Legge di bilancio per il 2021

La posizione dell’ANP sulla legge di bilancio per il 2021

La legge 178/2020 ha previsto numerosi investimenti per la scuola, segnando un cambio di passo rispetto a quanto avvenuto negli ultimi anni. Tuttavia, si tratta di risorse ancora insufficienti a garantire il recupero del gap, strutturale e infrastrutturale, accumulatosi nei decenni in un settore così nevralgico per lo sviluppo del Paese. 

Prendiamo atto delle misure relative all’incremento dell’organico dei docenti di sostegno e di potenziamento della scuola dell’infanzia e dell’estensione delle attività di formazione sull’inclusione a tutto il personale docente.  La prima misura, infatti, tende a garantire continuità e stabilità alle attività didattiche rivolte agli studenti con disabilità e, per quanto concerne la scuola dell’infanzia, a sopperire con maggiore tempestività alle assenze brevi e saltuarie del personale. La seconda costituisce un primo significativo passo verso l’adozione di un piano di formazione “permanente strutturale e continuo” per una reale innovazione didattica in chiave effettivamente inclusiva. Sul primo profilo, tuttavia, attendiamo che sia data attuazione, mediante apposito decreto ministeriale, alla disposizione di cui all’art. 14, comma 3, del d.lgs. 66/2017 che prevede che al fine di agevolare la continuità educativa e didattica di cui al comma 1 e valutati, da parte del dirigente scolastico, l’interesse della bambina o del bambino, dell’alunna o dell’alunno, della studentessa o dello studente e l’eventuale richiesta della famiglia per i posti di sostegno didattico, possono essere proposti, ai docenti con contratto a tempo determinato per i posti di sostegno didattico possono essere proposti e con titolo di specializzazione per il sostegno didattico di cui all’articolo 12 ulteriori contratti a tempo determinato nell’anno scolastico successivo, ferma restando la disponibilità dei posti e le operazioni relative al personale a tempo indeterminato, nonché quanto previsto dall’articolo 1, comma 131, della citata legge n. 107 del 2015. 

Auspicata era anche la stabilizzazione di mille assistenti tecnici nelle scuole del primo ciclo, disposizione che recepisce l’esigenza di supportare le scuole del primo ciclo nel rapido processo di innovazione tecnologica che la fase emergenziale sta accelerando. 

Rileviamo con soddisfazione che la legge ha recepito un’istanza che l’ANP ha sempre rappresentato: l’abbassamento dei parametri per il dimensionamento delle istituzioni scolastiche. Si tratta di un interventonell’ambito della razionalizzazione e della programmazione della rete scolastica per il solo anno scolastico 2021-2022 che risulta funzionale alla tenuta del sistema scolastico in un anno che risentirà, inevitabilmente, delle conseguenze dell’attuale situazione emergenziale. 

Non condividiamo, invece, le scelte che non consentono di ridare centralità vera alla scuola.  

In vari documenti abbiamo individuato le aree strategiche sulle quali sarebbe stato necessario intervenire con misure di impatto a medio e lungo termine.  

Sull’edilizia scolastica, ad esempio, risultano stanziate risorse aggiuntive, ma queste appaiono frammentate in misure di carattere per lo più emergenziale che non consentono di pianificare una progressiva e sistematica messa in sicurezza degli edifici. La gravissima e prevedibile continuità con cui crollano solai e controsoffitti avrebbe dovuto richiedere decisioni più incisive. Sorprende poi che vengano investiti 40 milioni di euro per la costruzione di scuole innovative nei comuni con una popolazione inferiore a 5.000 abitanti delle regioni Abruzzo, Campania, Molise, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna con l’obiettivo anche di contrastare lo spopolamento dei piccoli comuni del Mezzogiorno. A nostro avviso, non solo non si coglie una visione di ampio respiro sulla strutturazione di ambienti di apprendimento adeguati a una didattica innovativa e a lezioni non frontali, ma non si comprende neppure come questa misura possa contrastare uno spopolamento determinato, in realtà, non certo dall’appeal degli edifici quanto piuttosto dalla denatalità e da condizioni economiche di svantaggio che hanno innescato, e continuano ad alimentare, flussi migratori interni ed esterni al Paese.  

Inoltre, il comma 810 dell’articolo 1 destina i fondi già stanziati dalla legge 160/2019 per altri fini, ma senza incrementarli, anche a interventi di cablaggio nelle scuole di province e città metropolitane. Questa misura, peraltro riguardante solo le scuole del secondo ciclo, risulta inadeguata allo scopo poiché non incide sulle reali problematiche evidenziate dalla didattica a distanza – che ha enfatizzato e, in taluni casi, aumentato la povertà educativa – e non prevede il cablaggio a banda larga come prioritario rispetto alle altre finalità individuate. 

Constatiamo anche che nel testo di legge manca qualsiasi riferimento ad alcuni interventi che, a nostro parere, risulterebbero determinanti per una scuola basata su una nuova visione di sviluppo e di miglioramento, ovvero risorse da utilizzare nel rinnovo del CCNL del comparto per l’introduzione del livello contrattuale dei quadri, cioè figure intermedie tra il ruolo del docente e quello del dirigente, e la piena valorizzazione del personale docente anche attraverso l’istituzione di una specifica carriera. 

Se, infine, è senz’altro positivo lo stanziamento di 25,8 milioni di euro nel 2021 per il FUN 2019/2020 dei dirigenti scolastici da destinare alla copertura delle maggiori spese sostenute nell’anno scolastico 2019/2020 in conseguenza dell’ultrattività dei CIR 2016/2017, dall’altra osserviamo che si tratta di una ulteriore misura ispirata a una visione emergenziale e non strutturale e, come tale, non  idonea a incrementare stabilmente le risorse che confluiscono nel FUN per dare finalmente certezza alla retribuzione dei dirigenti scolastici negli anni a venire. Né, tantomeno, rileviamo misure che consentano di proseguire efficacemente l’azione di armonizzazione della retribuzione dei dirigenti della scuola con quella degli altri dirigenti dell’area “istruzione e ricerca”. Permane, dunque, una distanza iniqua e irragionevole, specie se riguardata alla luce delle responsabilità e dei compiti gravanti sulla dirigenza delle scuole chiaramente evidenziati dall’attuale emergenza. 

Siamo ben consapevoli del fatto che questa emergenza sia l’ineludibile sfondo di questa legge di bilancio. Ma dobbiamo constatare, ancora una volta, che la politica non riesce a compiere scelte di campo coraggiose e prospettiche che delineino per il futuro, proprio a fronte delle incertezze del presente, un nuovo perimetro di azione per le istituzioni scolastiche. L’emergenza, in altri termini, ha chiaramente dettato delle opportunità che purtroppo la legge di bilancio non ha pienamente colto. 

Anche – e soprattutto – nella burrasca, la sola navigazione a vista non è sufficiente. 

Una luce in fondo al tunnel?

Una luce in fondo al tunnel?

SuperAbile INAIL del 05/01/2021

Dad sì o Dad no? Ovvero: quando la didattica in presenza può trasformarsi in problema? Quali strategie adottare per far sì che non lo diventi?

Vi ricordate la canzone vice-vincitrice del Festival di Sanremo ‘96, La terra dei cachi, di Elio e le Storie Tese?  Canticchiandola, e riflettendo in questi ultimi giorni sulle questioni relative alla cosiddetta didattica a distanza, non poteva che sorgere spontanea la domanda: “DAD si o DAD no?”. 
Senza soffermarmi troppo sui discorsi legati alle criticità delle lezioni on line, credo sia opportuno trattare la questione anche dall’altro lato della medaglia: quando la didattica in presenza può trasformarsi in problema? Quali strategie adottare per far sì che non lo diventi? Così, in questo periodo di sospensione delle lezioni che vedono l’attivazione (parziale o totale) della didattica digitale integrata, diventa complesso per i docenti avanzare  delle proposte che siano adeguate anche per gli studenti con disabilità, rispettando quindi la prerogativa di una piena inclusione scolastica.
Come si legge sul portale  La tecnica della scuola, la nota del ministero dell’Istruzione dello scorso 5 novembre specifica che è possibile garantire tale peculiarità “attraverso l’attivazione di tutte le forme di raccordo e collaborazione possibili con gli altri enti responsabili del loro successo formativo […] per tutti i contesti ove si svolga attività in DDI, deve essere richiamato il principio fondamentale della garanzia della frequenza in presenza per gli alunni con disabilità”.
E che dire del fatto che molte scuole siano rimaste aperte in via esclusiva per questi alunni e per i loro insegnanti di sostegno? É una situazione paradossale che ha sollevato non poche polemiche. Addirittura, c’è chi grida al ritorno delle “famigerate” scuole speciali! Posso dire che, avendone frequentate tante (dalle classi differenziali a quelle post legge 517 del 1977), questa è certamente una posizione estrema.
Ma come ci spiega Dario Ianes, professore universitario di Pedagogia e Didattica Speciale e co-fondatore del Centro Studi Erickson di Trento, si tratta di una scelta che rivela “una visione a tunnel”.
Come è possibile vedere la luce in fondo a questo tunnel? 
Continua Ianes, in una intervista per Redattore Sociale: “[…] nelle situazioni di chiusura, alcune categorie di alunni dovrebbero avere la priorità nella presenza in classe, per esempio anche coloro che hanno i genitori medici o infermieri. Si può creare insomma un gruppo misto di studenti che entrano a scuola […]. Quello che però dobbiamo salvaguardare e rispettare è il principio fondamentale dell’inclusione: l’eterogeneità”.

