Autismo, lo psichiatra: spesso sono i padri i primi a cogliere i segnali

Redattore Sociale del 19.02.2020

Autismo, lo psichiatra: spesso sono i padri i primi a cogliere i segnali 

ROMA. “Spesso sono i padri ad accorgersi che qualcosa non va nel figlio e in maniera dolorosa, ma anche molto coraggiosa, portano avanti questa percezione che li porterà alla diagnosi”. A dirlo è Carlo Valitutti, psichiatra dell’Istituto di Ortofonologia (IDO), intervistato dall’agenzia Dire sul ruolo e sul rapporto dei padri con i figli autistici.
Da consapevolezze come questa, infatti, nasce l’esperienza ultradecennale del gruppo terapeutico per padri organizzato dall’IDO. “È un’esperienza che non viene praticata solitamente- spiega Valitutti – non fa parte di alcun protocollo terapeutico diffuso o condiviso”, ma per i papà “può diventare una bella opportunità, e nella migliore delle ipotesi ha una durata pari a quella dell’intervento sul bambino”.
Inizialmente, illustra lo psichiatra, “i gruppi avevano una durata di 4 o 5 anni ma non c’è un tempo prestabilito, perché dipende da come si forma il gruppo, dal lavoro e l’approfondimento che si fa”. Durante le due ore che una volta ogni due settimane riuniscono i padri di bambini autistici, infatti, Valitutti ricorda sempre ai genitori: “Siete qui grazie ai vostri figli, non a causa loro”. 
Una volta che il gruppo prende corpo “il discorso si sposta anche su loro stessi. Naturalmente- puntualizza- la focalizzazione è sempre sul bambino e su come aiutarlo, ma alla fine si giunge anche a questioni del tipo: ‘Cosa provo di fronte alla diagnosi?’, ‘Cosa provo di fronte alla paura del futuro?’. È questo un tema molto importante per i papà, perché si domandano- continua l’esperto- ‘Che si fa quando i bambini diventano grandi, adolescenti o adulti?”. Non è un caso che spesso, “con la salute mentale, raggiunta la maggior età un bambino diventato adolescente sparisca”.
Così “abbiamo deciso di dare anche altre possibilità” alle famiglie, “per garantire una loro presenza nei gruppi quanto meno costante”. A breve partirà una novità: “Offrire ai padri la possibilità di partecipare a gruppi a tema della durata di 8 incontri”, in cui il focus sarà su alcune tematiche specifiche. Ed è proprio grazie a buone pratiche come queste che viene rilanciato “il tema del poter e saper comunicare in un altro modo, soprattutto se il bambino non comunica verbalmente. Scoglio che spesso- continua lo specialista- è il più difficile da affrontare”. Per i genitori, infatti, “c’è tutto un mondo interno che ha bisogno di essere ascoltato, accolto, compreso e contenuto”. I gruppi dell’IDO continuano a trasformare padri di bambini autistici “in padri speciali, di bambini altrettanto speciali”. (DIRE)

Giornata malattie rare

Redattore Sociale del 19.02.2020

Giornata malattie rare: focus Uniamo su terapie e qualita’ della vita

ROMA. Aggiornare il Piano nazionale sulle malattie rare e approvare una legge quadro di riferimento. Ampliare lo screening neonatale esteso. Promuovere l’accesso a terapie avanzate e innovative. Stimolare il completamento dell’iter della legge sul “caregiver”. Quattro obiettivi concreti per una mission chiara: migliorare la qualità di vita delle persone colpite da malattie rare e sostenere le loro famiglie, per una società più equa, attenta ai bisogni dei più fragili, e per garantire pari opportunità a tutti. Alla vigilia della Giornata delle malattie rare (#giornatadellemalattierare, #rarediseaseday), che si celebra il 29 febbraio, Uniamo – Federazione italiana per le malattie rare onlus chiama a raccolta venerdì 28 febbraio, dalle ore 9.30, a Roma, Palazzo Giustiniani (Sala Zuccari, Via della Dogana Vecchia, 29), parlamentari, dirigenti e vertici dei principali interlocutori istituzionali e privati per condividere una strategia comune per individuare una road-map efficace.
La Giornata delle malattie rare è stata istituita nel 2008, scegliendo la data del 29 febbraio (un giorno raro per i malati rari). Nel corso degli anni è diventata un evento di portata mondiale, coinvolgendo oltre 80 Paesi. In Europa una malattia viene riconosciuta rara quando colpisce meno di una persona 1 ogni 2.000, ma la definizione varia in altri Paesi. Nell’Unione europea si stima che siano più di 30 milioni le persone colpite da una delle oltre 6.000 malattie rare ad oggi conosciute (in Italia oltre 1 milione e 200 mila casi).
“La Giornata internazionale delle malattie rare- sottolinea la senatrice Paola Binetti, presidente dell’Intergruppo parlamentare sulle malattie rare e promotrice dell’incontro insieme a Uniamo- è un’occasione importantissima per sollecitare sia la pubblicazione del Nuovo piano nazionale che l’approvazione di una legge ad hoc. L’intergruppo parlamentare sulle malattie rare è fortemente impegnato ad ottenere l’approvazione di strumenti normativi efficaci per migliorare la qualità della assistenza e della ricerca in un campo così delicato e intrinsecamente innovativo”.
I lavori del convegno, moderati dal giornalista Fabio Mazzeo, si avvieranno alle ore 9.30 con i saluti istituzionali dei senatori Antonio De Poli, Paola Taverna e Stefano Collina. A seguire, intervento introduttivo di Binetti (“Le Malattie rare sono ancora una priorità di sanità pubblica?”) e dibattito sul “Testo unico sulle malattie rare), a cui parteciperanno diversi deputati della Commissione Affari sociali: Fabiola Bologna, Paolo Russo, Vito De Filippo. Alle 11 si passerà alle testimonianze dirette delle persone con malattie rare, con la presidente di Uniamo, Annalisa Scopinaro, affiancata da Margherita Gregori (rappresentante regionale) e un rappresentante europeo, insieme a Luca Abete (ideatore campagna sociale #NonCiFermaNessuno).
Subito dopo, alle 12, l’attenzione si sposterà sul “Piano Nazionale Malattie Rare”, attraverso il confronto tra la dott.ssa Rosita Mariniello (Programmazione sanitaria Ministero della Salute), la dott.ssa Domenica Taruscio (Iss, direttore Centro nazionale malattie rare), la prof.ssa Paola Facchin (coordinatrice Tavolo Interregionale Malattie rare). Infine, alle 12.45, “L’industria farmaceutica a supporto della ricerca e della terapia”, due interventi di Massimo Scaccabarozzi, presidente Farmindustria, e Riccardo Palmisano, presidente Assobiotec.
“Le richieste dei pazienti, presentate in questa giornata, devono spingere gli interlocutori istituzionali – sottolinea la presidente Scopinaro – a garantire alle persone con malattia rara e alle loro famiglie provvedimenti legislativi che tengano conto di tutti gli aspetti della vita quotidiana: l’assistenza sanitaria e sociale, il diritto alle terapie, al lavoro, al tempo libero e allo sport. Deve essere confermato il diritto ad una cittadinanza piena, rimuovendo gli ostacoli che impediscono l’equità”.
Uniamo F.I.M.R. Onlus è la Federazione delle associazioni di pazienti affetti da malattie rare e l’Alleanza Nazionale Italiana di Eurordis, European organisation for rare disease. Uniamo mette al centro della sua filosofia l’attenzione ai bisogni dei pazienti e delle loro famiglie ed è al loro fianco con il fine di “Migliorare la qualità di vita delle persone colpite da malattia rara, attraverso l’attivazione, la promozione e la tutela dei diritti dei malati rari nella ricerca, nella bioetica, nella salute, nelle politiche sanitarie e socio-sanitarie”. (DIRE)

ABILITATI IN ROMANIA: TAR LAZIO ACCOGLIE SOSPENSIVA

ABILITATI IN ROMANIA: TAR LAZIO SEZ III BIS ACCOGLIE LA SOSPENSIVA DEL DECRETO DI ESCLUSIONE DALLA GRADUATORIA DI MERITO DEL CONCORSO RISERVATO DOCENTI, RITENENDO PROVATA LA VALIDITA’ DEL TITOLO ABILITANTE ALL’INSEGNAMENTO SULLA BASE DEL CNRED.

