Disabilità precoce

Disabilità precoce, dopo il tirocinio l’impegno in uno studio europeo

Redattore Sociale del 21/09/2020

ROMA. Una laurea in lingue e letterature straniere, un master e già molti viaggi alle spalle: Damaso Di Emidio 31 anni, non vedente dalla nascita, è il protagonista di uno dei 10 tirocini formativi extra curriculari promossi dall’Unione ciechi e ipovedenti delle Marche per migliorare le opportunità di inserimento lavorativo di giovani con disabilità visiva. “Grazie a questo tirocinio formativo ho avuto la possibilità di mettere a frutto le mie conoscenze e i miei studi. – ha sottolineato – E’ stata un’esperienza importante che mi ha riservato anche una bella sorpresa: la collaborazione con un progetto europeo che nel 2021 mi porterà in Francia e in Austria. Per me è una grande soddisfazione”.

“Il progetto complessivo si chiama ‘Vediamoci al lavoro! – spiega Alina Pulcini, presidente Uici Marche – e lo abbiamo lanciato per motivare i giovani a inserirsi nel mondo del lavoro anche con professioni diverse da quelle tradizionali, per sensibilizzare le aziende e la comunità sulle capacità delle persone con disabilità visiva e per creare, attraverso un lavoro di rete, una sinergia tra la nostra associazione e i centri per l’impiego, favorendo l’incontro tra domanda e offerta”.

Il tirocinio è sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno secondo cui “l’inserimento lavorativo, in particolare per i giovani diversamente abili, rappresenta una priorità assoluta”.

“Conosco l’unione ciechi da sempre ma non ero mai stato nella sede provinciale di Ascoli, dove ho svolto il tirocinio: il centro Officina dei Sensi. Nonostante questo, mi sono trovato subito a mio agio e sono riuscito a inserirmi senza grandi difficoltà. Il tirocinio è iniziato a febbraio e poi, durante il lockdown, è proseguito in smart working per poi riprendere in presenza in questi ultimi mesi – racconta Di Emidio – Principalmente ho svolto traduzioni da e per l’inglese per il sito dell’Uici provinciale e anche per quello dell’Officina dei Sensi. Poi ho lavorato in segreteria, a contatto con i soci dell’Unione, sulla gestione dei database e come pubbliche relazioni. Ma la cosa che mi ha entusiasmato di più è stato collaborare a un progetto internazionale a cui parteciperò, speriamo in presenza, nel 2021: a febbraio infatti dovrei essere ad Angers, in Francia, e a fine maggio a Vienna. Il progetto riguarda la disabilità precoce di bambini e ragazzi e vede l’Uici di Ascoli e Fermo tra i partner. Io sarò in trasferta come aiuto segretario e traduttore. Sono molto contento di aver avuto questa opportunità”.

“E’ stata un’ottima occasione per entrare nel mondo del lavoro, fare formazione e aprire la strada ad altre opportunità legate ai miei studi. – conclude – Sono una persona tenace e non mi abbatto facilmente ma non mi aspettavo di ottenere così tanti risultati. Per il futuro? Mi piacerebbe molto trovare un lavoro simile a questo”. Un consiglio ai ragazzi non vedenti? “Non restare chiusi in casa e prendere al volo qualunque occasione”.

TERMOSCANNER E MEDICO SONO FONDAMENTALI

SCUOLA. MAGI (OMCEO ROMA): TERMOSCANNER E MEDICO SONO FONDAMENTALI

“Test salivari? Sarebbero l’ideale, ma devono essere affidabili”

(DIRE) “Il governo fa bene a fidarsi dei
cittadini ma, come leggiamo in questi giorni sui giornali, ci
sono anche situazioni dove non tutti rispettano le regole:
ragazzi a scuola con la febbre o sintomatici e scuole costrette a
chiudere. Per evitare che si interrompa l’attivita’ scolastica,
e’ importante avere dei termoscanner all’entrata che misurino la
febbre e magari anche persone che si rendano conto se lo studente
ha altri sintomi. E’ una questione di sicurezza, perche’ se il
contagio si diffonde poi non c’e’ altra soluzione che richiudere
gli istituti”. Lo ha detto, all’agenzia Dire, il presidente
dell’Ordine dei medici di Roma e provincia, Antonio Magi, in
merito alla decisione del Tar che ha respinto la richiesta del
governo di sospendere l’ordinanza del Piemonte che impone alle
scuole la verifica della temperatura agli studenti.
“In questo momento la sicurezza e’ fondamentale. Purtroppo
stiamo assistendo a una risalita dei casi all’interno delle
famiglie, che e’ il risultato di cio’ che abbiamo visto
quest’estate” ha aggiunto Magi, secondo il quale e’ necessario
istituire anche la figura del medico scolastico. “Nella Regione
Lazio e’ stato presentato un disegno di legge, so che altre
Regioni ci stanno lavorando- ha spiegato- E’ fondamentale avere
negli istituti la figura di un medico non soltanto per le
necessita’ dell’epidemia, ma anche per fornire un’educazione
sanitaria agli studenti. Una persona che non deve dare voti, ma
sia di sostegno e di conforto ai ragazzi. Spesso i ragazzi hanno
timore a esternare i loro dubbi, ma sapendo che c’e’ un medico,
tenuto al segreto professionale, potrebbero avere piu’ facilita’
ad aprirsi”. Infine, sull’arrivo a breve dei test salivari, Magi
ha sottolineato: “Se funzionassero sarebbero l’ideale. La cosa
importante e’ proprio questa: che siano affidabili”.

Apprendimento trasformativo e pratiche scolastiche interculturali

Apprendimento trasformativo e pratiche scolastiche interculturali
Una riflessione tra pedagogia e didattica

di Valerio Ferro Allodola *

Abstract

Gli attuali scenari dei flussi migratori a livello europeo e planetario suggeriscono, in modo sempre più urgente, di riconfigurare la conoscenza – in particolare la conoscenza scolastica – attraverso processi di apprendimento trasformativo e la costruzione di comunità di apprendimento basate più sulla comprensione che sul solo apprendimento, incentrate sulla progettazione di ambienti “significativi” e intenzionali, in cui trovano spazio intelligenze plurali competenti, da utilizzare in forme distribuite e collocate in contesti pratici. Questo articolo si propone di riflettere sulle questioni essenziali che caratterizzano la scuola interculturale e sulla costruzione di prospettive e schemi di significato (Mezirow, 2003), per promuovere la trasformazione partecipativa dell’apprendimento e delle pratiche attraverso metodologie attive di sviluppo.

Parole-chiave: transformative learning, pratiche interculturali, scuola, Pedagogia, Didattica.

Introduzione

Gli attuali scenari dei flussi migratori a livello europeo e planetario, cui stiamo assistendo con particolare frequenza ed intensità in questi ultimi anni – oggi ancora più complessi a causa dalla diffusione del Covid-19 – non si caratterizzano soltanto come dato strutturale proprio dei macro e micro-sistemi umani, ma come processo irreversibile il cui esito delinea sempre più una società multiculturale dove nulla o poco sarà come prima e dove la questione dell’intercultura, come ha acutamente osservato Franco Cambi (2003, p. 11), “è un problema del presente» e, nel contempo, «una dimensione del futuro».

Tale profonda e radicale trasformazione della società, delineandosi come un”emergenza educativa” (Ulivieri, 2018), richiede di riconfigurare i saperi attraverso processi di apprendimento trasformativo e la costruzione di comunità di apprendimento basate più sul comprendere che solo sull’apprendere, focalizzate sulla progettazione di “ambienti significativi” e intenzionali, in cui trovino spazio competenti intelligenze plurali, da utilizzarsi in forme distribuite e situate nei contesti di pratica.

Il contributo intende riflettere sulle questioni essenziali che caratterizzano la scuola multiculturale e sulla costruzione delle prospettive e degli schemi di significato (Mezirow, 2003), per coltivare traiettorie di trasformazione partecipata degli apprendimenti.

1. La scuola multiculturale. Quali le questioni essenziali?

Il pensiero è la capacità e la possibilità intenzionale del soggetto di scoprire i significati tra ciò che viene vissuto e le conseguenze che ne derivano. Pensare equivale a rendere espliciti gli elementi che formano la nostra esperienza, la quale rappresenta sia il punto di partenza di una teoria, sia il punto di arrivo, inteso come validazione di una teoria radicata nell’esperienza (Mezirow, 2003). La persistenza dei soli saperi disciplinari, infatti, ha dimostrato tutta la sua inefficacia nella costruzione di apprendimenti che siano utili nel contesto della pratica, producendo uno iato sempre più marcato tra il sapere e il fare. Non solo. Questa scissione ha prodotto il mancato riconoscimento che ogni attività di pensiero è innanzitutto un’attività sociale, mediata da artefatti, da relazioni, da appartenenze a storie e saperi locali.