Un’altra soluzione che ritengo estremamente valida è quella della “cordata degli alunni”, avanzata dall’Università di Bolzano, nel corso di Pedagogia dell’Inclusione secondo la quale i ragazzi, alcuni in presenza e altri a distanza, possono cooperare condividendo informazioni e materiali. Qualora sia l’insegnante di sostegno a dover supportare l’alunno in difficoltà presso il proprio domicilio, è fondamentale che questa figura diventi un “ponte” tra il contesto familiare e scolastico, e che quindi attraverso le proprie competenze renda fruibili allo studente e ai suoi familiari le tecnologie assistive impiegate nella DDI, mantenendo una linea educativa comune con gli altri docenti.  n altre parole, l’insegnante di sostegno non deve diventare riferimento esclusivo ed escludente l’alunno/a con disabilità. 
Secondo voi, dunque, quali sono i pro e i contro di ambo i lati della medaglia? Scrivete a claudio@accaparlante.it oppure sulla mia pagina Facebook o Instagram.

di Claudio Imprudente

DaD: esperienza e competenza in-separabili in-rete

DaD: esperienza e competenza in-separabili in-rete

di Virginia Dall’Ó

Dal report di INDIRE sulle pratiche didattiche durante il lockdown emergono percentuali crescenti di DaD dalle elementari alla secondaria con l’utilizzo principalmente di: Google meet (66,5%), posta elettronica (65,6%), WhatsApp (61,7%) e con l’alternarsi di lezioni in videoconferenza (circa 95%), assegnazione di risorse per lo studio ed esercizi (circa 80%) accompagnati da .una valutazione esterna effettuata dal docente (85% in media)

 “Content is the king”? 1

Per un’azione didattica orientata alla formazione integrata della persona in un ambiente esteso di apprendimento (vedi link) tutto ciò di certo non basta;occorre strutturare l’articolazione degli interventi didattico-disciplinari in modo che presenza e distanza siano vasi comunicanti  e conducano alla riflessione sulla prassi.   

Se si vuole che conoscenze e competenze agiscano sulla formazione della persona vanno operate precise scelte didattiche nell’insegnamento disciplinare sulla base di valori etici. Non si tratta tanto di definire condotte di apprendimento etiche nelle dichiarazioni d’intenti, nominalmente, quanto di far riferimento ad approcci e strategie centrati sul soggetto che apprende tra pari, in situazioni cooperative e collaborative, in ambienti aperti e tecnologici. Situazioni in cui la crescita della consapevolezza dei propri “gesti mentali” possa svilupparsi senza soluzione di continuità in presenza e in rete.

Poiché comprendere significa apprendere insieme, com-prehendere = cogliere insieme (il testo, il suo contesto, le parti, il tutto, il molteplice, l’uno) l’ambiente tecnologico va  didatticamente inteso come uno “spazio formativo laboratoriale” dove realizzare attività altrimenti non sperimentabili.

Nel definire gli ambienti e le occasioni di apprendimento va tenuto conto del fatto che le competenze si acquisiscono e si sviluppano in contesti educativi diversi tra loro ma indissolubilmente intrecciati: quelli formali (la scuola), quelli non formali (famiglia, media, organizzazioni culturali e associative..) e quelli informali (la vita sociale nel suo complesso). Tali contesti, che per loro stessa natura sono in-separabili, incidono costantemente sull’apprendimento e non possono essere ignorati dall’insegnante, pena la “separatezza” della scuola dal resto del mondo.

Non a caso sin dal 2001 l’U.E. afferma che nei processi d’insegnamento-apprendimento essi vanno intenzionalmente riconosciuti e ricondotti a sistema. Ma si sa che l’intenzione, essendo un atto libero del soggetto, non può prevedere dispositivi che la provochino meccanicamente e pertanto non è propriamente insegnabile: la sua trasmissione avviene attraverso l’esempio rivolto alla persona. 

L’intenzionalità formativa dell’insegnante verso una “competenza agita” deve quindi tendere a generare una formae mentis mirata ad un’attenzione continua e progettuale ad un campo definito (la disciplina) in un dato contesto, in un dato tempo, in una data società. 

E poiché nel mondo reale le azioni si sviluppano dentro un preciso e strutturato contesto ambientale, dove le identità personali e sociali sono organizzate in modo dinamico intorno ad un insieme di interessi e sfide che coinvolgono simultaneamente tutte le dimensioni umane, compito dell’insegnante è quello di “offrire ospitalità” agli allievi inserendoli in contesti similari, nel presupposto di fondo, come dice Levy, che “solo l’ esercizio vivente in situazione dà alle conoscenze il loro senso e il loro valore” 

Le attività didattiche vanno allora incentrate sullo “studio di casi”, di natura disciplinare e/o interdisciplinare, situazioni problematiche intorno alle quali far ruotare le attività e i “compiti”2, ben sapendo che l’insegnamento che si avvale della tecnologia non si sviluppa affatto secondo l’ordine tradizionale (sistematico, lineare e sequenziale) ma si innesta su un “disordine” ipermediatico che solo un’expertise di bricolage della conoscenza distribuita può ricondurre a formazione. 

In altri termini occorre dar vita ad una comunità di apprendimento e di pratica3 in ambienti cognitivi estesi e tecnologici, dove poter sperimentare attraverso i costrutti disciplinari le regole e i meccanismi delle comunità reali. 

Un ambiente “ di prossimità” in cui sia possibile: 

  • Mettere in trasparenza l’apprendimento non formale e informale. Ciò è tanto indispensabile quanto ineludibile se si tiene conto che gli allievi stessi non hanno piena consapevolezza delle competenze acquisite fuori dalla scuola, essendo queste il corollario della vita quotidiana. Dare visibilità a questi apprendimenti è il primo passo per far riconoscere come proprie le competenze maturate e poterle poi valorizzare all’interno di apprendimenti formali quali  significativi apporti al bagaglio personale;
  • Riconoscere l’apprendimento come struttura emergente dal un contesto dove, a livelli crescenti di complessità, l’autonomia decisionale e  progettuale degli allievi ha modo di esplicarsi nel reciproco rispetto e in piena responsabilità: con consapevolezza. Sappiamo tutti che ciò che si acquisisce in un particolare settore può essere riutilizzato in un altro, ma nell’intenzionalità educativa dell’insegnante va tenuto conto che tutto ciò avviene solo a una condizione: che il soggetto stesso sia consapevole delle competenze possedute (non importa dove acquisite) e della loro trasferibilità ad altri contesti..  

L’inserimento dell’apprendimento formale, non formale e informale in un unico contesto cognitivo deve però avvenire senza soluzione di continuità tra il “dentro e fuori” la scuola, tra il reale e il virtuale, tra il singolo allievo e il gruppo.

Ciò è possibile con un’organizzazione strutturata- su problemi e i metodi disciplinari – ma flessibile dell’ambiente di apprendimento, formulata in risposta  ai bisogni formativi degli allievi e a questi continuamente adattabile: una “microstruttura didattica”  in grado di attivare e mantener viva- attraverso i costrutti disciplinari- l’interazione degli allievi con l’ambiente fisico e tecnologico, sociale ed emotivo nel quale si trovano ad operare e a stimolare processi di autoregolazione.

