Istruzione e Ricerca, si torna a due ministeri

Istruzione e Ricerca, si torna a due ministeri ma restano intatte le problematiche dei settori

Roma, 28 dicembre – La vicenda delle dimissioni del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Lorenzo Fioramonti, si è conclusa con la decisione del presidente del Consiglio Conte di tornare alla nomina di due ministri: la sottosegretaria al MIUR, Lucia Azzolina, per la Scuola e il Rettore della Federico II di Napoli, nonché presidente della Conferenza dei Rettori, Gaetano Manfredi, per l’Università e la Ricerca.

Ad entrambi, naturalmente, va l’augurio di buon lavoro della FLC CGIL.

Nel giustificare la scelta il presidente Conte ha rilevato, in sede di conferenza stampa a Palazzo Chigi, che “la cosa migliore per potenziare la nostra azione, sia separare il comparto scuola dal comparto Università e Ricerca. Sembrano appartenenti alla stessa filiera, ma hanno logiche ed esigenze molto diverse, sarà creato un nuovo ministero dell’Università e della Ricerca”.

Difficile dare un giudizio a caldo su questa doppia designazione, lo spacchettamento più che rispondere ad una logica di governo dei settori, segue evidentemente esigenze politiche interne alla maggioranza ed è tutto quello che non avremmo voluto vedere in questo difficile passaggio. Ci sembra un passo indietro rispetto all’idea che esista una filiera della conoscenza su cui fare un grande investimento come Paese.

In un altro passaggio della conferenza stampa il Presidente del Consiglio ha sottolineato la necessità di rilanciare il comparto della Ricerca e dell’Università aggiungendo: “Non è vero che non abbiamo compiuto dei passi in avanti, per la prima volta abbiamo introdotto l’Agenzia nazionale per la ricerca, questa è una iniziativa strategica. Dobbiamo fare qualche sforzo in più, dobbiamo rilanciare un piano straordinario per i ricercatori”.

Confermiamo tutti i dubbi, le contrarietà e le critiche che abbiamo più volte rivolto all’Agenzia nazionale per la ricerca, rischia di essere un carrozzone burocratico che riporta nelle mani della politica la libertà della ricerca in Italia.

Ci sembra di poter affermare, inoltre, con qualche certezza, che le risposte agli interrogativi forti espressi da Fioramonti con le sue dimissioni non sono arrivate. Restano del tutto intatte due questioni sostanziali: quale impegno del Governo per trovare le risorse necessarie per l’intero sistema dell’Istruzione e della Ricerca e quali riforme strutturali adottare, nel medio e nel lungo periodo, per restituirgli equilibrio e dignità.

Senza queste risposte decisive, ci sembra di poter dire oggi che il rischio paventato da Fioramonti resti del tutto inalterato e che i due neoministri potrebbero ritrovarsi nelle stesse condizioni di debolezza e fragilità.

Naturalmente speriamo di essere smentiti nei prossimi giorni e faremo di tutto perché sia così, a partire dal rispetto delle Intese sottoscritte e dalla stesura del DEF.

La scuola dimessa

La scuola dimessa

di Giovanni Fioravanti

La cosa che stupisce non sono le dimissioni del ministro che attengono alla politica e confermano la parabola sempre più discendente degli inquilini di viale Trastevere, almeno da vent’anni a questa parte.

Stupisce la scuola dimessa, i suoi docenti e dirigenti dimessi. Il silenzio di chi lavora nella scuola e del suo lavoro non è riuscito a farne una professione, avvilendolo a impiego, incapaci di divenire dei professionisti della cultura. Sembrano tutti apprendisti di passaggio, perenni precari del sapere e del paese. 

Dov’è la dignità del lavoratore della scuola, chi la rappresenta, chi la esprime?

Sembra che la scuola sia nelle mani di una classe di mediocri impiegati, come è mediocre il paese che li esprime.

La scuola, dimessa da anni, è silente, eppure la scuola dovrebbe essere la cultura, il pensiero del paese. Al contrario tace, vuota di idee, come può esserlo una prassi burocratica. 

È la scuola delle routine che ha preso il sopravvento, la scuola che si parla dentro nelle sale dei professori ma che non sa parlare fuori al paese, perché non ha una sua fisionomia, una sua identità, al di là delle statistiche che pure la pongono tra le istituzioni verso le quali il paese ancora nutre più fiducia.

Una scuola spenta, declassata a ripiego delle vite, a fornire dosi di civismo o di ambientalismo, a seconda di come s’agita il vento. Una scuola tampone del paese anziché la sua risorsa.

Una scuola senza pensiero incapace di produrre pensieri per sé e per gli altri.

Pure c’è stato il tempo della scuola capace di parlare al paese, di democratizzazione, di partecipazione, di ricerca e sperimentazione. Del tempo pieno, della scuola dell’infanzia, dei nuovi programmi per la primaria e la secondaria, erano gli anni dell’integrazione di tutti nella scuola di tutti.

La stagione dei maestri da Bruno Ciari a Mario Lodi, da Loris Malaguzzi a Sergio Neri, da Lorenzo Milani a Idana Pescioli, a Francesco Bartolomeis è stata una parentesi della seconda metà del secolo scorso che ha permesso al nostro sistema formativo di vivere anni di fervoroso rinnovamento. 

Poi più. Poi solo la scuola dei ministri senza maestri. E la scuola si è spenta, ha perso il fervore dell’innovazione, la laboriosità della ricerca, la passione per la propria formazione da parte dei suoi insegnanti e dirigenti. Una scuola che aveva cura di sé. 

Ora alla scuola manca la cura di sé, il significato dell’esercitare la professione dell’insegnante, la passione per la ricerca, per la formazione e l’innovazione. Un luogo chiuso in sé, che rimurgina frustrazioni e burnout, teatro di precariato, graduatorie e sanatorie, mentre le cattedre restano e le professionalità svaniscono.

Non esiste ministro in grado di risollevare la nostra scuola da una condizione simile, perché qualcosa è morto dentro alla scuola, è morta la sua anima fatta di passione e professione. 
È un’anima che si è spenta nel paese, figuriamoci nelle cattedre, non saranno certo le predelle di Galli della Loggia a restituire l’anima a chi l’ha perduta e non sa più dove andarla a trovare, ammesso e non concesso che la stia cercando.