I processi che guidano i soggetti ad interpretare le azioni e le esperienze, personali ed altrui, sono guidati da modelli di riferimento, filtri, relazioni simboliche che influenzano ciò che viene ricordato, il significato e l’interpretazione che viene attribuita. Per concettualizzare un’esperienza, usiamo dei segni interpretativi che consentono di rileggere e riflettere sugli eventi, sulle interpretazioni delle stesse, sui significati che attribuiamo ad esse, in quanto le interpretazioni delle azioni e dei vissuti si basano su assunti a volte distorti o influenzati dal linguaggio e dalle culture di riferimento.

L’apprendimento è connesso alla costruzione e all’appropriazione di un’interpretazione dell’esperienza vissuta in grado di guidare un’azione nuova. Le interpretazioni sono “segmenti” degli schemi di significato edificati su assunti che il soggetto ritiene di validare e che equivalgono a dare coerenza, forma e significato alle esperienze. L’apprendimento si configura come capacità di utilizzare un significato che abbiamo già costruito, per orientare il nostro modo di pensare ed agire; significa, cioè, dare un senso alle nostre esperienze.

Il sapere utile alla pratica e “in azione”, ha a che fare non solo con una natura mentale, ma anche con una natura materiale, storicamente determinata. In tal senso, i soggetti sono costruttori attivi di una realtà materialmente connotata (Fabbri, 2007). La costruzione di una cultura della pratica da apprendere e condividere passa necessariamente dalla partecipazione, poiché è attraverso il coinvolgimento nelle attività che si modificano le relazioni sociali e si sviluppano le conoscenze. Intendere la scuola come una comunità di pratiche significa intenderla come luogo di storie condivise di apprendimento, storie che si costruiscono nella misura in cui si è in grado di muoversi verso forme evolutive di impegno reciproco, di riconoscimento, comprensione e sintonizzazione intorno ad un obiettivo comune.

Le esperienze degli studenti sono già di per se stesse interculturali e frutto di scambi e condivisioni tra soggetti diversi. I significati che gli studenti attribuiscono alla propria esperienza vengono cioè costruiti attraverso l’interazione umana e la comunicazione, in contesti non solo formali (es. la scuola), ma anche non formali e informali. Gli studenti, infatti, fanno esperienza del mondo sociale quotidiano dandolo praticamente per scontato.

Ciononostante, molti genitori prima di iscrivere i figli a scuola si informano della presenza o meno di alunni extracomunitari nelle classi dei propri figli e molti insegnanti sperano di non averne in classe. Razzismo? Non proprio. Soprattutto paura che le “tradizioni culturali autentiche”, “i frutti puri della cultura occidentale” si arrendano alla promiscuità e al confronto insignificante con altre culture. Molto spesso accade proprio questo: la scuola si accontenta di opzioni etico-morali o dell’adozione di una buona politica liberale, secondo la quale la distanza tra mondi cognitivi diversi costituisce una barriera esclusivamente culturale, facilmente superabile se la mentalità della scuola è egualitaria dei suoi attori e non deviata da pregiudizi di alcun tipo.

Proviamo a pensare che le difficoltà della scuola sono le difficoltà di una società alla prese con una diffusa perdita della propria centralità, in un mondo di distinti sistemi di significato. Basterebbe, tuttavia, prendere atto che ciò è già avvenuto. Non solo perché non esistono più società monoculturali sostituite da contesti pluriculturali, ma soprattutto perché, come afferma l’antropologo statunitense Geertz “siamo tutti indigeni e chiunque altro che non sia uno di noi è immediatamente un esotico. Quello che un tempo appariva come il problema di scoprire se i selvaggi potevano distinguere la realtà dalla fantasia appare adesso come il problema di scoprire in che modo gli altri, al di là del mare o in fondo al corridoio, organizzano il loro significato” (Geertz, 1988, p. 192).

Non c’è più bisogno di rassicurarsi sui limiti di approcci relativistici.

Gli stessi relativisti si stanno e ci stanno mettendo in guardia dai limiti del loro paradigma. Quanto affermato da Geertz vuole semmai evidenziare che il “pensiero (qualunque pensiero: di Lord Russel o di Baron Corvo, di Einstein o di qualche impettito eschimese) deve essere compreso etnograficamente, ovvero deve descrivere il mondo in cui assume il suo significato” (Ibidem).

Anche i contesti scolastici dovranno porsi nella condizione di operare etnografie cognitive. E questo non solo perché le classi sono sempre più multiculturali, ma perché il pensiero è “spettacolarmente multiplo come prodotto e prodigiosamente singolo come processo (Ibidem, p. 193). Ciò, prima ancora di essere un problema legato ai flussi migratori, e quindi alla costituzione di contesti multiculturali, è un problema intra-culturale che anima, per esempio, sempre più le scienze sociali tra epistemologie in corso e saperi scolastici.

In fondo, il dibattito epistemologico degli ultimi vent’anni può essere letto come l’avvento della pluriculturalità dentro paradigmi scientifici che si erano proposti come univoci, oggettivi ed assoluti.

La concezione tecnologica della scienza sembra oggi improponibile, il quadro epistemologico sta diventando sempre più pluralistico, l’universo categoriale della scienza non è né unitario né omogeneo. Sebbene siano sempre tra noi coloro che credono ad un’idea unificata di scienza non si possono non apprezzare i guadagni conseguiti dall’affermazione dell’idea costruttivistica di una conoscenza (de Mennato, 1999; de Mennato, D’Agnese, 2005), che si costruisce utilizzando logiche diverse. Il venir meno della plausibilità euristica di quell’ideale di conoscenza che per secoli ha guidato la definizione della natura, dei metodi, dei compiti, degli scopi dell’impresa scientifica a cui la cultura scolastica fa riferimento può essere letto come l’emergere di un’epistemologia pluralistica che testimonia della “transizione da una epistemologia della rappresentazione ad una epistemologia della costruzione” (Bocchi, Ceruti, p. 34).

Ma è anche vero il contrario. La dimensione che caratterizza la complessità è certamente quella della differenziazione. L’interconnessione tra i processi di differenziazione mettono l’accento sulle differenze culturali, territoriali, individuali e la crisi dei metodi di ricerca che tendono verso la standardizzazione e la quantificazione che si prestano meno di altri a cogliere gli aspetti locali, clinici, con la conseguente attenzione verso dimensioni più propriamente qualitative (Melucci, 1988, p. 19).

Le sollecitazioni di un tale dibattito offrono un contributo decisivo per una ridefinizione delle coordinate entro le quali porre il problema dei saperi scolastici. Se il sapere scientifico ha messo in discussione il problema dell’unicità del metodo, quale ricerca di un criterio di demarcazione sulla cui base giustificare la validità storica di teorie scientifiche in competizione, anche il sapere scolastico dovrà definirsi secondo i criteri dettati da una razionalità che, pur muovendosi all’interno del suo sistema di significato e ben sapendo che non potrebbe prescindere da esso, è in grado di interagire con altre forme di razionalità, alcune volte in competizione con essa. Il sapere scolastico si precisa sempre più come definizione che rimanda ad una costruzione che emerge anche dall’interazione, ovvero dall’incontro/conflitto/negoziazione/condivisione di sistemi di significato differenti.

Se è vero che i concetti non sono indipendenti dai mondi particolari con cui un individuo o una cultura strutturano il mondo, allora i saperi non sono riconducibili ad un sistema universale di concetti che rappresenta tratti o caratteri oggettivi del mondo. In tale prospettiva, infatti, i concetti possono venire generati e compresi solo entro sistemi di riferimento concettuali dipendenti dalla concreta esperienza individuale e collettiva. A fronte di queste considerazioni il contributo dell’interazionismo pone in evidenza che la cultura, da questo versante, è l’insieme dei significati elaborati dagli esseri umani che, in quanto condivisi, trasformano a loro volta gli individui in membri di una società.

Dal punto di vista didattico la scuola può precisarsi, dunque, come luogo di contaminazione e creatività culturale, come luogo in cui si negoziano i significati e si valorizzano forme di “internazionalizzazione”, di confronto tra “familiare” ed esperienziale (Wenger, 2006).

Come affermato  dalla Rete della Settimana dell’Educazione Interculturale – con il coordinamento del Centro Nord-Sud del Consiglio d’Europa – “l’educazione interculturale come apprendimento trasformativo offre un metodo per produrre cambiamenti a livello locale, suscettibili di esercitare un’influenza a livello globale. In tal modo, le strategie potranno forgiare la cittadinanza, in modo da permettere ai cittadini di imparare ad assumere responsabilità che non possono essere demandate solo ai governi e a coloro che decidono a livello politico” (Centro Nord-Sud del Consiglio d’Europa, 2008).