La dinamica formativa che si sviluppa in aula e/o in rete senza soluzione di continuità tra i due ambienti genera un processo d’insegnamento-apprendimento circolare e ricorsivo, incardinato su quattro momenti topici:

  1. Lavoro di gruppo (esperienza concreta sullo studio del caso in esame)
  2. Intergruppo (esternalizzazione, osservazione e riflessione)
  3. Sistematizzazione (formazione di concetti astratti)
  4. Verifica formativa (applicazione a nuove situazioni problematiche)

La riflessione sul percorso effettuato e la costruzione del portfolio (di gruppo e personale) completano ogni ciclo di apprendimento.

Sul WEB la community  di classe, suddivisa in piccoli gruppi, opera in spazi dedicati, che consentono di diversificare la tipologia di cooperazione tra i pari e di differenziare le strategie di collaborazione dell’intero percorso laboratoriale: aree di gruppo con chat e forum interni per il confronto sull’analisi dei casi // repositorydei lavori di gruppo e personali // forum e chat generali e tematici //archivi bibliografici e sitografici  per gli approfondimenti // portfolio personale e di gruppo per la co-valutazione e l’autovalutazione. 

Nella gestione della community l’insegnante viene così ad assumere la veste di agente di sinergia” dei flussi di sapere.


  1. [Bill Gates]
  2. Il compito è inteso come ”insieme di consegne, scopi, contenuti, risorse, ruoli, aspettative” (Carovita e Logorio,2004) .
  3. Le comunità di pratica sono costituite da tre elementi fondamentali ; 1) domain (campo tematico), esso crea un contesto e un comune senso di identità ; 2) community, che crea il tessuto sociale dell’apprendimento; 3)Practice, cuore della comunità, un complesso di idee, strumenti, informazioni, espressioni, lessici, vicende e materiali che i membri della comunità condividono.

Vaccino, “priorità alle persone con sindrome di Down e disabilità intellettive”

Vaccino, “priorità alle persone con sindrome di Down e disabilità intellettive”

Redattore Sociale del 05/01/2021

ROMA. “Vaccinare al più presto le persone con sindrome di Down e disabilità intellettive, per proteggerle da un virus che le espone a un rischio di contagio maggiore rispetto ad altri e le cui conseguenze possono essere ancora più pesanti”. Lo chiedono AIPD, ANFFAS e Coordown, in una lettera che i rispettivi presidenti hanno inviato ai principali referenti istituzionali: il premier Conte, il ministro della Salute Speranza, il presidente della Conferenza delle Regioni Bonaccini, il commissario per l’emergenza Arcuri, il presidente dell’Iss Brusaferro e il direttore generale dell’Aifa Magrini. Le associazioni vogliono così “condividere alcune informazioni, di recente acquisizione nella letteratura scientifica, che interessano le persone con sindrome di Down”. Si legge nella lettera:
“L’ attuale pandemia ha fortemente colpito il nostro Paese ed il rischio di contagio e di decesso ha modificato ogni nostro ritmo di vita. Le persone con tutte le disabilità, ma in particolare quelle con disabilità intellettiva che non si autodeterminano o non sono in grado di esprimere i loro bisogni, hanno pagato un prezzo molto alto insieme alle loro famiglie. Il Sistema Sanitario Nazionale ha certamente offerto quanto di meglio poteva, operando con uno encomiabile sforzo e dedizione da parte dei sanitari che hanno messo a rischio la loro stessa salute e vita, ma la pandemia ha messo in evidenza, e non creato, una criticità nel sistema di cura soprattutto ospedaliero, che da tempo viene denunciato dai caregiver e dalle associazioni: la mancanza di un protocollo che preveda, per le persone incapaci di leggere in modo critico il contesto di cura in cui si vengono a trovare in ambiente ospedaliero, un percorso dedicato, specifico, che fornisca sostegni adeguati a de-codificare la sofferenza di queste persone, con la presenza di un caregiver, che possa mediare la relazione con l’ambiente e in questo modo anche defaticare il sistema di cura e rendere più efficaci i percorsi terapeutici e riabilitativi per le persone con disabilità intellettive.
E’ stato poi recentemente documentato, da uno studio condotto dalla Società Scientifica Internazionale T2lRS sulla relazione tra COWD 19 e Sìndrome di Down e da un altro che ha coinvolto anche l’Istituto Superiore di Sanità, che le patologie da alterato funzionamento del sistema immunitario, le cardiopatie, la sindrome da apnee ostruttive, I’obesità, la demenza e il diabete, tutte comorbidità presenti spesso nella SD, favoriscono il contagio, le complicanze e il decesso delle persone con SD. Questa maggiore severità del COVID 19 nella SD interessa prevalentemente la popolazione oltre i 40 anni, ma anche i giovani dai 16 anni in poi, nel caso siano affetti dalle patologie sopra esposte, con una incidenza 3-4 volte maggiore rispetto alla popolazione senza SD. I ricercatori della T2LRS concludono che, data la fragilità in termini di salute insita nella sindrome stessa, le persone con SD richiedono un’attenzione nei percorsi di cura e di ospedalizzazione ed hanno ‘fortemente ” raccomandato di considerare per le persone con SD oltre i 40 anni una priorità nel Piano delle vaccinazioni.
Anche il Joint Committee on Vaccination and Immunisation del Regno Unito ha indicato questa priorità, rivolta non solo alle persone con SD che sono in situazione dì istituzionalizzazione e anziani, ma anche per tutti quelli che vivono a domicilio, portatori dei quadri clinici che incrementano il rischio e comunque per quelli di ogni età dai 16 anni in su. A questa richiesta di assicurare la priorità di vaccinazione alle persone con SD si uniscono un gruppo di ricercatori e clinici dedicati allo studio e alla cura della sindrome, che hanno condiviso le attuali ricerche nazionali ed internazionali”. 
Le associazioni segnalo anche le adesioni da parte di numerosi studiosi alla richiesta, insieme alla bibliografia delle fonti scientifiche internazionali a cui le associazioni fanno riferimento. E chiedono un incontro con i destinatari della lettera, per poter illustrare e approfondire queste richieste, “consapevoli della condizione dei nostri figli e congiunti che manifestano purtroppo tutta lo loro fragilità rispetto al Covid-19 e a tutela della loro non autodeterminazione in ambito di salute e del loro diritto alle cure nel rispetto delle scelte individuali e delle loro famiglie”.

Orari mutevoli per una assenza costante

Orari mutevoli per una assenza costante

di Alessandra Condito

Nella giornata di ieri, la stessa in cui, a sera tarda, il governo decideva il posticipo della didattica in presenza dal 7 all’11 gennaio per le scuole superiori, pubblicavo sul sito della scuola questa immagine.

Salvador Dalí, La Persistenza della Memoria, 1931

Dovendo divulgare i nuovi orari in vigore dal 7 gennaio a seguito delle disposizioni prefettizie, la tela di Dalí mi sembrava particolarmente evocativa.

Non sono una esperta d’arte e non mi avventurerò in letture simboliche dell’opera, ma confesso che sono stata tentata di sottotitolare l’immagine con queste parole: orari mutevoli per una assenza costante.

Del resto non occorreva essere fini analisti per immaginare che, dopo il lavoro che ci ha visti impegnati, durante le festività natalizie, a riformulare gli orari di tutte le classi per contribuire alla riduzione della popolazione scolastica sui mezzi pubblici, tutto sarebbe stato, ancora una volta, posticipato se non addirittura reso completamente vano.

Sia ben chiaro, non è del lavoro svolto dalla scrivente, dallo staff e dalla commissione orario tra il Natale e il Capodanno che voglio parlare, né tanto meno lamentarmi. Lo troverei non solo superfluo ma addirittura immorale, in tempi in cui il personale sanitario è impegnato in turni massacranti e in giorni in cui il lavoro molti lo hanno perso o stanno per perderlo in via forse definitiva.

Ciò di cui voglio scrivere è altro. Vorrei, per un attimo, che si provasse a discutere intorno alla parola “progettazione”.

Una delle prime cose che ti insegnano, se si è fortunati, o che impari sul campo, quando ti occupi di formazione, indipendentemente dal ruolo, gestionale o di insegnamento, è la capacità di progettare.

Progettare significa avere ben chiara la finalità del tuo lavoro, saperla tradurre in obiettivi praticabili, definire le azioni utili al raggiungimento di quegli obiettivi, tenendo conto del contesto e dei vincoli dati, che, in quanto vincoli, non sono modificabili sulla base degli umori, delle convenienze o delle appartenenze.

