Ripartenza della scuola e uso delle tecnologie

Ripartenza della scuola e uso delle tecnologie

Cosa non fare, cosa fare. Indicazioni per la policy nazionale

di Antonio Calvani *

Cosa non fare

La situazione emergenziale che ha portato alla chiusura improvvisa delle scuole ha fatto emergere una varietà di iniziative fin anche nella scuola dell’infanzia, con l’impiego di tecnologie di rete e coinvolgimento dei genitori, che pur apprezzabili nella situazione emergenziale, non possono essere prese come riferimento per la ripresa scolastica.

Le tecnologie generano un appeal immediato, smartphone e tabletsono del resto di uso comune anche in ambito familiare; ciò può creare una visione complessivamente fuorviante sul piano pedagogico e applicativo.

Ai numerosi miti che hanno accompagnato il rapporto tra tecnologie ed educazione se ne sta aggiungendo un altro, quello che bambini sostenuti dalle famiglie possano lavorare autonomamente da casa con la didattica a distanza per mezzo di tecnologie divenute “facili” per via della loro presenza anche nel contesto familiare.

E’ un mito pericoloso che nasce da due fraintendimenti, la proiezione su larga scala di una visione edulcorata ed elitaria delle condizioni della famiglia (si immaginano genitori liberi da impegni di lavoro, disponibili ad aiutare i figli, capaci di avvalersi di attrezzature telematiche a fini educativi) e una ingenua delle tecnologie stesse, identificate come tecnologie “facili” (educare equivarrebbe a comunicare); si sottovaluta la difficoltà e l’enorme quantità di tempo che se ne va per operare una loro riconversione didattica.

Si dovrebbe tener presente che:

-continuare sulla stessa strada che la scuola ha dovuto seguire per motivi emergenziali appoggiandosi sul supporto delle famiglie accentua la disparità ed implica una sostanziale rinuncia del ruolo della scuola come garante egualitario di avanzamento culturale e sociale;

-che le tecnologie ad uso familiare (smartphone e tablet) hanno poco o nulla a che fare con tecnologie usate a fini educativi, anzi le pratiche diffuse nel primo ambito sono piuttosto di ostacolo all’apprendimento di buone pratiche nel secondo;

-che dal canto loro le scuole, nonostante le eccellenze e le buone pratiche messe sempre in risalto, nella stragrande maggioranza sono assai carenti nelle competenze tecnologiche necessarie ai docenti e nella capacità di prospettare programmi didattici con le tecnologie in modo sistemico e sostenibile nel tempo.
Le tecnologie di rete sono importanti nella scuola ed il loro uso va favorito approfittando anche di questa situazione ma occorre proporre scenari realistici e sostenibili. Un uso blended delle tecnologie con alcuni giorni a scuola, altri a casa come soluzione a regime può avere senso solo nella scuola secondaria superiore, con una opportuna preparazione sia sul versante degli insegnanti che degli alunni che devono essere adeguatamente preparati per lostudio autonomo.

Cosa fare

-Fissare come imperativo categorico che tutti gli alunni a partire dai livelli più bassi tornino quanto prima  a scuola.  Occorre impegnarsi decisamente a trovare spazi dentro ma anche fuori della scuola, in accordo con gli enti locali (palestre, associazioni extrascolastiche, musei ed altro), processo da continuare anche dopo l’emergenza  finalizzando progressivamente il vantaggio derivato dalla riduzione del numero degli alunni all’attuazione di modelli di didattica più personalizzata.

-Applicare fin dalla scuola primaria, anziché una DAD, una didattica basata sugli spazi scolastici ed extrascolasticitecnologicamente potenziati (technology enhanced learning), connessi con un ambiente asincrono di supporto (piattaforma e-learning). Bambini anche disposti fisicamente in aree diverse possono condividere i materiali che l’insegnante colloca in questo ambiente. L’obiettivo primario dovrebbe essere dunque quello di portare tutti gli insegnanti ad avvalersi di una piattaforma asincrona come appoggio alla didattica ordinaria; assai meno realistico è immaginare che si possano avvalere quotidianamente di un sistema di videocomunicazione in sincrono per le difficoltà maggiori che si generano sul piano dell’accessibilità, del carico sulla rete e delle competenze comunicative necessarie perché una interazione non sia sopraffatta da inconvenienti tecnici.

-Mettere a disposizione della scuola d’infanzia, della primaria e della secondaria di I grado un’emittenza televisiva dedicata a trasmissioni continuative sulle discipline e le nozioni basilari (grammatica, matematica, scienze) (modello “maestro Manzi”);

-Applicare soluzioni blended con alternanza di giorni a scuola, altri a casa,  solo a partire dalle superiori; a questo livello, opportunamente ottimizzate e controllate, dovrebbero anche continuare dopo l’emergenza.

-Avviare contestualmente un piano educativo per mettere al centro un forte rilancio delle competenze di lettura e scrittura e forte attenzione allo sviluppo delle abilità autonome di studio.

-Offrire modelli di protocolli deontologici per la scuola (rapporti tra insegnanti, insegnanti-alunni) e esterni (scuola-famiglia), in particolare per gestire le implicazioni etiche e didattiche poste dall’uso delle nuove tecnologie.


* Ex Professore Ordinario di Didattica e Pedagogia Speciale – Presidente dell’Associazione Scientifica SApIE

Innovazione. Didattica. Valutazione

Innovazione. Didattica. Valutazione

di Stefano Stefanel

La scuola italiana è entrata dentro un’emergenza pandemica di carattere mondiale e ha dovuto accelerare sull’innovazione didattica e metodologica molto al di là di quanto avrebbero permesso le forze presenti nel sistema dell’istruzione italiano.

E’, dunque, importante comprendere come l’innovazione richiesta dalla Didattica a distanza, dalla Valutazione senza possibilità di bocciatura o di sospensione del giudizio, dalle ipotesi che si susseguono di giorno in giorno senza piani di attuazione strutturali che riguardino l’edilizia e la connettività, sia entrata a regime, senza alcun periodo di sperimentazione. Inoltre non c’è stato neppure alcun precedente “stress test”, che abbia potuto permettere di verificare lo stato dell’arte in una situazione senza eguali.

C’è stata una grande improvvisazione nazionale, che ha dato esiti nel suo complesso molto positivi, ma sempre dentro scelte di carattere empirico e non legate a ricerca e innovazione didattica. Alcune scuole sono già molto avanti nella Didattica a distanza, nella connettività, nell’integrazione del web nel curricolo: ma queste scuole sono poche e soprattutto sono del secondo ciclo.

Far guidare l’innovazione di tutto il sistema dell’istruzione da esperienze forti del secondo ciclo significa solo creare un ulteriore sbilanciamento nel sistema stesso.

L’innovazione, per sua natura, richiede tempo e verifiche sul campo, ricerca-azione e protocolli analitici, mentre noi siamo entrati nell’innovazione didattica e metodologica dall’oggi al domani, senza una preparazione, senza un supporto di sistema, ma anche senza contratti del personale, senza un quadro di rifermento nazionale, senza termini di confronto con esperienze simili. Per cui è necessario dire che il sistema scolastico italiano ha reagito benissimo, ha retto come non sarebbe stato prevedibile e, soprattutto, ha mostrato sensibilità, competenze nascoste che sono improvvisamente emerse, senso del dovere, senso dello stato. Da un lato c’è stata un’innovazione imposta da un’emergenza storica ed epocale, dall’altra una risposta attiva di un sistema che è stato scosso, ma che non si è mai arreso.

Credo che di tutto questo si debba tenere conto, riconoscendo soprattutto ai docenti e agli studenti qualità di empatia e impegno molto alte, che dovranno essere potenziate da dosi massicce di competenze tecniche e valutative quando tornerà una situazione normale.

E’ necessario stare molto attenti, però, a maneggiare l’innovazione con cura, a non fare salti in avanti, a rendersi conto di come le scuole abbiano imbastito la Didattica a distanza senza stress test, senza procedure verificate, senza competenze certificate, senza connettività certa, senza sicurezza della recettività anche da parte degli studenti più deboli.

Il sistema scolastico, dopo questa emergenza, ha bisogno di mutamenti strutturali che lo modifichino nella sostanza.

Ad esempio la scuola per piccoli gruppi non può essere realizzata con una parte di studenti in classe e una parte a distanza (anche perché vista l’edilizia scolastica il concetto di distanza in presenza diventa vago in rapporto alle singole situazioni strutturali), ma deve prevedere una revisione totale della organizzazione degli studenti, che deve avvenire per gruppi e non per classi.

Questo vuol dire rivoluzionare gli organici, la struttura delle classi, la struttura degli spazi: cose che non si possono improvvisare in poco tempo.

Possiamo farlo nell’emergenza? Io credo di no, perché il sistema scolastico sottoposto a troppi mutamenti rischia forti criticità potenzialmente irreversibili.

A scelte didattiche radicali, vanno affiancate scelte contrattuali e organizzative radicali, altrimenti cadiamo da un’emergenza pandemica a una emergenza innovativa, resa necessaria dalle cose, ma non attuabile in un sistema non governato.

Ci deve poi essere un rapporto armonico tra Ministero e Rai scuola, che coinvolga anche le autonomie scolastiche.

Chi deve ragionare su questo? Direi il Ministero con tutte le sue Direzioni generali (che magari dovrebbero diventare da strutture di emanazione e controllo a strutture di supporto), i Sindacati, i Dirigenti scolastici, gli Enti Locali. Perché una volta che le innovazioni organizzative arrivano a scuola i docenti dovranno poter progettare in forma collegiale e individuale in base a dati certi e scelte chiare.