È tempo di apprendisti stregoni al governo della cosa pubblica e il paese è fiaccato dall’ingestione delle loro pozioni, risollevarsi è pressoché impossibile.

È che ci siamo giocati l’ultima possibilità che avevamo: la scuola.

Confronto e fiducia saranno le parole chiave

Turi: confronto e fiducia saranno le parole chiave. Nostra azione sarà leale e di merito

CONTE IN CONFERENZA STAMPA: LUCIA AZZOLINA MINISTRO SCUOLA, MANFREDI A RICERCA

Abbiamo appreso direttamente dalla conferenza stampa del presidente del Consiglio che il nuovo ministro dell’Istruzione, sarà l’attuale sottosegretario Lucia Azzolina – prende atto il segretario generale della Uil Scuola, Pino Turi. A lei va il nostro augurio di buon lavoro.

Avremo nei confronti del nuovo ministro, un atteggiamento coerente, che ha già conosciuto, basato sul merito delle questioni. Le confermiamo che non mancherà la dovuta collaborazione, nella misura in cui saranno perseguiti gli obiettivi sindacali e di tutela dei diritti dei lavoratori della scuola.

La Uil Scuola darà il proprio contributo sempre guardando al merito delle questioni. Centrali saranno per noi tutela del personale, la salvaguardia della scuola statale, la governance democratica e partecipata della comunità educante.

Ci sono accordi già sottoscritti, ci aspettiamo di mantenere lo stesso percorso di attuazione – ricorda Turi nel mettere a punto l’agenda delle prossime settimane, a partire dal 7 gennaio con la prima riunione già messa in programma.

Quanto alla divisione tra Università e ricerca, speriamo non sia una semplice soluzione politica di alternanza alla guida del ministero che finalmente torna alla divisione delle competenze.

L’università e la ricerca sono il tetto di una struttura che per reggere ha bisogno fondamenta forti, quelle della scuola della nostra costituzione.

Il cambio al vertice del ministero non fa venire meno le questioni, che sono all’attenzione del neo ministro: corsi di abilitazione che tengano conto dell’esperienza sul campo del personale precario; il riconoscimento e valorizzazione degli assistenti amministrativi facenti funzione; il rinnovo del CCNL con un aumento stipendiale a tre cifre.

Questioni sulle quali è stato definito un accordo ed un  percorso, in base agli  impegni della squadra di governo di cui il  neo ministro faceva già parte, con il sottosegretario De Cristoforo e la vice Ministra Ascani. Impegni che ora ci aspettiamo vengano onorati.

Alla Ministra Azzolina gli auguri di buon lavoro

Alla Ministra Azzolina gli auguri di buon lavoro di Ancodis

L’Associazione Nazionale Collaboratori Dirigenti Scolastici esprime le più sincere congratulazioni all’On.le Lucia Azzolina per la nomina a Ministro dell’Istruzione.
Siamo lieti di apprendere che alla guida del MI (finalmente!) siederà una docente che sicuramente conosce le problematiche della scuola italiana, la funzione docente – oggi socialmente poco riconosciuta – ed il lavoro dei Collaboratori dei DS che contribuiscono al funzionamento organizzativo e didattico unitamente al raggiungimento degli obiettivi programmati in ciascuna I.S..
Come la neo Ministra sa bene, l’ANCODIS porta avanti il tema dell’istituzione delle figure di sistema intermedie tra il DS ed il personale docente: è ormai necessario definire in strumenti condivisi (norme e CCNL) la presenza di queste figure intermedie (quadri o middle management), le modalità di accesso, di retribuzione ed il riconoscimento professionale.
Per la Scuola dei prossimi decenni – ne siamo consapevoli – occorrerà un “patto professionale e culturale” tra tutte le componenti scolastiche che dovranno maturare la consapevolezza della necessità della costituzione di un livello intermedio cosi come avviene in gran parte dei paesi europei.
Alla Ministra Azzolina, chiediamo di farsi convinta promotrice del “ruolo costituzionale“ della scuola (cit. P. Calamandrei) attraverso l’istituzione di una Costituente Civica della scuola, quale luogo di confronto tra tutti i protagonisti delle diverse componenti scolastiche, di definizione della visione di un possibile futuro sociale e culturale dell’Italia finalizzata a far risorgere un modello scolastico nel quale la funzione educativa e formativa ritorni ad essere motivo di onore e di orgoglio per le migliaia di donne e uomini che si spendono con determinazione per il FUTURO del nostro paese.  
Prof. Rosolino Cicero

DA DUE MINISTRI VOGLIAMO IL DOPPIO!

RETE STUDENTI E UDU – DA DUE MINISTRI VOGLIAMO IL DOPPIO!

Le dimissioni di Fioramonti hanno lasciato un segno: il buco che Scuola, Università e Ricerca rappresentano nella lista delle priorità del Paese.  
Due ministeri diversi per scuola e università non devono significare la metà dei finanziamenti – dichiarano Federico Allegretti, Coordinatore Nazionale della Rete degli Studenti Medi , e Enrico Gulluni, Coordinatore Nazionale dell’UDU. – ma almeno il doppio.” 
Continua Allegretti: “La scuola e i suoi costi rispecchiano le diseguaglianze del Paese: serve un piano urgente per il diritto allo studio, che metta al centro la gratuità di trasporti e testi scolastici e che garantisca in tutta Italia scuole sicure che non crollino. Com segnale di una reale inversione di rotta ci aspettiamo anche misure che guardino al domani: educazione sessuale obbligatoria, riforma dei cicli e della valutazione, per non lasciare indietro nessuno, fuori e dentro la scuola.” 
Gulluni ribadisce: ” Chiediamo che siano ripristinati e implementati i fondi tagliati al fondo di finanziamento ordinario, l’abolizione del numero chiuso, un sistema di diritto allo studio che elimini la figura dell’idoneo non beneficiario di borsa di studio e investimenti concreti nella ricerca.” 
Concludono Gulluni e Allegretti: “Ai neo Ministri Azzolina e Manfredi ricordiamo che gli studenti ci sono e sono pronti a contribuire per il miglioramento complessivo del sistema di istruzione. Le proposte non ci mancano, accolgano i nostro inviti al confronto per avviare un percorso davvero condiviso!”