Un’altra cosa su cui tutti i manuali di progettazione insistono è la flessibilità. Nessun progetto è scritto sulla pietra, ma può essere modificato sulla base di un costante monitoraggio e di eventuali eventi non prevedibili che rendano necessari interventi correttivi.

In ultimo, i bravi formatori ti ricordano che occorre fare una valutazione di impatto sulle scelte progettuali di cui ci si assume la responsabilità, siano esse ex ante o in itinere. 

Senza entrare nel merito di ogni indicatore di una buona progettazione, vorrei richiamare la vostra attenzione su alcuni di questi, per provare, attraverso di essi, a leggere ciò che sta accadendo intorno alla scuola, e di cui il rinvio della didattica in presenza all’11 gennaio, deciso questa notte e non ancora ufficialmente annunciato, è solo l’ultimo emblematico esempio.

In primis la finalità. Progettare significa avere ben chiara la meta. La meta è in sé qualcosa di ambizioso, l’aspirazione di arrivo dopo un lungo viaggio. Non è una fermata intermedia, non è la stazione di Benevento, con tutto il rispetto per Benevento o altro.

Ora la prima domanda è: siamo certi che in Italia la formazione sia una finalità condivisa dai nostri decisori politici, e non mi riferisco certo solo alla politica attuale. I dati sul livello di analfabetismo funzionale e di dispersione scolastica parlano, da anni, di una situazione drammatica che la situazione pandemica non potrà che peggiorare visibilmente.

La seconda domanda ruota intorno a un punto cardine della progettazione: il contesto. Siamo sicuri che chi ha il compito di fare progettazione scolastica sappia leggere e interpretare i dati di contesto, che per la scuola non significa solo il contesto interno (l’edifico, le misure delle aule e dei banchi, il numero di studenti) ma anche il contesto esterno (il territorio, la mobilità urbana ed extraurbana, i servizi, ma anche, nel nostro specifico, i livelli di contagio che alcune attività esterne alla scuola possono più o meno favorire)? 

La terza domanda è: la flessibilità significa saper cavalcare l’onda o saperla prevedere? Detto che, in senso letterale, non saprei fare né l’una né l’altra cosa, mi piace pensare che la flessibilità, in ambito organizzativo, abbia a che fare con un’azione di governo e di previsione, ovvero con la capacità di leggere attentamente i dati di processo e approvare, per tempo, le dovute modifiche al progetto iniziale.

Per/in tempo. In emergenza si interviene sul tempo, sperando che ce ne sia abbastanza per salvare vite umane e limitare il danno provocato dall’evento imprevisto e imprevedibile.

Quando lo stato di difficoltà diventa la norma, allora occorre prendere decisioni in tempo, comunicandole in tempo utile agli interessati.

Continuare a parlare e pensare la scuola in emergenza significa venir meno al dovere di progettarla, creando in chiunque la abiti, o aspiri ad abitarla, un senso di spaesamento e di sfiducia, se non, ancor più grave, un sentimento di perdita.

Quando perdiamo una cosa all’inizio ce ne rammarichiamo, ci arrabbiamo o ci disperiamo a seconda dell’indole. Dopo qualche tempo, quando capiamo che forse non la ritroveremo più, ci abituiamo alla sua assenza. In fondo ne possiamo anche fare a meno.

Ecco, in ultimo mi chiedo se chi è deputato a occuparsi di politica scolastica abbia pensato alla valutazione di impatto di questo modo di parlare (perché di questo temo si tratti, di parlare più che di progettare) di scuola. 

Stiamo attenti che non ci si abitui troppo all’assenza della scuola in presenza. Che non significa presenza ideologica a prescindere dai vincoli e dai dati di contesto. Significa presenza pensata e progettata, come forse saprebbe fare chi della scuola sente ancora la mancanza.

La storia tra costruzione e decostruzione

La storia tra costruzione e decostruzione
Chiavi e modelli interpretativi per capire il mondo.
In margine al manifesto La storia cambi passo di Carlo Ruta

Pamela Kyle Crossley

Gli storici americani, europei, sud-asiatici e giapponesi che studiano Cina debbono confrontarsi oggi con un vero e proprio muro che ci separa dai nostri colleghi cinesi. È l’insistere del governo della Repubblica Popolare Cinese, dal 1949 (e tra i seguaci di Mao, dagli anni Trenta), che l’unico obiettivo legittimo di studio storico sia didattico e ideologico: debba servire cioè alla glorificazione nazionalistica o non ha senso. Le narrazioni che non sostengono la visione ufficiale della storia cinese come benevola e altruista sono condannate dagli storici di Stato cinesi come «nichiliste» o «imperialistiche». Nella lunga vicenda storiografica della Cina, che ha raggiunto risultati straordinari, tutto ciò costituisce una novità, che richiede tuttavia, al di fuori della Cina, delle risposte argomentate da parte degli storici. Se le pratiche e i paradigmi usati dagli studiosi non cinesi non sono davvero nichilisti e imperialistici, che cosa sono? Qui troviamo un punto di contatto fondamentale con le questioni poste dal professor Ruta.

Quando ero una studentessa universitaria alla fine degli anni ‘70, gli storici erano ancora convinti che la loro disciplina potesse essere «scientifica» e «oggettiva». E Karl Popper era una preoccupazione centrale. Di tanto in tanto qualche professore sollevava con sicurezza «Il rasoio di Occam», asserendo che la spiegazione di un fenomeno è meglio fondata se vengono introdotte e privilegiate le ipotesi più semplici. In quel momento ho trovato la cosa divertente. Il rasoio di Occam è una tecnica delle scienze di laboratorio, in cui i fenomeni possono essere isolati e un processo eseguito più e più volte fino a quando non viene associato a un evento prevedibile. Ma questo non ha assolutamente nulla a che vedere con lo studio della storia, e suggerirei anzi che la sociologia sia nata proprio dall’incapacità di fare della storia un’impresa rilevante per l’Occam. Non solo non possiamo mai fare in modo che la storia si ripeta, anche una sola volta, ma, quel che è più importante, non possiamo né ora né mai definire un «evento». Punteggiamo artificialmente le nostre percezioni dei fenomeni sequenziali con inizi e fini immaginari, con strutture interne di «primo», «medio» e «tardo», per creare poi tra di loro relazioni immaginarie. Negli ultimi stadi di questa patologia, tentiamo di imporre tali strutture immaginarie ad altri «eventi» inventati, dai quali traiamo generalizzazioni immaginarie e, se l’infermità è molto grave, previsioni.

Molto prima che entrassi alla scuola di specializzazione, questa cultura professionale, o culto, fu messa in discussione dagli studiosi «critici» della «decostruzione» che – con Judith Butler in modo particolarmente efficace – sono stati capaci di suggerire che non esiste vera obiettività, neanche nella «scienza». Metodo, osservazione, interpretazione non li vedevano basati su pratiche imparziali. L’obiettività era vista invece, di per sé, come una proiezione risultante da una complessa interazione di pregiudizi che si irradiavano dalle prospettive di classe, genere, razziale e imperialista, come le fenomenologie del pregiudizio di cui parla il professor Ruta. Le radici di questa tradizione critica in età moderna erano in realtà profonde, risalenti a Marx e a Foucault, e le sue metafore si basavano sempre più sulle terminologie della meccanica quantistica (suggerendo in modo inappropriato che la realtà quantistica fosse essenzialmente qualcosa di soggettivo).

Come l’ideologia oggettivista dei primi tempi, l’ideologia decostruttivista alla fine è diventata tuttavia un nuovo tipo di prigione. Tutto può essere decostruito, come in un un gioco da ragazzi. Ma decostruire tutto a quale fine? e che ne è allora della missione storiografica?

Una preoccupazione centrale degli storici è ora la causalità: c’è o non c’è una causalità? Se gli studiosi critici hanno ragione, la causa di tutto è data dalle fenomenologie del pregiudizio che producono il motivo per identificare una causa. Per loro, l’unico modo per la storia di trovare un significato e uno scopo è di concentrarsi sull’esperienza umana come soggettiva, emotiva, aspirazionale. Ma alcuni storici sono tornati alle vecchie ideologie dell’oggettività scientifica, dando priorità ai metodi e alle scoperte della storia economica, della storia neurologica, della storia genetica e demografica umana, della scienza della terra e del clima, e così via. A mio avviso, l’incapacità di superare i limiti della percezione umana per identificare in modo credibile un evento, da un lato, e il profondo bisogno umano di un arco narrativo persuasivo, dall’altro, manterrà la storia sospesa in un ciclo produttivo di costruzione e decostruzione interpretativa: la dove probabilmente dovrebbe stare.