DIDATTICA A DISTANZA

E’ naturale che la Didattica a distanza abbia ingenerato molte splendide esperienze e anche qualche confusione. Alcuni paradossi non possono però essere taciuti, perché non costituiscono critica ad un sistema che ha retto benissimo, ma solo elemento di analisi per guardare avanti con lucidità:

BYOD (Bring Your Own Device). In molte scuole fino al 21 febbraio lo studente che veniva scoperto connesso era punito. In molte scuole si firmavano protocolli per evitare anche di far portare i device a scuola. Una parte di docenti considerava virtuoso lo studente che non si connetteva e la cultura libresca prevaleva su quella del web (su questo bisognerebbe leggere con attenzione quanto in questi anni ha scritto Roberto Maragliano). Ebbene, improvvisamente alcuni insegnanti che mettevano la nota a chi usava lo smartphone in classe adesso vorrebbero mettere la nota a chi non lo usa da casa. Non si può passare dalla repressione del BYOD all’obbligatorietà del BYOD. Bisogna prima fare chiarezza su questo. E questa chiarezza deve essere fatta dalle singole istituzioni scolastiche in un territorio molto complesso e che ha visto ribaltarsi le priorità. Se prima del 21 febbraio c’era l’urgenza di proteggere lo studente dalla connettività ora c’è l’esigenza di accompagnare lo studente dentro la connettività.

LIBRI DI TESTO. Molti libri di carta stanno da due mesi nelle scuole e la didattica è andata avanti lo stesso. Si è compreso come la Didattica a distanza per sua natura si appoggi al web e alle piattaforma, oltre che alla pubblicistica on line, che è fatta di cose ottime ma anche di cose pessime e che, dunque, necessita della mediazione del docente. Però il rapporto tra scuola italiana e libro cartaceo si è interrotto in maniera traumatica e repentina a fine febbraio. E questa interruzione ha introdotto paradigmi nuovi che vanno esplorati con molta cautela.

TEMPO SCUOLA. Il tempo scuola prima dell’emergenza era segnato da una serialità semplice legata anche ai trasporti e ai tempi delle famiglie. L’anno scolastico si sviluppava su orari certi e tempi chiari, spesso complicati da seguire, ma comunque legati alla presenza in un edificio di molte persone. Quel tempo però era segnato anche da gite, viaggi d’istruzione, scambi, stage, attività sportive con gare scolastiche, visite a mostre o musei, conferenze, assemblee, assenze di docenti o studenti, ritardi, ecc. Tutto questo è saltato, ma una parte del sistema sta provando a ricreare tutto a distanza, con tempi e orari scanditi in modo reale in un mondo che è diventato irreale. Anche questa è una modifica di cui si dovrà tenere conto, in un anno finito dentro una convivenza che rimane attiva solo grazie al web.

Ho fatto solo tre esempi, ma ce n’è molti altri. La Didattica a distanza non è una didattica sostitutiva di quella in presenza, ma è una Didattica on line che cambia anche quella in presenza, perché cambia radicalmente il concetto di presenza. Fino al 21 febbraio la presenza è stata per tutti una presenza di gruppo (salvo nelle splendide esperienze della Scuola in ospedale), mentre nella Didattica a distanza la presenza è una solitudine davanti ad unoschermo, che improvvisamente è diventata didatticamente sociale. Ripensare e riprogettare tutto questo non è cosa da poco, soprattutto se ci si dovrà rapportare a piccoli gruppi e non alle classi intere. In ogni caso un’integrazione tra didattiche sarà necessaria e dovrà essere ponderata, perché molte cose che facevamo in presenza ora le faremo per sempre a distanza. Una lezione frontale di un’ora può anche essere goduta o subita quando lo si ritiene opportuno, perché a quel punto, quando si è presentisia in classe sia sul web, è meglio parlare di ciò che si è già ascoltato. Il web deve creare integrazione, perché permette una trasmissività non legata alla presenza.

LA VALUTAZIONE NON E’ UNA MISURAZIONE

​La scuola italiana tende da sempre a confondere Misurazione, Valutazione e Certificazione. I tre vocaboli non sono affatto sinonimi e la media matematica è sempre una misurazione. Sorprende, ad esempio, che il ministero non tenga conto di quello che viene detto da varie persone di scuola molto illuminate (cito solo Giancarlo Cerini, Cinzia Mion, Franca Da Re e l’Andis) e non eviti in questa fase di obbligare le scuole primarie ad attribuire i voti numerici alle materie. Questo sarebbe il momento di uscire da una docimologia che andava stretta alle scuole primarie anche prima della pandemia. Credo in ogni caso che le scuole primarie possano rendere leggera la valutazione alla fine di quest’anno anche attraverso meccanismi comunicativi gestiti in autonomia, che vadano oltre il registro elettronico coi voti e il complesso giudizio analitico, che dovrebbe descrivere l’andamento dell’alunno e invece molto spesso è una difficile lettura per famiglie che alla fine si mettono a contare le valutazioni trasformandole in misurazioni. E’ necessario affiancare a questo strumento tecnico anche un qualcosa di descrittivo ed empatico che resti nella mente e nel ricordo dei bambini e che suggelli questo periodo difficile con le maestre lontane. Ai docenti dell’Istituto comprensivo che dirigo ho proposto un disegno fatto da loro e personalizzato per ogni bambino, che sintetizzi l’anno e lasci un ricordo. Non un disegno fatto dall’alunno per la maestra, ma un disegno fatto dalle maestreper l’alunno. Quella sarà la pagella aggiuntiva, che penso molti bambini appenderanno in camera. 

Al di là dell’empatia va detto che la scuola italiana,confondendo misurazione con valutazione, può fare il grande errore di valutare gli studenti attraverso le misurazioni della Didattica in presenza (compiti in classe ed interrogazioni) trasferite dentro la Didattica a distanza. Soprattutto nel secondo ciclo questo altererebbe il sistema di valutazione complessivo (messo in sicurezza dal Ministero dai “colpi di testa” di chi avrebbe comunque voluto bocciare anche dentro una pandemia), perché la misurazione per sua natura tende ad aiutare i migliori (che hanno molto bisogno di misurazioni) e a penalizzare i ragazzi più deboli (che vengono mortificati dalle misurazioni standard al di là della loro debolezza). Citerei, come esempio, tre elementi utili per valutare la Didattica a distanza: il colloquio colto (cioè il colloquio tra soggetti che condividono determinati specialismi), i compiti di realtà (connessi alle competenze tecniche, al rapporto con quello che gli studenti vivono, a ciò che può essere traslato dalla teoria alla pratica), la pluridisciplinarietà attraverso argomenti di vasta portata che amplino l’orizzonte culturale dello studente e richiedano argomentazione e non ripetizione.

Chi continuerà a misurare i prodotti (compiti e interrogazioni) in questa fase semplicemente commetterà un errore più grave di quelli già commessi in passato. Quello che è cero è che la misurazione per lo studente di livello medio alto o alto è un elemento di valorizzazione, mentre per lo studente debole è la strada maestra per la dispersione. Misurare in questa emergenza è dunque un errore, ma per valutare bisogna aver compreso appieno gli elementi cardine della valutazione, che attengono al rapporto empatico del valutatore col soggetto valutato, ad una comprensione del reale valore aggiunto dalla scuola (formale) e dalla realtà (non formale e informale) nel processo di apprendimento dello studente, ad un’attenzione per i percorsi culturali personalizzati. Tutto questo è visibile anche dentro problem solving, problem posing, analisi sistematiche di dati e notizie. Il luogo della valutazione deve essere messo a contatto con strumenti qualitativi e flessibili, non con rigide prove basate su standard autoreferenziali.

Non c’è dubbio che nella formazione dei docenti ci sono buone o ottime competenze specialistiche e una notevole empatia didattica e pedagogica, ma la valutazione non è stata studiata dai docenti e tra i loro obblighi non c’è quello di formarsi sui migliori modelli di valutazione. Tutta colpa dei docenti, dunque? Direi proprio di no: genitori, studenti e società civile sono molto più lontani della scuola dal concetto di valutazione. Nessuna categoria vuole farsi valutare e infatti davanti a qualunque proposta valutativa scatta il richiamo al detto di Giovenale Quis custodiet ipsos custodes? E in quel “Chi controlla i controllori” è già specificato che la valutazione non si farà. La società civile (genitori e studenti) si sentono più al sicuro dietro misurazioni standardizzate e autoprodotte in modo artigianale, perché comunque ritenute meno arbitrarie e volubili. E questo è uno dei punti deboli del sistema dell’istruzione. Ma il Ministero e noi Dirigenti non abbiamo investito come avremmo potuto e dovutosulla cultura della valutazione e sulla formazione alla valutazione(anche nostra). Quindi è tutto il sistema a doversi riaddentraredentro questo elemento della pedagogia, per slegarlo da una docimologia rigida e inefficace.

In questa fase innovativa ed emergenziale una misurazione che si traveste da valutazione può diventare un peso e consegnare troppi studenti dentro una fotografia errata. E’ necessario avere ben chiaro che in una didattica nuova e sconosciuta bisogna avere sempre il polso della situazione, per aprirsi verso il prossimo anno scolastico che sarà pieno di incognite. In questo ultimo mese di scuola bisogna rallentare la didattica, ampliare gli stati di conoscenza ed empatia, analizzare competenze e valutare progressi, mettere in sicurezza gli studenti bravi e meno bravi che non devono essere coinvolti in un finale d’anno con compiti e verifiche, anche al fine di individuare le sacche di debolezza del sistema da sottoporre a rinforzo, con proposte anche estive di supporto, tutoraggio, recupero.