Di oggi l’accoglimento della sospensiva disposto dal TAR Lazio sez. III bis con ordinanza n.1067/2020 a favore del ricorrente abilitato in Romania difeso dall’Avv. Maurizio Danza del Foro di Roma , che chiedeva il reintegro nella graduatoria del concorso riservato di cui al DDG n.85/2018 sulla base del titolo conseguito in Romania. Il Collegio in sostanza sospende il decreto di esclusione della USR per il Lazio, affermando che il possesso del certificato di equivalenza rilasciato dal Ministero della Educazione Romena ( c.d. CNRED) prova il conseguimento del titolo di abilitazione all’insegnamento.

In particolare il TAR ha sostenuto che “Premesso che la Sentenza della Sezione n. 11174/209 di rigetto del ricorso avverso il diniego di riconoscimento dell’abilitazione all’insegnamento conseguita dalla ricorrente in Romania, è stata sospesa dal Consiglio di Stato, Sez. V, con Ordinanza n. 92 del 2020, ex art. 55, co. 10, c.p.a., ai soli fini della sollecita fissazione del merito della causa in appello;

Atteso che la ricorrente deduce con il ricorso in trattazione che seguito di certificato di equivalenza rilasciato dal Ministero della Educazione Romena ( CNRED all. 5 e 6 con relativa traduzione), conseguiva in Romania, il titolo abilitante Nivel I° e II° all’insegnamento in data 19 aprile 2017 ( cfr. Adeverinta all.n.7 e traduzione all. n. 8);

Constatato che al doc. 6 della produzione di parte ricorrente consta il certificato n. 11194 4/20.09.2016 A.I rilasciato dall’autorità rumena CNRE (Centro di equipollenza dei titoli di studio) recante riconoscimento del “diploma di studi” conseguito dalla ricorrente presso l’Università degli Studi di Catania il 6.3.2008, precisandosi nel certificato dell’autorità rumena citata, che “il presente attestato comprende anche il ciclo di laurea”;

Considerato, pertanto, che il titolo di studio universitario conseguito in Italia è stato riconosciuto dalla competente autorità rumena deputata al riconoscimento di titoli di studio conseguiti all’estero in ossequio ai principi eurounitari sul mutuo riconoscimento dei titoli e delle qualifiche professionali, riconoscimento necessario – e propedeutico del resto alla stessa ammissione del laureato italiano alla frequenza in Romania dei percorsi di master Nivel I e Nivel II – affinché possa su siffatta imprescindibile base formale e giuridica, peraltro non indagata dal Consiglio di Stato con l’Ordinanza cautelare n. 92/2020 3 e con le precedenti Ordinanze in essa richiamate, essere concesso dal MIUR il decreto di riconoscimento della successiva abilitazione all’insegnamento scolastico a seguito del conseguimento di tale abilitazione nello Stato comunitario ospitante (Romania);

Ritenuto conseguentemente, sulla scorta delle delineate considerazioni e del documentato avvenuto previo riconoscimento da parte dell’Autorità rumena del prodromico diploma universitario conseguito in Italia, il ricorso sostenuto da sufficiente fumus boni iuris.

Con tale motivazione il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio “ ha accolto la domanda cautelare e per l’effetto, ha sospeso i provvedimenti impugnati, fissando per la trattazione di merito del ricorso l’Udienza pubblica del 6 ottobre 2020.

Giù le mani dal diritto di sciopero

Si svolgerà il 26 febbraio un incontro tra l’Aran (che, ricordiamo, rappresenta lo Stato nella contrattazione del Pubblico Impiego) e i sindacati (solamente i firmatari del CCNL) per discutere la proposta di precettazione dei docenti in caso di sciopero.

Si tratta di una limitazione del diritto costituzionale allo sciopero su cui USB Scuola si è già espressa e contro la quale l’intera USB sta lavorando, al fine di tutelare lo strumento principale che hanno i lavoratori per esprimere il proprio dissenso.

Evidentemente questa limitazione non tocca le organizzazioni sindacali rappresentative e concertative che non portano avanti un’azione di sciopero dal 5 maggio 2015, avendo proclamato e prontamente ritirato le successive azioni, forse consapevoli della scarsa credibilità che hanno dopo avere avallato nei fatti, nonostante un’adesione massiccia al 5 maggio, la Buona Scuola e le successive leggi delega, trasformando quello sciopero in un passaggio che ha prodotto sfiducia e scoramento nei lavoratori della scuola, come sempre avviene quando alla massiccia adesione alla lotta, non segue da parte sindacale una spinta per l’incremento della protesta.

La precettazione, unita alle comunicazioni che i DS dovranno fornire obbligatoriamente sui dati di adesione degli scioperi degli ultimi due anni scolastici, sono strumenti mirati a mettere in difficoltà le organizzazioni sindacali conflittuali, come USB che ancora crede fermamente nel diritto di sciopero e nella necessità del suo libero esercizio e si va ad aggiungere all’indebolimento profondo di questo strumento, che dalla legge 146 non può essere prolungato e utilizzato per portare avanti lotte forti e che facciano la differenza.

Per questo motivo, memori dell’intervento fatto dal comitato europeo dei diritti sociali qualche anno fa, in cui si condannava l’uso indiscriminato della precettazione nel settore dei trasporti, USB torna a rivolgersi allo stesso organismo per l’azione fuori controllo della Commissione di Garanzia sugli scioperi (in particolare nel settore dei Trasporti, della Polizia Locale e, adesso, anche della Scuola), che ha di fatto usurpato il ruolo del Parlamento, che dovrebbe occuparsi anche della normativa che regola le modalità di fruizione del diritto di sciopero. Certo, il Parlamento finora ha taciuto, lasciando in mano alla Commissione di Garanzia un fardello elettoralmente scottante.

L’incontro all’Aran non è un punto di ripartenza in questo senso. L’Agenzia sembra volere contrattare un accordo per regolamentare la precettazione dei docenti, strumento mai neanche ipotizzato fino a questo momento, lamentando che quando viene proclamato uno sciopero i genitori non mandano i figli a scuola, vivendo un disagio. L’ARAN forse non ha chiaro a cosa serve lo sciopero, che è uno strumento essenziale di lotta per la difesa e la conquista di diritti, per i lavoratori. Esso deve creare un disagio al fine di portare all’attenzione del Governo e della cittadinanza sulle difficoltà che vivono i lavoratori.

USB Scuola esprime grande preoccupazione per il grave scippo di diritti che Aran e sindacati complici stanno cercando di attuare ai danni delle lavoratrici e dei lavoratori e assicura che metterà in atto tutte le iniziative possibili per rivendicare che LO SCIOPERO È UN DIRITTO DEI LAVORATORI E, IN ITALIA, È UN DIRITTO COSTITUZIONALE!