2. Etnografia del pensiero e rappresentazione interculturale del mondo

L’intercultura chiama in causa non solo l’educazione al plurale, giocata dal versante dello sviluppo di competenze relazionali, ma la revisione curriculare, ovvero il problema di come “assumere una rappresentazione interculturale del mondo” e di come rilevare i punti di vista e i sistemi di significato dei soggetti coinvolti nei processi di insegnamento-apprendimento. Di come educare, quindi, ad un pensiero critico-riflessivo che metta i singoli e le comunità nelle condizioni di apprezzare il decentramento come un pensiero che non è vittima della propria esperienza, o che rimane ad uno stadio pre-critico.

Le culture sono più che semplici posizioni strategiche intellettuali: sono modi di essere nel mondo che possono essere compresi e interpretati non in assoluto, ma in rapporto al contesto locale in cui nascono.  L’etnografia cognitiva non si traduce in un tentativo di esaltare la diversità, ma di ricerca dei modi attraverso i quali l’insegnante può considerarla seriamente di per sé come oggetto di descrizione analitica e di riflessione interpretativa. Cogliere concetti vicini all’esperienza di soggetti provenienti da culture lontane dalle nostre esperienze, e farlo sufficientemente bene da collocarli in connessioni illuminanti con concetti distanti da quella esperienza ma familiari alla nostra esperienza, è un compito per lo meno complesso.

Per gli insegnanti si apre il problema di mettersi nella condizione, almeno a questo livello, di ricostruire le conoscenze locali, di cercare di comprendere le teorie, i punti di vista dei soggetti coinvolti nei processi di insegnamento-apprendimento. Si tratta di rintracciare quel sapere che ogni soggetto si costruisce mettendo insieme i mattoni della propria esperienza. Ed è la conoscenza della matrice cognitiva dei soggetti in apprendimento il punto da cui partire per procedere verso quel conflitto organizzato che la rappresentazione interculturale del mondo chiama in causa.

Conoscere significa essere in grado di riflettere su quella conoscenza spontanea che costruiamo dentro i nostri mondi ideografici, locali, particolari, irriducibilmente differenti e diversi.

Significa allargare il proprio sapere contestuale attraverso l’incontro o lo scontro con altri saperi, imparare a decentrare quel punto di vista, comprendere la plausibilità di altri punti di vista. Significa, infine, imparare a costruire nuovi punti di vista negoziati e quindi condivisi.

Il sapere interculturale sarà l’esito della capacità di abitare luoghi cognitivi pluriculturali, che nasce dalle convivenze agite in luoghi deputati alla progettazione di nuove educabilità cognitive capaci di abitare luoghi pluriculturali. Le culture di provenienza paradossalmente potrebbero essere paragonabili ai “copioni transgenerazionali”, quelli che danno identità, che ci consentono di situarci nel mondo, di interpretarlo e di conferirgli significato.  L’affermazione della società multiculturale chiede di porre in atto non solo copioni ripetitivi o correttivi rispetto a quelli transgenerazionali ma impegna nella costruzione di nuovi copioni.

Se il segno distintivo della consapevolezza dell’educazione scolastica oggi è il senso della varietà radicale del modo in cui pensiamo, il problema della rappresentazione interculturale del mondo diventa il problema della creazione delle condizioni in cui avrà luogo l’interazione tra saperi locali – che poi significa complementarità, alternatività, integrazione, mediazione, differenza, ecc. – che dovrebbe condurre alla costruzione di nuovi sistemi simbolici.

La scuola  – nonostante i numerosi problemi dovuti alla diffusione della pandemia da Covid-19 (la cosiddetta “didattica a distanza” in primis) – è oggi l’unico laboratorio-protetto dove poter “sperimentare” in condizioni verosimilmente naturali luoghi di interculturalismo cognitivo.  La scuola  non è solo  il luogo  di trasmissione  di sistemi culturali, è soprattutto uno spazio  dove i soggetti in età evolutiva dovrebbero ricostruire e costruire  attivamente  la spiegazione  ed  il senso  delle  proprie azioni,  degli  eventi  naturali  e sociali che  ci circondano,  dove un  insieme  di conoscenze implicite (de Mennato, 2003; Polanyi, 1998)  nascoste,  talvolta in competizione o in conflitto tra loro, vengono negoziate  e raccontate dai soggetti  per elaborare  modi  di agire e pratiche  quotidiane condivise.

La crisi della concezione piagetiana dello sviluppo dell’intelligenza secondo la quale il livello più elevato, quello delle “operazioni formali” fosse indipendente da fattori culturali e contestuali la si deve alla scoperta che la capacita di svolgere operazioni formali non indica il gradino universale dello sviluppo dell’intelligenza, ma un processo variabile a seconda della cultura di appartenenza. Le ricerche “cross-cultural” negli anni sessanta fino agli anni settanta, prima, e poi l’attuale orientamento socio-culturale della ricerca su cognizione ed educazione, oltre a respingere l’idea di una “logica mentale” decontestualizzata, hanno sottolineato l’importanza del modo in cui le persone conoscono nella vita di ogni giorno quando vanno a fare la spesa al mercato, o cercano di persuadere gli altri a fare qualcosa.  La scuola viene invitata a prestare maggiore attenzione alle strategie quotidiane della gente e a imparare dalle pratiche culturali.

Il riconoscimento della centralità delle forme di mediazione culturale come elemento caratterizzante lo sviluppo evidenzia il ruolo cruciale della scuola non solo dal versante della negoziazione degli oggetti culturali, ma anche nella costruzione di Sé interculturali.

Se i saperi sono modi di essere  nel mondo  – “quando cominciamo  a vedere  che  mettersi  a scomporre le  immagini  di Yeates,  a  dedicarsi  allo  studio  dei  buchi  neri,  o  a  misurare l’effetto dell’istruzione  sui risultati economici,  non significa solo svolgere  un compito  tecnico, ma aderire  ad una struttura  concettuale che definisce gran parte della propria vita” (Geertz, 1988, p. 197), la creazione di nuove strutture concettuali interculturali diventa un obiettivo da operazionalizzare in termini di curricoli scolastici  e competenze  degli insegnanti.

Se l’obiettivo diventa quello di costruire saperi scolastici capaci di parlare e avere significato per soggetti provenienti da culture diverse, si aprono scenari di ricerca pedagogica e didattica non facilmente definibili, almeno a priori.

3. Pratiche interculturali

Insegnare non significa rappresentare ad un soggetto in età evolutiva il miglior mondo possibile ma, semmai, rimanda più che ad una scelta fra opzioni ed azioni culturali, ad una costruzione dove le alternative non sono invariabili in termini logici ed oggettivi, ma dipendono in maniera decisiva dalla storia, dal mondo cognitivo, dai contesti spazio temporali, dai pregiudizi e dai saperi personali (de Mennato, 2003) dei singoli soggetti coinvolti.

Parlare di soggetto o soggetti non significa pensare ad un soggetto solo e indipendente nella sua attività costruttiva, ma a processi di definizione interpersonale e interculturale dei problemi, ad una costruzione sociale di significati fondata dal linguaggio e dagli strumenti della cultura. I curricoli interculturali saranno infatti l’esito di un conflitto di teorie, scienze, culture su uno stesso oggetto materiale sia questa dato dagli eventi naturali, sociali, storici, antropologici. Nella scienza però non ci si accontenta mai di darsi “democraticamente” ragioni: le teorie non hanno lo stesso valore, non hanno lo stesso potere euristico né lo stesso grado di condivisione. Mettere in discussione l’oggettività della scienza non ha significato riconoscere pari oggettività di ogni affermazione. Ha semmai legittimato la ricerca di complessi criteri di intersoggettività, la forza delle argomentazioni migliori.

Una verità intersoggettiva, inoltre, sempre costruita all’interno di un setting metodologico collegato ad un modello teorico-empirico che permetta di prendere in considerazione prospettive alternative, offrendo supporto al cambiamento, contribuendo alla validazione delle prospettive modificate, imponendo la gestione di nuove relazioni nel contesto di una nuova prospettiva (Fay & Kim, 2017; Mezirow, 2003; Taylor, 1994).

“Diventa centrale [dunque] cambiare prospettiva e riconoscere quanto l’apprendimento derivi da un lavoro di comunità e quindi aumentare la propria disponibilità a essere più aperti alle prospettive degli altri e affidarsi di meno ai meccanismi di difesa psicologica” (Fabbri, Melacarne, 2015, p. 111).

Il ri-orientamento dei curricoli scolastici secondo i valori propri di una nuova cittadinanza non fa incorrere in pericoli di relativismo – i limiti di una tale prospettiva sono stati fin troppo sottolineati – ma spinge verso la costruzione di processi culturali significativi per tutti i soggetti culturali coinvolti.

L’intercultura si traduce nella richiesta di un grosso impegno di ricerca, in particolare sul versante della didattica. Sarebbe un altro errore epocale pensare alla didattica interculturale come campo interdisciplinare, come territorio dove confluiscono pezzi di altre discipline. Alla pedagogia il compito di mediare, sintetizzare, comunque congegnare dati altrove elaborati e soprattutto concettualizzati.