L’esame di “maturità” al tempo della pandemìa

L’esame di “maturità” al tempo della pandemìa: l’ANP chiede regole chiare

Giorni fa, con riferimento alla “ripartenza” scolastica di settembre, l’ANP ha chiaramente espresso la sua posizione: l’Esecutivo ha il dovere di rendere pubbliche – quanto prima possibile – le sue scelte concernenti il riavvio di tutte le attività sospese a causa della pandemia da Coronavirus e le modalità operative con cui intende contemperarle con l’esigenza di tutela della salute collettiva.

Ma il prossimo importante “appuntamento” del mondo della scuola è indubbiamente costituito dall’esame di Stato conclusivo del secondo ciclo o, come molti ancora lo chiamano, l’esame di “maturità”.

La Ministra Azzolina ha dichiarato ieri, a questo proposito, che l’esame avrà luogo in presenza e questa decisione, presumibilmente, si basa sulla consulenza resa dal comitato di esperti di recente istituzione.

Come organizzazione maggiormente rappresentativa della dirigenza delle scuole, però, sentiamo il dovere di manifestare le notevoli perplessità che questa scelta sta sollevando tra tutti gli operatori coinvolti: dirigenti, docenti, personale ATA.

Il giorno 7 maggio avremo modo di incontrare il Ministero in videoconferenza ed espliciteremo le nostre riflessioni. Possiamo però fin da ora affermare che, pur nella piena consapevolezza del valore simbolico dell’esame, devono essere soppesate con estrema attenzione tutte le circostanze in cui esso dovrebbe svolgersi. Il mondo della scuola ha ampiamente dimostrato serietà e senso dello Stato: chi prospetta un diffuso assenteismo, sostenuto da certificazioni mediche compiacenti, sottovaluta e offende la professionalità del personale. Ciò non toglie che debba essere affrontato e risolto al più presto il vero problema: definire specifici protocolli di sicurezza inerenti gli strumenti, le procedure e le connesse responsabilità.

Non possiamo lasciare sole le scuole – e i dirigenti che ne gestiscono l’attività – nel decidere come organizzarsi. Non possiamo accettare un aggravio di responsabilità ulteriore e, soprattutto, evitabile.

Servono regole chiare e servono subito.

Le radici e le ali

Le radici e le ali

di Maria Grazia Carnazzola

“Abituarsi alla diversità dei normali è più difficile che abituarsi alla diversità dei diversi”. (G. Pontiggia)

1. Introduzione

Il 27 aprile u.s., il ministro dell’Istruzione ha inviato al personale scolastico, agli studenti e alle loro famiglie, una lettera sull’argomento “didattica a distanza” per gli alunni con disabilità.

Colgo questa occasione per una riflessione a largo raggio sul tema dell’inclusione scolastica e su quello delle “fragilità” dentro la scuola e dentro la famiglia.

La Costituzione consegna alla Scuola il compito di promuovere l’apprendimento e di valorizzare le competenze di tutti gli allievi, qualunque sia la loro condizione personale e sociale; in questo senso l’inclusione scolastica diventa la premessa per l’inclusione sociale. Includere significa creare le condizioni perché tutti possano stare dentro un contesto in modo soddisfacente; ciò rimanda alla costruzione dell’identità personale e sociale, al reciproco riconoscimento che passa, più che attraverso le parole, attraverso le pratiche: l’inclusività attiene alle persone che, a vario titolo, operano in quel contesto; non si esaurisce in ciò che un insegnante specializzato può fare per un alunno con disabilità ma è responsabilità dell’intera comunità professionale.

Per “fragilità” intendo tutte quelle situazioni come la disabilità, il disturbo specifico di apprendimento, un temporaneo bisogno speciale…, che generano disagio. Si stima che uno studente su cinque, nel corso dell’iter scolastico, incontri un momento di difficoltà particolare per cui ha bisogno di un “occhio di riguardo”.

Gli studenti nelle scuole italiane sono più di otto milioni, i conti sono presto fatti. Le difficoltà possono riguardare sia il soggetto sia il contesto, come l’ambiente socioculturale, il clima familiare, la qualità dell’istruzione scolastica.

Le fragilità non sono di per sé problemi, ma pongono dei problemi che la scuola è chiamata a risolvere, alzando il livello della competenza didattica, modulando e non abbassando il livello delle richieste.

Chi è fragile ha bisogno di un “sostegno evolutivo”, per dirla con A. Canevaro, di forme di accompagnamento che crescano e si modifichino con lui, cambiando quando lui cambia.

Sostegno che può essere strumentale, informativo, ricreativo, affettivo, emotivo. In questa prospettiva l’azione di sostegno è attribuzione di tutta la comunità scolastica: se ho un problema, posso chiedere alla persona che in quel momento mi è più vicina.

Questa è la necessaria pedagogia della prossimità che permette azioni di orientamento/accompagnamento continue e condivise e presuppone la capacità della scuola di ripensare i ruoli, l’organizzazione, le pratiche, gli ambienti.

A questa riflessione si collegano da una parte la necessità della formazione strutturale e continua degli insegnanti, dall’altra il problema della dispersione scolastica e dei costi sociali e personali che essa comporta.

2. Per continuare

Ci sono dei principi che costituiscono il fondamento dell’inclusione. Provo a declinarli.

a) Accettare le diversità come una delle caratteristiche costitutive della condizione umana. Insegnare questo significa creare situazioni di apprendimento che escludano la staticità metodologica e la proposta del convenzionale; significa sollecitare un confronto con la dissonanza, cognitiva, affettiva, emotiva, esistenziale di ciascuno. In questo modo insegnare ed apprendere diventano realmente espressioni dell’esistere. Nel confronto su problemi che davvero riguardano la vita di tutti, l’insegnamento si scontra e si confronta con il costrutto polimorfo di identità e con identità molteplici che si costruiscono in relazione a contesti storico, geografici e culturali, alle esperienze soggettive e collettive, al sistema dei simboli e dei valori sociali veicolati e d’origine.

b) Assicurare la partecipazione attiva. Includere non è assicurare un posto in aula, ma significa promuovere una partecipazione costruttiva, per sé e per gli altri, all’elaborazione della conoscenza per un reale apprendimento. La compiutezza e la significatività dell’apprendere viaggiano su due binari paralleli e complementari: quello orizzontale che procede soprattutto attraverso i sensi e riguarda la forma della conoscenza; quello verticale che riguarda il senso di quella forma e il legame che ha con l’esistenza di tutti e di ciascuno. Mi preme ricordare che il movimento che ciascuno compie, verso la conoscenza, risponde in prima istanza alla percezione di una necessità e che sollecitare questa percezione è compito dei docenti.

c) Sviluppare pratiche di collaborazione. L’inclusione è un processo continuo che richiede il concorso di tutti. Se la scuola ha, anche, il compito di contribuire allo sviluppo dell’idea di futuro, deve essere pienamente consapevole che il percorso che intende tracciare postula, per ciascuno, la presenza degli altri. Solo nella relazione con gli altri si può capire il presente e immaginare ciò che non è ancora dato. Scrive E. Morin che la conoscenza, oggi, è dissestata sia dalla rapidità dei cambiamenti sia dalla complessità derivante dalla globalizzazione e dall’intreccio dei processi sociali, demografici, religiosi, politici, ideologici. Questo periodo particolare che stiamo vivendo, legato alla diffusione del virus, ne è un esempio emblematico. Attraverso la conoscenza ciascuno, compatibilmente con la propria situazione personale, potrà scegliere tra le vie esistenti e anche immaginare le vie possibili.

d) Immaginare una scuola diversa. La scuola inclusiva è una scuola “diversa” che promuove il cambiamento e lo sviluppo e che impara da sé stessa, da quello che fa e da come lo fa. Una scuola che, nel suo esserci, riesce a generare conoscenze utili e necessarie alla comprensione del mondo e per vivere nel mondo qui ed ora e per immaginarsi, abbiamo detto, nel mondo di domani. L’esistenza è fatta di conoscenza che, per lo più, deriva dall’esperienza diretta. La conoscenza fornisce gli strumenti concettuali che consentono a ciascuno di attribuire un significato e un senso a ciò che sta vivendo. Ma solo se la conoscenza si rivolge al futuro. Il passato è necessario per la sistematizzazione dei saperi, le discipline si strutturano sulla conoscenza che proviene dal passato ma, interpreto Popper, ogni disciplina si basa sulle evidenze e contiene “verità” e “menzogne”. La conoscenza ha il compito di svelare le menzogne- questa è la falsificazione- e di generare tensione per lo sviluppo futuro. Per questo l’insegnamento di ogni disciplina non può che essere orientato al futuro che, a volte può significare anche tornare indietro. Ed è per questo che l’inclusione è responsabilità di tutti i docenti.

3. Tra innovazione e manutenzione

La scuola esiste per garantire a tutti l’educazione e la formazione, attraverso l’istruzione che è il suo specifico.

Purtroppo, spesso, educazione e formazione sono percepiti come termini astratti e di scarsa rilevanza- e non come cornici di senso entro cui collocare tutte le azioni- mentre le procedure sono considerate la concretezza a cui finalizzare le attività.

Lo vediamo chiaramente nell’istruzione a distanza, nell’impostazione della didattica, nelle modalità di verifica e nella successiva valutazione.

Quando c’è distanza c’è maggior disinvoltura nel trattare le situazioni, ma soprattutto le persone; quando si è vicini c’è un altro modo di vedere le cose. La lontananza permette una gestione diversa delle responsabilità e un appiattimento delle diversità; fino ad arrivare a dire, come è successo, che con l’istruzione a distanza tutti imparano meglio e sono più attivi.

