Ripensare le città per l’inclusione e la sicurezza

Ripensare le città per l’inclusione e la sicurezza

Nei giorni scorsi Niccolò Bizzarri, 21 anni, una persona con disabilità, è morto in seguito ad una caduta in carrozzina, complice una buca nella centrale piazza Brunelleschi di Firenze, dove frequentava la Facoltà di Lettere.

Nell’esprimere la nostra vicinanza alla famiglia – commenta Vincenzo Falabella, presidente della Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap – vogliamo manifestare la nostra preoccupazione per le condizioni di vita di tante persone con disabilità. Il diritto all’inclusione e alla vita indipendente transita attraverso molti requisti fra loro intrecciati. Uno di questi è poter circolare liberamente e in sicurezza, senza timore per la propria incolumità, nelle nostre città, nei luoghi delle nostre collettività. Al contrario troppo spesso le nostre città non sono solo percorsi ad ostacoli, spesso punteggiati da barriere e impedimenti, ma diventano anche occasioni di maggior pericolo per i pedoni più fragili, per gli anziani, per le persone con disabilità. Gli interventi di manutenzione e di recupero non vanno ricondotti solo alle grandi opere, alle infrastrutture imponenti, ma anche a tutti i percorsi che abbiamo attorno a casa, che ci sono più familiari, che sono alla base delle nostre relazioni umane, di studio, di lavoro, di salute, di tempo libero. Sono interventi di civiltà, che prevengono drammi come quello di Firenze e che sono occasione di inclusione.”

LA SCUOLA CLASSISTA DI VIA TRIONFALE RISPECCHIA QUELLA ITALIANA

RETE STUDENTI ‘ LA SCUOLA CLASSISTA DI VIA TRIONFALE RISPECCHIA QUELLA ITALIANA

L’Istituto Comprensivo di Via Trionfale ha purtroppo scelto una retorica classista per presentarsi, con “i figli dell’alta borghesia” da una parte e “alunni di estrazione sociale medio-bassa” e “il maggior numero di alunni di cittadinanza non italiana” dall’altra.

Federico Allegretti, coordinatore Nazionale della Rete degli Studenti Medi, dichiara: “La scuola italiana è tutta classista: invece di ridurre le disuguaglianze le cristallizza. Invece di offrire le stesse possibilità di realizzazione personale a tutti, a prescindere dalle loro condizioni di partenza, lascia a se stessi gli studenti, col risultato che i più deboli, inevitabilmente, soccombono.”

Conclude Allegretti: “La scuola dovrebbe essere il motore di cambiamento della società, il più forte strumento di inclusione: è giunto il momento di ribadire che vogliamo una scuola per tutti e di tutti, veramente, invece di ripetere parole vuote come “meritocrazia”.”

Nessuno deve essere lasciato indietro!

La scuola italiana è classista: perché le polemiche distorte non la rendono migliore

USB Scuola: La scuola italiana è classista: perché le polemiche distorte non la rendono migliore

Ieri sui quotidiani è scoppiata l’ennesima polemica sul classismo della scuola italiana. Sul sito dell’Istituto Comprensivo di Via Trionfale a Roma nella presentazione dell’istituto compare una dettagliata definizione e distinzione dell’estrazione sociale degli studenti che lo frequentano, un’estrazione sociale molto differente a seconda dei plessi che lo compongono.

La polemica è però, a nostro avviso, ancora una volta distorta (non è la prima, risalgono a un anno fa quelle sulle presentazioni di alcuni licei romani), volutamente disinformata, finisce per creare ulteriore disinformazione e, soprattutto, non centra l’obiettivo.

Partiamo dai dati di fatto: ogni scuola deve riportare nel Rapporto di Autovalutazione (RAV), redatto periodicamente, presupposto del Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF), la carta di identità della scuola nell’idea del MIUR, la tipologia di “utenza” che la frequenta. Deve dunque indicarne, tra le altre cose, l’estrazione sociale, ricavata ogni anno, dal questionario introduttivo ai test INVALSI, che traccia con precisione le caratteristiche delle famiglie di origine, con un’intrusività e un pregiudizio, a nostro avviso, assai grave. L’istituto in questione ci dice, con un linguaggio sociologicamente estremamente discutibile, questo sì, che nei suoi tre plessi, situati in quartieri tra loro molto diversi, sono presenti studenti molto diversi per estrazione sociale. Il punto è che non scrive affatto di scegliersi gli studenti, come sostenuto da alcuni famosi quotidiani e ripreso in modo incauto dalla rete.