NUOVI MINISTRI

NUOVI MINISTRI: IL COMUNICATO DELL’ANP

Il Presidente dell’ANP Antonello Giannelli, sentito l’odierno annuncio del Presidente del Consiglio relativo alla separazione del MIUR nel Ministero dell’istruzione e nel Ministero dell’università e della ricerca nonché al loro affidamento, rispettivamente, all’attuale Sottosegretaria Lucia Azzolina e al prof. Gaetano Manfredi, Rettore dell’Università “Federico II” di Napoli, invia ai neoministri i più sinceri auguri di buon lavoro.

Sono tante le priorità che il mondo della scuola ha di fronte a sé: sicurezza, innovazione didattica e aggiornamento dei docenti, funzionalità delle segreterie, copertura dei vuoti di organico, prerogative dei dirigenti

Al neoministro dell’università e della ricerca auguriamo di reperire più fondi, di contrastare la “fuga dei cervelli” e di potenziare la ricerca di punta, settore strategico per lo sviluppo del nostro Paese.

Dimissioni di Fioramonti

USB Scuola: Dimissioni di Fioramonti: perché in Italia non si investe nella scuola

La notizia delle dimissioni del Ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, è da ieri al centro del dibattito politico. Vogliamo provare a fare un ragionamento che si stacchi dalle contingenze sugli elementi di instabilità politica e di tenuta del governo, ma vogliamo provare anche a non attestarci su una riflessione che accomuna tante forze politiche e sindacali, che plaudono al gesto di coerenza personale e di rivendicazione del ruolo dell’istruzione, ma si guardano bene (così come l’ex ministro) dal nominare quei nodi strutturali che determinano e determineranno ancora a lungo le scelte di questo e dei prossimi governi.
Questo discorso va inserito in una prospettiva decisamente più ampia: i mancati investimenti nella scuola, anzi la totale assenza di un reale progetto di investimento nella formazione delle proprie forze produttive è l’altra faccia della medaglia della totale assenza di una politica industriale per questo paese. Nello stesso modo in cui si abbandonano le grandi aziende che dovrebbero essere il fulcro della politica industriale del paese, la vicenda dell’ex ILVA è in questo senso paradigmatica, così si abbandona il sistema di istruzione nazionale, o al massimo si pensa di finanziarlo con tasse di scopo, come proposto dall’ex ministro Fioramonti.
Questo governo, i governi precedenti e quelli che verranno, a giudicare dal livello del dibattito, non riescono ad immaginare un modello che faccia ripartire il cosiddetto sistema Italia. USB lo dice da tempo: nel sistema dell’UE, che i governi italiani hanno subito e subiscono in modo imbelle, non c’è spazio per investire in una reale crescita del Paese e quindi anche nel sistema di istruzione. Un paese che si è ridotto ad essere un hub per lo spostamento di merci prodotte in gran parte altrove, un luna park per i ricchi del nord Europa, un paese senza politiche di sviluppo industriale, guidato da una classe politica inetta e priva di capacità progettuali di qualunque tipo non ha la capacità di investire nella scuola, così come non sa pensare ad un piano di investimenti pubblici per il rilancio del proprio tessuto industriale, che non preveda la svendita di tale tessuto alle multinazionali.
USB ribadisce che vi è una sola strada per uscire da questa condizione inaccettabile, fatta di povertà e precarietà diffusa, di stipendi inaccettabili, di disoccupazione giovanile, di scuole che crollano, di docenti e ATA sottopagati e giudicati inefficienti, di un sistema di istruzione impoverito nei contenuti e negli strumenti. Essa non è un mero richiamo al dettato costituzionale o ad un passato che non può tornare, bensì il coraggio di scegliere una via che sia sottragga al capestro UE e al ruolo di paese pigs con una politica pubblica di investimento nel sistema di formazione e in quello produttivo, che metta al centro gli interessi della popolazione, la difesa e la tutela del paesaggio, lo sganciamento dell’Italia da Nato e UE: il vero coraggio non sta nel dimettersi, ma nell’iniziare a discutere di questi nodi.

La scuola cenerentola

da Corriere della sera

Pierluigi Battista

S i parla finalmente della scuola italiana che boccheggia, dell’università che annaspa, della ricerca che si impoverisce. Sarebbe un bene, se non fosse che se ne parla solo perché il ministro dell’Istruzione Fioramonti si è dimesso. Poi, purtroppo, la cappa del silenzio politico coprirà ogni discussione pubblica su un tema che dovrebbe essere cruciale per la qualità stessa della nostra democrazia. Finito il clamore sullo stato del governo, la scuola tornerà ad essere, a destra e a sinistra, con eguale insipienza, la cenerentola dei problemi italiani, l’ultima voce di un’agenda politica del tutto indifferente alle sorti dell’istruzione. È di poco tempo fa l’allarme della rilevazione Ocse-Pisa, secondo la quale gli studenti italiani sono tra i peggiori in Europa in quanto a comprensione di un testo. Ma, come scrivono Gianna Fregonara e Orsola Riva sul numero di «7» attualmente in edicola, mentre in Francia, per dire, «per risultati molto più lusinghieri si è aperta una riflessione pubblica sul fallimento dell’école républicaine», da noi il dibattito su quei risultati così sconfortanti è durato solo poche ore, nonostante, aggiungono, «la scuola sia stata addirittura il primo capitolo del discorso di insediamento del premier Conte». Un po’ di virtuose declamazioni retoriche e nulla più.