Niente di nuovo sotto il sole. A tutt’oggi questo è il paradigma “segretamente” condiviso e praticato da molti scienziati dell’educazione. Molte sono le ricerche sui contorni, i fondamenti di una pedagogia interculturale, ma rimangono ancora dei vuoti di indagine a cui la pedagogia interculturale si espone quando, da fatto teorico-generale vuole proporsi come fatto esplicativo descrittivo  e come fatto progettuale.

Eppure   è ormai diffusa la consapevolezza   dei   pericoli   –   pericoli   per   altro   di   credibilità scientifica   –   che   si   corrono    quando la   compatibilità    tra   una teoria e una determinata classe di problemi viene data per scontata, o comunque è ritenuta   problema   dell’insegnante, anziché essere   oggetto   di ricerca   ad   hoc   che   permetta   di confrontarsi con i compiti più specifici e più complessi contesti della pratica educativa.

Ciò che attende la pedagogia e la didattica interculturale è un vero e proprio impegno di ricerca teorica ed operativa che nessun congegno interdisciplinare può sostituire.  La piegatura in senso didattico delle conoscenze fornite dalle scienze umane intorno ai singoli, così come alle classi di problemi da risolvere, non rappresenta più un modello conoscitivo da assumere come promettente. Più  che  cercare  delle  notizie  in  grado  di  razionalizzare delle   operatività   –   con   tutte   le   implicazioni   applicazionistiche che   ne  conseguono  -,  in  questo  caso  i  processi   di  didattica interculturale,   è forse   più  opportuno  per  la  didattica spostare il proprio  punto  focale  dal  sapere   organizzato   da  altre  discipline –  sia  pure   ricontestualizzato  in  funzione   di  questi   nuovi   eventi educativi  –  alla  conoscenza  di  questo   territorio.  In questo senso, la ricerca didattica diventa soprattutto azione, attività, formazione, precisandosi soprattutto come forma di conoscenza in grado di produrre modelli e strategie d’azione e di cambiamento.

Crediamo che molto sia da attendersi non dal già dato, ma dalla messa alla prova dentro laboratori naturali di strategie d’azione dove l’agire e il progettare sono dei modi attraverso i quali costruire un sapere utile ad una società che prova a diventare interculturale. L’interculturalità è a tutt’oggi un assioma che tenta, anche attraverso l’aiuto della ricerca scientifica, di diventare un progetto da “sperimentare”.  Chiede di mettere in atto un processo conoscitivo che ci aiuti a capire che cosa è necessario e che cosa è possibile cambiare, che aiuti a mettere a fuoco queste condizioni concrete che occorre rispettare se si vuole che il paradigma interculturale riesca ad imporsi.  

Ciò che la ricerca pedagogico-didattica è chiamata a studiare sono dei processi che si svolgono sotto l’influenza di cambiamenti sociali, culturali e formativi intenzionalmente progettati.

Progettare non significa pianificare, non si ha a che fare con la costruzione di opere di ingegneria edilizia. Al riguardo, vale la pena di ricordare che il concetto di progettazione non   rimanda   a   queste prospettive secondo cui la presa di decisione   non   sarebbe   che   la ricerca di alternative, in uno spazio  definibile di azioni   possibili, volta al raggiungimento dell’insieme    preferito   delle   conseguenze.

La prospettiva epistemologica sembra essere un’altra: “lo spazio delle azioni possibili non è prefissato, ma si evolve   in relazione alla presa   di decisione   di un   particolare   soggetto.   La presa di decisioni   non   è una   scelta di azioni, ma una produzione di azioni. Le alternative   non   sono   inventariabili   in   termini   logici ed oggettivi, ma dipendono in maniera decisiva dalla storia, dal mondo cognitivo, dai contesti spazio-temporali, dai pregiudizi dei singoli individui” (Ceruti, Lo Verso, 1988, p. 14).

Forse la didattica interculturale chiede di sviluppare un’epistemologia della ricerca in grado di partire da un insieme di progetti particolari dei quali solo in parte si conoscono gli obiettivi e solo in parte siamo in grado di determinarne l’organizzazione, soprattutto gli esiti e dai quali si cerca di studiare sperimentalmente che tipo di proprietà sia in grado di evolvere. In questo caso, la fonte primaria di conoscenza è data dall’interazione con gli oggetti, con gli eventi dell’ambiente e soprattutto dall’interazione tra soggetti in contesti di vita quotidiana – vale la pena di ricordare l’importanza della vita quotidiana come spazio in cui i soggetti conoscono il senso del loro agire e in cui sperimentano le opportunità e i limiti dell’azione –  piuttosto che dall’applicazione di conoscenze generali a casi particolari.

La tensione utopica della pedagogia e della didattica è per loro natura interculturale (de Mennato, 2016): interculturalità significa disponibilità e volontà di uscire dai confini della propria cultura per entrare nei territori mentali di altre culture.

Conclusioni

La pedagogia e la didattica interculturale devono basarsi sulla capacità di promuovere un pensiero aperto e flessibile, critico e problematico, in grado di riconoscere le proprie specificità. Un pensiero costruito attraverso la pratica della molteplicità (di lingua e linguaggi, di saperi e punti di vista, di angolazioni e prospettive, di percorsi e soluzioni) e oppositivo al pensiero gerarchico: interculturale, appunto.

Se è vero che quello che ci accomuna sono i bisogni e quello che ci differenzia sono le risposte, gli obiettivi comuni uniscono le diversità. Più in generale, la cooperazione ed il fare assieme in vista di un ostacolo da superare, costituiscono dei fattori potenti di avvicinamento e possono diventare elementi facilitatori di apprendimenti di natura più strettamente cognitiva. Strategie didattiche di successo sono dunque tutte quelle che contribuiscono a rafforzare la comprensione e a costruire connessioni consapevoli con altre espressioni e altri modi di vita, sia dentro che fuori la scuola.

Si tratta di lavorare in classe attraverso metodologie attive di sviluppo che valorizzino il fare assieme, la partecipazione e lo scambio tra studenti e tra questi e i docenti. E’ proprio attraverso tali metodi che è possibile costruire delle comunità di pratica (Wenger, 2006) dove è possibile lavorare prevenendo ogni forma di autoreferenzialità e di pregiudizio, consentendo l’emersione, la discussione e la riconfigurazione delle prospettive di significato. Dove le interazioni discorsive sono basate sulla comprensione e la verifica della validità di ciò che viene comunicato da coloro che vi partecipano. In tal senso, l’azione riflessiva ha un ruolo centrale per apprendere in maniera consapevole e per apprendere come si apprende.

La consapevolezza sulle premesse che governano i modi in cui pensiamo e interpretiamo la realtà non è certamente un automatismo cognitivo. La riflessione critica, infatti, genera un apprendimento trasformativo che è capace di penetrare ed influenzare le relazioni e le organizzazioni in cui opera il soggetto.

Il processo di trasformazione prevede alcune fasi che lo compongono, a partire dalla formulazione del “dilemma disorientante” per arrivare fino alla “reintegrazione nella propria vita della nuova prospettiva di significato” (Mezirow, 2003; Taylor, 1994).

Il compito degli insegnanti è, dunque, quello di aiutare gli studenti ad essere più criticamente riflessivi, promuovere una loro piena partecipazione alla pratica didattica, facilitare l’acquisizione di prospettive di significato più inclusive, integrando e valorizzando l’esperienza nella ridefinizione dei problemi. Le metodologie attive di sviluppo rappresentano, infatti, le traiettorie che consentono alla riflessività di configurarsi non solo come costrutto interpretativo ed analitico, ma anche come schema di intervento (Fabbri, 2015).

Le metodologie attive di sviluppo sono caratterizzate da processi di partecipazione attiva, che si occupano di riconoscere e decodificare l’esperienza, di costruire la conoscenza attraverso quest’ultima e di verificarla tramite la collaborazione. Ed è proprio questo, in buona sostanza, ciò che permette al “professionista efficace” ed al soggetto in formazione di riconoscere le opportunità di apprendimento quando si verificano e di imparare da esse.

Il mondo attuale ha sempre più bisogno di persone capaci di pensare, di porsi le domande “giuste”, di persone che sappiano stare assieme, che sappiano fare e ragionare assieme. Ripensare la pedagogia e la didattica, soprattutto sul fronte interculturale, significa iniziare a sperimentare il contesto classe come comunità di apprendimento, in cui “le ipotesi, le idee, i saperi che si costruiscono […] sono il frutto del contributo di più soggetti (Fabbri, Melacarne, 2015, p. 62), in cui l’insegnante lascia agli studenti la responsabilità delle scelte e il raggiungimento dei risultati, configurandosi come “facilitatore” dei processi di apprendimento.