Per eliminare le classi pollaio serve un miliardo di euro

da Il Sole 24 Ore

di Redazione Scuola

Eliminare le classi con più di 22 studenti nelle superiori, le cosiddette “classi pollaio” che rendono difficile agli insegnanti seguire in maniera personalizzata gli studenti: un obiettivo ambizioso, che darebbe un grande impulso alla qualità del sistema formativo.

Nei giorni scorsi è stato presentato nel decreto legge Milleproroghe l’emendamento 6.45 finalizzato ad avviare il superamento delle classi pollaio per la cui eliminazione, da semplice deputata, la stessa ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, aveva presentato una proposta di legge.

Ma che investimento occorrerebbe, in termini di nuove classi da istituire (e quindi più docenti da retribuire) per azzerare le classi pollaio? Tuttoscuola – in una indagine data in esclusiva all’Ansa – ha provato fare i conti ed è emerso che occorrerebbe quasi un miliardo all’anno. L’emendamento presentato dal Movimento 5 Stelle stanzia invece 50 milioni dal 2022.

Secondo i calcoli di Tuttoscuola con i 50 milioni a partire dal 2022 si possono stanziare soltanto 815 classi. Un professore a inizio carriera ha infatti uno stipendio annuo lordo (13ma compresa) di 25.945,40 euro. Allo Stato, con gli oneri riflessi (31,30%), quello stipendio costa complessivamente 34.066,31 euro all’anno; con 50 milioni si possono retribuire, pertanto, 1.468 professori e, se si considera che mediamente ogni classe dispone
di 1,8 docenti, con quella somma si possono finanziare 815 nuove classi. Su 56.985 classi con più di 22 alunni, funzionanti quest’anno negli istituti statali della secondaria di II grado,
quelle 815 nuove classi rappresentano l’1,4%.

Tuttoscuola, sulla base dei dati dell’organico di fatto di quest’anno, ha calcolato il numero di classi con oltre 22 studenti: delle 121.536 classi funzionanti quest’anno negli istituti statali della secondaria di II grado, quasi 57 mila (esattamente 56.985) hanno più di 22 studenti per classe: il 47%.

Una quota costante di 50 milioni all’anno per retribuire i docenti delle nuove classi, servirebbe a finanziare, come detto, soltanto 815 nuove classi: l’1,4% delle classi “target”. Infatti nelle 25.155 classi del 1° anno, sono 16.558 (pari al 65,8%) quelle che hanno più di 22 studenti; nelle 24.864 classi del 2° anno ve ne sono 13.784 (55,4%) con oltre 22 studenti; nel 3° anno vi sono 12.504 (51,5%) con oltre 22 alunni; nelle classi del 4° anno ve ne sono 8.905 (37,9%) che superano il limite di 22 per classe e 5.234 (22,1%) dell’ultimo anno.

Senza considerare la seconda parte dell’emendamento di cui è prima firmataria la deputata Vittoria Casa che prevede di portare a 20 il limite numerico di studenti per classe in presenza di studente disabile, il limite massimo di 22 studenti per classe comporterebbe l’istituzione di circa 10.600 (esattamente 10.597) nuove classi. Ma una quota significativa di quelle classi con oltre 22 studenti ha presenti studenti disabili per i quali l’emendamento pone il limite massimo di 20 alunni.

Secondo le stime di Tuttoscuola, sono 15.987 le classi che si dovrebbero istituire per superamento del limite di 22 studenti e per il superamento di 20 con presenza di studenti disabili. Per una media di 1,8 docenti per classe, sarebbero necessari 28.776 nuovi professori. Al costo unitario di 34.006 euro annui per ogni nuovo docente, il costo complessivo annuale sfiorerebbe il miliardo: esattamente 980 milioni e 292 mila euro. Ne consegue che al ritmo di 50 milioni all’anno sarebbero necessari vent’anni per azzerare le classi pollaio.

Lo sciopero del 6 marzo per i precari potrebbe essere la prova generale

da ItaliaOggi

Marco Nobilio

Flc-Cgil, Cisl scuola, Uil scuola, Snals e Gilda-Unams hanno indetto uno sciopero di tutto il personale della scuola per giovedì 6 marzo. La protesta è finalizzata a mettere al centro i diritti dei lavoratori precari della scuola e rilancia i temi dell’intesa del 24 aprile scorso con il premier Conte: percorsi abilitanti a regime, stabilizzazione dei precari, concorso riservato per i facenti funzioni di direttori dei servizi generali e amministrativi (Dsga). Ed è volta anche a porre in evidenza la scarsezza delle risorse previste per il rinnovo del contratto di lavoro. Insomma, ha tutte le carte per essere, quella del sei marzo, una prova generale di una successiva mobilitazione per il rinnovo del contratto.

Le sigle chiedono che vengano subito avviati i percorsi abilitanti straordinari per i docenti aventi titolo che abbiano prestato servizio nelle scuole paritarie o con servizio misto in scuole statali e paritarie o nella formazione professionale oppure, ancora, per i docenti di ruolo provenienti da altri ordini di scuola. I sindacati lamentano anche il fatto che manchi del tutto un sistema permanente di abilitazione all’insegnamento. «Attualmente manca per la scuola», si legge in una nota congiunta, «un sistema strutturale di abilitazione e quindi di accesso all’insegnamento, che garantisca una formazione specifica e di qualità. Restano a oggi disattesi» spiegano i sindacati firmatari «gli impegni che in tal senso sono indicati nell’intesa del 1° ottobre 2019 e nel verbale di conciliazione del 19 dicembre».

La richiesta è motivata dal fatto che la maggioranza dei supplenti in servizio non è abilitata e sono stati aboliti i vecchi percorsi abilitanti: oggi l’abilitazione si ottiene solo con il concorso ordinario. In particolare le 5 sigle firmatarie chiedono l’istituzione di percorsi abilitanti ad alta valenza formativa aperti a tutti. E garanzie per i precari non abilitati con 36 mesi di servizio, come avvenuto nel 2014 con i percorsi abilitanti speciali (Pas).

Tra i motivi sui quali si basa la protesta vi è anche quello che l’amministrazione non ha accolto le richieste dei sindacati sul concorso riservato ai docenti di scuola secondaria di primo e secondo grado con almeno tre anni di insegnamento nella scuola statale. Le sigle ritengono necessario valorizzare gli anni di insegnamento, valutando il servizio in misura prevalente rispetto al punteggio della prova concorsuale. I bandi di concorso all’esame del consiglio superiore della pubblica istruzione prevedono, infatti, che i titoli possano essere valorizzati solo nell’ordine di 20 punto su 100.

In più le sigle firmatarie chiedono di ammettere al concorso riservato i docenti che hanno insegnato per tre anni solo su posti di sostegno sprovvisti di titolo di specializzazione. E chiedono anche che venga pubblicata la banca dati dei quesiti per favorire una migliore preparazione dei docenti, analogamente a quanto avviene per molte altre procedure di selezione. Per quanto riguarda il concorso ordinario di scuola secondaria di primo e secondo grado chiedono, invece, di uniformare su tutto il territorio nazionale il punteggio minimo richiesto nella prova preselettiva per l’accesso ai concorsi ordinari. Infine, i sindacati chiedono di avviare il concorso riservato per gli assistenti amministrativi di ruolo che hanno svolto per almeno tre anni le funzioni di direttore dei servizi generali e amministrativi, anche se privi di titolo specifico. Allo stato attuale sono oltre 3.000 i posti di direttore dei servizi generali e amministrativi vacanti attualmente coperti da assistenti amministrativi facente funzione. I sindacati sostengono, infine, che la ministra dell’istruzione, Lucia Azzolina, non abbia tenuto fede agli impegni, sottoscritti dal governo in più occasioni, finalizzati a dare stabilità al lavoro e qualità alla scuola. E le procedure straordinarie che si stanno predisponendo, secondo i sindacati, non rispondono all’esigenza di una adeguata valorizzazione del lavoro svolto precariamente per consistenti periodi.

