 per l’università e ricerca: la sede sarà la prossima legge di Bilancio. «Servono delle micro tasse di scopo«, ha detto al suo insediamento il ministro, «una tassa sulle merendine, una sulle bevande zuccherate, un’altra sui biglietti aerei. Sono attività o dannose per la salute, le prime due o inquinanti. Con i soldi che lo stato ricava si fanno interventi per la ricerca o la scuola. Abbiamo calcolato che solo da questi interventi si possono ricavare 2,5 miliardi».

Chiamata diretta nel guado

da ItaliaOggi

Carlo Forte

Cancellazione della chiamata diretta in mezzo al guado. Il varo del nuovo governo, che prevede una nuova maggioranza composta dal Movimento 5 Stelle e dal Partito democratico, mette a rischio l’approvazione del disegno di legge Granato (S 763), già licenziato in prima lettura dal senato e assegnato alla camera dal 26 luglio scorso con il numero C. 2005. Il provvedimento si intitola: «Modifiche alla legge 13 luglio 2015, n. 107, in materia di ambiti territoriali e chiamata diretta dei docenti». E il Pd, finora, ha sempre votato contro, in tutte le fasi della discussione parlamentare: sia in commissione che in aula.

È probabile che la diversità di vedute venga ricomposta. Ma il provvedimento, che viaggiava spedito verso l’approvazione, potrebbe essere rinegoziato e subire dei ritardi. Le coordinate di riferimento, infatti, non sono più quelle stabilite nel contratto di governo a suo tempo stipulato con la Lega, che prevedeva espressamente la cancellazione di questo istituto introdotto dal governo Renzi con la legge 107/2015. Nel contratto di governo, al paragrafo 2.2. (pag. 42) si leggeva, infatti, che: «Un altro dei fallimenti della cosiddetta Buona Scuola» determinato «dalla possibilità della chiamata diretta dei docenti da parte del dirigente scolastico».

Tant’è che Il Movimento 5 Stelle e la Lega si erano impegnati a «superare questo strumento» si legge nel contratto « tanto inutile quanto dannoso». Una cosa è certa però: il Movimento 5 stelle non ha cambiato idea. E durante il «Conte 1» è stata già introdotta nell’ordinamento una norma che vieta l’assegnazione dei docenti agli ambiti sia in sede di assunzione che di mobilità. Si tratta del comma 796 dell’articolo 1 della legge di bilancio, il quale dispone che: «A decorrere dall’anno scolastico 2019/2020, le procedure di reclutamento del personale docente e quelle di mobilità territoriale e professionale del medesimo personale non possono comportare che ai docenti sia attribuita la titolarità su ambito territoriale». Ma non prevede l’abrogazione delle norme della legge 107/2015, che istituiscono e regolano gli ambiti territoriali e la chiamata diretta. Di qui la necessità di un provvedimento legislativo che lo preveda espressamente, mettendo in sicurezza anche le pattuizioni contenute nel contratto sulla mobilità. Che hanno dato attuazione al divieto. Ma in un contesto del tutto anomalo.

Da una parte esiste una norma che prevede espressamente la chiamata diretta (che nella legge 1097 è denominata chiamata per competenze). E da un’altra parte c’è una norma che, pur non cancellando gli ambiti e la chiamata diretta, vieta espressamente che la chiamata diretta possa essere attuata. E a questo provvede il disegno di legge Granato. Che abroga le norme specifiche della legge 107/2015 e introduce anche delle modifiche che legittimano il contenuto delle norme contrattuali. Il disegno di legge dispone l’abrogazione espressa dei commi 18, 80, 81 e 82 dell’articolo 1 della legge 107/2015. Vale a dire, delle norme che istituiscono gli ambiti territoriali e la cosiddetta chiamata per competenze. Gli ambiti territoriali sono estensioni geografiche pari all’ampiezza di circa due distretti scolastici nei quali è stato suddiviso il territorio nazionale. Ad ogni ambito è assegnata una dotazione organica di docenti. E i docenti non titolari, perché senza sede o in esubero, e i docenti neoassunti vengono assoggettati ad un sistema di assegnazione della sede che avviene per chiamata diretta da parte dei dirigenti scolastici.

I docenti interessati stipulano con il dirigente scolastico un contratto di durata triennale e, secondo la legge 107/2015, non assumono mai la titolarità della sede. In particolare, il disegno di legge, oltre a prevedere l’abrogazione delle norme istitutive di ambiti e chiamata diretta, dispone che il personale docente titolare su ambito territoriale alla data del 1° settembre 2018 assuma la titolarità presso l’istituzione scolastica che gli abbia conferito l’incarico triennale. E ciò modifica definitivamente lo stato giuridico dei titolari di incarico triennale, disponendo l’attribuzione della titolarità sulla scuola. In più prevede che i vincitori di concorso, all’atto dell’assunzione, debbano esprimere, secondo l’ordine di graduatoria, la preferenza per l’istituzione scolastica di assunzione, all’interno della regione per cui hanno concorso.

Mentre, per gli aventi titolo all’assunzione a tempo indeterminato tramite lo scorrimento delle graduatorie a esaurimento, prevede che esprimano, secondo l’ordine delle rispettive graduatorie, la preferenza per l’istituzione scolastica ricompresa fra quelle della provincia in cui sono iscritti. Il disegno di legge non prevede, in questo caso, l’assunzione della titolarità sulla scuola scelta. Perché i docenti neoassunti sono soggetti al periodo di prova e assumono la titolarità solo dall’anno scolastico successivo all’esito della mobilità a domanda.