Il riferimento del professor Ruta all’archeologia processuale è particolarmente utile. Alla base del lavoro archeologico c’è l’antropologia, o l’assunzione di un arco narrativo a lungo termine per l’umanità. Ma alla fine si pongono domande fondamentali sulla realtà dell’«evidenza»: il suo contesto, la sua stratigrafia, la sua trasferibilità, conservabilità, interpretabilità. Attraverso questo obiettivo minimo, la storiografia affronta alcune delle questioni più profonde del mondo contemporaneo e scopre nuovi scopi possibili. Gli interpreti della storia, i costruttori di paradigmi, i teorici della causalità hanno tutti lavorato con l’amabile presupposto che vi sia effettivamente un nucleo vitale di «prove» storiche. C’è realmente? La maggior parte di ciò che è accaduto agli esseri umani, intesi come singoli o associati, non è mai stata documentata, e anche oggi può essere sfuggente. L’intuizione e la deduzione razionale rimarranno sempre risorse storiche. Ma oggi, ancora più impellente, si avverte il bisogno di nuove messe in discussione della realtà, necessita la costruzione di nuovi criteri di contesto, credibilità e significato della «conoscenza». Per gli storici, che si assumono come primo compito la certezza delle prove, tali attività esplorative non sono solo fondamentali per perseguire i loro scopi, ma possono essere la chiave per individuare il loro possibile contributo alla vita del ventunesimo secolo. Questo è, in fondo, il primo compito assegnatoci da Erodoto e il significato stesso della «storia»: non la formica dell’interpretazione ma l’arte dell’indagine, in cui sono racchiusi interi mondi di epistemologia e fenomenologia.


Pamela Kyle Crossley, storica statunitense, è docente di storia al Dartmouth College. È specialista dell’impero Qing e di storia della Cina moderna. Si occupa della storia dell’Asia e di storia dell’equitazione in Eurasia prima dell’età moderna. Figura tra gli studiosi più importanti negli orizzonti della «Storia globale», entro cui ha prodotto tesi e progetti innovativi. È autrice di opere di forte risonanza internazionale come Orphan Warriors: Three Manchu Generations and the End of the Qing World (Princeton University Press 1990), The Manchus (Blackwells Publishers 1997), A Translucent Mirror: History and Identity in Qing Imperial Ideology (University of California Press, 1999). Alla storia globale ha dedicato nel 2008 un ponderoso saggio espositivo e analitico, What is Global History?, tradotto anche in Cina. Ha firmato libri di rilevanza paradigmatica, come The Wobbling Pivot: China since 1800 (2010) e Hammer and Anvil: Nomad Rulers at the Forge of the Modern World (2019). Per i suoi studi è stata insignita di numerose onorificenze. Ha scritto e scrive perLondon Review of Books, Wall Street Journal, The New York Times Literary Supplement, The New Republic, Royal Academy Magazine, Far Eastern Economic Review, Calliope. È presente, con opere e progetti storici, negli spazi editoriali online della BBC.

SERVE UN PIANO PER RIAPRIRE IN SICUREZZA

SERVE UN PIANO PER RIAPRIRE IN SICUREZZA, CHIUDERE NON È LA SOLUZIONE
Studenti pronti a mobilitarsi se le cose non cambiano

RETE DEGLI STUDENTI MEDI

Le scuole non riapriranno il 7 gennaio. Era ampiamente prevedibile, visto l’andamento spaventoso della pandemia in molte regioni e visto che nessuna misura è stata presa, da settembre ad oggi, per permettere alle scuole di non chiudere.
“In un momento così critico per il Paese – dichiara Federico Allegretti, coordinatore nazionale della Rete degli Studenti Medi – assistiamo ad una discussione in cui la scuola viene utilizzata come bandierina per reclamare le proprie ragioni e denunciare i torti degli altri senza però identificare delle vere soluzioni. Abbiamo chiuso le scuole in autunno con praticamente le stesse condizioni epidemiologiche attuali e oggi ci troviamo alla vigilia di un’appuntamento che esiste solo in funzione di dimostrare all’opinione pubblica che l’Italia è pronta e che andrà tutto bene, senza però aver minimamente posto le basi per risolvere gli stessi identici problemi che avevamo a settembre e a dicembre.”
Studentesse e studenti sono stanchi di essere merce di scambio e arma impropria nel dibattito politico. Si tratta dell’ennesima beffa: in un quadro totalmente privo di organizzazione, senza strumenti e senza una minima idea di che ruolo dovrebbe ricoprire la scuola in una fase così delicata, si rincorrono lottizzazioni e rimpasti invece di concentrarsi sul garantire a tutte e tutti di poter andare a scuola.
“Siamo di fronte ad una classe politica culturalmente impoverita, ad un ministero inadeguato, senza titolarità e commissariato e ad un governo in rotta di collisione che rischia di schiantarsi e che perde credibilità ogni giorno di più. Siamo ancora in attesa del tavolo per il confronto sui fondi del Next Generation EU promesso a dicembre dalla Azzolina. Intanto come sindacato studentesco continueremo a vigilare e a denunciare la situazioni critiche: siamo pronti a mobilitarci se la situazione non dovesse cambiare e se non dovessero arrivare delle risposte adeguate” conclude Allegretti.

Riapertura scuole: serve una strategia

Riapertura scuole: serve una strategia.
Cgil e FLC chiedono incontro ai ministri Azzolina e Speranza

Roma, 5 gennaio 2020 – Nella notte tra il 4 e 5 gennaio il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto legge relativo alla gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19. Viene prevista la modifica dell’organizzazione dell’attività didattica solo per le istituzioni scolastiche di secondo grado, con la ripresa dell’attività in presenza, per il 50 per cento degli studenti, a partire dall’11 gennaio, mentre il 7 gennaio riprenderanno regolarmente le attività didattiche a distanza. Nel frattempo gli altri ordini di scuola riprendono regolarmente le lezioni in presenza fatto salvo particolari ordinanze regionali. 

Per la FLC CGIL: “Si tratta di una scelta non supportata da una visione strategica rispetto alla complessiva azione di contenimento e contrasto alla diffusione della pandemia. Lo slittamento di quattro giorni infatti, non risponde a valutazioni sanitarie né didattiche e nemmeno si prospetta nei giorni che intercorrono tra il 7 e l’11 gennaio l’adozione di adeguate soluzioni organizzative per quanto riguarda i trasporti e gli altri servizi di supporto all’attività scolastica, mentre un elevato numero di studenti, tra infanzia, primaria e secondaria di primo grado rimane fuori dalle valutazioni sul contenimento dell’emergenza epidemiologica”.

“La FLC CGIL ha ripetutamente chiesto elementi oggettivi di monitoraggio del sistema scuola all’interno di una visione complessiva del Paese, che al momento è lasciato alle decisioni dei presidenti delle Regioni, con un pericoloso scivolamento verso un’autonomia decentrata che dimentica il valore costituzione dell’unitarietà nazionale del sistema di istruzione”, spiega il sindacato dei lavoratori della Conoscenza.

“Le decisioni assunte in seno al Consiglio dei Ministri, così come nelle prefetture di tutto il paese, senza tener conto delle esigenze specifiche del mondo dell’istruzione, parlano di didattica in presenza, a distanza, al 75% o al 50% come se si trattasse di facili aggiustamenti, senza comprendere il complicato lavoro organizzativo e professionale che ricade su studenti, docenti, dirigenti e personale ATA. C’è bisogno – sottolinea la categoria – di rispettare e comprendere il mondo della scuola, nella consapevolezza che muove intere comunità e che non è indifferente alla diffusione del contagio”.

“Da ciò l’indispensabilità di una strategia comprensibile, motivata e nazionale perché non si aggravino i divari preesistenti alla pandemia. Ribadiamo oggi l’urgenza dell’immediata convocazione di un tavolo nazionale di confronto già formalmente richiesto congiuntamente da Cgil e FLC nazionale. A tal fine – conclude la FLC CGIL – abbiamo chiesto a nome della CGIL e della FLC con una specifica lettera, un incontro alla Ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina e al Ministro della Salute, Roberto Speranza”.

Via libera al rientro in presenza

(Ministero Istruzione, 5.1.21) – Il Consiglio dei Ministri di ieri ha dato il via libera al rientro in presenza al 50% per le scuole secondarie di secondo grado dal prossimo lunedì, 11 gennaio.