Il dato di fatto, in realtà, è che l’utenza di qualsiasi scuola del primo ciclo (infanzia, elementari e medie) rispecchia la struttura sociale della zona in cui si trova. Il classismo è nella società, la scuola semplicemente lo rispecchia: sta nella suddivisione tra quartieri per ricchi e quartieri per poveri, tra centri e periferie, tra quartieri ghetto e quartieri riservati alle classi dirigenti. Sta nella conformazione stessa delle nostre città, sempre più gentrificate, che espellono le classi lavoratrici ai margini, quando non direttamente in hinterland spesso molto degradati.

Attenzione, con questo non vogliamo dire che la scuola italiana non sia classista: lo è e lo è sempre stata. Nasce classista nell’idea di Gentile del 1923 e tale rimane fino a quando i movimenti e le lotte degli anni ’60 e ’70 non provano a trasformarla. Quelle lotte, unite e in parte spinte dalla scolarizzazione di massa degli anni del boom economico, la resero all’epoca più democratica, più aperta; ne fecero quell’ascensore sociale che è in parte stata, nei 30 anni della piena occupazione. Gli interventi sperimentali, mai divenuti, se non proprio nella scuola primaria, una riforma organica, hanno creato esperienze di eccellenza e di reale apertura della cultura e dei saperi a quelle classi lavoratrici che tradizionalmente ne erano escluse. Ma allora come oggi i licei del centro sono sempre stati migliori di quelli delle periferie: i figli delle classi dirigenti sono sempre andati per lo più al Liceo Classico e al Liceo Scientifico, i figli dei lavoratori andavano e vanno ai professionali, tutt’al più ai tecnici; oggi, se sono particolarmente “bravi a scuola” frequentano i cosiddetti licei deboli (scienze applicate o scienze umane, per dire) o licei di periferia, che hanno mediamente meno fondi e un corpo docente meno stabile e meno strutturato, perché sì, in Italia i docenti preferiscono insegnare in scuole che presentano meno contraddizioni che in quelle di frontiera. Probabilmente non fa onore al corpo docente, ma va di pari passo con la svalutazione della professione, con i tagli ai fondi per la scuola pubblica, con l’abbandono in cui versano gli edifici e le strutture.

La crisi economica e le scelte neoliberiste dei governi e del MIUR, scelte in linea con le richieste dell’Unione Europea, che da decenni spinge con violenza per un avvicinamento tra scuola e mercato, tra scuola e aziende, hanno ridotto di molto la capacità della scuola statale di essere un ascensore sociale, l’hanno indebolita e hanno consapevolmente intrapreso di nuovo la strada del classismo, delle scuole di serie A e di serie B. In questo senso vanno le riforme susseguitesi negli ultimi vent’anni, dalla Berlinguer del 1999 in poi, fino alla 107 del 2015 e alla conseguente riforma dei professionali: l’istruzione tecnica e professionale sono state indebolite, i licei hanno ricominciato a fare selezione di classe (se mai avevano smesso), la dimensione laboratoriale è stata distrutta, i saperi tagliati nelle scuole dove ve ne sarebbe più bisogno, è stata introdotta l’Alternanza Scuola Lavoro obbligatoria, i rapporti interni tra docenti sono stati gerarchizzati e aziendalizzati, per parlare solo degli elementi di trasformazione più eclatanti e devianti. Dunque sì, nelle scuole superiori, la politica della scuola fa la differenza. Le scuole superiori oggi non solo dividono gli studenti sulla base della loro estrazione sociale, ma in gran parte ghettizzano i più fragili per origine sociale, per vissuto, per condizione famigliare, per problematiche di salute e apprendimento in scuole dove volutamente la dimensione culturale, dei saperi e del pensiero è ridotta e indebolita.