Ci sono, ovvio, situazioni in cui il lavoro a distanza, in relazione all’indirizzo e al grado scolastico, funziona egregiamente, ma analizzando come le cose sono andate fino ad ora, il giudizio complessivo non può essere positivo perché il focus dell’azione didattica è più la memorizzazione dei fatti e delle procedure che non la loro comprensione. La memoria funziona meglio se i materiali da ricordare sono strutturati in un certo modo, di conseguenza la verifica sarà strutturata sul prodotto, non sul processo.

La costruzione del pensiero critico e l’apprendimento di algoritmi sono cose diverse e implicano processi cognitivi diversi.

La tecnica è indispensabile, ma va calibrata sui bisogni reali del gruppo e dei singoli, anche per le persone con disabilità perché il loro percorso di crescita è uguale a quello di tutti gli altri: hanno bisogno di una base sicura, fatta di relazioni, di conoscenze, di consapevolezze, per imparare a chiedere e a diventare autonomi. Lo racconta bene una storiella canadese: a ogni bambino vanno regalate le radici e le ali.

4. Conclusione

L’argomento “inclusione a scuola”, anche se diversamente etichettato, ha attraversato per parecchi decenni i programmi e le indicazioni ministeriali, le prassi didattiche di scuole volonterose e aperte e la ricerca accademica, con approcci teorici e operativi differenti, la cui efficacia è stata raramente monitorata e valutata.

Di volta in volta abbiamo parlato di individualizzazione, personalizzazione, inserimento, integrazione, accoglienza, stili di apprendimento e attributivi, cooperative learning, classe capovolta, metacognizione, e-learning…e regolarmente l’effetto muro di gomma, di cui diceva Piero Romei, è entrato in azione e si è tornati ai consueti riti: la lezione, la classe, il programma, l’interrogazione, il voto…

La scuola si interroga sui problemi, ma ha difficoltà a mettere in atto progettualità condivise e cornici di senso; tuttavia non possiamo non rilevare che è l’unica istituzione che si fa carico delle fragilità lungo tutto il percorso.

Classi dimezzate, pasti al banco e didattica mista: ecco come riaprire le scuole

da Il Sole 24 Ore

di Eugenio Bruno

Dopo aver dato il suo contributo alla ripartenza delle imprese il Politecnico ci prova anche con la riapertura delle scuole. Con un documento di 62 pagine che parte dal ruolo cruciale dell’istruzione nell’organizzazione dei tempi di vita e lavoro e arriva a suggerire classi dimezzate per assicurare il distanziamento degli alunni, pasti da consumare al banco anziché a mensa e didattica mista in presenza/a distanza anche a settembre. Ma tra le ricette del rapporto “Scuola aperta, società protetta” spiccano anche l’uso delle mascherine solo dalle elementari in su e l’avvio, già nella fase 2, di comunità familiari che possano gestire (all’aperto) mini-gruppi di bambini. Magari con l’aiuto di operatori del terzo settore.

La dimensione del problema

Per riassumere la centralità del problema “scuola” nel momento in cui si prova a far ripartire il paese dopo il lockdown, il Politecnico parte dai numeri. A cominciare dagli 8 milioni di studenti e 1,2 milioni di operatori che ogni giorno frequentano gli istituti scolastici statali a cui vanno aggiunti i 950mila alunni dei paritari (più i 200mila docenti) e i 140mila dei centri di formazione professionale (più i 20mila formatori). Senza contare i nidi e le scuole dell’infanzia.
Trovare una soluzione per la riapertura di 40mila edifici scolastici significa – spiega l’ateneo torinese – per forza di cose dover pensare anche alle implicazioni per i trasporti, la viabilità, il lavoro. Da qui la necessità sottolineata nelle prime pagine del documento di un Protocollo nazionale anche per l’istruzione come avvenuto per le attività imprenditoriali.

Meno alunni per classe per riaprire a settembre

Gran parte dello studio si concentra sulle misure per poter riaprire in sicurezza. Centrale è il distanziamento tra gli alunni e dunque tra i banchi. Che andrebbero posizionati “a scacchiera”, alternando posti pieni e posti vuoti. E dimezzando se possibile i presenti in ogni aula. A questo proposito il Politecnico suggerisce di non superare i 10 alunni nella scuola dell’infanzia e i 15 alle elementari, alle medie e alle superiori dove spesso si sfiorano i 30 ragazzi per classe.
Il suggerimento per le aree comuni invece è quello di separare i flussi di ingresso e di uscita e di inserire dei divisori di plexiglass nelle aree di ricevimento del pubblico o nelle mese. Fermo restando che per i pasti si potrebbe pensare anche di farli consumare tra i banchi erogando il servizio di refezione con i lunchbox.

Didattica mista anche a settembre
Dovendo dimezzare le presenze nelle classi gira e rigira le soluzioni somigliano a quelle che stanno emergendo anche al tavolo del comitato di 18 esperti presieduto dall’ex assessore all’Istruzione dell’Emilia-Romagna, Patrizio Bianchi. Vale a dire doppi turni oppure giorni alterni (o settimane alterne) per lezioni in presenza e a distanza.Ciò significherebbe proseguire con l’e-learning anche a settembre. E qui il suggerimento è di aumentare gli sforzi per superare il digital divide in cui versano alcune famiglie e di semplificare l’assistenza tecnologica aggiungendo delle videochiamate pratiche ai webinar e ai tutorial che per alcuni non sono così immediati.

Mascherine dalle elementari in su
Un altro tema cruciale è quello dell’uso dei dispositivi di protezione. Immaginando la difficoltà a fare indossare la mascherina ai bambini più piccoli il rapporto suggerisce di introdurle dalla primaria in su. Non agli insegnanti però; per loro meglio delle maschere trasparenti sull’intera faccia che lasciano così trapelare il volto. Fermo restando l’uso di dispenser con igienizzanti in tutte le classi e la continua sanificazione dei locali.

Le esigenze dei più piccoli
Nella consapevolezza che settembre è lontano e che l’assistenza dei minori è fondamentale per consentire ai genitori di tornare al lavoro già nella Fase che scatterà il 4 maggio il Politecnico di Torino suggerisce la formazione tra le famiglie di «microcomunità spontanee». O usando l’articolo 48 del “Cura Italia” che già prevede la presenza a domicilio di operatori pubblici o di terzo settore e società civile, sia per i bambini e ragazzi disabili, sia per i bambini e ragazzi in condizione di disagio. o consentendo alle famiglie la organizzazione di gruppi di 2-5 bambini di micro-comunità spontanee, sotto la guida della scuola, o del nido di riferimento. Un’attività quest’ultima da svolgere con l’assistenza della scuola nella pianificazione della turnazione: ciascuna famiglia
ospita l’intero gruppo a turno: ad esempio, per 5 bambini ciascuna famiglia ne ospita 4 per un giorno a settimana ed invia il proprio bambino al domicilio di altri per i restanti 4 giorni.

A Torino i primi test
Le soluzioni messe nero su bianco verranno sperimentate nei prossimi giorni in 7 scuole del Piemonte (5 a Torino soptrattutto tra nidi e scuole dell’infanzia). I “beta test” (così vengono chiamati) riguarderanno tutte le procedure organizzative: dai turni all’uso degli spazi e ai flussi di entrata e uscita per rideterminare le attività in rapporto alla tutela della salute, oltre che ai bisogni dei piccoli utenti e delle loro famiglie.

Il nodo delle risorse
Per realizzare il piano complessivo anche il Politecnico è consapevole che serviranno risorse aggiuntive. Che non vengono quantificate. Ma se si tratta di avere locali sicuri, insegnanti raddoppiati per coprire i doppi turni e personale rafforzato per assicurare la sicurezza degli spazi educativi è chiaro che stiamo parlando di qualche miliardo di euro e non di pochi milioni.

Un curricolo per la competenza linguistica

Un curricolo per la competenza linguistica

di Maurizio Tiriticco

L’emergenza linguistica delle nuove generazioni è drammatica e pericolosa. I dati Invalsi a proposito degli esiti della istruzione confermano quanto di fatto ci è già noto da tempo: la comprensione e la produzione linguistica dei nostri giovani sono di una carenza a volte intollerabile. E, se è vero che tra pensiero e linguaggio corre un filo diretto, è anche vero che è la stessa elaborazione intellettuale che rischia di soffrirne. E’ l’organizzazione intelligente dei connettivi logici, soprattutto di quelli della subordinazione, che incrementa la produzione intellettuale, che si fonda su interrogativi, ipotesi, dubbi, argomentazioni, quindi ricerca e soluzione progressiva ai problemi dello studio, ma anche del lavoro e del vivere quotidiano.

Il fatto è che l’aggressione alla lingua, se mi è consentita questa espressione, ed il suo possederla in modo produttivo si realizzano in primo luogo dal sociale, ed in un tessuto linguistico, anche e soprattutto adulto, che – a mio vedere – si fa sempre più sgangherato: e la parolaccia e l’interiezione ricorrente diventano frequentemente il sostitutivo dell’argomentazione. E’ un fenomeno che si verifica in larga misura in quasi tutti i ceti sociali. E non manca poi un’aggressione mirata contro la lingua nazionale da parte di coloro che pensano che il dialetto sia il veicolo comunicativo da privilegiare. Nulla contro i dialetti e le loro specificità, la loro conservazione e valorizzazione, ma tutto contro di essi, se pensiamo che una relazione scientifica di alto livello possa ritrovarvi modi e forme necessarie per una rappresentazione completa, efficace, comunicativa, comprensibile! Per non dire del linguaggio degli sms e delle altre diavolerie consentite – e, di fatto, “autorizzate” da Facebook, WhatsApp e non so cos’altro – per cui vale lo stesso discorso: nulla contro, purché la riduttività linguistica non si riduca a riduzione e povertà concettuali! Del resto, i linguaggi stenografici non hanno mai avvilito la ricchezza della comunicazione.