L a politica ha smesso da tempo di interrogarsi sulla missione che la scuola dovrebbe assolvere, sul suo significato, sul suo ruolo cruciale in una società aperta e dinamica, ma anche terribilmente esposta alla marea di falsificazioni, di manipolazioni, di mistificazioni che funestano e inquinano lo spazio pubblico. C’è qualche ragione per cui i genitori mandano a scuola i figli che non sia il luogo dove parcheggiarli? Gli insegnanti sono frustrati e depressi: sentono che il loro ruolo è sempre più svilito, sempre meno riconosciuto, sempre meno socialmente apprezzato per la funzione delicata che dovrebbe svolgere. Tra i ceti più svantaggiati, lo dicono spietatamente i numeri e le statistiche, cresce la tentazione di non faticare più per mandare i figli all’università perché tanto, dicono, è inutile, tanto l’ascensore sociale si è bloccato, tanto si fa fortuna in altri modi, tanto non ne vale più la pena: è una sconfitta per l’idea stessa della democrazia, dove l’istruzione è fondamentale, il talento deve essere riconosciuto, le origini sociali non possono essere di ostacolo alle libere scelte degli studenti meritevoli. Ma c’è qualcuno che chiede di far ripartire il meccanismo delle borse di studio per garantire il principio democratico e liberale dell’uguaglianza dei punti i partenza, delle pari opportunità, del merito come criterio dell’avanzamento sociale e culturale? Le politiche dei governi si limitano invece a fare della scuola un «postificio», un po’ di sistemazione dei precari, un po’ di prepensionamenti, un po’ di indicazioni pedagogiche astruse e farraginose. Ma un giovane che oggi volesse intraprendere la professione dell’insegnante quali possibilità ha di realizzare i suoi progetti, quanti decenni di precariato ha davanti a sé? Il ministro dell’Istruzione che si è appena dimesso aveva chiesto all’inizio del suo mandato 3 miliardi per la scuola. Ma nessuno gli ha chiesto: per farci che cosa. Il «che cosa» sparisce dall’orizzonte, si tratta solo di finanziare l’esistente. Ma questo esistente palesemente non funziona. La scuola come agenzia educativa perde colpi. Molti docenti confessano addirittura di cominciare ad avere la paura fisica di entrare nella scuola, dove il «gruppo dei pari» si organizza secondo logiche di clan in cui il bullismo diventa pratica diffusa. Svanisce la certezza degli stessi principi di selezione, e si stenta a capire per quale ragione nelle scuole del Sud ci siano molti meno bocciati che nelle scuole del Nord. È legittimo il sospetto di due pesi e due misure?

Una politica che non sia schiacciata sul politicismo del presente dovrebbe comprendere che quella scolastica è un’emergenza nazionale, che il senso di sfiducia e di frustrazione che si addensa attorno alla scuola, all’università e alla ricerca è una mina che esplode intaccando l’idea stessa di una democrazia moderna. Poi, concluse le scaramucce nei governi, ci saranno nuove declamazioni retoriche, i discorsi delle cerimonie, gli impegni mai rispettati. Ma la scuola continuerà ad essere la cenerentola, l’ultima della lista. Come al solito.

L’emergenza dimenticata

da la Repubblica

Concita De Gregorio

Lorenzo Fioramonti è un giovane uomo al centro dei suoi quarant’anni. Era neonato negli anni di piombo, si laureava in Filosofia mentre finiva il Novecento. Classe 1977, è cresciuto quando le grandi battaglie ideologiche si erano già consumate tutte.

Ha un eccellente curriculum di studi e di formazione internazionale, una reputazione di economista nel mondo costruita su tesi, pubblicazioni e libri, sul suo pensiero insomma, una moglie tedesca poliglotta, due figli, una cattedra in Sudafrica, un bel sorriso, una schiettezza nel dire che gli ha procurato spesso qualche problema.

T ogliere il crocefisso e mettere una carta geografica del mondo dietro la cattedra, in ogni aula, è per esempio qualcosa che in Italia non si può dire, essendo questo Paese ostaggio dell’influenza vaticana sulla politica, la politica di governo da sempre subalterna al lasciapassare della Chiesa.

Negli anni in cui chi ha qualcosa da dire prova a farlo, avendo ancora giovanile fiducia che serva, si è affacciato all’Italia dei Valori di Di Pietro: come molti di coloro che hanno poi riparato nel Movimento Cinquestelle e con l’idea, immagino, di combattere la corruzione, i padrinati, “il Sistema”. È diventato sottosegretario all’Istruzione, con i Cinquestelle, nel primo governo Conte (quello con la Lega) e poi ministro dell’Istruzione nel Conte due, quello col Pd. Non saprei dire se Fioramonti sia un uomo di sinistra, immagino che lui stesso consideri la categoria desueta come tanti suoi coetanei. Posso senz’altro dire però che le sue parole nel giorno delle dimissioni sono sacrosante e – una per una – da conservare e ricordare a futura memoria.

Un governo progressista che non metta l’istruzione al primo posto ha fallito. Tutto il resto sono chiacchiere, tecnicismi che mascherano concessioni alle lobbies finanzianti. Un governo progressista «può e deve» investire sulle persone perché «l’economia si basa sul capitale umano», ha scritto nel suo congedo. Sulle persone, sui nostri figli, sulla loro formazione. Il potere è conoscenza, a dispetto della vulgata populista. Non è vero che l’unica uguaglianza possibile è con l’ultimo della fila, a fare a gara di insulti e di rutti: compito della politica è portare gli ultimi al livello dei primi, provarci almeno, e che tutti abbiano gli strumenti per capire, dissentire, costruire. Il sapere è l’unica forma democratica di potere, e se questo governo “progressista” non mette i soldi che servono (24 miliardi, ma 3 sono “la linea di galleggiamento”. Sotto i 3 l’affondamento) allora non è al servizio del progresso, è colpevole del peggiore dei delitti: lo diceva Calamandrei, scrive Fioramonti. Il futuro di un Paese lo disegna la sua scuola, che non è una spesa ma un investimento, e la vera crisi economica che abbiamo di fronte non è l’emergenza migranti, non sono i giovani di altri mondi che arrivano: sono i giovani di questo Paese che se ne vanno.

Un’emorragia di competenza e conoscenza che ha fatto strage di generazioni, costrette ad andarsene dall’Italia e accolte altrove da altre nazioni con intelligenza, lungimiranza e stipendi dignitosi. In un Paese normale si discuterebbe oggi delle ragioni che hanno portato Fioramonti alle dimissioni: si parlerebbe di cosa dice. Aveva proposto microtasse di scopo per finanziare la macchina del sapere: sulle merendine “al sapore di” e sulle bibite zuccherate, perché il cibo industriale è nemico della salute e amico dei profitti di chi lo produce. Sui biglietti aerei perché se vuoi andare veloce inquinando di più ti puoi anche permettere un euro di tassa: un sovrapprezzo da reinvestire in conoscenza. Ma certo: le lobbies dell’industria alimentare e dei trasporti aerei non sono d’accordo, e la politica obbedisce. Si tratta di scegliere, di avere il coraggio di fare quel che serve a molti e non ciò che conviene a pochi: di governare, insomma.

