L’obbligo di vaccino anti Covid negli ambienti di lavoro:
più dubbi che certezze
di Gianluca Dradi
A seguito del recentissimo inizio della campagna vaccinale anti Covid-19 e delle notizie di stampa sull’indisponibilità a sottoporsi alla vaccinazione, manifestata da alcuni lavoratori delle residenze protette per anziani, si è aperto un dibattito sulla possibilità che i datori di lavoro, pubblici e privati, possano imporre questa misura ai propri dipendenti anche in assenza di una legge che preveda l’obbligo di vaccinazione.
Sul tema i giuristi Pietro Ichino (https://tg24.sky.it/salute-e-benessere/2020/12/29/covid-vaccino-lavoro) e Raffaele Guariniello (https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/sicurezza-del-lavoro/quotidiano/2020/12/28/covid-19-azienda-obbligare-lavoratori-vaccinarsi) hanno ipotizzato la possibilità di licenziamento dei lavoratori che non si sottopongono a vaccinazione.
La questione pone delicati e complessi problemi che attengono alle libertà costituzionali, al diritto alla salute degli individui e della collettività, ai doveri dei datori di lavoro e dei lavoratori.
E la problematica, seppur nata in ambiente socio-sanitario, può investire tutti quei luoghi di lavoro in cui, in conseguenza della numerosità e contiguità dei soggetti che vi operano o che comunque sono presenti, è più facile la propagazione del virus e nei quali, inoltre, si pone un delicato rapporto tra diritti dei lavoratori e responsabilità degli stessi nei confronti degli utenti del servizio.
Come è intuibile, quindi, la questione può riguardare anche le istituzioni scolastiche.
Il punto di partenza del ragionamento è dato dall’art. 32 della Costituzione che, nel delineare, in tema di salute, il bilanciamento tra diritto dell’individuo (anche all’autodeterminazione) ed interesse della collettività, precisa che «nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge».
La norma contiene un’evidente riserva di legge statale per la disciplina dei trattamenti obbligatori, tra i quali certamente rientrano i vaccini.
Ma, si sostiene, nell’ambito lavorativo la fonte giuridica di questo obbligo esiste già da tempo ed è individuabile, oltre che nell’art. 2087 del codice civile (che onera il datore di lavoro ad adottare «tutte le misure suggerite dalla scienza e dall’esperienza, necessarie per garantire la sicurezza fisica e psichica delle persone che lavorano in azienda»), essenzialmente nell’art. 279 del Testo unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (D.Lgs. 81/2008).
Tale norma, infatti, si occupa espressamente della vaccinazione nei luoghi di lavoro, prevedendo l’obbligo, su proposta del medico competente, di somministrare vaccini efficaci ai lavoratori che non siano già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione.
In proposito è opportuno ricordare che una direttiva dell’Unione europea risalente al 3 giugno scorso ha classificato il Sars-Cov-2 come uno degli agenti biologici che possono causare malattie infettive nell’uomo e che, a seguito del recepimento di tale direttiva nel nostro ordinamento, operata con l’art. 4 del DL 125/2020 (convertito con L. 159 del 27.11.2020), è stato modificato anche l’allegato 46 del TUSL, inserendo il Sars-Cov-2 tra gli agenti biologici del gruppo 3 ossia, stante quanto previsto dall’art. 268 del TUSL, tra quelli che possono «causare malattie gravi in soggetti umani e costituisce un serio rischio per i lavoratori» e che possono «propagarsi nella comunità, ma di norma sono disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche».
Ed oggi, appunto, è iniziata la campagna vaccinale.
Ove, dunque, si possa affermare che nell’ambiente di lavoro esiste già l’obbligo vaccinale, semprechè concretamente previsto dal datore di lavoro, certamente i dipendenti sarebbero tenuti ad osservarlo, posto che l’art. 20 TUSL prevede espressamente che «ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni» conformemente alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro. E l’inosservanza dell’obbligo è fonte di responsabilità disciplinare e penale (art. 59), comportando inoltre un giudizio (del medico competente) sull’idoneità del lavoratore alle mansioni assegnate, da cui può conseguire un mutamento di mansione “ove possibile” (art. 42) e quindi, quali ipotesi estrema, anche il licenziamento.