L’assenza di un sistema organico e permanente di abilitazione e accesso all’insegnamento, sempre secondo quanto lamentano le sigle firmatarie, crea i presupposti per la reiterazione del precariato, come avvenuto finora con la moltiplicazione delle supplenze che si rende necessario ogni anno conferire. Oltre ai temi del reclutamento e del precariato, al centro della giornata di sciopero, argomentano Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda-Unams in un comunicato congiunto, restano le questioni che più in generale riguardano il settore, a partire dal rispetto degli impegni assunti per un incremento degli stanziamenti attualmente previsti per il rinnovo del contratto di lavoro, perché sia finalmente riconosciuto e valorizzato in modo giusto e dignitoso l’impegno professionale del personale docente, educativo e Ata. Dunque, il clima di serenità costruito sotto il Conte I, con il ministro della Lega Marco Bussetti, e il Conte II, con l’ex grillino, Lorenzo Fioramonti, sembra ormai appartenere al passato.

Scontro sui 100 di aumento

da ItaliaOggi

Alessandra Ricciardi e Marco Nobilio
Sui 100 euro di aumento lordi al mese, ottenuti grazie all’utilizzo anche dei benefici del cuneo fiscale, i sindacati della scuola non ci stanno. Se così la ministra dell’istruzione, Lucia Azzolina, conta di arrivare a un rinnovo del contratto non può essere. Ieri con una nota congiunta i segretari della Flc-Cgil, Cisl scuola, Uil scuola, Snals e Gilda lo hanno fatto capire chiaramente: senza risorse fresche non ci sono le condizioni per il rinnovo del contratto 2019/2021 e si andrà allo scontro. I 100 euro lordi di aumento devono esserci a prescindere dal cuneo. E a legislazione vigente, come scritto il 28 gennaio scorso da ItaliaOggi, non ci sono. «Il taglio del cuneo fiscale è una misura di equità sociale che riguarda tutti i lavoratori, il contratto ha invece lo scopo da un lato di recuperare la perdita del potere d’acquisto delle retribuzioni, dall’altro di riconoscere l’impegno professionale di tutti i dipendenti. Mischiare le due cose significa mistificare la realtà», dice il segretario della Flc-Cgil, Francesco Sinopoli. «Se il governo non risolve il problema di trovare altre risorse, il tavolo non si può aprire. Si possono avviare le trattative, rivedere la parte normativa, ma a patto», chiarisce il numero uno della Uil scuola, Pino Turi, «di un impegno certificato a mettere altre risorse nella prossima finanziaria. Altrimenti lo sciopero del 6 marzo per i precari sarà la prova generale di una nuova mobilitazione».La piattaforma rivendicativa delle cinque sigle prevede: 16 miliardi di investimenti in più anni, il punto di Pil che ci separa dall’Europa, «per dire basta al lavoro precario, per superare il divario tra organico di diritto e situazioni di fatto, per aumentare il tempo scuola, per rinnovare il contratto con aumenti a tre cifre che vadano ben oltre i 100 euro mensili».

Precariato: ad oggi, i posti in organico per il personale Ata sono 213.517 e quelli coperti da supplenti 36.574. La situazione è ancora più grave per quanto riguarda il personale docente. L’organico del corrente anno scolastico comprende, denunciano i sindacati, 862.600 cattedre e quelle occupate da supplente sono 187.865. I posti vacanti previsti per il prossimo anno scolastico sono stimati in 80.062. Per quanto riguarda le cattedre, nel corrente anno scolastico i posti attualmente vacanti sono 38.241 e, dal prossimo anno, si aggiungeranno ulteriori 26.327 per effetto dei pensionamenti. Per quanto riguarda il personale Ata, i posti attualmente vacanti sono 7.710 e, dal prossimo anno, a causa dei pensionamenti se ne aggiungeranno altri 7.788.

Contrattazione collettiva: negli ultimi 17 anni vi sono stati sono 3 rinnovi contrattuali, nel 2003, nel 2007 e nel 2018. Per quanto riguarda i salari, fonte Aran, le retribuzioni dei docenti italiani sono sotto la media Ue.

Un docente italiano della secondaria di I grado con 15 anni di anzianità di servizio guadagna 31.094 euro. In Germania 65.186 euro, in Spagna 37.561 euro e in Francia 33.294. La forbice delle retribuzioni, inoltre, resta aperta anche se si confrontano le retribuzioni medie rispetto agli altri lavoratori pubblici italiani. A fronte di una media di 33.780 euro annui per tutto il pubblico impiego, la media per i docenti è pari a 29.629 euro.

La Sicilia fa incetta di professori

da ItaliaOggi

Marco Nobilio

Al via il quinto ciclo dei percorsi di formazione per il conseguimento della specializzazione per le attività di sostegno didattico agli alunni con disabilità. Mercoledì scorso, 12 febbraio, il ministero dell’università ha emanato il decreto 95, che autorizza gli atenei a pubblicare i bandi per attivare i percorsi di formazione per il conseguimento della specializzazione per le attività di sostegno didattico agli alunni con disabilità nella scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di I e secondo grado.

I posti a disposizione sono in totale 19.585 fra scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di I e II grado. Le prove di accesso si terranno nei giorni 2 e 3 del prossimo mese di aprile. I corsi dovranno concludersi entro il mese di maggio del 2021. Potranno accedere e frequentare i corsi anche tutti gli idonei, i vincitori di più procedure e chi ha sospeso la frequenza di precedenti percorsi.

Il decreto reca i posti in dettaglio suddivisi per regione ed ateneo di riferimento. La parte del leone la fa la Sicilia con 4.675 posti cosi suddivisi: 600 posti all’università di Catania, 1.125 all’università di Enna, 2.000 all’università di Messina, e 950 all’università di Palermo. Al secondo posto il Lazio con 3.250 posti: 770 all’università di Cassino e del Lazio meridionale, 520 all’università degli studi internazionali di Roma Unint, 220 alla libera università Maria S.S. Assunta, 300 all’università di Roma 3, 400 all’università europea di Roma, 240 all’università «Foro Italico» di Roma, 450 all’università Link campus university, 300 all’università Tor Vergata di Roma, 120 all’università della Tuscia. Al terzo posto la Puglia, che si aggiudica 1990 posti: 590 all’università di Foggia, 800 all’università di Salerno e 600 all’università del Salento.

Segue la Campania con 1.460 posti: 1.000 all’università « Suor Orsola Benincasa» e 460 all’università di Salerno. Di misura la Calabria con 1.320 posti: 800 all’università della Calabria, 300 all’università mediterranea di Reggio Calabria e 220 posti all’università di Catanzaro. Ultima con dotazione a 4 cifre la Lombardia, alla quale il ministero dell’istruzione ha assegnato 1.090 posti: 300 all’università di Bergamo, 360 all’università di Milano «Bicocca» e 430 all’università cattolica del Sacro Cuore di Milano.