Di questo, si parlerebbe oggi: dei milioni di insegnanti, ricercatori, precari della docenza e dello studio che eroicamente e per cifre ridicole portano avanti un’idea di futuro. Della scuola che cresce i figli nati qui da chi è arrivato da altrove, e che da sola potrebbe “fare politica” di integrazione, se solo avesse i mezzi. Di scuole che scompaiono dai paesi, palestre inesistenti nelle città, di carta igienica nei bagni e insegnanti di sostegno per chi può farcela se qualcuno lo aiuta, di chi sperimenta l’impensabile e inventa il tempo che verrà. Si parlerebbe di musica nel Paese del bel canto, di lingue antiche che sono la radice della nostra e di teatro, il gioco della vita e del mondo. Di scienze, di tecnologie, di come capire e governare il futuro. Di noi fra trent’anni. Ma no, non si parla di questo.

Si parla di noi fra tre mesi: delle ragioni occulte, politiche, delle dimissioni del ministro. Che forse è in combutta con qualcuno che lo manovra, che forse sta solo facendo da sponda a Conte per fare un nuovo gruppetto di suoi supporter, e allora Goffredo Bettini, e allora Zingaretti, e allora Renzi. E guarda cosa dice Forza Italia, e cosa Giorgia Meloni. Chissà perché lo ha fatto, perché si è dimesso a Natale, a quale scopo. Dietro ogni sospetto c’è una cattiva intenzione, e può darsi che gli esperti di intenzioni pessime abbiano ragione. Resta il fatto che erano anni, decenni che non si sentiva qualcuno al governo dire: bisognerebbe investire sul sapere, se il gruppo di cui faccio parte non lo farà non voglio il mio nome nei titoli di coda. Poi aspettare la legge di Bilancio, poi con parole esatte rinunciare: un gesto formidabile, drammatico. Una grande opportunità per smettere di criticare (manca tutto, nelle scuole: ma tutto) fermarsi dieci minuti e dire: sì, un governo progressista che non mette la scuola al primo posto ha fallito, può anche andare a casa. Sono sicura che non succederà, conosco l’argomento: arriverebbero i brutti e cattivi. I buoni e lungimiranti sono questi.

L’isolamento del prof di Pretoria “Non ho più coperture politiche”

da la Repubblica

Corrado Zunino

La freddezza con cui il premier Conte lo ha salutato all’ultimo Consiglio dei ministri gli ha restituito i tempi in cui, assegnista di Scienze politiche all’Università di Bologna, Lorenzo Fioramonti portava avanti le sue ricerche scrivendo sul portatile personale, seduto su una panca in corridoio: «Nessuno mi prendeva sul serio, figuriamoci se qualcuno mi dava un ufficio. Ero uscito con il massimo dei voti alla Maturità, mi ero laureato con la lode, ero pure dottorato, ma l’unica volta che i professori del Dipartimento mi avevano avvicinato era stata per chiedermi di non partecipare a un concorso per ricercatore. Quei posti erano già assegnati».

Lorenzo Fioramonti è nato a Torre Gaia, quadrante Est della capitale. Liceo a Tor Bella Monaca, hub della droga pesante. Conosce il suo Paese dal basso e l’università italiana per il dolore che a 42 anni ancora sente. L’altra sera, a Montecitorio, ai colleghi cinquestelle che volevano schermarlo dai giornalisti aveva confessato: «Non sono coperto economicamente, non sono coperto politicamente, come faccio a continuare a fare il ministro?». I tre miliardi per scuola e università li aveva chiesti che era ancora il vice di un titolare dell’istruzione leghista, suo primo nemico allora. «Con il mio curriculum faccio il secondo di Bussetti, un professore di ginnastica», sottolineava al suo staff. Poi, appena nominato nel nuovo governo Pd-Cinque Stelle, ha ricordato i finanziamenti necessari nella prima intervista: «L’università italiana, che è tra le più innovative ed eccellenti nel mondo, è sottofinanziata e sfinita dalla burocrazia». Con le sue dimissioni, lo resterà.

L’asticella, si è capito subito, era troppo alta: l’Iva da sterilizzare, gli spiccioli rimanenti da mettere sul cuneo fiscale. Non poteva essere questo il governo che avrebbe cancellato l’ottusa parsimonia negli investimenti sul motore di un Paese: «Università e ricerca costruiscono il futuro di tutti noi», ha scritto nel suo post di addio su Facebook anticipato dal sito di Repubblica. «Pare che le risorse non si trovino mai quando si tratta di scuola e ricerca, eppure si recuperano centinaia di milioni di euro in poche ore quando c’è la volontà politica». Fioramonti, liberato nel percorso professionale dalla chiamata inaspettata ottenuta dall’Università di Pretoria come docente di Economia politica, con il suo ultimatum lungo quattro mesi, da ministro dell’Istruzione ha avuto il merito di mettere al centro la questione del sapere agganciandola, quindi, all’urgenza ecologica: «Siamo i primi al mondo a portare l’Educazione ambientale nell’orario scolastico», scrive ora. Poi, però, non è andato a difendere le sue richieste ai “tavoli quotidiani”: le tante riunioni sulla manovra, le commissioni di Camera e Senato. Ha lasciato che a suggerire emendamenti fossero deboli docenti d’area grillina. «Non abbiamo mai percepito un pressing sulle questioni avanzate », fanno notare ora al ministero dell’Economia.

Mentre i renziani, timorosi di regalare a Salvini elettori con le nuove tasse ipotizzate da Fioramonti, smontavano l’aumento delle imposte su Coca Cola e caviale, il ministro viaggiava per laboratori dicendo agli studiosi dell’Area Science Park di Trieste e del Gran Sasso: «Meritate più fondi». In Parlamento, però, i finanziamenti restavano ancorati a quota 2 miliardi, quasi tutti destinati all’aumento per i docenti. Lo stesso ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, a chiusura Finanziaria sancirà: «Nella prossima manovra rafforzeremo gli interventi in questo comparto».

