Inclusione scolastica, il nuovo Pei è “un’inversione di rotta che preoccupa”
Redattore Sociale del 15/01/2021
Critico il Coordinamento italiano degli insegnanti di sostegno: “Il provvedimento introduce, per la prima volta nella storia dell’inclusione scolastica, la possibilità di esonerare gli alunni con disabilità dall’insegnamento di alcune discipline o di ridurre l’orario di frequenza, senza valutare le ricadute anche culturali di tale scelta”
di Chiara Ludovisi
ROMA. Si “inverte la rotta”: dall’inclusione all’esclusione, dall’integrazione alla marginalizzazione. E’ quello che accade e accadrà, secondo il Ciis (Coordinamento italiano insegnanti di sostegno) nella scuola italiana, per via del nuovo modello di Progetto educativo individualizzato, approvato e diffuso nei giorni scorsi dal ministero dell’Istruzione.
Come nel 1971, quando l’inclusione (parziale) muoveva i primi passi Assai critico e allarmato il coordinamento, che denuncia: “Il ministero dell’Istruzione, di concerto con il ministero dell’Economia e delle Finanze, emanando il decreto interministeriale con il quale è stato dato il via al nuovo modello di Pei, da adottarsi a livello nazionale, ha anticipato la nuova direzione di marcia che, culturalmente, ci riporta a quel primo periodo, ormai lontano, in cui la scuola italiana iniziava a muovere i primi passi verso l’integrazione. Con la legge 118/71 veniva infatti avviato il primo parziale inserimento degli alunni con disabilità nelle classi ‘normali’, dalle quali, però, restavano esclusi coloro che erano ‘affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l’apprendimento o l’inserimento nelle predette classi normali’. Era ancora serpeggiante l’idea della ‘non possibilità’ di apprendere e della non inclusione di alcuni. Oggi diremmo che quel passaggio, all’epoca innovativo, si proponeva come discriminante. E mai avremmo pensato di ritrovarci in una situazione analoga. Ma è esattamente ciò che succede oggi, nel 2021, cinquant’anni dopo”.
I nodi critici: famiglie ai margini e alunni “esonerati” Ma quali sono le principali criticità del nuovo modello? Innanzitutto, “un’impostazione che tenta di porre ai margini le famiglie degli alunni con disabilità, sostituendo alla condivisione la ‘approvazione’ del Pei”; ancora più preoccupante è il fatto che il nuovo provvedimento introduca, “per la prima volta nella storia dell’inclusione scolastica, la possibilità di ‘esonerare gli alunni con disabilità dall’insegnamento di alcune discipline’ o di ridurre l’orario di frequenza, senza valutare le ricadute anche culturali di tale scelta, senza analizzare la portata discriminante insita in tale decisione, senza considerare il diritto allo studio garantito a tutti dalla Costituzione”. Specifica il Ciid: “L’esonero comporta l’allontanamento dell’alunno dai suoi compagni di classe, impedendo la socializzazione, la relazione e la comunicazione; dalle opportunità di crescita e di apprendimento che si realizzano grazie all’interazione con i compagni; da un percorso ancorato a quello dei compagni, adottato con gli accorgimenti che, grazie alla presenza del docente specializzato, si possono realizzare; dagli insegnanti della classe, che non potranno più essere annoverati come “suoi” docenti, in quanto egli non frequenta le loro lezioni”.
Gli “esonerati da tutto” Gravi potranno essere le conseguenze, secondo il Ciis: “Chi ha introdotto l’esonero ha pensato, per un attimo, agli alunni per i quali l’esonero potrebbe essere adottato per ‘tutte o quasi tutte le discipline’? E che in questo caso l’alunno resterebbe per tutto il tempo scuola affidato al solo docente specializzato per il sostegno? Che cosa accadrà a questi alunni o studenti ‘esonerati’? Si ritroveranno tutti insieme in un’aula? Ricreeranno le classi differenziali o saranno inventate le classi speciali?”. Per il coordinamento, “questa impostazione culturale, che mostra di non tollerare neppure la presenza delle persone con disabilità nei contesti comuni, ha prodotto una brusca frenata nel processo in corsa, determinando un’inversione di tendenza, in netto contrasto con quel modello di integrazione proposto dalla Falcucci, convinta della ricchezza di opportunità che il contesto comune offre a tutti gli alunni, reciprocamente”.