E tuttavia, prima di interrogarsi sulle conseguenze che possono derivare sui lavoratori inadempienti, occorre ragionare su ciò che sta a monte, ossia sul fatto se oggi, a seguito dell’espressa individuazione del Sars-Cov-2 quale fattore di rischio e della circostanza che l’art. 42 del DL 18/2020 qualifichi espressamente il contagio da Covid-19 in ambito lavorativo come infortunio sul lavoro, esista l’obbligo, per il datore di lavoro, di prevedere nel documento di valutazione dei rischi (DVR) la misura protettiva consistente nella somministrazione dei vaccini.
Il titolo X del D.Lgs. 81/2008 è dedicato all’esposizione dei lavoratori agli agenti biologici. Ed il primo obbligo, dal punto di vista logico, è appunto quello della valutazione del rischio, nel caso di specie disciplinata dall’art. 271.
Il primo dubbio che sorge, però, è la portata dell’obbligo di valutazione del rischio: le previsioni in materia di salute e sicurezza sono finalizzate a prevenire i rischi professionali (art. 2, comma 1, lett. n del TUSL) derivanti dal luogo di lavoro, o anche quelli esterni non eziologicamente collegati all’organizzazione produttiva ?
Benchè il tema trovi in dottrina e giurisprudenza risposte non univoche, è prudente fare riferimento all’approccio più rigorista, rappresentato, ad esempio, da Cass. sez. lav. 8486/2013 che, con riferimento al danno subito da un dipendente di banca a seguito di una rapina, ha stabilito che «il datore deve adottare tutte le misure idonee a prevenire sia i rischi insiti nell’ambiente di lavoro, sia quelli derivanti dall’azione di fattori ad esso esterni e inerenti al luogo in cui tale ambiente si trova, alla luce della miglior scienza ed esperienza».
Inoltre, come specificato da Cass. pen. 44142/2019, l’onere di valutazione dei rischi ha come punto di riferimento non solo chi riveste la qualifica di lavoratore, ma anche i terzi che si trovino nell’ambiente di lavoro, indipendentemente dall’esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell’impresa, purchè la loro presenza nel luogo non abbia carattere di eccezionalità. E questo non sarebbe certo il caso dei pazienti di una struttura sanitaria o degli studenti in una scuola.
Nondimeno, per quanto la giurisprudenza tenda ad ampliare l’ambito dei rischi oggetto di esame va, in ogni caso, precisato che, sul tema specifico del rischio biologico, l’art. 279 TUSL prevede la messa a disposizione dei vaccini riferiti «all’agente biologico presente nella lavorazione».
E certamente, salvo alcune tipologie di attività (menzionate nell’allegato 44 del TUSL), il rischio da Covid-19 costituisce un rischio generico di origine esogena rispetto all’ambiente di lavoro: così, ad esempio, espressamente si esprime il Protocollo d’intesa per garantire l’avvio in sicurezza dell’anno scolastico, siglato in data 6.08.20.
Ulteriore questione connessa: che ruolo hanno, ai fini dell’individuazione delle necessarie misure prevenzionali, il “protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Sars-Cov-2 negli ambienti di lavoro”, sottoscritto tra governo e parti sociali il 24.04.20, nonché i vari protocolli di sicurezza anti contagio nei diversi settori produttivi, menzionati dall’art. 1 del DL 19/20 e dall’art. 1 del DL 33/20, nonchè allegati ad ogni DPCM ?
Tra essi ben può menzionarsi, per il mondo della scuola, il già citato Protocollo per l’avvio dell’anno scolastico.