Questa è indubbiamente una scuola di classe. Anche perché a fronte delle classifiche tanto di moda tra scuole migliori e peggiori (Eduscopio, della Fondazione Agnelli, che possiamo senza timore definire un organo di Confindustria, vero e proprio motore culturale e pedagogico di questa trasformazione devastante), dei test Invalsi e dei RAV in cui le scuole fanno presenti punti di forza e debolezza, non corrisponde affatto l’aumento di fondi, la strutturazione di piani di intervento seri nelle situazioni più difficili, la valorizzazione del lavoro dei docenti (tra i meno pagati e considerati d’Europa). Le constatazioni restano lì, al massimo permettono alla scuola di ricevere alcuni fondi per le aree a rischio, il cui impiego non è mai peraltro seriamente verificato ed è lasciato alla professionalità e buona volontà di dirigenti e collegi docenti.

In una situazione di questo tipo, per quanto la si sia tratteggiata per sommi capi, il problema non è il concetto di bacino d’utenza, ovvero il fatto che la scuola debba essere aperta in primis ai bambini e ai ragazzi che abitano nei pressi della scuola stessa, ma il fatto che questo rispecchi la strutturazione sociale dei quartieri, oggi violentemente divisi in classi, ben più di un tempo e che il Ministero e i governi non solo non investano, ma nemmeno pensino o progettino di ragionare su come rendere meno devastanti gli effetti di questa feroce divisione in classi. Il bacino d’utenza è un concetto di per sé democratico, se ogni quartiere potesse avere un numero sufficiente di scuole, la cui qualità fosse omogenea e garantita. Non è un caso che il MIUR lo abbia indebolito, istituendo il mercato delle scuole e chiamandolo “orientamento” e dando vita al marketing con cui le scuole attirano studenti mentre le accorpava in istituti di 800 – 1500 studenti, al solo scopo di risparmiare su un diritto dovere essenziale come quello all’istruzione. Che questo Stato non risponda più né ritenga di dover rispondere al dettato costituzionale, per cui la scuola deve mitigare, se non annullare, le differenze, non cristallizzarle o peggio accentuarle, è il vero problema.

Il problema è il disinteresse voluto e strategico per quelle scuole che lavorano nei contesti più difficili, l’avallare una politica urbana, sociale, scolastica che indebolisce chi è già debole, segrega chi è già ai margini. In una società improntata al classismo, al neoliberismo, allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la scuola non può che essere classista, questo sì, è vero!

Scuola: le ragazze italiane crollano nella lettura, colpa degli smartphone

da Il Sole 24 Ore

di Giuliana Licini

Dai recenti test internazionali Pisa-Ocse, già nell’insieme tutt’altro che positivi per gli studenti della Penisola, è emerso in particolare un crollo della performance delle 15enni nelle prove di lettura

Leggono poco e hanno sempre più difficoltà a capire quel che leggono. Le ragazze italiane hanno fatto un balzo all’indietro nella lettura e sul banco dei colpevoli potrebbero esserci anche pc e l’ormai immancabile smartphone.

Dai recenti test internazionali Pisa-Ocse, già nell’insieme tutt’altro che positivi per gli studenti della Penisola, è emerso in particolare un crollo della performance delle 15enni nelle prove di lettura (comprensione di testo), mentre i ragazzi si sono mantenuti sostanzialmente stabili, il che ha livellato verso il basso il ‘gender gap’.

Un tema su cui ha indagato Francesca Borgonovi, economista Ocse specializzata nei temi dell’istruzione, ora in forza allo University College di Londra, nel dipartimento di Education, in qualità di British Academy Global Professor.

Nel test 2018 il punteggio medio degli adolescenti italiani (maschi) nella lettura è stato di 464 (media Ocse 475) e quello delle ragazze di 489 (Ocse 505). Nel 2009, invece, i punteggi erano stati rispettivamente di 464, quindi lo stesso del 2018 per i ragazzi e di 510 punti, nettamente superiore per le coetanee (medie Ocse 476 e 515).