Non sono coperto politicamente, diceva appunto Fioramonti. L’unico ministro Cinque stelle che è intervenuto dopo le dimissioni è stata Fabiana Dadone (Pubblica amministrazione) e gli ha dato del vigliacco. Il silenzio è stata la cifra, prima e dopo, di Luigi Di Maio, che ne ha sempre temuto i movimenti. Diversi nel partito ora dicono che si è dimesso per le pressioni della moglie, che vuole riportare tutta la famiglia a Berlino.

Lorenzo Fioramonti voleva togliere i crocifissi e mettere in classe i mappamondi. Da attivista insultò Berlusconi e la Santanché sui social, da ministro avrebbe voluto trasformare i terreni dell’Università di Roma Tor Vergata nella più grande serra del mondo. Per combattere la mala università, però, si era affidato all’inconsistente Iena Dino Giarrusso. «Il governo doveva avere più coraggio », dice: «A volte bisogna fare un passo indietro per farne due in avanti. Il mio impegno per la scuola e per le giovani generazioni non si ferma qui». Resta un deputato della Repubblica italiana, uno dei tanti.

“L’Italia digitale unisce la politica Il cambiamento cominci dalla scuola”

da La Stampa

Bruno Ruffilli

Solidità, messa in sicurezza, stabilità: Luca Attias parla come un ingegnere, e lo è. Solo che non si occupa di case e infrastrutture analogiche, ma di bit. Romano, 54 anni, è dal 31 ottobre 2018 Commissario Straordinario per l’attuazione dell’Agenda Digitale. Dal primo gennaio 2020 sarà Capo del Dipartimento per la Trasformazione Digitale. Al di là della denominazione, il cambiamento più rilevante è che questa struttura, istituita lo scorso giugno, dipende direttamente dalla Presidenza del Consiglio. E così l’infinita rincorsa dell’Italia verso le nuove tecnologie perde il carattere di un impegno “straordinario” per diventare ordinario, costante, quotidiano, e possibilmente non messo in discussione da cambiamenti politici.
Cambiamenti che non hanno toccato il Team Digitale: ha resistito a quattro Governi.
«Il team è nato con Diego Piacentini, che ha lavorato due anni gratuitamente per avviare il “sistema operativo del Paese”, come lo ha chiamato. Un’esperienza alla quale ho cercato di dare continuità, e dalle forze politiche ho trovato un atteggiamento maturo: il nostro non è il primo progetto di accelerazione sul digitale, ma è il primo che resiste a due maggioranze completamente diverse. E che nel Governo attuale esista un Ministro apposta per l’Innovazione è il segnale di una consapevolezza in crescita a destra come a sinistra».
Lei da che parte sta?
«Sono apartitico, lavoro da vent’anni nella Pubblica Amministrazione, credo di conoscerne eccellenze e debolezze».
La Corte dei Conti, dove era Dirigente Generale dei Sistemi Informativi Automatizzati, è un’eccellenza: e il resto?
«Varia, quello su cui bisogna intervenire però è l’interoperabilità tra le amministrazioni. Che va affrontata a livello tecnologico, ma prima ancora psicologico e morale. Finché alcuni dirigenti della PA riterranno i dati come una loro proprietà sarà impossibile il coordinamento. Oggi – mi spiace dirlo – ci sono carriere costruite su questo, e passeranno anni prima di punire chi non condivide dati che non sono suoi».
Cosa pensa dei ringraziamenti a Casaleggio nel Piano 2025 del ministro Pisano? Gli interessi di un’azienda possono davvero influenzare la digitalizzazione del Paese?
«Io non ho avvertito quell’influenza. Per la stesura del Piano il ministro Pisano si è confrontato con molti interlocutori, mi sarei augurato un dibattito nel merito, non su un nome nei ringraziamenti».
Ma gli altri sono quasi tutti di docenti universitari…
«E il Team Digitale? Piacentini veniva da Amazon, oggi c’è chi è in aspettativa da IBM e chi lavora in altre aziende. Non dobbiamo temere la commistione pubblico-privato. E’ un’occasione per imparare, sempre vigilando perché le decisioni siano prese nell’interesse dello Stato. D’altra parte oggi una grandissima parte delle PA italiane è bloccata da ditte che le tengono in pugno da decenni, perché mancano competenze in campo tecnologico. Ci saranno forse casi di tangenti, ma per la maggior parte è pigrizia mentale, si delega e basta».
Come va lo Spid, il progetto pubblico di identità digitale?
«Abbiamo 5,4 milioni di iscritti, ma è un dato che non mi soddisfa: dovrebbero essere almeno 30 milioni, perché lo Spid potrebbe essere usato per accedere ai servizi dell’Inps, dell’Inail, dell’Agenzia delle Entrate e molti altri. Invece a oggi il modello di business è poco chiaro, i provider non ci hanno guadagnato niente, e fino a poco fa non sapevamo nemmeno se lo Spid sarebbe stato gratuito dopo la fine dell’anno per chi lo ha già. Le killer application che hanno fatto crescere le iscrizioni sono state 18 App e il reddito di cittadinanza, poi ci sono Pago PA e a breve l’app IO, ma servono investimenti».
Saremo tra i primi nella Ue per l’identità digitale, ma nel Desi (Digital Economy and Society Index) siamo al 24° posto su 28. Come mai?
«Il 26% della popolazione italiana non usa internet, nemmeno per Google Maps: per queste persone la banda larga o i servizi della PA non significano niente, per quanto noi possiamo migliorarli, e lo abbiamo fatto. Dobbiamo lavorare sull’inclusione per battere il digital divide».
Cosa augura all’Italia per il 2020?
«Nella scuola c’è bisogno di coding, di pensiero computazionale e di un’educazione alla cittadinanza digitale per tutti. Solo così il lavoro del Team Digitale, del Dipartimento, le altre iniziative per fare dell’Italia un Paese digitale avranno un futuro». —