Dal 7 al 9 gennaio le lezioni si svolgeranno, invece, a distanza, con la didattica digitale.

Per le studentesse e gli studenti della scuola dell’infanzia e del primo ciclo (primarie e secondarie di primo grado) la ripresa avverrà, dal 7 gennaio, in presenza.

Fin qui le disposizioni nazionali. Restano ferme le eventuali disposizioni adottate, con ordinanze territoriali, dalle singole Regioni.

Covid a scuola? Basso rischio Ma l’Italia non manda i suoi dati

da ItaliaOggi

Emanuela Micucci

Premessa: questo rapporto non considera l’andamento epidemiologico di covid-19 in relazione alle nuove varianti del virus, come quella inglese, per le quali non sono ancora disponibili prove solide sul potenziale impatto nelle strutture scolastiche. Il centro europeo Ecdc (European Centre for Disease Prevention and Control) lo ripete più volte nel documento «Covid-19 in children and the role of school settings in Ccovid-19 transmission», pubblicato il 23 dicembre, con cui fornisce un aggiornamento sul ruolo di bambini e ragazzi nella trasmissione del virus e su quello delle scuole nella pandemia in base all’esperienza nell’Unione europea da agosto a dicembre 2020.

Seconda premessa: solo 17 Paesi dell’Unione Europea dei 32 coinvolti (compreso il Regno Unito) hanno risposto all’apposita indagine dell’Ecdc sui casi covid-19 e sui cluster educativi, contenuta nel rapporto. Paesi tra cui manca proprio l’Italia. Ma sono assenti anche Germania, Francia, Regno Unito. Mentre ha aderito la Spagna. L’Ecdc nel documento sostiene che, sebbene meno del 5% dei casi di covid-19 nei Paesi Ue riguardi persone minori di 18 anni, il ruolo dei ragazzi nella trasmissione del virus rimane poco chiaro, così come non è possibile distinguere tra contagi avvenuti dentro o fuori dalle scuole. Contrastanti anche le evidenze sull’impatto della chiusura/riapertura delle scuole sulla diffusione dell’infezione.

L’incidenza del covid-19 negli ambienti scolastici, infatti, sembra essere influenzata dai livelli di trasmissione nella comunità. Se esiste un consenso generale sul fatto che mantenere le scuole aperte è importante e che la loro chiusura è una politica di ultima istanza quando si tratta di controllare la pandemia di covid-19. Tuttavia, è anche riconosciuto che alti livelli di trasmissione di Sars-Cov2 nella comunità, in combinazione con carenze nel sistema sanitario, può richiedere che vengano considerate tutte le possibili misure non farmacologiche, comprese le chiusure delle scuole e /o il passaggio alla didattica a distanza. Così come, osserva l’Ecdc, è importante notare che la ricerca su Sars-Cov2 è in rapido aumento e come vengono alla luce nuove prove, le decisioni sulle scuole potrebbero dover essere riviste di conseguenza. Ancora. Cluster sono stati segnalati nella scuole materne, primarie e secondarie dell’Unione europea. Ma il rilevamento di più casi all’interno di una scuola non implica automaticamente che la trasmissione sia avvenuta all’interno dell’istituto scolastico.

Il 71% dei Paesi europei riferisce di aver rilevato cluster scolastici nella primaria e nella secondaria, mentre 10 li avevano rivelati alla materna. In totale si tratta di 283 cluster nelle scuole dell’infanzia, 739 nelle primarie e 1.185 nelle secondarie. Per il 24% dei Paesi questi dati non erano disponibili o lo Stato non li conosceva. Di fatto, in tutti i Paesi coinvolti i cluster hanno incluso sia gli studenti che gli insegnati, tranne la Danimarca che ha indicato che solo gli alunni sono presenti nei cluster.

Normalmente i casi vengo segnalati alle autorità sanitarie e queste li prendono in carico. Solo in Croazia i presidi e i funzionari sanitari locali assumono un ruolo più attivo nell’identificazione dei casi e nel follow-up con casi positivi e famiglie. In generale però l’Ecdc nota che il numero di cluster riportato dai Paesi deve essere interpretato con cautela. Infatti, i dati raccolti nel rapporto potrebbero non costitutore tutti i cluster visti in quei Paesi. Inoltre alcuni dati forniti erano approssimativi poiché numeri esatti potrebbero non essere disponibili.

La letteratura scientifica, spiega il rapporto, porta a concludere che la trasmissione di SarCov2 nelle scuole è relativamente rara. Tuttavia, osserva l’Ecdc, una limitazione di questi rapporti e di altre indagini su focolai in contesti scolastici è che spesso non si considerano i casi asintomatici. Inoltre, è difficile accertare se la trasmissione dei casi è avvenuta all’interno della scuola o in contesti comunitari. In alcuni casi, è incompleta la verifica dei casi indice dei loro contatti, rendendo così difficile determinare la trasmissione.

Probabilmente, poi, esiste anche un alto grado di sottostima degli eventi di trasmissione negli ambienti scolastici, date le strozzature nella capacità di tracciamento dei contatti e dei test diagnostici che molti Paesi hanno sperimentato. Il personale educativo e gli adulti all’interno dell’ambiente scolastico non sono generalmente considerati a più alto rischio di infezione rispetto ad altre occupazioni, sebbene i ruoli educativi che mettono in contatto uno con bambini più grandi e/o molti adulti possano essere associati a un rischio più elevato. È il caso della Svezia, dove è emerso un rischio maggiore tra i presidi.

Lo studio svedese però non distingue tra docenti dei bambini dai 6 ai 12 anni e quelli di ragazzi tra i 13 e i 15 anni, inoltre copre soprattutto la prima ondata di pandemia, che potrebbe non essere significativo per la seconda ondata. In Norvegia invece si è registrato un rischio moderatamente aumentato nel personale dei servizi dell’infanzia. Solo 5 Paesi, infine, hanno una panoramica dell’assenteismo degli insegnati e del personale scolastico, rendendo così difficile valutare se questo sia aumentato dall’inizio della pandemia.

50 euro in più, ma non per tutti

da ItaliaOggi

Carlo Forte

Il fondo per il rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici è stato incrementato di 400 milioni di euro. Le risorse disponibili, a regime dal 2021, ammontano quindi a 3.775 milioni di euro. Lo prevede il comma 959, dell’articolo 1, della legge 178/2020 (legge di Bilancio 2021) entrata in vigore il 1° gennaio scorso. La somma si aggiunge alle risorse già disponibili, stanziate con la legge di Bilancio dello scorso anno: 1.100 milioni di euro il 2019, 1.750 milioni per il 2020 e 3.375 milioni di euro annui a decorrere dal 2021. I 400 milioni si aggiungono ai fondi del 2021 e rimarranno costanti per gli anni successivi. Stanziate le risorse, la stagione per il rinnovo contrattuale può essere aperta. Considerato che i dipendenti pubblici sono 3 milioni e 180 mila, quando il contratto sarà rinnovato, l’aumento medio a regime in busta paga sarà pari a 1.187 euro annui. L’importo è da intendersi lordo stato: la somma comprende sia i contributi previdenziali che le ritenute fiscali.

Per arrivare al netto, quindi, bisogna sottrarre il 41% che è pari all’importo dei contributi previdenziali. E poi, da quello che rimane, bisogna sottrarre un altro terzo che è pari, grosso modo, alle trattenute fiscali. A conti fatti, l’aumento netto dovrebbe aggirarsi intorno ai 50 euro. Sempre che vadano a finire tutti in busta paga. Molto dipenderà, infatti, proprio dalla destinazione delle risorse. Che sarà decisa dal governo tramite l’atto di indirizzo all’Aran, che farà da preludio alle trattative. E in parte deriverà anche dalle decisioni che saranno prese al tavolo negoziale.

Quante più risorse saranno destinate al compenso accessorio (e cioè al fondo di istituto) tanto più esigui saranno gli aumenti reali per tutti. Che derivano dall’incremento del cosiddetto stipendio tabellare: lo stipendio in senso stretto.