In testa alla classifica a 3 cifre il Veneto, che si aggiudica 925 posti così distribuiti: 425 all’università di Verona e 500 all’università di Padova. Segue di misura la Toscana con 900 posti: 400 all’università di Firenze, 200 all’università di Pisa e 300 all’università di Siena; 730 sono invece i posti assegnati alle Marche: 400 all’università di Macerata e 330 all’università di Urbino. Segue distanziata di un bel po’ l’Emilia-Romagna, alla quale sono stati assegnati 460 posti: 120 all’università di Ferrara, 130 all’università «Unimore» e 210 all’università di Parma; 400 posti è invece la dotazione del Molise interamente assegnati all’omonimo ateneo.

Segue di misura la Sardegna con 390 posti: 240 all’università di Sassari e 150 all’università di Cagliari. 340 sono invece i posti della Liguria interamente assegnati all’università di Genova. La Basilicata incassa 300 posti totalmente assegnati all’omonima università. Segue l’Abruzzo con 260 posti assegnati all’università dell’Aquila. 260 posti è anche la dotazione dell’Umbria, interamente assegnati all’università di Perugia.

Al Trentino vanno invece 250 posti: all’università di Bolzano 150 e 100 all’università di Trento. Al Piemonte vanno 205 posti, tutti assegnati all’università di Torino. 290 posti vanno al Friuli-Venezia Giulia: all’università di Udine e 100 all’università di Trieste.

Infine, fanalino di coda la Valle d’Aosta alla quale vanno 90 posti assegnati all’omonima università. «Con il ministro Manfredi stiamo facendo partire rapidamente un quinto ciclo di specializzazione sul sostegno da quasi 20 mila posti. Il numero più alto mai bandito. Si tratta di un’importante occasione per migliaia di docenti e, ovviamente, di una misura che guarda anche alle studentesse e agli studenti», ha detto la ministra dell’istruzione Lucia Azzolina. «Vogliamo dare sempre più continuità alla formazione, programmarla al meglio. Stiamo bandendo subito questo nuovo ciclo, senza interruzioni. E vogliamo proseguire su questa linea. Il sostegno è una grande risorsa nella nostra scuola. Un supporto fondamentale per la didattica, per le famiglie, per i ragazzi. Per questo è importante avere sempre più insegnanti specializzati».

«Un impegno straordinario delle università per garantire la formazione di quasi ventimila docenti in un settore strategico per l’istruzione nel Paese», ha aggiunto il ministro dell’università Gaetano Manfredi, «è il più grande intervento formativo in questo campo mai realizzato, che vedrà impegnato tutto il sistema universitario nazionale per garantire la massima professionalità al personale scolastico che opera in un settore così delicato e così importante per le nostre studentesse e i nostri studenti e le loro famiglie».

La Azzolina riparte dalla riforma degli organi collegiali E annuncia la revisione del sistema nazionale di valutazione

da ItaliaOggi

Emanuela Micucci

Riforma degli organi collegiali. Revisione del Sistema nazionale di valutazione. Percorsi multidisciplinari sulla sostenibilità ambientale. Decreti attuativi della riforma dell’inclusione scolastica. Queste alcune delle priorità del Miur per il 2020 che la ministra dell’istruzione Lucia Azzolina ha delineato nel proprio atto di indirizzo politico-istituzionale per questo anno.

Obiettivi da cui è assente l’integrazione degli alunni stranieri, mai citati nel documento. Mentre si punta al valore identitario delle comunità locali. Si tratta, spiega Azzolina, del «documento che individua le nostre priorità d’azione, i nostri obiettivi. È un primo passaggio. Seguiranno le Linee programmatiche che presenterò nei prossimi giorni in Parlamento». Nel 2020, dunque, il Miur intende avviare la «revisione degli organi collegiali, finalizzato a ridefinirne la composizione e ad attualizzarne i compiti, alla luce delle modificazioni intervenute nell’impianto normativo e nelle sensibilità culturali maturate nel corso degli ultimi venti anni».

Una revisione attende anche il Sistema nazionale di valutazione con lo scopo di semplificare e armonizzare le procedure,«evitando duplicazioni e sprechi», e di sottolineare «l’obiettivo di individuare le misure necessarie per aiutare le istituzioni scolastiche a migliorare il proprio servizio al Paese e a colmare i divari territoriali». Azzolina pensa a una scuola sul territorio attraverso reti di scopo che coinvolgano famiglie, enti locali, volontariato, aziende in un rapporto di corresponsabilità educativa. Per «potenziare il livello complessivo dei servizi integrati, offerti sul territorio, da parte degli enti locali e delle scuole». In questa prospettiva la ministra ritiene di accompagnare gli studenti al mondo delle professioni «con il modello economico-sociale del territorio di riferimento», «prevenendo qualsiasi forma di dissimulato sfruttamento del lavoro». Inoltre, «è necessario valorizzare e rafforzare i percorsi Its, (gli istituti tecnici superiori post diploma, ndr), quale leva per il rilancio economico e la riconversione professionale». Nei piani del Miur questo anno anche la «piena consapevolezza (degli studenti, ndr) della propria identità storica, culturale e territoriale, presupposto indispensabile per l’affermazione e lo sviluppo della cultura dell’accoglienza e dell’inclusione». Sebbene l’atto di indirizzo non si soffermi concretamente sull’integrazione degli studenti stranieri.

Punta, invece, all’inclusione degli alunni con disabilità sia attraverso l’attuazione della riforma definita dal decreto legislativo 66/2017 e rivista dal governo M5S-Lega, ma di cui ancora mancano i decreti attuativi, sia attraverso l’aumento del numero dei docenti di sostegno di ruolo, «ricomprendendo il maggior numero dei posti in deroga che ogni anno vengono concessi in più – anche rispetto alla determinazione dell’organico di fatto – in posti all’interno dell’organico dell’autonomia delle singole scuole».

Altra priorità percorsi multidisciplinari, progetti e protocolli d’intesa sull’educazione ambientale e la sostenibilità sociale ed ecologica. Edilizia scolastica, dotazioni tecnologiche delle scuole, formazione dei docenti e del personale Ata, contrasto della dispersione scolastica saranno al centro della programmazione dei fondi comunitari 2021-27. Tra gli impegni, conclude Azzolina, anche «garantire pagamenti più rapidi nei confronti dei supplenti».

Tfa, dentro anche i non abilitati

da ItaliaOggi

Marco Nobilio

Ai corsi di specializzazione per il sostegno, appena indetti dal ministero dell’istruzione con il decreto 95 del 12 febbraio scorso, saranno ammessi i docenti in possesso di abilitazione all’insegnamento o, in mancanza, che vantino il possesso del titolo di accesso alla classe di concorso e i 24 Cfu. I requisiti specifici sono indicati nell’articolo 5 del decreto legislativo 59/2017 a cui fa espresso riferimento il decreto 95.

Infanzia e primaria. Per i percorsi di specializzazione sul sostegno per la scuola dell’infanzia e primaria, i candidati dovranno possedere il titolo di abilitazione all’insegnamento conseguito presso i corsi di laurea in scienze della formazione primaria o analogo titolo conseguito all’estero e riconosciuto in Italia ai sensi della normativa vigente.

I non laureati saranno comunque ammessi se in possesso del diploma magistrale, conseguito comunque, entro l’anno scolastico 2001/2002. Idem per chi possiede il diploma sperimentale a indirizzo psicopedagogico, con valore di abilitazione e diploma sperimentale a indirizzo linguistico, conseguito presso gli istituti magistrali o analogo titolo di abilitazione conseguito all’estero, sempre entro il 2001/2002, e riconosciuto in Italia ai sensi della normativa vigente.