In tale cornice, è bene ricordare che il cooperative learning (Comoglio, Cardoso, 2006; Bay, 2006) è la metodologia didattica che per propria natura meglio corrisponde alle istanze interculturali (Gobbo, 2010; Lamberti, 2010), sostenendo apertura e decentramento, dialogo e mediazione, collaborazione e partecipazione.

Da un punto di vista dei contenuti disciplinari e delle possibili metodologie didattiche in classe, diversi autori, quasi in un trentennio, hanno prodotto importanti riflessioni.

Nonostante ciò, rimane da fare un grosso lavoro a livello trans-disciplinare e ancora meglio inter-disciplinare.

Ma, soprattutto, uno dei problemi maggiori è quello di far si che l’”atteggiamento interculturale” si innervi nelle pratiche degli insegnanti, non sempre disposti a riesaminare contenuti e metodi della propria disciplina e a condividere idee progettuali con i colleghi. Questo aspetto è di primaria importanza, poiché non è possibile promuovere intercultura a scuola, con gli studenti, se i docenti in primis non la praticano a livello professionale e interprofessionale. Naturalmente, tutto questo lavoro va anche riportato sul versante extracurricolare, “coinvolgendo le famiglie, la comunità, i servizi e il territorio nel senso più allargato” (Agostinetto, 2016).

(*) Ateneo Telematico “eCampus”

Bibliografia

Agostinetto L. (2016), Oltre il velo: l’intercultura che fa scuola, Studium Educationis, annoXVII, n.1, febbraio: 71-86.

Bay, M. (a cura di) (2008), Cooperative Learning e scuola del XXI secolo. Roma: LAS.

Bocchi, G., Ceruti C. (a cura di) (1994), La sfida della complessità. Milano: Feltrinelli.

Cambi, F. (2003), Intercultura: fondamenti pedagogici. Roma: Carocci.

Centro Nord-Sud del Consiglio d’Europa (2008). Linee guida per l’educazione interculturale concetti e metodologie in materia di educazione interculturale ad uso di educatori e responsabili politici. url: https://rm.coe.int/168070eb8f

Cerruti, M., Lo Verso, G. (1988), Epistemologia e psicoterapia. Milano: Cortina.

Comoglio, M., Cardoso, M. (2006), Insegnare ad apprendere in gruppo. Il cooperative learning. Roma: LAS.

de Mennato, P. (1999). Fonti di una pedagogia della complessità. Napoli: Liguori.

de Mennato, P., D’agnes,e V. (2005). Tessere del mosaico pedagogico. I disegni e le parole di un’epistemologia costruttivista. Lecce: PensaMultimedia.

de Mennato, P. (2016), Introduzione. In Orefice, C., Per una pedagogia di confine. Decifrare differenze, costruire professionalità. Milano: Unicopli.

Fabbri, L. (2007), Comunità di pratiche e apprendimento. Per una formazione situata. Roma: Carocci.

Fabbri, L., Melacarne, C. (2015), Apprendere a scuola. Metodologie attive di sviluppo e dispositivi riflessivi. Milano: FrancoAngeli.

Fay, L. L., Kim, E. Y. (2017). Transformative Design Pedagogy: A Place-based and Studio-based Exploration of Culture. Journal of Learning Spaces (6)2: 25-35.

Ferro Allodola, V. (2013), Rappresentazioni sociali e costruzione di identità professionali “riflessive” nei contesti psichiatrici: considerazioni formative. Studi sulla Formazione, 1: 121-133.

Geertz, C. (1988), Antropologia interpretativa. Bologna: Il Mulino.

Gobbo, F. (2010), Il Cooperative learning nelle società multiculturali. Una prospettiva critica. Milano: Unicopli.

Lamberti, S. (2010), Apprendimento cooperativo e educazione interculturale. Trento: Erickson.

Melucci, A. (1988), Verso una sociologia riflessiva. Bologna: Il Mulino.

Mezirow, J. (2003). Apprendimento e trasformazione. Il significato dell’esperienza e il valore della riflessione nell’apprendimento degli adulti. Milano: Raffaello Cortina.

Taylor, E. W. (1994). A learning model for becoming interculturally competent. International Journal of Intercultural relations, 18(3): 389-408.

Ulivieri, S. (2018) (a cura di). Le emergenze educative della società contemporanea. Progetti e proposte per il cambiamento. Lecce: Pensa Multimedia.

Wenger E. (2006). Comunità di Pratica. Apprendimento, significato e identità. Milano: Raffaello Cortina.

I presidi chiedono di reintrodurre l’obbligo del certificato dopo l’assenza per malattia

da Il Sole 24 Ore

di Redazione Scuola

La legge non prevede attualmente un obbligo di certificazione per rientrare in classe dopo la malattia e le Regioni si stanno muovendo in ordine sparso. Nel Lazio la Regione in questi giorni ha nuovamente previsto l’obbligo -lo aveva tolto – di presentare il certificato medico rientrando a scuola dopo un’assenza per malattia. In particolare dopo una assenza superiore ai 3 giorni serve il certificato medico per rientrare nelle scuole dell’infanzia; per la scuola dell’obbligo e la scuola secondaria di secondo grado, il certificato serve dopo più di 5 giorni di assenza.

Se le assenze vengono comunicate preventivamente dalla famiglia alla scuola e la motivazione non è di salute, il certificato non serve. Nel caso invece di studente con infezione da Covid accertata, sarà il Sisp (Sistema di sanità pubblica) ad attestare l’avvenuta guarigione per la riammissione a scuola.

In Emilia Romagna, invece, il certificato medico per il rientro a scuola dalla malattia non serve. In Veneto, Liguria e Piemonte è sufficiente l’autocertificazione dei genitori che però presuppone il via libera del pediatra.

I presidi dell’Associazione nazionale presidi chiedono di reintrodurre il certificato medico dopo l’assenza per malattia. «Chiedo che ci sia chiarezza: la riammissione a scuola, ad oggi, diversamente da come avveniva in passato, avviene senza certificati medici. Se uno studente si assenta e la scuola non sa il perché (ovvero non rientra nei casi Covid) potrebbe avere anche il virus ma se nessun medico lo ha visitato saremmo di fronte a una riammissione non ottimale. Allora bisognerebbe reintrodurre un obbligo di certificazione al rientro. Almeno sopra i tre giorni di malattia», sostiene il presidente dell’Associazione nazionale presidi, Antonello Giannelli.

Anche Roberta Fanfarillo, che guida i dirigenti scolastici della Cgil scuola dice: «Per le scuole sarebbe utile avere il certificato per il ritorno in classe rappresenta la certezza della guarigione dell’allievo. Soprattutto, abbiamo bisogno di indicazioni certe, non contraddittorie».

Didattica via web da subito solo alle superiori

da Il Sole 24 Ore

di Eugenio Bruno

Doppia strada per la didattica a distanza. Se per gli studenti delle superiori la possibilità di seguire online le lezioni – che nel frattempo il ministero dell’Istruzione ha rinominato in «didattica digitale integrata» cambiando anche l’acronimo da Dad a Ddi – rappresenta da subito una strada praticabile, per i loro compagni più piccoli almeno all’inizio nasce solo come piano B. Le scuole del primo ciclo, infatti, potranno farvi ricorso solo in caso di nuovo lockdown. Sia totale che parziale.

Le novità per i più piccoli

Che l’e-learning possa essere una risorsa lo ha ricordato di recente anche l’Organizzazione mondiale della sanità. Nella dichiarazione congiunta a firma del direttore regionale per l’Europa, Hans Kluge, e del nostro ministro della Salute, Roberto Speranza, arrivata al termine di un summit sulla ripresa delle lezioni che ha coinvolto 53 Paesi, si legge: «È realistico preparare e pianificare la disponibilità dell’apprendimento online, e può rivelarsi necessario durante una episodica quarantena, completando l’apprendimento in classe laddove alcuni alunni non partecipino per mantenere il distanziamento nelle aule più piccole».

Perché se è vero che alle medie e alle superiori i presidi potranno utilizzarla solo in caso di nuove chiusure (che, se limitate al singolo istituto, dovranno comunque essere contrattate con l’Ufficio scolastico regionale) è in questi giorni che devono integrare il piano triennale dell’offerta formativa con il “Piano scolastico per la didattica digitale integrata”, con particolare riferimento agli alunni con maggiori bisogni educativi o con disabilità. Tenendo conto però che – per evitare lo “spontaneismo” del recente passato quando anche all’interno dello stesso istituto sono state adottate soluzioni diverse da classe a classe – il numero di ore minime di lezione da remoto viene fissato dalle linee guida ministeriali di agosto in 15 ore al primo ciclo (10 in prima elementare) e 20 alle superiori.