In ogni caso, quand’anche tutte le risorse fossero destinate allo stipendio tabellare, gli adeguamenti retributivi muteranno a seconda dei comparti e delle relative qualifiche. L’importo finale, infatti, deriverà dalla situazione retributiva di partenza dei singoli dipendenti. Perché il riparto finale delle risorse non avviene applicando un aumento uguale per tutti pari all’importo delle risorse diviso per il numero dei dipendenti. L’aumento, infatti, deriverà dall’applicazione di una percentuale. E la percentuale viene calcolata facendo il rapporto tra la somma di tutte le retribuzioni attualmente in godimento (cosiddetta massa salariale) e i fondi stanziati per gli aumenti.

Facciamo un esempio. Poniamo che la massa salariale sia pari a 100 milioni di euro e che le risorse stanziate per il rinnovo del contratto sia pari a 3 milioni. In questo caso la percentuale di incremento da applicare ad ogni singola busta paga sarà pari al 3%. Pertanto, il dipendente che guadagna 100 euro avrà un aumento di 3 euro. Mentre il dipendente che guadagna 1.000 euro, avrà un aumento di 30 euro. Tale meccanismo, che viene sistematicamente applicato ad ogni rinnovo contrattuale, accentua le diseguaglianze. E incrementa le sperequazioni di reddito con un effetto a forbice.

Le sperequazioni, peraltro, si verificano non solo tra le diverse qualifiche, ma anche e soprattutto tra i diversi comparti. A parità di qualifica, infatti, gli importi delle retribuzioni sono mediamente più alte nei comparti diversi dalla scuola. Un funzionario della pubblica amministrazione inquadrato al livello dell’area III- F1, che è pari a quello dei docenti laureati della scuola statale, guadagna come stipendio base all’inizio della carriera circa 100 euro in più rispetto al docente di scuola secondaria di pari qualifica. E a ciò si aggiungono ulteriori indennità tra cui quelle relative alle posizioni organizzative. Che nella scuola non esistono e che non sono nemmeno lontanamente paragonabili agli incarichi retribuiti con gli esigui compensi derivanti dal fondo di istituto.

Pertanto, se il criterio non sarà modificato, perlomeno suddividendo le risorse a monte, comparto per comparto, sulla base del numero degli addetti (che nella scuola sono pari a circa 1/3 del totale dei dipendenti pubblici) la forbice tra gli operatori scolastici e il resto del pubblico impiego continuerà ad allargarsi.

Un ulteriore elemento da valutare è l’effetto degli aumenti sulla riduzione del cuneo fiscale. Il rischio che gli aumenti possano vanificare in parte la detrazione fiscale prevista dall’articolo 2, del decreto-legge 3/2020, riguarda i docenti a fine carriera e i direttori dei servizi generali e amministrativi che vantano una retribuzione annua superiore a 28 mila euro lordi. Che potrebbero perdere parte dell’esenzione fiscale. La detrazione, che fino a 28 mila euro è di 100 euro al mese, per i redditi superiori a tale cifra si riduce gradatamente fino a 80 euro per le retribuzioni superiori a 28 mila euro annui e fino a 35 mila. E cioè proprio nella fascia di reddito che si raggiunge a fine carriera quando si superano i 35 anni di anzianità di servizio. Il problema non si pone per i redditi da lezioni private. Che sono soggetti ad un’imposta sostituiva del 15% (art.1 commi 13-16, legge 415/2018).

La babele delle Regioni Ecco chi è pronto e chi rimanda il via

da Corriere della sera

di Valentina Santarpia

Roma Oggi si capirà se la scelta del governo di rinviare all’11 gennaio la riapertura delle scuole basterà a mettere d’accordo i governatori. Per tutto il giorno si sono rincorse le ipotesi e le prese di posizione come quella del presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, che aveva dato al governo 12 ore per decidere. O come la segretaria della Cisl scuola Maddalena Gissi: «Le scuole quando riaprono? Si saprà il 6 gennaio, come i vincitori della Lotteria Italia». Ancora una volta sul ritorno in classe degli studenti le Regioni vanno in ordine sparso e anche per quelle in fascia nulla è scontato. Con grande disappunto della ministra Lucia Azzolina: «Le Regioni riflettano bene sulle conseguenze per studenti e famiglie. Il governo ha mantenuto gli impegni, i tavoli guidati dai prefetti hanno prodotto piani operativi in tutte le province, lavorando sul potenziamento dei trasporti e sullo scaglionamento degli orari di scuole e altre attività. Ognuno faccia la propria parte».

«La scuola, e soprattutto la presenza, deve rappresentare una priorità, ma la priorità si tutela se si comincia e si finisce l’anno scolastico in presenza, non se si fanno stop and go continui», dice il governatore Massimiliano Fedriga, che ha deciso per il Friuli-Venezia Giulia la riapertura il 1° febbraio.

Stessa scelta condivisa da Luca Zaia, che ieri ha firmato un’ordinanza per tenere chiuse le superiori in Veneto, spiegando che «non vuole essere una contrapposizione rispetto a quanto deciso dalla ministra Azzolina: noi tutti vorremmo che le scuole fossero aperte, ma in questo momento non ci sembra prudente».

La didattica a distanza proseguirà fino al 31 gennaio anche nelle Marche: il presidente Francesco Acquaroli emanerà oggi un’ordinanza che formalizza la decisione, «assunta allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus e garantire il più possibile la salute e la sicurezza dei cittadini e la tenuta delle strutture ospedaliere».

Prudenti

Fedriga: la didattica è la priorità, ma non è tutelata se si fanno stop and go continui

Pure in Campania si è deciso di rinviare la riapertura: mentre l’11 rientreranno gli alunni dell’infanzia e delle prime due classi della primaria, il 18 si valuterà la possibilità di far ripartire anche terza, quarta e quinta della primaria, mentre le medie e le superiori dovrebbero tornare, sempre al 50%, solo il 25 gennaio.

«Non è pensabile aprire le scuole per due giorni e non sapere cosa succederà lunedì perché magari cambierà il quadro normativo della nostra regione», diceva il governatore della Liguria Giovanni Toti, che aspettava proprio la decisione del governo per capire come comportarsi. Esattamente come il presidente del Piemonte, Alberto Cirio, che spiegava: «La situazione non è chiara speriamo che il governo ci dica qualcosa in tempi certi, perché famiglie e scuole devono organizzarsi».

In Emilia-Romagna si dicono pronti alla riapertura, ma negli ambienti scolastici serpeggiano i dubbi sulla possibilità di dover modificare la scelta nel giro di pochi giorni, sulla scia dei dati epidemiologici. Nel Lazio sindacati e presidi hanno dubbi sulla sicurezza della riapertura, ma la linea ufficiale del pd Nicola Zingaretti è stata sin dall’inizio di aspettare e rispettare la decisione del governo. Anche il governatore della Puglia, Michele Emiliano, aspetta il governo, pronto a intervenire rinviando la riapertura di una settimana o di 15 giorni: «Di sicuro, la Puglia in questa fase così incerta intende ridurre al minimo i rischi di contagio». Scettico pure il presidente della Calabria: «Se non ci saranno pericoli per i ragazzi la scuola riprenderà in presenza al 50%», ma «abbiamo ricevuto un parere che ci dice che la pandemia è in peggioramento», ha detto Antonino Spirlì.

In attesa

Toti: «Non è pensabile ripartire per due giorni e non sapere che cosa succederà lunedì»

«Sono convinto che sia importante il ritorno in presenza con gli insegnanti e sia fondamentale per gli studenti», la posizione del governatore della Toscana Eugenio Giani, «capitano» della schiera di Regioni intenzionate ad aprire giovedì. Con lui la Sicilia, pronta anche ad allargare al 75% dopo il 18 gennaio, se la curva lo consentirà. Il Trentino aveva comunicato a tutti i presidi l’apertura al 7. Pronti in Molise: «I tavoli prefettizi hanno funzionato molto bene», dice Annapaola Sabatini, direttrice dell’Ufficio scolastico regionale. Sulla linea della riapertura pure Abruzzo, Sardegna, Basilicata, Val d’Aosta, Umbria. E teoricamente la Lombardia, anche se il responsabile dell’Ufficio scolastico territoriale di Milano, l’ex ministro leghista Marco Bussetti, dice: «Aspettiamo il Consiglio dei ministri».

Il governo litiga sulla scuola L’apertura slitta all’11 gennaio

da Corriere della sera

Gianna Fregonara

Gli studenti delle scuole superiori non torneranno in classe il 7 gennaio, neppure al 50 per cento. Il governo dopo una giornata caotica e uno scontro durissimo in consiglio dei ministri ha deciso che si ricomincerà l’11. Soltanto le regioni che nel monitoraggio di venerdì 8 dovessero essere rosse, secondo le nuove regole dell’indice Rt approvate ieri, non riapriranno le scuole superiori. Ma al momento nessuna Regione è vicina a quella soglia, che costringerebbe gli studenti a continuare con la Dad.