Scuola secondaria di I e II grado. I docenti e gli insegnanti tecnico pratici che intendono accedere ai percorsi di specializzazione sul sostegno per la scuola secondaria di primo e secondo grado, dovranno essere in possesso dei requisiti previsti al comma 1 o al comma 2 dell’articolo 5 del decreto legislativo 59/17. Ciò vale in riferimento alle procedure distinte per la scuola secondaria di primo o secondo grado. Sono validi anche gli analoghi titoli di abilitazione conseguiti all’estero e riconosciuti in Italia ai sensi della normativa vigente.

Docenti non abilitati. In particolare costituisce titolo di accesso al concorso relativamente ai posti di docente il possesso dell’abilitazione specifica sulla classe di concorso. I non abilitati potranno accedere al percorso di studi con il possesso di una laurea magistrale o a ciclo unico, oppure del diploma di II livello dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, oppure titolo equipollente o equiparato, coerente con le classi di concorso vigenti alla data di indizione del concorso.

E dovranno anche essere in grado di vantare il possesso di 24 crediti formativi universitari o accademici, (Cfu/Cfa), acquisiti in forma curricolare, aggiuntiva o extra curricolare nelle discipline antropo-psico-pedagogiche e nelle metodologie e tecnologie didattiche. In ogni caso dovranno comunque essere in possesso di almeno sei crediti in ciascuno di almeno tre dei seguenti quattro ambiti disciplinari: pedagogia, pedagogia speciale e didattica dell’inclusione; psicologia; antropologia; metodologie e tecnologie didattiche.

Itp. Per quanto riguarda, invece, l’accesso al concorso relativamente ai posti di insegnante tecnico-pratico, è necessario il possesso dell’abilitazione specifica sulla classe di concorso. I non abilitati potranno accedere al percorso di studi con possesso di una laurea triennale, oppure del diploma di I livello dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, oppure titolo equipollente o equiparato, coerente con le classi di concorso vigenti alla data di indizione del concorso oppure con il diploma di scuola secondaria superiore specifico.

Non è previsto, invece, il previo possesso dei 24 Cfu. Ciò deriva da una deroga contenuta nell’articolo 5, del decreto ministeriale 92/2019, il quale prevede che il requisito del possesso dei 24 Cfu : «… previsti dall’articolo 5, comma 2, del decreto legislativo n. 59/2017 per i posti di insegnante tecnico – pratico sono richiesti per la partecipazione ai percorsi di specializzazione sul sostegno banditi successivamente all’anno scolastico 2024/2025. Sino ad allora», recita il dispositivo, «rimangono fermi i requisiti previsti dalla normativa vigente in materia di classi di concorso». La deroga si applica ancora per effetto del rinvio espresso all’articolo 5 del decreto 92/2019 contenuta nell’articolo 2 del decreto 95 del 12 febbraio scorso.

Abilitati all’estero. Saranno, inoltre, ammessi con riserva coloro che, avendo conseguito il titolo abilitante all’estero, abbiano presentato la relativa domanda di riconoscimento alla Direzione generale per gli ordinamenti scolastici e la valutazione del sistema nazionale di istruzione, entro la data termine per la presentazione delle istanze per la partecipazione alla specifica procedura di selezione.

Abilitati in altra classe di concorso. Il decreto 95, ai fini dei requisiti di accesso, fa espresso rinvio all’articolo 3, comma 1, del decreto 92/2019. Tale disposizione, a sua volta, fa rinvio ai 1 e 2, dell’articolo 5 del decreto legislativo 59/2019, che non prevedono alcuna eccezione al possesso dei 24 cfu/cfa in caso di mancato possesso dell’abilitazione specifica. Tale eccezione è prevista dal comma 4-bis del medesimo articolo 5 in caso di possesso di altra abilitazione rispetto a quella che dovesse venire utilizzata per accedere ai percorsi di specializzazione.

I test Invalsi spariscono dal curriculum dello studente Diplomati senza certificazione anche per la lingua inglese

da ItaliaOggi

Emanuela Micucci

Addio certificazioni delle lingue straniere per i diplomati. Questa una delle conseguenze dell’emendamento di Leu al decreto Milleproroghe, approvato il 12 febbraio dalla Commissione Cultura della Camera. L’emendamento, primo firmatario Nicola Fratojanni (Leu), infatti, fa slittare di un anno, al 1 settembre 2020, quindi al prossimo anno scolastico, l’introduzione del Curriculum dello studente allegato al diploma di maturità. Prima di allora le scuole che vorranno potranno sperimentarlo, ma solo su base volontaria. Dall’esame di Stato 2021 il documento che contiene l’elenco delle competenze formali e informali acquisite dallo studente sarà obbligatorio, ma senza più i risultati delle prove Invalsi.

Lo stesso emendamento di Leu, infatti, cancella la parte del decreto attuativo sulla maturità (dl 62/2017) che faceva riferimento ai livelli di apprendimento conseguiti nelle prove Invalsi in italiano, matematica e inglese. Non conterrà, quindi, neppure la certificazione sulle abilità di comprensione e uso della lingua inglese che proprio le prove Invalsi in inglese certificavano. Un aspetto questo che potrebbe peserà sugli alunni meno abbienti. Per ottenere la certificazione europea di inglese, spendibile sia all’università sia nel mondo del lavoro, infatti, gli studenti dovranno rivolgersi a uno dei 19 enti certificatori privati accreditati al Miur, con annessi costi. «Abbiamo fortemente voluto che i risultati delle prove Invalsi rimanessero fuori dal Curriculum dello studente», commenta la viceministra all’istruzione Anna Ascani che, da deputata del Pd, aveva però sostenuto la riforma renziana della Buona Scuola che ha introdotto e definito il Curriculum dello studente comprendendovi anche i test Invalsi.

Il motivo della nuova decisione, spiega Ascani, «è chiaro: i test Invalsi non servono a valutare docenti e studenti. Sono uno strumento conoscitivo che fornisce una fotografia dello stato di salute del nostro sistema di istruzione ed è per questo motivo che sono fondamentali per il miglioramento e restano requisito di ammissione all’esame di Stato». Una spiegazione che, di fatto, ribadisce gli obiettivi che la legge già fissa per le prove Invalsi e che negli anni lo stesso istituto presieduto da Anna Maria Ajello ha più volte sottolineato. «Un primo passo a tutela degli studenti e del ruolo del corpo docente» secondo Fratojanni.

Mentre per la Fcl-Cgil si tratta di «una scelta debole e residuale, non in grado di invertire la tendenza degli ultimi anni di un pesante rafforzamento dei test standardizzati per la valutazione degli apprendimenti».

Formazione, mancano 200 mln

da ItaliaOggi

Carlo Forte

Definire nel nuovo contratto un monte ore di formazione obbligatoria per i docenti. Lo prevede l’atto di indirizzo per il 2020 emanato il 7 gennaio scorso dalla ministra dell’istruzione Lucia Azzolina (M5S). Il provvedimento non indica la copertura finanziaria, che necessita, secondo una stima di ItaliaOggi, di non meno di 200 milioni di euro aggiuntivi rispetto ai fondi disponibili per finanziarie i corsi. Pertanto, salvo stanziamenti in zona Cesarini, rischia di rimanere solo sulla carta.