Dalla “micro-espulsione” alla “macro-espulsione” E gli scenari sono assai allarmanti: “L’esonero anticipa, attraverso la micro-espulsione, oggi limitata ad alcuni, la macro-espulsione degli alunni con disabilità dal percorso comune, che saranno, molto probabilmente, relegati in contesti chiusi, insieme ai soli docenti di sostegno. A quanto pare, tutto ciò è sfuggito! – osserva il comitato – L’attenzione, infatti, è posta prioritariamente all’erogazione delle risorse, preoccupazione legittima. Ma se gli alunni saranno ‘cacciati fuori dalle classi’, a cosa serve agitarsi per le risorse non erogate? Se all’alunno viene negata la dignità di persona, se all’alunno viene impedito il percorso scolastico nelle classi comuni, se l’alunno viene discriminato perché persona con disabilità, a cosa giova agitarsi per altre questioni?” L’associazione dunque esprime “la più viva preoccupazione per il modello che, con questo nuovo Pei, viene introdotto nel contesto scolastico e sociale italiano” e fa appello “alla società civile e a tutte le forze politiche affinché si intervenga, al più presto, per restituire al nostro Paese quel ruolo primario che lo ha visto, fino a ieri, in prima linea in difesa dei diritti delle persone, a prescindere dalle specifiche condizioni dei singoli, impegnato a rimuovere tutti quegli ostacoli che limitano e impediscono la realizzazione della persona, nel riconoscimento del principio di uguaglianza”.
Scuola: chiediamo un governo nazionale degli interventi. Basta autonomia differenziata
Roma, 15 gennaio 20121- Nelle scorse settimane abbiamo denunciato con forza come il caos delle aperture e delle chiusure delle scuole a seconda delle decisioni dei singoli presidenti delle Regioni sommato all’incapacità di coordinamento del governo, stia conducendo verso concrete forme di autonomia differenziata, che la FLC CGIL considera il pericolo più grave per il sistema nazionale di istruzione e, di conseguenza, per l’unità del nostro Paese.
La confusione si sta trasferendo, inevitabilmente, anche nelle aule di tribunale. Il TAR Lombardia e il TAR Emilia con specifici provvedimenti cautelari, hanno annullato le ordinanze di sospensione delle attività didattiche adottate dalle rispettive Regioni. Il TAR Sicilia e il Tar Puglia invece, hanno respinto i ricorsi contro analoghi provvedimenti delle Regioni. Nei tribunali si inizia a verificare se i provvedimenti delle Regioni siano coerenti con il perimetro delle competenze definite dalla nostra Costituzione.
La misura è colma. Il rinvio dell’apertura delle attività didattiche era e deve essere del governo nella sua collegialità senza delegare più nulla alle Regioni a causa dell’incapacità del governo stesso di decidere. Per questo chiediamo a governo e Parlamento di cancellare da subito i poteri inopinatamente attribuiti alle Regioni anche sulla scuola, dal decreto legge 33/20.
La FLC CGIL, nel proprio ruolo di garante delle migliori condizioni di esercizio del diritto allo studio e alla salute, continuerà a collaborare per la riapertura delle scuole in presenza e in sicurezza, ma in mancanza di risposte credibili e in tempi brevi, metterà in campo tutte le iniziative di mobilitazione consentite dalla situazione che stiamo vivendo.
Al Severi di Milano 30 test rapidi poi in aula con i prof
Fatti da un genitore medico, dentro alle 15.’Se zona rossa altre iniziative’
(Agenzia DIRE) – Hanno preso banchi e sedie. Si sono seduti, hanno acceso il computer. E si sono collegati. Questa mattina gli studenti del liceo ‘Severi’ di Milano hanno deciso di protestare contro la Dad seguendo le, ormai consuete, lezioni in streaming davanti ai cancelli dell’istituto. “Siamo qui per esprimere il nostro dissenso. La didattica a distanza non funziona e noi vogliamo tornare in classe”, spiega alla ‘Dire’ Matteo Galanti, rappresentate del ‘Severi’.Per potersi confrontare con i professori in presenza e non davanti a uno schermo, 30 studenti alle 15 entreranno a scuola: “Siamo riusciti a recuperare una trentina di tamponi rapidi. Un genitore, medico, ce li fara'”, racconta Galanti. Visto che I test non ci sono per tutti, gli altri ragazzi potranno partecipare all’assemblea guardandola in streaming. Assemblea organizzata per discutere direttamente con i professori di cosa sta succedendo in questi giorni e per mandare un messaggio chiaro alle istituzioni: “Fateci tornare in classe, in sicurezza se necessario, ma fateci tornare”.”La preside- continua Galanti- ha acconsentito a farci organizzare questa manifestazione e la scuola ha messo a disposizione un locale Covid dove poter eseguire i tamponi”. Se la Lombardia lunedi’ dovesse tornare in zona rossa, i ragazzi del ‘Severi’ stanno gia’ pensando di preparare un’altra protesta di questo tipo: “Saremo molti di piu’ e lo faremo piu’ giorni di seguito per mandare un messaggio ancora piu’ forte”.