Decreto salvaprecari, tutto da rifare In bilico Pas e concorsi riservati

da ItaliaOggi

Marco Nobilio

Decreto salvaprecari da rifare. Il provvedimento del primo governo Conte, approvato in consiglio dei ministri il 7 agosto scorso, non è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 28 agosto, dopo la crisi di governo ingenerata dalla Lega. E adesso l’iter dovrà ricominciare da capo. Il decreto, peraltro, era stato approvato apponendo la formula salvo intese. Perché il Movimento 5 stelle non aveva raggiunto l’accordo con la Lega sul testo proposto dall’allora ministro Marco Bussetti. E ora dovrà essere necessariamente rinegoziato nell’ambito della nuova maggioranza M5s-Pd sulla quale si regge il governo Conte II. Il neo ministro Lorenzo Fioramonti ha annunciato che lavorerà a una soluzione, ma più attenta al merito. La soluzione sulla quale la maggioranza del governo Conte I stava ragionando era quella di ammettere i precari triennalisti al concorso ordinario esonerandoli dalle prove preselettive e, al tempo stesso, prevedendo una quota di riserva, sempre destinata ai triennalisti, nell’ordine del 35% circa. «Una sanatoria», aveva attaccato il Movimento5stelle, che invece si era battuto per inserire test in ingresso, bloccando di fatto il varo finale del provvedimento.

Oltretutto, il decreto del 7 agosto recepiva l’accordo sottoscritto dal governo con i sindacati il 23 aprile scorso. Accordo con cui era stata concordata la stabilizzazione dei docenti precari tramite l’istituzione di «percorsi abilitanti e selettivi riservati al personale docente», si legge nel testo dell’intessa, «che abbia una pregressa esperienza di servizio pari ad almeno 36 mesi finalizzati all’immissione in ruolo».

Ecco cosa diceva il testo dell’ipotesi del decreto legge rimasto solo sulla carta.

Entro quest’anno si prevedeva di bandire un concorso riservato ai docenti precari delle secondarie di I e II grado, che avessero prestato servizio nelle istituzioni scolastiche o educative statali almeno tre anni nel periodo compreso tra il 2011/12 e il 2018/19. Ogni anno di servizio, per essere considerato valido ai fini dell’accesso al concorso, avrebbe dovuto essere stato prestato per almeno 180 giorni, anche frazionatamente. Idem se il servizio fosse stato prestato ininterrottamente dal 1° febbraio fino al termine dello scrutinio finale. Non sarebbe stato considerato valido, invece, il servizio prestato presso le scuole private paritarie. Al concorso riservato sarebbe stato assegnato un contingente pari al 50% dei posti utili per le immissioni in ruolo del concorso ordinario.

Pertanto, se i posti disponibili per le immissioni in ruolo in una classe di concorso fossero stati 100, 25 posti sarebbero ai vincitori del concorso ordinario, 25 ai vincitori del concorso riservato e 50 posti agli aventi titolo all’assunzione tratti dallo scorrimento delle graduatorie a esaurimento. Nel caso in cui nella classe di concorso di riferimento fosse risultata esaurita la graduatoria a esaurimento provinciale, i 100 posti disponibili per le immissioni in ruolo sarebbero stati assegnati equamente tra concorso ordinario e concorso riservato: 50 all’ordinario e 50 al riservato.

Con il decreto-legge si intendeva anche prorogare di un altro anno le graduatorie del concorso indetto per effetto del comma 114, dell’articolo 1, della legge 107/2015. Che erano già state prorogate di un anno con il comma 603 della legge 205/2017. E adesso sarebbero state valide fino al 2019/2020. Il differimento della data di decadenza degli elenchi di merito era stata ritenuta necessaria a causa della carenza di personale docente nella scuola secondaria. E per garantire la continuità didattica il governo intendeva prorogare di un anno anche la disciplina speciale prevista per i diplomati magistrali che saranno licenziati quest’anno all’esito delle sentenze di merito relative ai contenziosi ancora pendenti: chi era stato immesso in ruolo avrebbe subito la conversione del contratto da tempo indeterminato a tempo determinati fino al 31 agosto; chi era stato assunto con supplenza fino al 31 agosto, avrebbe subito la modifica del termine al 30 giugno.

Il governo M5s-Lega intendeva anche istituire un percorso formativo abilitante straordinario (Pas) universitario per sopperire alla mancanza di docenti abilitati nelle scuole statali e paritarie. Al corso avrebbero avuto accesso tutti gli aspiranti in possesso di almeno tre anni di servizio prestato nel periodo compreso tra il 2011/12 e il 2018/19. Ogni anno di servizio, per essere considerato valido ai fini dell’accesso al concorso, avrebbe dovuto essere stato prestato per almeno 180 giorni, anche frazionatamente. Idem se il servizio fosse stato prestato ininterrottamente dal 1° febbraio fino al termine dello scrutinio finale. Sarebbero stati considerati validi i servizi prestati, indifferentemente, nelle scuole statali, private paritarie e nei percorsi di istruzione e formazione professionale. I tre anni di servizio non sarebbero stati richiesti agli aspiranti in possesso del titolo di dottore di ricerca. Il triennio di dottorato, dunque, sarebbe stato equiparato al requisito del triennio di servizio.

Sarebbero stati ammessi ai Pas senza la necessità di far valere il triennio di servizio anche i soggetti che fossero stati ammessi precedentemente a un percorso abilitante a qualsiasi titolo (per esempio al Fit) e che non avessero potuto frequentarlo fino alla fine per gravidanza o motivi di salute.