La legge 107/2015, infatti, ha tramutato la formazione da diritto a dovere. E ciò comporta la necessità di retribuire i docenti per la maggiore onerosità della prestazione. Salvo che i relativi adempimenti non avvengano durante l’orario di lavoro ordinario o tramite la sospensione delle lezioni o tramite una corrispondete decurtazione degli oneri derivanti dalle attività funzionali all’insegnamento di natura collegiale (riunioni dei consigli di classe o del collegio dei docenti). Se ciò non dovesse avvenire e le ore di formazione dovessero essere previste in più rispetto all’orario ordinario, per ogni docente l’amministrazione dovrebbe prevedere una spesa di 350 euro lordi, derivante dalla qualificazione del relativo impegno alla stregua di attività aggiuntive funzionali all’insegnamento, così come previsti dalla tabella 5 allegata al vigente contratto di lavoro. I piani di formazione annuale, infatti, prevedono mediamente 20 ore per ogni docente.

Considerato che i docenti in servizio sono circa 650 mila, la cifra necessaria supererebbe i 200 milioni di euro. Sempre che la ministra non stia pensando di far rientrare la formazione nell’orario di lavoro ordinario con le relative compensazioni, così come avviene per il restante personale della pubblica amministrazione, compreso il personale Ata. L’obbligatorietà della formazione discende dal comma 124, dell’articolo 1, della legge 107/2015, il quale dispone che «la formazione in servizio dei docenti di ruolo è obbligatoria, permanente e strutturale».

La norma parla espressamente di formazione in servizio. Vale a dire di un adempimento che rientra negli obblighi di lavoro. Ma non prevede la possibilità di una copertura economica ad hoc per finanziare l’eventuale lavoro straordinario. Ne consegue che tali adempimenti, in assenza di ulteriori finanziamenti, debbano necessariamente rientrare nella prestazione ordinaria. Fermo restando che, qualora i dirigenti scolastici dovessero autorizzare ore aggiuntive di lavoro collegate agli oneri di formazione, tali ore aggiuntive vanno pagate.

D’altra parte, una lettura costituzionalmente orientata del comma 124 della legge 107 non può prescindere dal fatto che l’articolo 36 della Carta dispone che la retribuzione debba essere proporzionale alla quantità e alla qualità del lavoro svolto. Sulla qualità del lavoro, trattandosi di prestazione non di insegnamento, ma finalizzata al miglioramento della qualità di tale insegnamento tramite la formazione, i relativi adempimenti debbano essere necessariamente inquadrati nelle attività funzionali all’insegnamento. Che sono regolate dall’articolo 29 del vigente contratto di lavoro.

In particolare, le attività di formazione, essendo rivolte a tutti i docenti della scuola, vanno inquadrate nelle attività previste dal comma 3, lettera a) dell’articolo 29, che regola le attività funzionali all’insegnamento relative al collegio dei docenti. Sulla quantità del lavoro, la clausola negoziale prevede un monte ore tassativo di 40 ore l’anno per provvedere ai relativi adempimenti. Monte ore che, non di rado, viene sforato anche oggi solo per svolgere le attività ordinarie. Pertanto, a meno che i dirigenti scolastici non dispongano una drastica riduzione delle attività del collegio dei docenti, è probabile che, alla fine dell’anno, molti insegnanti, già adesso, matureranno crediti retributivi in aggiunta a quelli della retribuzione ordinaria.

Sulla questione vi è anche un precedente giurisprudenziale (Tribunale di Verona – Sez. Lavoro – Sent. 11/04/2011 n. 46). In quell’occasione il giudice aveva accertato che le ore prestate per partecipare a un corso di formazione sulla sicurezza, essendo state prestate oltre il monte ore obbligatorio, dovessero essere qualificaste «come vere e proprie ore di lavoro aggiuntive rispetto a quelle contrattualmente previste e come tali… essere retribuite».

Sulla necessità di regolare la questione contrattualmente non vi è dubbio alcuno. La Suprema corte, infatti, è costante nel ritenere che la misura della retribuzione, in conformità a quanto previsto dall’articolo 36 della Costituzione, debba essere quella stabilita nei contratti collettivi.

Contratti collettivi che costituiscono anche la fonte primaria dei diritti e dei doveri dei lavoratori. Le Sezioni unite della Corte di cassazione, infatti, hanno stabilito che «i rapporti di lavoro pubblico contrattualizzato sono regolati esclusivamente dai contratti collettivi e dalle leggi sul rapporto di lavoro privato» (Sezioni Unite Civili, presidente Carbone, relatore P. Picone n. 21744 del 14 ottobre 2009).

Regolamentazione degli scioperi, trattativa riparte in salita

da ItaliaOggi

Carlo Forte

È fissato per mercoledì 26 febbraio prossimo, alle 15,00, il prossimo incontro tra Aran e sindacati per la prosecuzione delle trattative per la definizione del nuovo accordo sulle norme di garanzia dei servizi pubblici essenziali e sulle procedure di raffreddamento e conciliazione in caso di sciopero. A più di un mese di distanza dall’ultimo incontro, che si è tenuto il 15 gennaio scorso, l’Agenzia prova ad esperire un ulteriore tentativo per avvicinare le varie posizioni emerse al tavolo negoziale e giungere ad un accordo. Così da allontanare il rischio di un atto unilaterale da parte della commissione di garanzia, che aprirebbe la porta al contenzioso. E il nodo da sciogliere riguarda proprio la scuola.

L’Aran insiste sulla necessità di modificare le regole sui servizi minimi da erogare in caso di sciopero, comprendendo tra tali servizi la vigilanza sugli alunni, da assicurare anche tramite la precettazione di un certo numero di docenti da definire a livello di contrattazione integrativa di istituto. Ma questa proposta è stata rispedita al mittente dai sindacati. Ed ha ingenerato una vera e propria situazione di stallo, alla quale si tenterà di porre rimedio il 26 febbraio. La questione non è di poco conto. La precettazione, infatti, potrebbe integrare una vera e propria ipotesi di demansionamento. Perché, in caso di precettazione, i docenti si vedrebbero costretti alla mera vigilanza. Che non rientra nella prestazione di insegnamento in senso stretto e che è tipica del solo personale Ata. Il demansionamento (l’assegnazione di mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali il lavoratore è stato assunto), peraltro, si configurerebbe come un vero e proprio inadempimento contrattuale. Che deriverebbe dalla violazione dell’articolo 2103 del codice civile.

Secondo quanto statuito dalla Corte costituzionale, già nel 2004, questo inadempimento arreca danni alla professionalità del lavoratore, intendendo per tale il complesso delle capacità e attitudini del lavoratore. E provoca la compromissione delle aspettative del lavoratore, danni alla persona e alla sua dignità. Questo principio, inoltre, è stato fatto proprio anche dalla giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza 6572 del 2006. E il divieto di dimensionamento si applica anche ai docenti. Ciò per effetto del rinvio operato dall’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 165/2001. Che prevede l’applicabilità delle norme sul lavoro del codice civile nella parte in cui è compreso l’articolo 2104 (capo I, titolo II, del libro V). Ma anche per effetto di una norma specifica contenuta nello stesso decreto 165. E cioè, l’articolo 52, comma 1, che così dispone: «Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito…».