Di seguito, la sintesi di quanto previsto per la scuola.
Misure valide su tutto il territorio nazionale:
Le scuole secondarie di secondo grado adottano forme flessibili nell’organizzazione didattica in modo che, a decorrere dal 18 gennaio 2021, almeno al 50% e fino ad un massimo del 75% della popolazione studentesca sia garantita l’attività didattica in presenza, fatte salve le diverse disposizioni individuate da singole Regioni. La rimanente parte dell’attività si svolgerà a distanza. Resta garantita la possibilità di svolgere attività in presenza qualora sia necessario l’uso di laboratori o per garantire l’effettiva inclusione scolastica degli alunni con disabilità o con bisogni educativi speciali.
Nei servizi educativi per l’infanzia, nelle scuole dell’infanzia e nel primo ciclo di istruzione (scuole primarie e secondarie di I grado) la didattica continua a svolgersi integralmente in presenza. È obbligatorio l’uso di dispositivi di protezione delle vie respiratorie, fatta eccezione per i bambini di età inferiore ai 6 anni e per i soggetti con patologie o disabilità incompatibili con l’uso della mascherina.
È possibile lo svolgimento in presenza delle prove concorsuali selettive, con un numero di candidati non superiore a 30 per ciascuna sessione o sede di prova. Saranno quindi ricalendarizzate le prove del concorso straordinario per la secondaria di I e II grado interrotte a novembre e si darà avvio gradualmente allo svolgimento delle prove delle altre procedure concorsuali.
Restano sospesi i viaggi d’istruzione, le iniziative di scambio o gemellaggio, le visite guidate e le uscite didattiche, fatte salve le attività inerenti i percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento (PCTO).
Le riunioni degli organi collegiali potranno svolgersi a distanza.
Misure per i territori con scenari di maggiore gravità:
Nelle aree caratterizzate da uno scenario di “massima gravità e da un livello di rischio alto”, cosiddette zone rosse, restano in presenza i servizi educativi per l’infanzia, la scuola dell’infanzia, la primaria e il primo anno della scuola secondaria di primo grado.
Le attività didattiche in tutti gli altri casi si svolgeranno esclusivamente con modalità a distanza. Resta comunque salva la possibilità di svolgere attività in presenza qualora sia necessario l’uso di laboratori o per garantire l’effettiva inclusione scolastica degli alunni con disabilità e in generale con bisogni educativi speciali.
Le disposizioni del Dpcm si applicano dalla data del 16 gennaio 2021, in sostituzione del Dpcm del 3 dicembre 2020, e sono efficaci fino al 5 marzo 2021.
Storia, topografie migratorie e geografie dell’ascolto Ragionamento a margine del Manifesto La storia cambi passo
di Vincenzo Guarrasi*
Da geografo, condivido l’urgenza manifestata nella Proposta di un manifesto per l’innovazione della conoscenza storica. Per ragioni di brevità, mi soffermerò su cinque questioni che ritengo di nodale importanza tra quelle sollevate da Carlo Ruta. Esse sono:
1) nel mondo contemporaneo ci troviamo a soffermarci su quelle che Carlo Ruta chiama chiusure iperidentitarie, e cioè, richiamando le sue parole, con le «logiche di risentimento e paura, che portano ancora a concepire il portatore di differenze come antagonista e, si potrebbe dire, ‘ladro di risorse’». Un sentire, ahimè, diffuso oltre ogni previsione nelle diverse società umane;
2) invece di attardarsi ulteriormente all’interno di un impianto teorico ed epistemologico espresso dalle scienze storiche, sociali e umanistiche del XX secolo (si pensi ad esempio al dibattito postmoderno), si impone la necessità di accelerare il passo e produrre nuove rotture paradigmatiche;
3) tali rotture non possono che maturare nella zona di confine tra la ricerca storica, le scienze sociali e quelle naturali;
4) occorre misurarsi, dice Carlo Ruta, con «le tre prospettive che reggono, avvolgendola, l’esperienza umana: il contatto con la natura, il confronto con il mondo sociale e il rapporto con la storia, che, come dimensione del passato, in ogni persona è costume, memoria, lingua, background culturale, senso e misura del tempo, in definitiva, percezione orientata del sé;
5) il ruolo della mobilità nelle società contemporanee, ovvero, come osserva Carlo Ruta, la mobilità sfuggente dell’oggetto che evoca poi una ulteriore mobilità, quella del punto di vista (mobilità dello sguardo).