Dinanzi a questa situazione del sociale, assolutamente poco incoraggiante, la scuola a volte sembra non solo incapace di opporre una sua linea educativa, ma spesso sembra addirittura gettare la spugna! Ed il fatto che molti giovani laureati non superino le prove scritte ai concorsi a causa della povertà, della scorrettezza e della sciatteria delle loro prove (errori ortografici, morfologici, sintattici, lessicali) sembra ormai non stupire più di tanto.

A mio avviso, la debolezza della istituzione scuola in merito è per di più aggravata, in questi giorni di corona virus, da una frequentazione solo online. Mi piace ricordare che non ho nulla contro la DdD, di cui ho scritto sempre bene in altri articoli, anche per averne fatto esperienza diretta! Ma è sempre opportuno ricordare che il contatto in presenza è sempre più ricco per ragioni che è inutile ricordare. Basti pensare alla prossemica, o meglio a quella scienza che ricerca natura e fini dei rapporti spaziali interpersonali, introdotta dall’antropologo statunitense Edward T. Hall nel lontano 1963. Ma i problemi sono anche altri! Istituzionali! Il primo riguarda l’assoluta discontinuità tra i gradi di istruzione che riguardano i primi anni dell’età evolutiva.

Nulla da dire per quanto riguarda la scuola dell’infanzia che in genere assolve bene il suo compito di prima socializzazione e di prima alfabetizzazione. Gli Orientamenti del ’91, anche con i ritocchi apportati in più occasioni, le riscritture operate sia con le Indicazioni nazionali della Moratti che con le Indicazioni per il curricolo di Fioroni che con le ultime, risalenti al 2010, in effetti sembrano reggere ancora. I guai vengono successivamente. Il percorso di istruzione obbligatoria ha la durata, oggi, di ben dieci anni, ed appare assolutamente impossibile e assurdo che in dieci anni questo primo e fondante grado di istruzione non riesca a produrre giovani che siano padroni della strumentazione linguistica di base, quella che poi riguarda il linguaggio comune. E’ sotto gli occhi di tutti cha l’istruzione primaria, quella media ed il successivo biennio sono tutte e tre centrati su se stessi, a danno, invece, di una necessaria continuità. La differenziazione, infatti, viene successivamente. Quando, cioè, nei diversi ordini di studio si innestano i linguaggi specialistici, quello classico, quello scientifico, quello economico, quello giuridico e così via, a seconda delle opzioni che gli studenti via via andranno operando. E’ noto che il linguaggio specialistico di un medico non è quello di un matematico o di un architetto, anche se poi i tre, in pizzeria, discutono “del più e del meno” adottando il linguaggio cosiddetto comune.

Disgraziatamente, però, il percorso decennale obbligatorio non è affatto unitario: è tuttora diviso in quei tre gradi che vengono da lontano e che purtroppo sono per loro natura discontinui, ciascuno chiuso nella sua specificità, dettata da una tradizione in cui si sono venuti stratificando modelli di scuola diversi senza però mai legarsi ed integrarsi saldamente uno con l’altro. Occorre allora pensare ad un curricolo linguistico verticale continuo decennale! Anche se,in una simile situazione ordinamentale, la “cosa” è estremamente difficile. Ma vi è un secondo ostacolo, forse ancora più grave: il fatto che ciascuno dei tre gradi opera senza avere riferimenti programmatici certi. Dalla “riforma Moratti” in poi si sono abbattute – il verbo non è affatto ridondante – sulle scuole primarie e medie processi riformatori che hanno creato più sconcerti che certezze. Per non dire poi delle problematiche tremende indotte dal corona virus, che oggi assillano non solo la scuola ma l’intero Paese! Per cui, l’importante è andare a scuola, più che sapere che cosa visi insegni!

Viene da chiedersi: ma le attuali Indicazioni nazionali (istruzione primaria, media, licei) e Linee guida (istituti tecnici e professionali) riescono di per sé a garantire un’educazione linguistica unitaria e, soprattutto, produttiva? Mi sembra che, di fatto, ogni insegnante lavora secondo criteri suoi, spesso né comunicati né condivisi con altri. Pur esistendo nelle singole scuole documenti programmatici comuni e a volte anche sovrabbondanti circa le finalità e le “buone intenzioni”! Per non dire poi del frequente cambio di insegnanti, per cui spesso chi arriva e chi parte non dà mai conto né di ciò che ha fatto o che intende fare! Per cui, a volte, è il “giorno dopo giorno” che la fa da padrone! Che cosa poi accade nell’ultimo biennio obbligatorio (14-16 anni di età) nessuno lo sa mai con certezza. I documenti normativi che riordinano il secondo ciclo sono assolutamente avari di indicazioni forti e chiare circa l’adempimento dell’obbligo di istruzione, ed ancora più avaro è il modello di certificazione (dm 9/10). E ciò incide in primo luogo sulle competenze di base: soprattutto quellaalfabetica. Ovviamente scarse! E con tutti quei deleteri effetti – alone e Pigmalione in primo luogo – che regneranno ancora sovrani! E per tutta la vita? Mah! In una situazione così precaria è mai possibile pensare ad un curricolo decennale verticale continuo, e che riguardi in primo luogo la competenza linguistica? Sembrerebbe di no! E non è un caso che anche per altre competenze si avverte una carenza normativa, soprattutto per quelle logico-matematiche, insomma per tutte quelle che sono all’attenzione delle ricerche Pisa e Invalsi.

Lo stato che ho descritto è indubbiamente abbastanza pesante. Ma allora viene da chiedersi: è possibile una rimonta? Sarebbe possibile ipotizzare, progettare e realizzare un curricolo decennale che ponga al centro l’acquisizione da parte dei nostri alunni di una effettiva e produttiva competenza linguistica di base? Sapere ascoltare/comprendere e sapere riflettere/produrre? A mio parere, sì! Purché si verifichino alcune condizioni. In primo luogo occorre la contiguità, la vicinanza fisica, direi, dei gradi di istruzione; in secondo luogo, l’assunzione di un impegno da parte degli insegnanti dei diversi gradi pergarantire la continuità didattica. Sarà comunque opportuno ragionare in termini di tempi lunghi, perché il percorso obbligatorio dura dieci anni, che non sono affatto pochi. Sarà bene assumere come competenze linguistiche terminali le tre di cui al dm 139/07: 1) padroneggiare gli strumenti espressivi ed argomentativi indispensabili per gestire l’interazione comunicativa verbale in vari contesti: 2) leggere, comprendere e interpretare testi scritti di vario tipo; 3) produrre testi di vario tipo in relazione ai differenti scopi comunicativi.

Se si è concordi con le suddette linee progettuali, l’attenzione andrà tutta sui metodi. La didattica laboratoriale (nei documenti di riordino dei cicli gli accenni sono frequenti) dovrà costituire il leitmotif costante per l’intero percorso di “istruzione, formazione ed educazione”, le tre parole chiave, i tre assi di cui al comma 2 dell’articolo 1 del dpr 275/99, recante “norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche”. Occorrerà quindi adottare metodi plurimi – a seconda della situazione e degli obiettivi che si intendono raggiungere – quindi passare, ad esempio dallapeer education alla drammatizzazione, dal problem solvingalla ricerca azione, a seconda delle scelte adottate dagli insegnanti, in modo che gli alunni avvertano di essere protagonisti attivi di un processo che arricchisce la loro possibilità di esprimersi e di comunicare, di ampliare gli spazi dei loro abituali orizzonti, di avvertire insomma che,giorno dopo giorno, imparano, crescono, producono, sono attivi, “padroni” dei loro percorsi. Solo così sarà sconfitta la noia di una scuola che molti, invece, avvertono inutile ed estranea ai loro interessi, al loro mondo. Che la scuola, insomma torni ad essere veramente quella σχολή in cui si cresce e si apprende in libertà!

Coronavirus, la ministra Azzolina: “A settembre lezioni metà a scuola e metà a casa”. I sindacati: “No ai doppi turni”

da la Repubblica

La ministra conferma: sì alla maturità in presenza. I problemi da risolvere per garantire la didattica a distanza, le implicazioni sui trasporti per i doppi turni. “Così servono più insegnanti”

 I sindacati della scuola sono già sul piede di guerra in merito alle soluzioni previste dal ministero per la ripresa nelle classi dopo l’emergenza. I doppi turni nella scuola, che dovrebbero essere avviati per il ritorno in aula a settembre sono un nodo su cui ci sarà da lavorare se non si vuole far perdere a bambini e ragazzi un altro anno scolastico. Si prefigura quindi la possibilità che bambini e ragazzi possano occupare le aule in modo alternato tra mattina e pomeriggio, integrata con la didattica a distanza. Ma la ministra Lucia Azzolina ha ribadito durante l’intervista a Maria Latella a Sky TG 24: “Sarà didattica mista, ragazzi in classe e ragazzi collegati a distanza, ma niente doppi turni”

La didattica a distanza

“Ad oggi non è stata regolamentata, lasciando a ogni scuola il compito di organizzarsi ed escludendo di fatto 1 milione e mezzo di studenti”, sprovvisti di connessione e device, sottolinea all’Agenzia Italia Massimilano De Conca, funzionario nazionale Flc Cgil. Alcuni insegnanti, ad esempio, sono costretti a fare videolezione alle 18 perché gli allievi possono usare il pc solo a quell’ora, dopo che lo hanno adoperato i genitori per lavoro. Situazioni che “condizionano inevitabilmente l’apprendimento e la didattica”, e finiscono con il mettere in discussione il diritto alla studio per tutti

Ipotesi doppi turni

Secondo punto sono i doppi turni e le loro implicazioni con il resto dell’organizzazione sociale. Si pensi ai trasporti: come potranno arrivare in classe studenti e docenti, in orari scaglionati, se il trasporto è ridotto fino al 70%? Come si creeranno i piccoli gruppi se la disponibilità di aule e plessi è sempre la stessa? Domande che il sindacato si pone e porterà nell’interlocuzione con il governo. Nella sola Milano, ad esempio, nelle scuole primarie “i bambini hanno un monte di 40 o più ore settimanali, coperto da due insegnanti, ciascuno con 22 ore di servizio. Se le classi si sdoppiano abbiamo bisogno del doppio del personale: è facile”, constata Jessica Merli, segretaria generale della Flc Cgil Milano. E la realtà è che la pandemia non ha fatto che portare alla luce “moltiplicandole all’ennesima potenza, le criticità che il comparto aveva già prima”, dice. Ossia una carenza di organico costante, non solo nel corpo docente, ma anche in quello del personale Ata (gli ex bidelli).