Nel 2000 i ragazzi erano a 469 punti (Ocse 479) e le ragazze a 507 (Ocse 511). Il peggioramento nelle competenze di lettura è marcato soprattutto tra le studentesse con le performance peggiori, le cosiddette ‘low achievers’ (il 10% con i punteggi più bassi) : il voto che nel 2009 era di 393 punti scende a 366 nel 2018, mentre i compagni di classe di pari livello passano da 335 a 327.

La flessione riguarda anche le ragazze che rientrano nella fascia mediana delle competenze, dove il punteggio diminuisce da 516 a 493 punti (Ocse 508 da 519) e soprattutto quella più elevata della performance (il 10% al top), che scende da 616 a 605 punti (Ocse sale invece da 623 a 626).

Si allarga il divario internazionale
I ragazzi, invece, segnano un leggero miglioramento a 470 punti nella fascia mediana delle competenze da 468 del 2009 e a 591 da 589 tra gli studenti al top (ma la media Ocse sale da 595 a 608). Da rilevare i dati sempre inferiori rispetto ai livelli internazionali, con un allargamento della forbice soprattutto tra gli studenti al top.

Come dire che la Penisola, in media, ha meno «primi della classe». «In Italia quello che vediamo è un miglioramento ai livelli alti di performance per i maschi tra il 2009 e il 2018, che però non è particolarmente elevato rispetto ad altri Paesi, mentre c’e’ stato un crollo tra le ragazze tra il 2009 e il 2018», riassume Borgonovi in un colloquio con Radiocor-Il Sole 24 Ore, commentando i dati che in parte vengono resi pubblici nel dettaglio per la prima volta.

Le possibli cause
«Nell’insieme le ragazze continuano ad andare meglio dei ragazzi, ma la riduzione del ‘gender gap’ nella comprensione dei testi avviene in un ambito di declino, il che è preoccupante», sottolinea l’economista. C’e’ una spiegazione immediata per il peggioramento delle ragazze? «In realtà no, si possono però avanzare delle ipotesi», è la risposta.

Una delle possibili piste riguarda le diverse modalità con cui sono state svolte le prove. Tra il 2000 e il 2009 i test sono stati somministrati su carta e non ci sono state innovazioni particolari nella struttura, mentre nel 2018 le prove sono state fatte sul pc ed erano un po’ diverse. «I test dovrebbero essere comparabili, ma resta la possibilità che le ragazze – a diversi livelli di performance, ma soprattutto i più bassi – si trovino meno a loro agio rispetto ai ragazzi in un ambiente digitale» e «tendano quindi ad andare meno bene in questi nuovi ambiti di espressione delle loro capacità». Il che è, in ogni caso, «negativo».

Più di tre ore al giorno sullo smartphone
Una seconda ipotesi riguarda una “convergenza” nei livelli bassi performance, ovvero il decimo percentile, verso i comportamenti dei maschi, da sempre tendenzialmente poco motivati nei confronti della scuola, della lettura o dello studio.

«Le ragazze, ed è quello che è cambiato tra il 2009 e il 2018 a mio avviso, a livelli bassi di performance tendono ad essersi uniformate maggiormente all’atteggiamento maschile, quindi ad essere più demotivate, a passare più tempo magari sul cellulare, tenendo anche conto che nel 2009 lo smartphone, con accesso a Internet etc, era meno diffuso tra gli adolescenti di quell’età», indica l’economista.

Sempre più tempo online (anche le ragazze)
È tra l’altro aumentato di molto il tempo che gli adolescenti passano su Internet: gli adolescenti italiani (maschi e femmine) nel 2018 sono rimasti ‘online’ 96 minuti in più in media rispetto al 2009 durante un tipico giorno della settimana, portando il totale a 190 minuti quotidiani. «E’ tantissimo se si pensa ai tanti impegni giornalieri di un ragazzo, tra scuola, studio, spostamenti ed altro», nota l’economista.