Una risorsa per le superiori

Alla secondaria di II grado la didattica online sincrona o asincrona – cioè in diretta o in differita – può essere una risorsa sin d’ora. Purché venga utilizzata in maniera «complementare» a quella in presenza, per espressa previsione delle stesse linee guida ministeriali. E non è un caso che molti dirigenti scolastici sono pronti a usarla sin dal primo giorno di scuola per risolvere il problema irrisolto di spazi o per attendere la consegna dei nuovi banchi monoposto che andrà avanti fino a fine ottobre. In molti licei o istituti tecnici i gruppi classe saranno divisi in due e seguiranno le lezioni in maniera alternata: metà in classe e metà da casa. Magari per tre giorni a testa, spalmando l’orario settimanale anche sul sabato.

Un antipasto c’è già stato nei giorni scorsi quando diverse scuole hanno scelto l’e-learning per le attività di recupero degli apprendimenti previste a partire dal 1° settembre. Dopo aver deciso di limitare le bocciature ai soli casi eccezionali e, dunque, ammettere quasi tutti gli studenti all’anno successivo, la ministra Lucia Azzolina ha affidato a questi “corsi di recupero 2.0” il compito di aiutare i ragazzi a recuperare le insufficienze accumulate durante la sospensione delle attività didattiche in presenza.

Sempre per evitare il ripetersi di spiacevoli episodi del recente passato le scuole sono chiamate inoltre ad aggiornare il regolamento di istituto e il patto educativo corresponsabilità, prevedendo specifiche sanzioni per chi dovesse disertare le lezioni online o mantenere un comportamento inadeguato. E qui i presidi si stanno sbizzarrendo. Come del resto è accaduto per le “pene” da adottare nei confronti degli studenti e delle studentesse che si rifiutino di indossare la mascherina negli spazi comuni e ogni volta che si allontanano dal banco. Se basteranno o meno lo scopriremo nelle prossime ore.

Pronti 400 milioni per la banda ultralarga in 42mila scuole

da Il Sole 24 Ore

di Andrea Biondi

Problemi

«Mi si è stretto il cuore guardando la foto di quel ragazzo che ogni mattina si incammina e fa un chilometro per trovare un posto dove poter seguire le lezioni online perché a casa sua non c’è segnale». L’ad di Tim, Luigi Gubitosi, la storia di Giulio, 12 anni, di Scansano in piena Maremma toscana l’aveva esposta così nel corso dell’audizione (in videoconferenza) con i deputati della commissione Trasporti l’8 aprile.

Lo stress test del Covid-19

È una storia limite, ma il Covid-19 oltre a essere stato uno stress test per il sistema digitale e delle comunicazioni, che «nel complesso hanno dato prova di saper reagire alla situazione eccezionale», ha rappresentato anche un formidabile catalizzatore di deficit e disuguaglianze «già esistenti», che rischiano di «esacerbarsi nel prossimo futuro». A scrivere queste parole è stata l’Agcom, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni in un allegato ad hoc alla Relazione annuale diffusa a inizio luglio. Durante l’emergenza coronavirus, ha specificato l’Autorità, «il 12,7% degli studenti italiani non ha usufruito della didattica a distanza, dati inaccettabili per una democrazia evoluta». Parole pesanti come pietre, accompagnate dai risultati di un sondaggio da cui è emerso che 25 ragazzi su 100 hanno avuto problemi nelle velocità di connessione; 19 su 100 hanno segnalato che non tutta la classe ha partecipato alle lezioni a distanza; quasi 10 su 100 hanno lamentato la mancanza di dispositivi idonei.

Il tema del divario digitale in Italia è presente da tempo ed evidenziato, ogni anno, dall’indice Desi stilato dalla Commissione Ue che mette a confronto lo stato di salute digitale dei Paesi. Nel 2019 (ultimo dato disponibile) l’Italia era 25esima su 28 (compreso il Regno Unito quindi). Il dato generale è un mix di tante cose, compresi skill e competenze digitali su cui l’Italia è profondamente indietro

La connettività nelle scuole

La fotografia della dotazione infrastrutturale delle scuole evidenzia tutta la necessità di cambiare passo, anche e soprattutto per rispondere alle sfide dell’insegnamento a distanza che proprio l’emergenza Covid ha messo fra le priorità in agenda. Agcom, nel descrivere lo stato della connettività degli edifici scolastici in Italia, ha rilevato che su 75.361 edifici scolastici censiti il 42% risulta coperto da servizi a banda ultralarga basati su reti Fttc (fiber-to-the-cabinet, fino all’armadio e poi rame) potenziato, in grado quindi di fornire prestazioni teoriche superiori ai 100 Mbps (Megabit al secondo); il 18% in Fttc (30 Mbps), il 17% ha l’Adsl e il 6% risulta senza corrispondenze. Per quanto riguarda l’Ftth (fibra fino a casa che può permettere di guardare al Giga), la percentuale si ferma al 17%: meno di un quinto degli edifici.

Gli interventi

È all’interno di questo contesto che va letto l’intervento che il Governo ha previsto per potenziare la connettività delle scuole. A disposizione ci sono oltre 400 milioni previsti nel Piano Scuola. Il totale delle sedi scolastiche coinvolte è superiore a 32mila e, si legge sul sito del Ministero dello Sviluppo economico, «saranno connessi con banda ultralarga (fino a 1Gbps, con 100 Mbps garantiti). In particolare, il piano prevede il collegamento di tutti gli edifici delle scuole medie e superiori su tutto il territorio nazionale e, nelle “aree bianche”, anche il collegamento di tutti i plessi delle scuole primarie e dell’infanzia». I fondi del Piano scuola serviranno per coprire i costi strutturali per portare la banda ultralarga nelle istituzioni scolastiche e per coprire i costi di connettività per 5 anni. Accanto c’è tutto il capitolo dei voucher per le famiglie che saranno, invece, di due tipologie: un contributo massimo da 200 euro per connessioni veloci e un contributo massimo da 500 euro (per Isee, Indicatori della situazione economica equivalente sotto i 20mila euro) per connessioni veloci e per l’acquisto di tablet e pc. A disposizione ci sono 200 milioni. Fra istituti e famiglie è lì che ci si affida per far andare tutto liscio nella fase 2 della scuola. Che sulla possibilità di garantire adeguate attività in remoto gioca la sua partita decisiva, anche se la più incerta.

A mente accesa

da Corriere della sera

Alessandro D’Avenia

ualche giorno fa ho ricevuto queste righe amare: «Sono continuamente in autoanalisi del mio probabile “fallimento di madre” ma voglio aggiungere che se un figlio non ha un’intelligenza superiore a cui si aggiunge l’irrequietezza adolescenziale o di indole, viene classificato come “pecora nera” e il favore più grande che può fare alla scuola è ritirarsi. Risultato: l’autostima, nascosta dall’atteggiamento “niente mi tocca”, se ne va, lasciando spazio a “a scuola non vado più”. Spero che qualcuno possa aiutarlo e dirgli “bravo, dai che ce la puoi fare”, una piccola frase che ti fa sentire qualcuno e ti porta ad avere interesse verso qualcosa, a incanalare un talento (tutti lo abbiamo). Vorrei urlare: “Anche mio figlio è meraviglioso, ma non ha più voglia”, perché scoraggiato e forse umiliato. Avrei bisogno di una parola di incoraggiamento». Dal mio osservatorio professionale, posso dire che, influenzati da un’idea di felicità come successo e assenza di cadute, tanti padri e tante madri faticano a capire che «fallire», o più semplicemente fare errori, non solo è normale ma è persino auspicabile. I figli, disattendendo aspettative e desideri dei genitori: da un lato diventano liberi, cioè imparano che le loro scelte hanno conseguenze reali, dall’altro ci rendono liberi, perché solo così possiamo amarli veramente, cioè non per quello che hanno e fanno (per noi), ma perché ci sono.