“Servono più insegnanti”

Sulla necessità di assunzione di personale concorda anche la Cisl: il segretario generale di Milano, Massimo Sambruna, raggiunto al telefono, è netto: “O il ministero ci dà organico aggiuntivo sia di docenti che di personale Ata o non si potrà fare la didattica per piccolo gruppi. Siamo già in una situazione di ritardo preoccupante. Il ministro ci dica che scuola prevede per settembre”. Aumentare l’orario di lavoro degli insegnanti non è un’ipotesi considerabile per i sindacati, almeno stanti così le condizioni contrattuali: “Il contratto non si tocca, o va adeguato. Se si aumentano i turni e le ore di lavoro deve essere consequenziale anche lo stipendio”, taglia corto Carlo Giuffrè, segretario generale Uil scuola Lombardia.

Naturalmente una modifica di contratto prevederebbe un provvedimento legislativo di cui non si è sentito parlare. La soluzione più veloce sarebbe l’assunzione per titoli dei precari storici o comunque con almeno tre anni di esperienza, come ribadiscono da più parti le organizzazioni dei lavoratori.

E per i sindacati l’ipotesi di un concorso non è realistica: “La media per espletare un bando è di due anni”, fa presente Giuffrè. Insomma gli insegnanti, attraverso i loro rappresentanti, fanno sapere che “non hanno alcuna opposizione ideologica” nè alla didattica a distanza nè ai doppi turni, chiedono però “coinvolgimento nelle decisioni e una regolamentazione”. Se non “si sblocca la situazione saremo costretti a usare gli strumenti che ci restano, come lo stato di agitazione”, minaccia infine Merli.

Didattica a distanza, fare video lezioni: necessario un regolamento. Un esempio da scaricare

da Orizzontescuola

di Antonio Fundaro

La Didattica a Distanza ha posto forte il tema della regolamentazione delle videolezioni che, giornalmente, permette alla scuola italiana, e all’università, di mantenere vivo il sapere, la freschezza della libertà, la piacevolezza di un’avventura culturale che neppure il COVID-19 può riuscire a bloccare.

C’è una meravigliosa voglia di vitalità davanti le cam di tutta Italia, senza distinzione geografica alcuna, e principalmente, ce lo auguriamo presto, quando sarà vinto definitivamente il problema della connettività e delle strumentalità informatiche (che urgentemente dovrebbero garantire la democrazia telematica), senza differenza alcuna tra i nostri ragazzi, i nostri bambini, i nostri insegnanti. Perché c’è voglia di affermare, nonostante le avversità, “di fronte alla società, di avere compiuto il proprio dovere”. Il dovere che tanti docenti stanno facendo nella quotidianità del loro impegno.

La videolezione e le problematiche connesse alla privacy

Ma la Didattica a Distanza porta con sé anche alcune novità che, fortunatamente, si sono affrontate con energia e determinazione. Una tra queste è collegata all’utilizzo di MEET o di altre applicazioni adoperate allo scopo, esclusivamente, didattico. La necessità è quella di regolamentare la gestione del link di accesso e l’utilizzo della piattaforma e, specialmente, la videolezione (o videoconferenza) esposta, eccessivamente, a violazioni della privacy. Nella formazione a distanza, comunque, valgono le regole solitamente in vigore nell’insegnamento in presenza e distinte specificatamente adottate a scuola. In realtà, dunque, basterebbero le regole, non scritte, ma in uso nelle aule. Ma non è così, nei fatti, proprio per l’impossibilità di controllare (un po’ meno per la primaria) cosa avviene al di là della cam degli alunni. Ma non solo quello. Molte scuole hanno provveduto ad adottare appositi regolamenti. Ma vediamo, nello specifico, cosa bisognerebbe regolamentare per assicurare una videolezione immune da problematiche varie, violazioni di privacy e, principalmente, comportamenti fastidiosi o compromettenti la comunicazione nell’aula virtuale.

Le regole comuni

Gli studenti dovranno accedere alle varie piattaforme individuate solo successivamente all’ingresso, in aula virtuale, del docente. L’accesso è permesso solamente con videocamera accesa e microfono disattivato. Infatti, l’attivazione del microfono è consentita solamente dall’insegnante nel corso della videolezione. Ed è sempre l’insegnante che può invitare altri partecipi alla sessione, silenziare un alunno o altro partecipante, toglierlo dal ruolo di partecipe, accogliere la richiesta di partecipazione.

La regolamentazione della video lezione

Sarebbe interessante prevedere per iscritto che, dopo il saluto iniziale (appello degli alunni), l’insegnante pensi a contrassegnare le assenze sul registro elettronico. Tale procedura che, però, non molte scuole stanno prevedendo, in ragione del fatto che l’accesso alla piattaforma non sempre è, per tutti, agevole, permetterebbe alle famiglie di verificare, con costanza, la presenza in aula virtuale del proprio figlio. Inoltre, la partecipazione alla videolezione è garanzia del fatto che non si è davanti a forme di dispersione digitale.

L’inizio delle lezioni, come detto precedentemente, segna una sorta di pausa generale ai saluti. Dopo l’appello, gli allievi si impegnano, con sollecitudine a tenere il microfono disattivato per perfezionare la qualità dell’audio. Questo fattore che evoca il famoso “silenzio” richiesto, spesso con gli occhi dagli insegnanti, è di fatto quello che con più semplicità si è ottenuto.

Infatti, allorquando, l’alunno ha una domanda da porre all’insegnante, è invitato a scrivere, nella chat della videoconferenza, la parola “domanda”. Gli studenti sono, comunque, invitati a non sovrapporre segnali, disegni e parole sulla chat. Nel momento in cui l’insegnante dà allo studente la parola replicando in chat, può provvedere ad attivare il microfono e, di conseguenza, parlare.

Una volta terminata la videoconferenza da parte degli insegnanti, gli alunni devono provvedere a chiudere l’applicazione utilizzata, su tablet, telefono o iPad, o tornare alla schermata Home nel caso si sia utilizzato un computer.

I divieti per gli alunni e le norme comportamentali

È severamente vietato per l’allievo avviare videoconferenze e/o associare e/o rimuovere partecipanti durante la compartecipazione alla videoconferenza. Solo gli insegnati possono invitare gli alunni a aderire alla videolezione avvertendo le famiglie con un giorno di anticipo per il tramite della piattaforma stessa, della messaggistica di WhatsApp, di mail o di Google Calendar.

È fatto assoluto divieto di divulgare il link fornito dall’insegnante, il codice riunione o il nickname della videolezione ad altri amici, compagni della scuola e, ancor più gravemente a maggiorenni.

È fatto divieto allo studente di riadoperare l’invito alla videolezione avviata dall’insegnante dopo che abbia avuto fine la stessa.

È vietato, severamente, allo studente avviare e disattivare i microfoni degli altri alunni, incluso quello dello stesso insegnante.

È vietato, allo studente, rimuovere la condivisione della propria figura nel corso della videolezione.

Se non è stato appositamente richiesto dal docente, è rigorosamente vietato allo studente condividere il proprio schermo con gli altri compagni partecipanti alla videolezione.

È fermamente proibito adoperare la chat per fini che non siano prettamente didattici.

È vietato rigorosamente per l’alunno videoregistrare quanto si trova sullo schermo del proprio persona computer (fotografia, videoregistrazione, acquisizione dello schermo) e registrare la voce dell’insegnate e dei propri compagni durante le videolezioni.

Lo studente non può entrare, per nessuna ragione, nella videoconferenza prima dell’ora stabilita per l’inizio della stessa. Orario stabilito dall’insegnante e, come precedentemente indicato, comunicato o agli alunni o ai propri genitori.

È vietato all’alunno lasciare la videolezione prima che abbia termine per scelta del docente.

Inutile ribadirlo ma, nel corso dell’intera durata della videolezione, l’alunno è impegnato in attività didattico-educativa, anche se a distanza, la cui regolamentazione dello svolgimento è da valutarsi pari alle lezioni in presenza, ovvero in aula: dunque, è possibile e lecito solamente la presenza dei discenti per assicurare condizioni migliori di studio e di compartecipazione alle attività.

Il docente potrà controllare il grado di impegno dell’allievo sottoponendo a domande i partecipanti e appuntando sul registro di classe ogni eventuale anomalie.