Tra le ragazze le patite di Internet sono proprio quelle con le performance peggiori nella lettura: se nel 2009 passavano tra pc e smartphone 138 minuti, nel 2018 sono arrivate a 233 minuti al giorno (quasi 100 minuti in più), mentre nello stesso periodo i maschi sono passati da 126 minuti a 183 minuti (‘solo’ 58 minuti in più).

Va detto che anche le ragazze ‘super-brave’ sono passate da 88 minuti a 192, cioè 104 minuti in più, mentre tra i maschi ‘primi della classe’ il tempo online è aumentato da 106 a 191 minuti. Nello stesso periodo, il tempo dedicato alla lettura come piacere fuori dagli impegni scolastici, per le ragazze ‘low achievers’ è passato da 29 minuti a 34 minuti (5 minuti in più al giorno) e per i ragazzi da 13 minuti a 17 minuti. Al ‘top’ per le ragazze non ci sono grandi variazioni (56 minuti da 55) e per i ragazzi il tempo è addirittura diminuito (da 38 a 34 minuti).

Resta da vedere cosa leggano e quanto capiscano. Per le ragazze è possibile che, “tendenzialmente gli strumenti digitali siano stati ai livelli bassi uno strumento che ha influito negativamente sulla capacità di concentrazione, mentre ai livelli più alti di apprendimento, dove le ragazze erano già motivate prima, l’appeal del fattore digitale si è rivelato meno importante rispetto ai ragazzi e quindi non ha influito particolarmente nella performance” di lettura, osserva Borgonovi.

In conclusione, «il mezzo digitale in un certo senso può essere un potenziale promotore di divario. Se hai le capacità di usarlo nella gestione complessiva del tuo tempo, allora diventa uno strumento importante che può motivare, aiutare nella scoperta di cose nuove ed interessanti». Diventa, invece, «un mezzo di ‘distrazione di massa’ se la capacità di gestione del proprio tempo e delle proprie risorse manca».

JAZZ EDUCATION

Giovedì 16 gennaio
Sala dell’Istituto di Santa Maria in Aquiro
Presso il Senato della Repubblica
Piazza Capranica, 72 – Roma
dalle ore 15:00 alle ore 18:00

JAZZ EDUCATION

Il Jazz nei Licei Musicali: un’opportunità per i musicisti di domani

Giovedì 16 gennaio alle ore 15 nella sala Sala dell’Istituto di Santa Maria in Aquiro presso il Senato della Repubblica, Piazza Capranica 72, si terrà il convegno “JAZZ EDUCATION – Il Jazz nei Licei Musicali: un’opportunità per i musicisti di domani”.

L’evento è organizzato su iniziativa della senatrice del movimento 5 Stelle Loredana Russo.

Interranno:

Paolo Fresu

Musicista jazz Presidente della Federazione Jazz Italiano

Prof. Luigi Berlinguer

Presidente CNAPM ed ex Ministro della Pubblica Istruzione

Paolo Damiani

Musicista e Didatta jazz presso il Conservatorio “Santa Cecilia” di Roma

M° Antonio Ligios

Presidente della Conferenza dei Direttori dei Conservatori di Musica

Cristina Frosini

Direttore del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano

Nicola Pisani

Docente al Conservatorio “Stanislao Giacomantonio” di Cosenza e firmatario Documento Tecnico

Franco Caroni

Direttore Siena Jazz Accademia Nazionale del Jazz

Modera:

Stefano Luigi Mangia

Associazione Nazionale Docenti e cofondatore del Coordinamento Nazionale Jazz nei Licei Musicali

È prevista la presenza del Ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina.

PNSD – Ambienti di apprendimento innovativi.Scorrimento graduatorie Regione Sardegna

Procedura selettiva pubblica per la realizzazione da parte delle istituzioni scolastiche ed educative statali di ambienti di apprendimento innovativi nell’ambito dell’Azione #7 del PNSD.
Avviso pubblico 27 novembre 2018, n. 30562. Decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca 6 agosto 2019, n. 721.
Scorrimento graduatorie.
Finanziamento delle iniziative nell’ambito del Programma “Obiettivi di servizio”.

Prot. 620 del 16 gennaio 2020