Niente porta un ragazzo a migliorarsi più di sentirsi amato per come è e niente lo spinge a scoraggiarsi più di sentirsi amato per quello che dovrebbe essere. Non sto parlando di un amore che smette di educare, quello non è amore ma un comodo tradimento, parlo di una chiara presa di posizione: uno sguardo che diventa profetico perché, anche se sente le spine, sa che «oltre» c’è la rosa. I genitori possono scoprire risorse creative sorprendenti se coltivano la speranza innanzitutto in se stessi e poi si concentrano sulle qualità dei figli più che sui loro problemi. Così si spezza il circolo vizioso del senso di fallimento che viene poi proiettato sugli altri, spesso gli insegnanti, ritenuti «colpevoli» dell’insuccesso. Solo se un genitore coltiva uno sguardo pieno di fiducia e di futuro vedrà i punti di forza del figlio, fosse anche solo un aspetto molto piccolo su cui far leva. A quel punto potrà affidarlo agli insegnanti, indicando loro il punto archimedeo di crescita e l’insegnante si sentirà spinto a guardare allo stesso modo, «personale» e non solo «prestazionale». Fare l’insegnante richiede infatti, per professione (è un requisito imprescindibile), prendersi cura della vita integrale, conoscere il punto di accensione dei ragazzi, perché anche il cervello, altrimenti, rimane spento. L’inefficacia e i danni di una visione che fa coincidere l’intelligenza con gli standard del quoziente intellettivo, per fortuna, sta diventando sempre più evidente. L’intelligenza non è una prigione biologica, ma qualcosa che si fa, un’interazione di genoma, Dna, ed epigenoma, la plasticità del cervello attivata dall’ambiente (le relazioni con persone e cose). L’epigenoma agisce sul genoma in modo sistemico sin dal grembo materno e questo rende unico, in ciascuno, il modo di incontrare la realtà. E ci sono tappe in cui questo è essenziale per il futuro: prima infanzia e adolescenza. È inefficace infatti una didattica che riduce l’apprendimento alla somma di istruzione (ciò che da fuori il maestro mette dentro lo studente) e prestazione (ciò che da dentro lo studente tira fuori perché la verifica). Questa è solo una parte, e non la più importante, dell’intelligenza. Ciò che più conta, la biologia integrata di genoma ed epigenoma lo dimostra, è il movimento «da dentro a dentro» (come lo studente riesce a far suo ciò che il maestro ha già fatto suo). Questo passaggio richiede un canale relazionale aperto in cui ciascuno fa la sua parte, come la striscia abrasiva con il fiammifero: il maestro innesca e lo studente si accende. Quando il mio insegnante delle superiori mi diede un libro, dicendomi: «È il mio libro di poesie preferito, fra due settimane lo rivoglio indietro», diventai più intelligente in 14 giorni. Un ragazzo non è intelligente una volta per tutte, ma lo diventa grazie ad attivazioni relazionali e di senso. Altrimenti il suo cervello rimane spento: non è «scemo» o «limitato», semplicemente non è stato «contattato».

Lo racconta benissimo, in «A mente accesa», Daniela Lucangeli che, proprio aiutando sul campo i ragazzi in difficoltà, è diventata un punto di riferimento della comunità scientifica: raramente trovo testa e cuore così uniti e sono le persone da cui imparo di più. Non serve sentirsi falliti e in colpa, perché ci toglie energie da impegnare creativamente. Ogni bambino o ragazzo, anche il più fragile, ha un modo unico di «accendersi». Sta a noi trovarlo e innescarlo, lui farà il resto.

La nuova didattica, a distanza e in aula

da Corriere della sera

di Gianmario Verona

Chi ha il privilegio di insegnare — nel mio caso un corso universitario —in questi giorni è combattuto da una sensazione davvero paradossale. La consueta voglia di vivere la classe con l’entusiasmo e la complicità del Robin Williams dell’Attimo fuggente e, allo stesso tempo, la paura di violare le regole che giustamente ci costringono al distanziamento fisico per ridurre il rischio di contagio del Covid 19.

Si insegna quindi a distanza, con visiera o mascherina, incollati alla lavagna, con il terrore dei protocolli. I più fortunati— si fa per dire per i più conservatori! — sono anche immortalati da una telecamera che permette di seguire in streaming la lezione a chi non è in aula per una febbre stagionale o, nel caso delle università, perché magari non ha ottenuto ancora il visto da un Paese quarantenato. Ma anche tra questi «fortunati» c’è chi dispone solo di una telecamera che vincola il movimento in pochi metri violando così il principio socratico della lezione peripatetica. Insomma, ci si muove poco e si parla molto, il contrario di quello che la pedagogia insegna per stimolare attenzione e curiosità degli studenti meno attenti e più distratti.

In questa situazione di apnea accademica e scolastica siamo portati a consultare la sola bussola di cui ora disponiamo durante la lezione per capire se stiamo navigando con la giusta velocità: lo sguardo dei ragazzi mascherati. Gli occhi sono tutto, ma al di sopra di una mascherina rischiano di essere poco e niente e di nascondere il vero stato d’animo degli studenti. Insomma anche per i prof più esperti la vita nella «nuova normalità» è davvero dura!

Ma la storia ci insegna che ogni occasione tragica è fonte di innovazione. Ecco quindi che la resilienza e la creatività ci porta a sperimentare. I prof che maggiormente sentono la loro responsabilità di educatore e quelli che meglio si destreggiano con le tecnologie si inventano la classe del futuro. Anziché soffermarsi su quegli occhi, innovano come in molti hanno già fatto durante il lockdown o stanno facendo in questi primi giorni della ripresa delle attività didattiche. I più avvezzi alla tecnologia predispongono chat di classe, lanciano sistematicamente sondaggi e coinvolgono le ragazze e i ragazzi in discussioni a metà tra analogico e virtuale. Qualcun altro si inventa nuove modalità di interazione asincrone, segmentando e scaricando parte del contenuto della lezione fuori dall’aula per poi fare verifiche costanti in aula che aiutino a capire lo stato di avanzamento di tutta la classe. Altri ancora si inventano simulazioni che grazie anche alle tecnologie più banali che tutti oramai abbiamo in tasca non solo dinamizzano la lezione, ma aiutano a renderla più attiva e pratica. Insomma forzatamente innoviamo e integriamo la tecnologia in aula nel futuro perfetto che sarà in presenza, ma verrà potenziato dalla tecnologia.

La rete, se gestita con l’intelligenza e l’esperienza di un professore, presenta un serbatoio di contenuti fondamentali che sono diventate vere e proprie commodity, forse inutili da insegnare in classe. Il momento pedagogico in aula è limitato e quindi d’oro e deve essere dedicato all’approfondimento non al raccontare quanto si può già sapere attraverso altre fonti, spesso più dettagliate ed esaustive. Il momento in aula deve essere unico nel trasferire contenuti che altrove non si possono imparare e che solo l’esperienza del professore può trasferire. E deve essere dedicato alla certezza che tutti, senza alcuna forma di esclusione, crescano e non solo i più bravi che lo farebbero anche con un professore mediocre. Il professore, anche grazie all’uso sapiente del digitale, diventa così un vero coach in grado di stimolare lo studente, anche con percorsi sempre più personalizzati, in tutte le fasi dell’apprendimento.

A questo anche dovrebbero servire i quattrini del Next Gen EU fund: a migliorare la didattica nelle scuole e nelle università supportando con i giusti incentivi i tanti professori proattivi che stanno inventando nuove forme di interazione in aula con la tecnologia, ma anche favorendo la formazione di chi è meno innovatore così da aiutare lui (e quindi i suoi studenti) a capire come insegnare (e apprendere) nel nuovo futuro che ci aspetta. Solo favorendo queste innovazioni riusciremo a superare questo stadio di nuova normalità e a disegnare una nuova normalità finalmente coerente con il nostro tempo e capace di lanciare il cuore oltre l’appuntamento elettorale destinando i finanziamenti per il futuro dei bambini e dei giovani anche se oggi non sono elettori.

E così, a pandemia estinta, quando gli studenti toglieranno la mascherina e con i loro sorrisi e la loro approvazione torneranno ad aiutare i prof a portare in porto con serenità la lezione, vivremo in una scuola e un’università pensata finalmente per chi la vive avendo investito non solo in banchi ma nella nuova didattica.

Studenti: Recovery fund, primo passo per nuovo modello di scuola

da OrizzonteScuola

Di redazione

Sul Recovery Fund anche gli studenti vogliono dire la loro. Si sono ritrovati con un sit-in sotto la sede del ministero dell’Istruzione a viale Trastevere.

Con tanto di cartelli e mascherine sul volto hanno alzato la voce. Si sono messi in ginocchio – esattamente come si trovano le loro scuole – sulla gradinata di accesso all’edificio e hanno fatto notare che i 209 miliardi previsti dall’Europa sono un primo passo per un nuovo modello di scuola.

A raccontare la loro protesta è stato il sito Open con tanto di video. Si sono rivolti direttamente alla ministra Azzolina dalla quale vorrebbero essere ricevuti. Vogliono risposte concrete; la scuola così com’è va loro stretta e vogliono nuove risposte adeguate ai tempi.

La pandemia da Coronavirus ha messo in risalto ancora di più le debolezze strutturali della scuola italiana e – ora che sta intervenendo anche l’Europa con una proposta di finanziamenti – vorrebbero che le risorse fossero destinate a un nuovo modello di istruzione.

Per voce di Alessandro Personè dell’Unione degli Studenti, hanno detto: “I nostri istituti sono stati riaperti da una settimana e l’unica cosa che emerge è che le nostre scuole sono in ginocchio a causa di un piano di riapertura inadeguato”.

Hanno messo sotto accusa i trasporti ancora insufficienti, i lavori di edilizia mai partiti e l’organico mancante oltre alla didattica a distanza che invece è presente.

Non si azzardi nessuno a commentare che la soluzione a questi problemi richiedono soldi, perché gli studenti hanno la risposta pronta anche a questo: “I 209 miliardi del Recovery Fund sono un primo passo per superare i problemi strutturali che subiamo da anni. Vogliamo un incontro fra ministra dell’Istruzione, Governo e parti sociali per discutere insieme una proposta su come e dove spendere i fondi”.