La necessità di rivedere le regole sui servizi minimi è scaturita dalla frequenza con la quale i sindacati a basso tasso di rappresentatività proclamano gli scioperi. Che mettono in allarme i genitori e, talvolta, li inducono a non mandare i figli a scuola. Salvo poi constatare che le adesioni allo sciopero siano state assolutamente trascurabili e che, quindi, le lezioni si sarebbero tenute regolarmente. È questa, peraltro, la ratio della richiesta di indicare nell’informazione alle famiglie la serie storica delle adesioni. In modo tale da consentire ai genitori di valutare l’esiguità del rischio. La prassi delle grandi sigle sindacali, infatti, da qualche anno a questa parte, è quella di limitare al minimo indispensabile la proclamazione di scioperi. E soprattutto di procedere unitariamente. È solo in queste occasioni, infatti, che si verifica una riduzione sensibile del servizio. Con percentuali di adesione che superano anche il 50% degli addetti. Negli altri casi, infatti, la percentuale di adesione rimane sempre su livelli assolutamente trascurabili. Resta il fatto, però, che la materia dei servizi essenziali in caso di sciopero non è più stata fatta oggetto di regolazione al tavolo negoziale da circa vent’anni.

Il ritardo è dovuto in parte anche al fatto che le parti si erano accordate per provvedere in occasione dell’ultima tornata negoziale. Che ha portato alla sottoscrizione del contratto di comparto il 19 aprile 2018. In tale occasione, però, la fretta del governo di concludere prima delle imminenti elezioni politiche, indusse le parti a concentrarsi prevalentemente sugli aspetti economici. Tant’è che la parte normativa è rimasta praticamente intatta. La partita, dunque, resta aperta. Resta da vedere se sarà possibile superare lo scoglio della precettazione dei docenti per via negoziale oppure, preso atto che non sarà stato raggiunto alcun accordo, il legislatore regolamentare propenderà per un atto unilaterale. Nel qual caso la discussione continuerebbe in tribunale.

Ecco il piano per aiutare gli studenti in Campania e Sicilia

da ItaliaOggi

Si partirà dalla Campania e dalla Sicilia, per poi realizzare anche nelle scuole di Calabria, Puglia e Sardegna le azioni per migliorare i risultati negli apprendimenti, previsti dal Piano di intervento del Miur per la riduzione dei divari territoriali in istruzione presentato la scorsa settimana al ministero, confermando le anticipazioni di ItaliaOggi di questa estate (si veda il giornale del 23 luglio 2019). Definito in stretta collaborazione con gli enti di ricerca Invalsi e Indire, gli enti locali e gli Usr, prevede una fase preliminare di promozione di un confronto tra gli assessori regionali competenti e gli Usr per analizzare i dati Invalsi e gli interventi in campo, integrarli con i dati del Miur e degli enti locali, coordinare i progetti in atto, concordare alcuni obiettivi di processo e di risultato nel medio termine.

Il Piano, infatti, prevede la valutazione nel tempo dei risultati e degli impatti complessivi. «Diamo il via libera a un piano organico, che coinvolge tutti gli attori in campo», spiega la viceministra all’istruzione Anna Ascani. Quattro le aree fondamentali in cui sono individuati, in relazione alla situazione specifica delle scuole, obiettivi perseguibili, rilevabili e valutabili: competenze chiave di cittadinanza, apprendimento, varianza dei risultati, effetto scuola (cioè il valore aggiunto della scuola). L’attenzione è rivolta innanzitutto alle terze classi delle medie, individuando le scuole in forte difficoltà, in cui in media il 45% degli alunni in tutte le materie non raggiungono livelli adeguati alle prove Invalsi sia nel 2017/18 sia nel 2018/19, e le scuole in difficoltà, in cui la percentuale riguarda in media il 30% degli studenti. «Mettiamo a disposizione le nostre competenze per riconoscere capillarmente le situazioni di difficoltà e approfondirne le ragioni», commenta la presidente dell’Invalsi Anna Maria Ajello. Entrambe le scuole sono state messe in relazione ad altri indicatori. È così emerso che il 100% dei ragazzi delle scuole in forte difficoltà provengono da situazioni socioeconomiche e familiari basse.

«Da qui», si legge nel Piano, «la necessità di prefigurare progetti integrati tra scuola e territorio». Le scuole nel Rav hanno chiara la percezione delle difficoltà degli alunni e tendono a investire negli esiti degli studenti per ottenere un incremento dei risultati. «Spetta», allora, «allo stato riconoscere i loro sforzi e promuovere interventi che le sostengano». L’impatto delle assenza raggiunge livelli molto allarmanti nelle scuole in forte difficoltà, dove a volte il loro numero è più del doppio rispetto alle altre. «Pertanto è prioritario facilitare e motivare alla frequenza scolastica questi studenti».

Significativo anche l’impatto della comunità professionale dei docenti. I risultati, infatti, migliorano se ci sono più docenti di ruolo e insegnati con una certa anzianità di servizio. Infine, «il numero di finanziamenti ottenuti, per quanto rilevanti, non sempre comporta differenze tra le scuole nella percentuale degli alunni in difficoltà». Il Piano prevede un repertorio di interventi, in collaborazione con Indire, da cui le scuole individuano quelli più significativi per la loro realtà. Diversamente ogni intervento promosso dal centro «è destinato al fallimento». Il repertorio prevede la condivisioni di buone pratiche, associando per esempio ognuna delle scuole in forte difficoltà con una uguale e simile per caratteristiche socio-economico-culturali e composizione, ma che raggiunge livelli adeguati nelle prove Invalsi. Oppure creando uno spazio collaborativo in rete per docenti. Individuare e promuovere buoni progetti di cura didattica per dare la possibilità alle scuole di scegliere e valorizzare in autonomia quello più pertinente. Investire su alcune non cognitive skills che a loro volta sono di supporto alle cognitive skills, evitando il rischio di puntare ad una didattica esclusivamente mirata al miglioramento dei risultati Invalsi. Sostenere l’autonomia dei docenti, perché in Italia le analisi disponibili mostrano che «la continuità e l’incentivazione dei docenti motivati è il valore aggiunto che determina risultati migliori, soprattutto nei contesti socialmente molto problematici». Tuttavia, docenti e presidi «non vengono adeguatamente sostenuti e le stesse opportunità di supporto a disposizione del direttore dell’Usr per i dirigenti scolastici e del dirigente scolastico per i docenti non vengono adeguatamente esercitate».

Cina: homeschooling per almeno 50 milioni di studenti

da Tuttoscuola

I media italiani hanno diffuso la notizia che 180 (ma qualcuno parla anche di 200) milioni di studenti cinesi hanno iniziato il secondo semestre di scuola senza entrare in classe ma seguendo corsi trasmessi dalla TV o via internet. I numeri, a quanto pare, sono un po’ gonfiati perché la misura, secondo fonti cinesi riprese dal Washington Post, riguarderebbe per ora circa 50 milioni di studenti, quelli residenti nei territori dove il coronavirus si è manifestato in forma epidemica.

Il calendario scolastico in Cina prevede di norma (ci sono eccezioni) tre settimane di chiusura delle scuole a partire dal capodanno cinese, che varia di anno in anno a seconda dei cicli lunari. Quest’anno (2020) il capodanno è stato celebrato il 25 gennaio (l’anno scorso il 5 febbraio, l’anno prossimo sarà il 12 febbraio), e la riapertura delle scuole era stata fissata per il 17 febbraio. Nelle tre settimane dopo il 25 gennaio però i timori per la diffusione del virus si sono ingigantiti e hanno indotto le autorità della Cina (quelle politiche e sanitarie prima ancora di quelle scolastiche) a vietare le manifestazioni pubbliche e a non riaprire le scuole, e in non pochi casi anche le fabbriche e gli uffici.

Le misure riguarderebbero tra un terzo e un quarto del territorio cinese, e una analoga porzione delle attività produttive e della popolazione scolastica. Almeno per ora.