Istruzione senza nuovi fondi Cresce il divario con l’Europa

da La Stampa

Roberto Giovannini
roma
I numeri sono impietosi: per l’istruzione, dalla scuola primaria fino all’università, l’Italia spende secondo il rapporto Ocse del settembre scorso (che cita dati del 2016-2017) ogni anno soltanto il 3,6% del suo prodotto interno lordo. Un valore decisamente inferiore alla media Ocse, che è del 5%, e uno dei livelli più bassi di spesa tra i paesi esaminati. Peggio di noi fanno soltanto Lituania, Irlanda, Repubblica Ceca, Lussemburgo e Russia. Tra il 2010 e il 2016 la spesa è diminuita del 9% sia per la scuola che per l’università; ma a ben vedere è dal lontano 1995 che il nostro paese ha sostanzialmente congelato la spesa per studente di scuola primaria e secondaria (inferiore e superiore), con un aumento in termini reali dello 0,5%.
Una sorta di «spending review prolungata», che è stata amplificata dal progressivo invecchiamento del corpo docente: gli insegnanti italiani sono in media i più anziani dell’area Ocse, con addirittura il 59% di ultracinquantenni, anche se, grazie alle recenti assunzioni, questo rapporto è diminuito (era il 64% nel 2015). Nel prossimo decennio sta per esplodere una doppia bomba demografica: avremo oltre un milione di studenti in meno, e bisognerà sostituire quasi la metà degli attuali docenti, che andranno in pensione. Continuiamo, comunque, a contare la quota più bassa di insegnanti tra i 25 e i 34 anni.
Altro problema, la qualità e l’efficacia del nostro sistema di istruzione. L’Italia registra nell’area Ocse la terza quota più elevata di giovani che non lavora, non studia e non frequenta un corso di formazione (i cosiddetti neet): il 26% dei giovani di età compresa tra 18 e 24 anni, rispetto alla media del 14%. Le rette universitarie restano tra le più elevate dell’area Ocse, e il numero dei laureati nella fascia d’età 19-64 anni non supera il 19%, mentre la media Ocse si attesta su un lontano 37%. L’università non riesce sempre a garantire un’occupazione, tantomeno uno stipendio significativamente più elevato rispetto a chi si è fermato alle superiori.
Uniche note positive la scolarizzazione e gli asili. Il 94% dei bambini dai 3 ai 5 anni frequenta la scuola materna, e ogni insegnante deve badare a una media di 12 bambini, contro una media Ocse di 15. Per quanto riguarda la scolarizzazione, invece, abbiamo raggiunto un buon livello: quasi tutti i ragazzi dai 6 ai 14 anni – cioè quelli che per legge sono obbligati ad andare a scuola – la frequentano davvero.
Le dimissioni di Lorenzo Fioramonti confermano le difficoltà dell’Italia a trovare nuovi investimenti per il comparto scuola, università e ricerca, che neanche il governo Conte bis è riuscito a trovare: la richiesta del professore dimissionario era di almeno 3 miliardi da inserire in manovra ma, al netto dei tagli bloccati, dei fondi stanziati per gli asili nido (2,5 miliardi per i comuni per aumentare i posti ma all’interno delle misure per le famiglie), dell’aumento di qualche decina di milioni dei fondi di finanziamento e delle borse di studio e delle risorse preventivate nel decreto Fisco (più risorse per la sicurezza degli edifici anche dall’8xmille dal 2020), di soldi per l’istruzione nella manovra approvata ce ne sono pochi. È in vista una tornata di concorsi per 50mila docenti nella scuola secondaria. Un po’ meglio è andata per i fondi dedicati all’edilizia scolastica, che anche nell’ultimo periodo hanno avuto un incremento costante per fare fronte alle tante emergenze: gli ultimi 510 milioni sono stati sbloccati il 20 dicembre e andranno in erogazione diretta gli enti locali. Tirando le somme, alla voce scuola nella manovra 2020 sono previste risorse per meno di 2 miliardi, e quasi nulla per l’università che il ministro avrebbe voluto potenziare.
Male è andata anche sul versante delle risorse per gli stipendi degli insegnanti, che all’inizio del suo incarico Fioramonti aveva promesso di aumentare. Con le risorse disponibili si arriva a un aumento contrattuale medio di circa 80 euro al mese, che per giunta per i sindacati di categoria diventano 70 se si considera la quota necessaria a finanziare il cosiddetto «perequativo».
Il mondo della scuola reagisce con sconcerto e preoccupazione per il futuro alle dimissioni di Fioramonti. Per Rino Di Meglio, coordinatore nazionale Gilda degli Insegnanti, «le dimissioni del ministro confermano che in Italia i governi non ritengono strategiche istruzione e ricerca». Secondo Maddalena Gissi, segretaria generale di Cisl Scuola, Università e Ricerca, «le dimissioni possono aprire una fase estremamente rischiosa». Per il segretario generale della Flc Cgil, Francesco Sinopoli, se Conte non cambierà le scelte del governo, si rischia che «chiunque sia il successore non potrà fare a meno di seguire le orme di Fioramonti».