Gli obblighi degli alunni

Gli alunni che partecipano alla videolezione sono tenuti a:

– entrare puntualmente nell’aula virtuale con abbigliamento consono e senza tenere in mano cibo o bibite;

– presentarsi alla videolezione forniti del materiale indispensabile per l’esecuzione dell’attività prevista;

– esprimersi in maniera consona e adeguata all’ambiente di apprendimento;

– eseguire le consegne del docente;

– assistere, in ordine, ai lavori che vi si svolgono.

Le violazioni

La violazione della normativa sulla privacy, le condotte lesive del decoro e dell’immagine di altre persone e gli eventuali e deprecabili atti individuabili come quello del cyberbullismo implicano responsabilità di tipo civilistico e penale in capo ai contravventori/trasgressori e in capo a coloro che ne esercitano la responsabilità genitoriale.

Nel caso si dovessero verificare abusi d’ogni natura o specie o dovesse essere ravvisata mancata attenzione alle regole, la scuola provvederà a informarne le famiglie. In ragione di comportamenti molto gravi, sentito il parere del consiglio di classe, gli alunni potranno essere esclusi, temporaneamente, dalle lezioni, per un periodo che non sia superiore a quello stabilito dal regolamento di istituto per fatti lievi.

Ogni trasgressione alle norme è trattata, da molte scuole, come “infrazione disciplinare lieve” ai sensi del Regolamento Disciplinare di cui tutte le scuole sono dotate.

Regolamento video lezione

Coronavirus: “riaprire le scuole, i genitori sono giovani e non si ammalano gravemente”, e i docenti?

da Orizzontescuola

di Myriam Caratù

È di questi giorni la notizia che il direttore dell’Istituto Mario Negri, professor Giuseppe Remuzzi, durante un’intervista al Corriere della Sera, abbia dichiarato che tenere chiuse le scuole è sbagliato, poiché “i bambini non si infettano.

I loro genitori, più o meno giovani, difficilmente sviluppano malattie importanti. Invece noi lasciamo le nuove generazioni a casa dai nonni. Un altro modo di mescolare. A mio avviso, un grave errore”.

Al di là della questione dei bambini che non si infettano quello che ci si chiede è se davvero i genitori siano così giovani.

Ma, soprattutto, se siano così giovani i maestri o i professori.

Gli insegnanti italiani

È la stessa OCSE a dichiarare che l’Italia ha gli insegnanti più vecchi del mondo: nel suo rapporto sull’istruzione del 2019, “Education at a glance”, dice inequivocabilmente che abbiamo la quota più alta di docenti ultra 50enni tra i Paesi dell’Ocse, ovvero il 59%. L’età media degli insegnanti italiani è 51 anni, mentre in Spagna si scende a 44 e in Francia a 41.

E le stesse testate italiane (vd. La Stampa) ultimamente hanno dichiarato che i 40-50enni sono più a rischio Coronavirus di quanto si pensava.

Oltre al fatto che si parla di “età media”, e che quindi non si contano gli ultra sessantenni che ancora aspettano di arrivare alla tanto agognata pensione.

Ultrasessantenni che, pensiamoci, possono essere nonni, e in molti casi lo sono.

E allora perché i nonni non possono riabbracciare i propri nipoti – perché ce ne sono tantissimi che ancora non lo possono fare dall’inizio della pandemia, considerando che molti vivono in diverse Regioni – e invece possono stare a contatto con i nipoti degli altri, mettendo a rischio se stessi, i bambini e i loro genitori?

La famiglia italiana

Non siamo neanche tanto sicuri che i genitori dei bambini di oggi siano “più o meno giovani”: da un’indagine dell’Istat del 2019 si rivela che l’età media del parto di una donna italiana è di 31,9 anni – molto più alta di tutte le altre medie europee.

Senza contare l’aumento delle mamme over 40, e l’età più avanzata dei padri, che si discosta quasi sempre da quella delle madri.

Insomma, siamo davvero così sicuri che questo sia un Paese per giovani?

L’empatia a scuola

È vero: molti bambini stanno soffrendo la mancanza della scuola, ed è vero anche che i lavoratori hanno problemi nel seguire i propri bambini, dovendo tornare a lavorare.

Ma non sono solo i bambini e i genitori a voler che la scuola riapra i battenti: ci sono anche molti insegnanti in prima linea, soprattutto quelli di sostegno, che hanno delle difficoltà enormi nel gestire a distanza i ragazzi con BES e DSA.

Ma la scuola dovrebbe riaprire solo in sicurezza, e ci vuole tempo per mettere in sicurezza gli edifici. Senza contare la mobilitazione di persone che il ritorno a scuola provocherebbe, nell’ordine di milioni di cittadini, tra grandi e piccoli.

Ultimo ma non meno importante, il fattore umano: per i bambini dell’asilo e delle elementari soprattutto, quanto è possibile mantenere il distanziamento sociale?

Ai bambini non manca la scuola per i compiti, che pure svolgono a casa, ma soprattutto per l’empatia e l’affetto umano dimostrato da docenti e compagni, che rende per loro la scuola un luogo di socialità, apprendimento non formale e convivialità.

Ed è davvero così certo che tutto questo tornerà, se si dovesse riaprire la scuola nell’immediato futuro?

Esame di Stato tarato su quello che gli studenti hanno effettivamente svolto in classe e a distanza

da Orizzontescuola

di Francesco Rutigliano

Dopo giorni di incertezza i maturandi e i ragazzi che devono sostenere l’esame di terza media hanno finalmente delle certezze su date e punteggi delle prove. Il Ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina, intervenendo su Skuola.net ha anticipato sommariamente quello che dovrebbe essere il contenuto dell’ordinanza per la maturità 2020 che verrà pubblicata sul sito del Ministero tra qualche giorno.

Si partirà il 17 giugno.

Per l’esame di maturità non ci saranno prove scritte ma solo un esame orale più lungo in cui i ragazzi partiranno da un argomento a scelta sulle materie di indirizzo, concordato insieme ai professori.

Viene ribaltato il “peso” della carriera scolastica con quello delle prove d’esame, ossia il contrario di quello che accadeva negli anni passati. Ci sarà una inversione dei crediti scolastici rispetto al punteggio previsto per le singole prove, ossia una riconversione delle vecchie tabelle proporzionata ai crediti che avevano avuto negli anni precedenti.

“I crediti, prima del coronavirus – come precisato dalla Ministra – erano 40, il massimo che lo studente avrebbe potuto conseguire e poi c’erano gli altri 60 legati alle singole prove. Quel sistema non può restare ancora così, voglio che venga valorizzato ulteriormente il percorso che lo studente ha fatto. Quindi quel 40/60 lo inverto. Saranno 60 i crediti, dai quali gli studenti potranno partire. Quindi valorizzazione massima del loro percorso di studi. Questo penso che possa essere un giusto riconoscimento all’impegno degli studenti e allo studio”.

«Questo vuol dire che l’esame sarà tarato su quello che i ragazzi effettivamente hanno svolto in classe ed è per questo che c’è anche la commissione interna proprio perché, appunto, si vuole comunque fare un esame mantenendo anche una certa sicurezza per i ragazzi», rassicura Azzolina.

Riguardo al ruolo dell’alternanza scuola-lavoro e cittadinanza e costituzione che veniva chiesto fino allo scorso anno, la Ministra ritiene che gli studenti anche quest’anno raccontino “esattamente la loro esperienza fin dove sono arrivati, perché sappiamo che ovviamente non hanno potuto fare tutte le ore che erano previste prima della norma”. Come del resto, la stessa Azzolina, auspica che “all’interno di Cittadinanza e Costituzione sarebbe bello che rientrasse anche l’esperienza del coronavirus e, quindi, gli insegnanti ascoltassero quello che hanno davvero vissuto gli studenti a riguardo”.

Insomma, l’esame di maturità rappresenterà “un momento fondamentale della vita di un ragazzo, è quel momento in cui c’è un passaggio ad una realtà successiva rispetto a tutto quello che è stato prima la scuola”, precisa la titolare del Dicastero dell’Istruzione.

Mentre per l’esame conclusivo del primo ciclo è prevista una tesina. “Dagli alunni faremo preparare una tesina che consegneranno ai loro insegnanti e poi ci sarà lo scrutinio finale”. Quindi non ci sarebbe una prova orale.

Ma questa “tesina” potrà ben conciliarsi con quanto sancito dalla Costituzione laddove all’art. 33 “È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi…”.?Sarebbe auspicabile che, come per l’esame di maturità, anche per l’esame conclusivo del primo ciclo venga previsto il colloquio o altre soluzioni che mantengano la natura dell’esame.

Sarà un esame che, vista la contingenza del momento, resterà un “unicum” nella storia della didattica del nostro Paese.

Un’altra news appresa è che non ci sarebbe nessuna bocciatura alle medie. Sul punto la ministra ha messo le mani avanti. “Non sarà un regalo. Le eventuali lacune degli studenti saranno recuperate nel corso del prossimo anno scolastico”.

Bambini piccoli presto a scuola per aiutare le famiglie, Azzolina ci prova. Mascherine già pronte

da La Tecnica della Scuola

La linea imposta dal premier Conte sulla riapertura graduale delle attività lavorative coinvolgerà anche la scuola. Già nelle prossime settimane, quindi ben prima di settembre, assisteremo alla messa a disposizione dei locali scolastici per accogliere bambini piccoli che hanno i genitori impegnati al lavoro.

Famiglie da aiutare

“Abbiamo messo a disposizione, come ministero dell’Istruzione, scuole, palestre e cortili per dare una risposta alle famiglie”, ha detto la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, nel corso de ‘L’intervista’ di Maria Latella su Skytg24.