A porre la questione del rinvio, dopo che le Regioni una dopo l’altra avevano annunciato in ordine sparso le loro ordinanze per non riaprire il 7 gennaio, è stato il capodelegazione del Pd Dario Franceschini che ha chiesto al premier Giuseppe Conte di rinviare almeno al 15 gennaio la ripresa dell’attività in presenza per le scuole superiori visti i rischi di aumento dei contagi e dell’arrivo della terza ondata del virus. Durissima la reazione delle ministre renziane Teresa Bellanova e Elena Bonetti che hanno parlato di un rinvio «inaccettabile»,tenendo la posizione della ministra Lucia Azzolina, che nel pomeriggio aveva lanciato l’anatema contro le regioni ribelli richiamandole a «riflettere sulle conseguenze delle loro decisioni di rinvio per gli studenti e le famiglie», e del premier Conte che solo domenica pomeriggio aveva ribadito che si doveva ricominciare il 7.

Ma riaprire giovedì dopo che le regioni già avevano spostato il loro calendario sembrava ormai impossibile: il governo si sarebbe trovato solo. Per questo l’idea del titolare della Salute Roberto Speranza e del ministro delle Regioni Francesco Boccia era quella di un mini rinvio dal 7 all’11, giorno in cui entrano in vigore le nuove soglie per determinare le aree di rischio . E alla fine ha prevalso come mediazione, un tentativo di mettere ordine e di dare un verso alle decisioni dei governatori. Ora bisognerà capire quanti si adegueranno e quanti confermeranno le loro ordinanze che tengono le scuole superiori chiuse anche fino a febbraio.

Fino alla fine la giornata dell’incertezza e della confusione ha rischiato di non dare risposte alle famiglie, ai professori né ai presidi che stanno aspettando di capire come riorganizzare le lezioni e le loro vite. C’è l’irritazione dei prefetti contro le decisioni dei governatori, che hanno contraddetto le loro proposte. I sindacati parlano «di decisioni estemporanee» del governo e chiedono di essere convocati. Senza contare che crescono le petizioni e le proteste nelle scuole. E non manca lo scontro con le regioni di centrodestra — guidate da Luca Zaia — che ancora una volta sulla scuola hanno condizionato le scelte del governo con la loro fuga in avanti.

Nuovo decreto: scuole elementari e medie riaprono il 7 gennaio, le superiori (al 50%) l’11 gennaio

da OrizzonteScuola

Di Andrea Carlino

Il Consiglio dei ministri sulle misure anti-Covid a partire dal 7 gennaio è terminato dopo oltre tre ore di dibattito. C’è stata bagarre sulla scuola con scontro aperto nella maggioranza.

Il governo ha approvato il decreto legge con le nuove misure che entreranno in vigore dal giorno in cui verranno pubblicate in Gazzetta Ufficiale, dunque verosimilmente già oggi, martedì 5 gennaio, fino al 15 gennaio, salvo per la riaperture delle scuole superiori. La riapertura degli istituti secondari di secondo grado (al 50% in presenza, il restante 50% con la didattica digitale), infatti, slitta all’11 gennaio. Questa è il risultato raggiunto in Consiglio dei Ministri, dove il Pd era favorevole al ritorno nelle classi dopo il 15 gennaio e il M5S e Iv fermamente contrarie, pronte a confermare la data del 7. Alla fine una mediazione è stato raggiunta fissando la riapertura per lunedì 11.

A trovare un punto di incontro, in un Consiglio dei Ministri infuocato, il premier Giuseppe Conte, che avrebbe invitato Pd, M5S e Iv a trovare una data che mettesse d’accordo tutti, superando, almeno per il momento, tutte le perplessità.

Da precisare che le scuole elementari e medie riapriranno regolarmente giovedì 7 gennaio, anche se alcune Regioni stanno decidendo in autonomia.

Attenzione, però, così come segnala il Corriere della Sera, stando ai dati attuali infatti (quelli definitivi verranno valutati venerdì 8) potrebbero non poter tornare in classe, lunedì 11 gennaio, gli studenti delle superiori in Lombardia, Veneto, Liguria, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Marche, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia, regioni nelle quali l’Rt è già attorno all’1 (se passano in zona arancione o rossa, la didattica in presenza non si può svolgere). Nelle altre si potrebbe invece partire con la metà delle presenze.

Sabato 9 e domenica 10 gennaio l’Italia sarà tutta in zona arancione. Stop allo spostamento tra Regioni fino al 15 gennaio, mentre il weekend del 9 e 10 gennaio vedrà in tutta Italia bar e ristoranti chiusi.

Il provvedimento prevede anche l’inasprimento delle soglie per far scattare misure più restrittive, decretando nuove zone arancione o rosse.

Nuovo decreto, cosa è previsto

Non solo: il nuovo decreto, in vigore fino al 15, prevede una zona gialla ‘rafforzata’ nei giorni feriali – con il divieto di spostamento tra regioni e la conferma della possibilità di spostarsi verso un’altra abitazione per massimo 2 persone – e una zona arancione nel fine settimana.

“Dal 7 al 15 gennaio 2021 è vietato, nell’ambito del territorio nazionale, ogni spostamento in entrata e in uscita tra i territori di diverse regioni o province autonome, salvi gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute. E’ comunque consentito il rientro alla propria residenza, domicilio o abitazione, con esclusione degli spostamenti verso le seconde case ubicate in altra regione o provincia autonoma”

E ancora: “Nei giorni festivi e prefestivi compresi tra il 7 e il 15 gennaio 2021 sull’intero territorio nazionale si applicano le misure di cui all’articolo 2 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 3 dicembre 2020, ma sono consentiti gli spostamenti dai comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti e per una distanza non superiore a 30 chilometri dai relativi confini, con esclusione in ogni caso degli spostamenti verso i capoluoghi di provincia”. 

Poi: “È consentito lo spostamento verso una sola abitazione privata una volta al giorno, in un arco temporale compreso fra le ore 05,00 e le ore 22,00, e nei limiti di due persone, ulteriori rispetto a quelle ivi già conviventi, oltre ai minori di anni 14 sui quali tali persone esercitino la potestà genitoriale e alle persone disabili o non autosufficienti conviventi”.

Il testo prevede anche l’abbassamento della soglia dell’Rt che fa scattare il posizionamento nelle diverse fasce: Rt da 1 a 1,25 arancione; da 1,25 a 1,50 rossa.

BOZZA [PDF]

ATA, indicazioni su proroga contratti AT, tempo pieno ex LSU e concorso. NOTA

da OrizzonteScuola

Di redazione

Il ministero dell’Istruzione, con la nota numero 195 del 4 gennaio, fornisce chiarimenti e indicazioni sulle misure previste dalla legge di Bilancio e dal decreto Milleproroghe sul personale ATA.

Concorso ex LSU e proroga supplenze

Proroga al 1° marzo 2021 delle immissioni in ruolo della restante platea degli ex LSU, prevista il 1° gennaio, con la conseguente proroga al 28 febbraio delle supplenze al 31 dicembre del personale assunto sui posti ex LSU.

In particolare – si legge- si ritiene che debba essere rapportata alla data del 1° marzo pv anche la parte con la quale si prevede che “Nelle more dell’avvio della predetta procedura selettiva, al fine di garantire il regolare svolgimento delle attività didattiche in idonee condizioni igienico-sanitarie, i posti e le ore residuati all’esito delle procedure di cui al comma 5-quinquies sono ricoperti mediante supplenze provvisorie del personale iscritto nelle vigenti graduatorie”.

Trasformazione a tempo pieno contratti ATA ex LSU

La trasformazione dei contratti degli ex LSU assunti a tempo parziale opera con decorrenza giuridica 1° gennaio 2021 ed economica dalla sottoscrizione del contratto a tempo pieno. L’ampliamento contrattuale da tempo parziale a tempo pieno può avvenire sui posti delle istituzioni scolastiche su cui gli interessati sono attualmente in servizio.

Assistenti tecnici

Proroga al 30 giugno 2021 dei contratti a tempo determinato sui posti di assistente tecnico attivati nelle scuole dell’infanzia, nelle scuole primarie e nelle scuole secondarie di primo grado per assicurare la funzionalità della strumentazione informatica.