Lo Stato dimentica chi studia

da La Stampa
Andrea Gavosto*

Il ministro Lorenzo Fioramonti ha mantenuto l’impegno, preso forse in modo un po’ avventato al momento dell’insediamento, di dimettersi nel caso in cui le risorse per la scuola, l’università e la ricerca non fossero aumentate significativamente nella legge di bilancio del 2020. Tanto di cappello alla sua coerenza, soprattutto in un Paese in cui le promesse dei politici di lasciare in caso di insuccesso rimangono spesso lettera morta.
Le motivazioni delle dimissioni danno l’occasione per qualche riflessione sul tema delle risorse per l’istruzione. Va premesso che gli investimenti in questo campo sono i più importanti in una prospettiva di benessere e crescita duraturi dell’intera società nazionale; soprattutto, rappresentano una scelta di campo a favore dei giovani, in un Paese che tende sempre a privilegiare gli anziani, al punto da spendere oltre il 20% del Pil in pensioni. Poche settimane fa la Fondazione Agnelli lo ha ricordato auspicando, a conclusione di un suo rapporto, un programma pluridecennale di spesa per l’edilizia scolastica e la didattica perfino più ambizioso di quello di Fioramonti. È però utile sgombrare il campo da un «falso mito», ossia che in Italia si spenda in generale troppo poco per la scuola. Bisogna distinguere, perché solo così si può capire che non sempre è una questione di quantità, ma spesso di qualità della spesa.
Se prendiamo i dati e i confronti internazionali dell’ultimo rapporto Education at a Glance dell’Ocse, scopriamo che per la scuola l’Italia spende appena meno della media degli altri Paesi avanzati. In particolare, la spesa per studente è nella scuola dell’infanzia e primaria il 94% della media Ocse, il 92% nella scuola secondaria. Non è una differenza così significativa, e questo deve portarci a concludere che nella scuola spesso spendiamo male, visto che i nostri risultati di apprendimento sono insoddisfacenti e soprattutto con divari territoriali forse senza eguali al mondo. E credo continueremmo a spendere male se dovesse passare una politica di aumenti a pioggia e indifferenziati per tutti gli insegnanti – come ha promesso in passato lo stesso ministro -, invece di un criterio che premi impegno e competenze: ad esempio, definendo percorsi di carriera nei quali siano valorizzate l’innovazione e la qualità della didattica e la disponibilità a lavorare più a lungo (la scuola del «pomeriggio») e nelle situazioni più problematiche.
Molto più bassa della media Ocse è invece la spesa per studente all’università: soltanto il 69%, un divario enorme. Il vero e grande problema di quantità delle risorse oggi è qui, come lo stesso Fioramonti ci ha ricordato in un suo commento sui social, argomentando le dimissioni. La scarsità di risorse sta determinando gravi danni al nostro sistema universitario, a cominciare dall’impossibilità di rimpiazzare i professori che vanno in pensione. Nel giro di un decennio, gli atenei hanno visto ridotto di quasi diecimila unità il numero di docenti e ricercatori a tempo pieno (oggi siamo appena sopra i 50 mila): diventa quindi impossibile attivare nuovi corsi di laurea – o addirittura mantenere quelli vecchi –, assicurare condizioni didattiche decorose e favorire la transizione al lavoro.
L’università italiana ha oggi un serio problema di investimenti, che le impedisce di mantenere il passo con quelle dei Paesi più avanzati. Non stupisce che negli ultimi anni oltre 150.000 giovani diplomati e laureati in Italia abbiano preso la strada dell’estero: una perdita di capitale umano senza senso per il nostro Paese. Se il gesto del ministro Fioramonti riuscirà a farci discutere seriamente di questi problemi, gli dovremo essere grati.
* Direttore Fondazione Agnelli —

La Cassazione dice sì alla parità di diritti tra precari e docenti di ruolo

da Orizzontescuola

di Avv. Marco Barone

Dopo la Corte di Giustizia Europea, la Cassazione dice sì alla parità di diritti tra precari e docenti di ruolo. Sentenza.

Una importante sentenza della Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 15-10-2019) 16-12-2019, n. 33140, risolve, forse definitivamente, la questione della differenza retributiva che sussiste tra il personale precario e di ruolo, e l’auspicio, a questo punto è che il legislatore intervenga in modo risolutivo per mettere fine a dei contenziosi che durano da decenni affinchè non si registri più alcuna discriminazione tra il suddetto personale.

La sentenza della Corte di Giustizia Europea

Con la sentenza del 20.9.2018, in causa C466/17, Motter, con la quale, a seguito di rinvio pregiudiziale del Tribunale di Trento, la Corte di Giustizia ha statuito che la clausola 4 dell’Accordo Quadro, in linea di principio, non osta ad una normativa, quale quella dettata dal D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 485 che “ai fini dell’inquadramento di un lavoratore in una categoria retributiva al momento della sua assunzione in base ai titoli come dipendente pubblico di ruolo, tenga conto dei periodi di servizio prestati nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato in misura integrale fino al quarto anno e poi, oltre tale limite, parzialmente, a concorrenza dei due terzi”.

Con quella sentenza sembrava che si fosse compromesso quel diritto che tanti tribunali di merito stavano riconoscendo ai precari, ma la Cassazione, con la sentenza in commento, interviene in modo netto.

I precedenti

“Quanto alla comparabilità degli assunti a tempo determinato con i docenti di ruolo valgono le considerazioni già espresse da questa Corte con le sentenze richiamate al punto 6 e con l’ordinanza n. 20015/2018 che, valorizzando il principio di non discriminazione e le disposizioni contrattuali che si riferiscono alla funzione docente, ha ritenuto di dovere riconoscere il diritto dei supplenti temporanei a percepire, in proporzione all’attività prestata, la retribuzione professionale docenti. In quelle pronunce si è evidenziato, ed il principio deve essere qui ribadito, che la disparità di trattamento non può essere giustificata dalla natura non di ruolo del rapporto di impiego, dalla novità di ogni singolo contratto rispetto al precedente, dalle modalità di reclutamento del personale nel settore scolastico e dalle esigenze che il sistema mira ad assicurare.”

I principi di diritto della Cassazione sul riconoscimento della parità retributiva tra precari e personale di ruolo

a) il D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 485 che anche in forza del rinvio operato dalle parti collettive disciplina il riconoscimento dell’anzianità di servizio dei docenti a tempo determinato poi definitivamente immessi nei ruoli dell’amministrazione scolastica, viola la clausola 4 dell’Accordo Quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, e deve essere disapplicato, nei casi in cui l’anzianità risultante dall’applicazione dei criteri dallo stesso indicati, unitamente a quello fissato dall’art. 489 cit. decreto, come integrato dalla L. n. 124 del 1999, art. 11, comma 14, risulti essere inferiore a quella riconoscibile al docente comparabile assunto ab origine a tempo indeterminato;
b) il giudice del merito per accertare la sussistenza della denunciata discriminazione dovrà comparare il trattamento riservato all’assunto a tempo determinato, poi immesso in ruolo, con quello del docente ab origine a tempo indeterminato e ciò implica che non potranno essere valorizzate le interruzioni fra un rapporto e l’altro, nè potrà essere applicata la regola dell’equivalenza fissata dal richiamato art. 489;
c) l’anzianità da riconoscere ad ogni effetto al docente assunto a tempo determinato, poi immesso in ruolo, in caso di disapplicazione del D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 485 deve essere computata sulla base dei medesimi criteri che valgono per l’assunto a tempo indeterminato.

Pensioni scuola 2020, scadenza domanda prorogata al 10 gennaio 2020

da Orizzontescuola

di redazione

Pensioni scuola 2020, scadenza presentazione domande prorogata al 10 gennaio 2020.

A seguito della richiesta dei sindacati, il Miur ha prorogato la scadenza per la presentazione delle domande di cessazione dal servizio del personale scolastico dal 1° settembre 2020.

Prorogato al 10 gennaio il termine per la presentazione delle domande su Polis Istanze online.

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