Misure comuni a tutti i protocolli sono l’obbligo di integrazione del DVR, la sorveglianza sanitaria, la formazione del personale, l’adozione di dispositivi individuali di protezione (per l’ambito scolastico si indicano le mascherine, i gel disinfettanti, i guanti, i dispositivi di protezione degli occhi e del viso), ma, nella generalità dei casi, non si prevedono obblighi di vaccinazione.
La questione, affrontata dal punto di vista degli obblighi datoriali, non è irrilevante posto che l’art. 29 bis del DL 23/20, introdotto in sede di conversione in legge, dispone che «ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni» contenute nel citato protocollo condiviso del 24.04.20, nonché negli altri protocolli e linee guida.
La finalità della norma è quella di perimetrare l’obbligo datoriale di garanzia, in tema di Covid-19, all’adempimento delle prescrizioni contenute nei protocolli e, pertanto, la circostanza che essi non contemplino la misura del vaccino, non può non riverberarsi sulla pretendibilità della previsione di tale misura da parte dei datori di lavoro.
A conclusione di questo ragionamento si pone, peraltro, il tenore letterale dell’art. 279 che prevede «la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente».
Come evidente, oggi non siamo in questa situazione perché tutta la procedura del piano vaccinale è esclusivamente in mano alle autorità sanitarie pubbliche.
Ma quand’anche così non fosse, un ultimo dubbio grava sull’effettiva percorribilità della tesi prospettata dai fautori dell’obbligo; ed è quello collegato alla riserva di legge prevista dall’art. 32 della Costituzione. Secondo la prevalente dottrina essa imporrebbe una specifica previsione del singolo trattamento (affinchè sia rispettata la ratio dell’aggettivo “determinato” indicato nella norma) e quindi ci si deve chiedere quanto possa essere compatibile con tale principio l’opzione secondo la quale la valutazione sul se vaccinare e sulla tipologia del vaccino possa essere rimessa agli apprezzamenti dei medici competenti delle diverse realtà produttive. In tal caso ogni datore di lavoro potrebbe adottare misure diverse, frutto di diversificate valutazione dei rischi, quando invece il problema del Sars-CoV-2 è un problema di salute pubblica che riguarda l’intera collettività e che richiede pertanto una valutazione unitaria ed una profilassi omogenea su tutto il territorio nazionale, posto che -salvo specifiche realtà produttive (ad esempio i laboratori clinici e diagnostici)- il rischio non nasce nei luoghi di lavoro, limitandosi gli stessi ad essere una tra le tante occasioni di contagio e trasmissione.
Se, come giustamente osservato da Ambrosetti-Carraro (Emergenza coronavirus e profili penali: “fase 2” sicurezza sul lavoro, in Resp. civ. e previdenza, fasc. n.3/20), «il lavoratore non viene esposto al rischio da contagio SARS-CoV-2 a cagione del lavoro, ma, piuttosto, egli è esposto a tale rischio anche nel luogo di lavoro, con la conseguenza di porre in evidenza come le misure predisposte dalla Pubblica Autorità si manifestino destinate a tutelare la popolazione (anche) nei luoghi di lavoro (e non dai luoghi di lavoro)», appare allora più opportuno che sia lo Stato a valutare il rischio rappresentato dal virus ed individuare le misure di prevenzione, ivi compresa l’eventuale previsione di un obbligo vaccinale.
Ciò appare tanto più vero alla luce della pronuncia della Corte Costituzionale n. 5/2018, che ha respinto le eccezioni di costituzionalità della legge del 2017 sugli obblighi vaccinali per l’accesso ai servizi scolastici, affermando che la scelta del legislatore, in una situazione in cui lo strumento della persuasione appariva carente sul piano dell’efficacia, ha ragionevolmente bilanciato i molteplici valori costituzionali coinvolti esercitando correttamente la propria discrezionalità nella scelta della modalità obbligatoria con la quale assicurare una prevenzione efficace delle malattie infettive.