“Stiamo lavorando con la ministra Bonetti e altri ministri”, ha continuato la titolare del ministero di Viale Trastevere.

“A breve sottoporremo il piano al Comitato Tecnico Scientifico per “dare una risposta alle famiglie”, che dal 4 maggio dovranno tornare a lavorare e non sanno a chi affidare i loro bambini.

Primi prototipi di mascherine

Se in estate non sarà azzerato il pericolo di contagio da Coronavirus, i bambini dovranno però frequentare i locali scolastici rispettando il distanziamento, indossando pure le mascherine.

A questo proposito, durante la canonica conferenza stampa, il commissario straordinario per l’emergenza coronavirus, Domenico Arcuri, ha mostrato i primi prototipi delle mascherine per bambini, con impresse le immagini di cartoni animati o supereroi.

“Abbiamo già cominciato a pensare alle mascherine per bambini e abbiamo già i primi prototipi – ha detto Arcuri -: le metteremo sul mercato molto presto e saremo in condizioni di garantire alla riapertura delle scuole una consapevolezza anche da parte dei più giovani”.

Renzi: basta ritardi

Intanto, su Facebook, il leader di Italia Viva Matteo Renzi è tornato a parlare del ritorno in classe, auspicando un’accelerazione: “adesso chiediamo con forza attenzione alla scuola, ai minori, al sociale. E insistiamo sulle riaperture in sicurezza, senza altri ritardi”, ha detto Renzi.

A settembre metà alunni in classe metà a casa per tre giorni a settimana, poi viceversa: aumenta il carico di lavoro dei docenti

da La Tecnica della Scuola

C’è già un piano avanzato per il ritorno in classe a settembre. A parlarne è stata la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, nel corso de ‘L’intervista’ di Maria Latella su Skytg24.

“Mai parlato di doppi turni”

La numero uno del dicastero di viale Trastevere ha specificato che il ministero dell’Istruzione non ha “mai parlato di doppi turni” per la ripresa della scuola a settembre.

L’ipotesi su cui si sta lavorando al dicastero di Viale Trastevere, ha ammesso la ministra, rimane comunque quella di dividere le classi: “la metà degli studenti per metà settimana” andrebbe a scuola, mentre gli altri alunni starebbero a casa a svolgere didattica a distanza; poi, nei tre giorni successivi, l’altra metà si siederebbe sui banchi, mentre chi era andato a scuola nei primi tre giorni rimarrebbe a casa a fare DaD.

In questo modo, ha tenuto a dire la ministra dell’Istruzione, “la socialità resta”.

Più lavoro durante, prima e dopo le lezioni

L’ipotesi comporterà, è probabile, però anche un aggravio di lavoro dei docenti, che già in questi due mesi hanno fatto registrare un incremento non indifferente del loro lavoro sommerso, peraltro già considerevole.

La gestione contemporanea della classe divisa, metà in presenza e l’altra metà a casa, quindi collegata con la telecamera, comporterà infatti una maggiore impegno nella fase di realizzazione delle lezioni. Perchè, come avviene adesso con la DaD, gli alunni a casa vanno continuamente sollecitati e coinvolti.

Ma il lavoro aggiuntivo si prevede già nella fase di preparazione delle lezioni. E pure per quel che riguarda la correzione dei compiti e delle esercitazioni, da svolgere con mezzi diversi, quindi con risultati necessariamente disomogenei. E da valutare con “griglie” a parte.

Il problema delle classi ‘pollaio’

Come fatto osservare dalla Tecnica della Scuola, anche proponendo consigli pratici ai docenti per il rientro in classe, il problema delle classi “pollaio” diventerà ingestibile con l’eventuale emergenza Coronavirus ancora non rientrata del tutto.

“Non possiamo far tornare gli studenti a scuola con 28-30 persone per classe. Io ho sempre fatto una battaglia contro le classi-pollaio”, ha tenuto a dire il ministro dell’Istruzione ricordando anche il suo impegno in Parlamento, in tempi non sospetti, perchè venissero eliminate.

Un impegno che, però, ad oggi non è andato oltre una modestissima riduzione di alunni solo nelle classi numerosi degli alunni delle scuole della secondaria superiore.

La didattica a distanza un successo, Azzolina non ha dubbi: mi impegno perché nessuno venga escluso

da La Tecnica della Scuola

Dopo due mesi di scuole chiuse, per l’emergenza Coronavirus, è già tempo di resoconti: sulla didattica a distanza, che starebbe andando molto bene, e su quello che è stato deciso per settembre, quando le classi dovrebbero essere divise senza però fare doppi turni. A parlarne è stata la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, nel corso de ‘L’intervista’ di Maria Latella su Skytg24.

La salute prima di tutto

Tra i vari punti toccati dalla titolare del MI c’è stato quello delle lezioni andate avanti in modalità telematica. Anche se la scuola “non era preparata” a gestire tutto da casa, la ministra non ha dubbi: la didattica a distanza “è stata un grande successo”.

“Era un dovere proteggere la salute degli studenti e non solo” la loro, ha proseguito Azzolina ribadendo che per questo motivo che le scuole sono state sospese.

“Abbiamo chiesto un sacrificio enorme agli studenti e alle famiglie ma per uscire da questa situazione”, sottolineando che al momento della ripresa si tornerà seguendo però sempre “il principio di precauzione e prudenza”.

Gli esclusi

Sul problema del digital divide, che in questa fase emergenziale si è acuito, con un milione e mezzo di alunni esclusi per vari motivi dalla DaD, la Azzolina ha sottolineato che, al di là dell’emergenza sanitaria, l’Italia già era “fuori ogni media, sto lavorando perché non aumenti. Nessuno studente deve rimanere indietro”.

A questo scopo c’è stato l’impegno del Governo che a marzo ha stanziato, con il decreto Cura Italia, 70 degli 85 milioni di euro destinati alle scuole, proprio per fare arrivare, in comodato d’uso, i tablet agli alunni che ne erano sprovvisti.

Il piano anticipato dei 5 Stelle

Nei giorni scorsi, attraverso il documento proposto dal M5S, primo firmatario l’on. Luigi Gallo, presidente della Commissione Istruzione della Camera, è stato chiesto al Governo un impegno a valutare il rientro in presenza dei ragazzi esclusi dalla didattica on linepredisponendo un piano pensato, in questo anno scolastico, dunque prima di settembre. L’odg è stato agganciato alla Camera al Dl 19 ora in discussione in Aula alla Camera.

Didattica a distanza. Per il Garante è lecita la registrazione delle videolezioni

da La Tecnica della Scuola

In tempi di didattica a distanza ritorna d’attualità il tema della tutela dovuta alla attività didattica che si svolge in classe.
Diversi lettori, per esempio, ci hanno scritto per lamentare il fatto che la videolezione non garantisce la privacy dei docenti.
La preoccupazione è certamente legittima ma non appare molto fondata.
Sul tema, infatti, il Garante per la privacy era già intervenuto in passato e, nel vademecum (edizione 2016), scriveva: “È possibile registrare la lezione esclusivamente per scopi personali, ad esempio per motivi di studio individuale”.
E, ovviamente, se è lecito registrare una lezione svolta in classe non si comprende per quale ragione non si possa registrare una videolezione.
Il problema riguarda, semmai, l’uso che se ne può fare.
E infatti il Garante aggiungeva: “Per ogni altro utilizzo o eventuale diffusione, anche su Internet, è necessario prima informare adeguatamente le persone coinvolte nella registrazione (professori, studenti…) e ottenere il loro esplicito consenso”.

Con una annotazione di particolare rilievo: “In ogni caso deve essere sempre garantito il diritto degli studenti con diagnosi DSA (disturbi specifici dell’apprendimento) o altre specifiche patologie di utilizzare tutti gli strumenti compensativi (come il registratore) di volta in volta previsti nei piani didattici personalizzati che li riguardano”.

Il Garante concludeva così: “Nell’ambito dell’autonomia scolastica, gli istituti possono decidere di regolamentare diversamente o anche di inibire l’utilizzo di apparecchi in grado di registrare”.

E’ chiaro che con la DAD sembra un po’ difficile, per non dire impossibile, inibire la registrazione della videolezione anche se non sarebbe male ricordare a tutti i partecipanti che la diffusione delle immagini potrebbe comportare responsabilità di natura civile e penale di non poco conto.
Ma – è bene ribadirlo – la responsabilità riguarda la diffusione e non la registrazione che, in linea di principio, non sembra comportare rischi  o controindicazioni.

Lavoro agile per il personale ATA, continua anche dopo il 4 maggio

da La Tecnica della Scuola

Con l’avvio della cosiddetta Fase 2 nulla cambia in merito al lavoro nelle segreterie scolastiche.

Con nota 622 del 1° maggio 2020 il Ministero dell’Istruzione ha infatti chiarito che fino al 17 maggio 2020 (data ultima di validità del DPCM 26 aprile), sempre che non siano adottate nuove e differenti disposizioni normative, l’adozione del lavoro agile è modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni, comprese le istituzioni scolastiche.

La nota precisa anche che sono fatte salve le prestazioni che possano essere svolte esclusivamente in presenza. Per queste, però, è obbligo di ogni Amministrazione individuare tali attività e
richiedere la presenza del personale dipendente sul luogo di lavoro, ovviamente garantendo le condizioni di sicurezza previste dai protocolli d’intesa tra il Ministro per la pubblica amministrazione e CGIL, CISL, UIL 3 aprile 2020 e CSE, CIDA, COSMED e CODIRP 8 aprile 2020, “Protocollo di accordo per la prevenzione e la sicurezza dei dipendenti pubblici in ordine all’emergenza sanitaria da “Covid-19”.