Per questo motivo hanno già annunciato di essere presenti anche alla mobilitazione del 25 e 26 settembre. “Dobbiamo dare priorità alla scuola – hanno chiosato – per immaginare un nuovo modello di società”.

Supplenze graduatorie terza fascia ATA, cosa succede in caso di rinuncia o abbandono

da OrizzonteScuola

Di redazione

Supplenze ATA da graduatorie di terza fascia. Cosa succede se si rinuncia a una supplenza o se si abbandona dopo aver accettato?

Rinuncia

E’ possibile rinunciare a una proposta di contratto a tempo determinato da graduatorie di terza fascia ATA. Le conseguenze sono descritte dall’articolo 7 del Dm 430/2000 (regolamento supplenze ATA).

Al comma 1, punto B1 si legge: “La rinuncia ad una proposta contrattuale, o alla sua proroga o conferma, non comporta alcun effetto“. Non c’è pertanto nessuna conseguenza in caso di rinuncia.

Abbandono supplenza

Diverso il caso di abbandono dopo aver accettato la proposta. “L’abbandono della supplenza – si spiega al punto B2 – comporta la perdita della possibilità di conseguire qualsiasi tipo di supplenza per l’anno scolastico in corso“.

Ricordiamo che si convoca da terza fascia quando risultano esaurite le graduatorie di prima e seconda. Supplenze ATA, iniziano le convocazioni da graduatorie di terza fascia

Supplenze ATA 2020/21: spezzone orario, altra supplenza, effetti rinuncia o mancata presa di servizio. Circolare

Covid, contagi per tutto il 2021: con l’influenza stagionale rischio caos, largo a tamponi e test salivare

da La Tecnica della Scuola

Quanto tempo dovremo convivere ancora con il Coronavirus? Qualche giorno fa Massimo Galli, professore di Malattie infettive all’Università Statale di Milano e primario all’Ospedale Sacco, collegato in diretta su Rai Tre con Bianca Berlinguer, durante la trasmissione “Carta Bianca”, disse che il pericolo di contagio si protrarrà per tutto il 2021. Un’affermazione importante, che ha trovato d’accordo il viceministro della Salute Pierpaolo Silieri, presente in studio.

Minimizzare i focolai

È di queste ore un intervento dello stesso viceministro sul Covid-19: “Il virus esiste, non è scomparso”.

“Siamo concentrati sulla scuola perché – ha continuato – è ripartita, perché muove tantissime persone, famiglie e docenti, ma laddove c’è attività c’è un rischio. Noi dobbiamo minimizzare il rischio: non significa avere zero, ma minimizzarlo, arrivare vicini allo zero. La normalità è confinare i focolai, fare si che i focolai, che saranno sempre più numerosi, vengano confinati”.

Ma bisognerà anche insistere con le regole sul distanziamento, nelle scuole ma anche fuori: nel caso non fosse possibile mantenerlo, sarà fondamentale continuare ad indossare la mascherina.

Silieri: a dicembre i picchi di influenza

Silieri ha aggiunto che per “una diagnosi differenziale e una risposta veloce” per distinguere i sintomi dell’influenza stagionale da quelli del Covid “servirà un numero maggiore di tamponi, tra dicembre e gennaio, nei giorni dei picchi di casi. Avere la possibilità di fare 3-4 volte i tamponi” attuali “consentirà di fare una diagnostica rapida. Su questo dobbiamo impegnarci di più: le persone poi non possono aspettare 3-4 giorni per avere una risposta dal tampone. Il tampone deve essere fatto subito e la risposta deve esserci il primo possibile, soprattutto oggi che abbiamo riaperto le scuole”.

Ricciardi: oggi possibili 100 test

Secondo Walter Ricciardi, membro del comitato esecutivo dell’Oms e consulente del ministro della Salute Roberto Speranza, nel sempre più ampio armamentario diagnostico per individuare le persone infettate dal coronavirus ci sono ormai circa 100 test.

Lo strumento principe, ha detto Ricciardi all’Ansa, resta il tampone ma assieme ai test sierologici e a quello della saliva, le possibilità di azione si moltiplicano considerando la possibilità di avere risultati in tempi sempre più brevi.

Il test salivare

Proprio per ridurre i tempi di attesa dell’identificazione del Coronavirus, sta prendendo corpo l’ipotesi di introduzione del test veloce della saliva: il progetto è stato già fatto proprio dalla Regione Lazio, che è in attesa del via libera dell’istituto delle malattie infettive Spallanzani di Roma. E uno dei luoghi dove andrebbe adottato il test salivare sarebbero le scuole.

Come si prende il campione di saliva

Il test della saliva è in grado di rivelare in soli 3 minuti se si è positivi o meno al Sars-Cov-2 e funziona prendendo un campione di saliva con un cotton-fioc, che si appoggia sul tampone e da’ la risposta in soli tre minuti, grazie all’utilizzo congiunto di tre reagenti.

Il risultato si legge come un test di gravidanza: due strisce è positivo, una è negativo. Oltre ai costi dimezzati rispetto al tampone, ha un’affidabilità vicina al 100%.

Covid scuola, testimonianze e riflessioni sulla scuola di oggi e di domani

da La Tecnica della Scuola

“La scuola nell’emergenza …. e oltre” è il titolo del Quaderno di documentazione numero 11 realizzato dal Forum delle Associazioni del Piemonte.
Il volumetto contiene narrazioni, testimonianze, riflessioni, proposte di insegnanti, dirigenti, studenti, genitori, associazioni delle scuole piemontesi nell’anno del Covid 19.

“Al centro di tutte le narrazioni e riflessioni – spiega Gianni Giardiello, direttore del Forum – c’è la Scuola, e soprattutto la ‘scuola senza la scuola’, letta e raccontata dai suoi protagonisti principali, insegnanti, dirigenti scolastici e studenti innanzi tutto, ma anche genitori e nonni, a cui si sono aggiunti esponenti del mondo accademico, delle associazioni e della carta stampata”.

Ogni anno, proprio nel mese di settembre, il Forum organizza una Conferenza regionale della Scuola, quella di quest’anno aveva un titolo importante “Un mondo sostenibile e più giusto è possibile” e – spiega ancora Gardiello – “doveva essere una occasione per fare il punto sulle scelte culturali, pedagogiche, didattiche e organizzative di una scuola che vuole rispondere alla sfida della transizione ecologica, culturale e sociale. Temi e scelte su cui molte scuole piemontesi sono impegnate già da tempo”.
Il programma prevedeva lo svolgimento di sette seminari tematici e di una trentina di focus group con insegnanti, dirigenti, genitori e studenti di altrettante scuole e reti di scuole del territorio piemontese.
Una serie di iniziative che avrebbe permesso al Forum di raccogliere le esperienze e le proposte delle scuole da portare al confronto collegiale nella Giornata conclusiva prevista appunto per settembre.
A causa dell’emergenza Covid il Forum, di cui fanno parte le più importanti associazioni piemontesi (Cidi, Aimc, MCE, Uciim, Legambiente e altre ancora) i programmi sono stati ridimensionati.

Nelle intenzioni dei responsabili del Forum, però, la pubblicazione potrebbe fornire comunque un forte contributo al dibattito sulle questioni della sostenibilità ambientale e le sfide della transizione lette anche da punto di vista pedagogico, educativo e scolastico.
Nell’attesa, ovviamente, di rinviare a settembre del 2021 il consueto confronto annuale.

Nota 21 settembre 2020, AOODGSIP 2414

Ministero dell’Istruzione
Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e di formazione
Direzione Generale per lo Studente, l’Inclusione e l’Orientamento scolastico

Ai Dirigenti Scolastici delle scuole secondarie di II grado
e pc. Ai Direttori Generali degli Uffici Scolastici Regionali LORO SEDI
All’Intendenza scolastica per la lingua italiana – BOLZANO
All’Intendenza scolastica per la lingua tedesca – BOLZANO
All’Intendenza scolastica per la lingua ladina – BOLZANO
Alla Provincia Autonoma di Trento Servizio istruzione – TRENTO
Al Sovrintendente degli studi per la Regione Valle D’Aosta AOSTA

Oggetto: Selezione di n. 12 docenti di Storia/Italiano delle scuole superiori di II grado, per il webinar “The Holocaust as a Starting Point – 3rd edition”. Ottobre 2020.

Nota 21 settembre 2020, AOODGPER 28730

Ministero dell’Istruzione
Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e di formazione
Direzione generale per il personale scolastico – Ufficio VI
Formazione del personale scolastico, formazione dei dirigenti scolastici e accreditamento enti

Ai Direttori generali degli Uffici Scolastici Regionali

Oggetto: Periodo di formazione e prova per i docenti neoassunti e per i docenti che hanno ottenuto il passaggio di ruolo. Attività formative per l’a.s. 2020-2021.