Tratterò tali questioni in un ordine che mi sarà dettato da un percorso, condiviso da un gruppo di ricerca internazionale, interdisciplinare e intergenerazionale che per anni ha coinvolto anche uno sparuto drappello di geografi nell’ambito del Dipartimento Culture e società dell’Università degli studi di Palermo.
Sguardo cosmopolita e geografie dell’ascolto
Il vertiginoso accavallarsi di processi di crisi e mutazione degli equilibri economici, degli assetti politici e delle dinamiche culturali in atto ha costretto tale gruppo di ricerca – formatosi in un contesto regionale, come la Sicilia, fortemente esposto alle prorompenti e spesso tragiche vicende che anche da orizzonti lontani si sono scaricate sul mondo mediterraneo – a interrogarsi sul proprio posizionamento etico e scientifico rispetto ai fenomeni da analizzare e alle strategie d’azione da adottare. Sotto i nostri occhi si snodava un film molto più impressionante delle Torri Gemelle: una strage di migranti per i continui naufragi avvenuti nelle acque del Mediterraneo. È avvenuto così che un gruppo di studiose e studiosi, che si era raccolto attorno al programma di ricerca nazionale dedicato alla «Città cosmopolita», ha dovuto a più riprese ridefinire sia il metodo che gli obiettivi della ricerca fino a comprendere che la diaspora mediterranea in corso costituisse una vera e propria sfida epistemologica.
Mostrare una mutazione in atto, a livello globale, degli assetti urbani e territoriali era l’intento iniziale di tale gruppo di studiose e studiosi. Si trattava di un gruppo ampio e articolato. Un’équipe transnazionale di ricerca coordinata da Ola Söderström aveva, infatti, scelto Palermo per indagare sull’intreccio tra la dimensione culturale e quella urbana dei processi di globalizzazione. Urban Cosmographies. Indagine sul cambiamento urbano a Palermo ha mostrato con evidenza come nel capoluogo siciliano fosse in atto un processo che esponeva la città a flussi globali di persone, idee e capitali e inscriveva entro gli spazi della sua vita quotidiana nuovi paesaggi e regimi urbani cosmopoliti. Le azioni di governance urbana messe in atto da due amministrazioni della città di segno opposto vennero così valutate alla luce del complesso dei flussi di mobilità di persone, conoscenze e capitali che tali politiche erano state in grado di intercettare. Leggendo questo lavoro e le immagini che lo corredano, ciascuno potrà formarsi un proprio giudizio sull’efficacia di tali politiche, ma non potrà comunque negare che dall’uno e dalle altre scaturisce un’immagine inedita della città. Gli artefatti urbani attivano luoghi di contrasto e nuovi posizionamenti identitari ma, se reinscritti nelle catene d’azione che li generano, essi svelano le retoriche cui si ispirano le diverse pratiche di governance urbana e i regimi urbani cosmopoliti a esse correlati. Il caso di Palermo è stato poi rivalutato dallo stesso Söderström in un quadro comparativo a scala globale con altre dinamiche urbane in contesti asiatici e africani.
In parallelo si è sviluppata un’altra esperienza di ricerca che ha promosso un quadro di comparazioni a scala, questa volta, nazionale. La composizione del gruppo di ricerca ha consentito di mettere a fuoco dinamiche in atto in città di diverse dimensioni, dalle grandi alle medie, e dislocate sia al Nord (Venezia e Trieste) che al Centro (Bologna e Pisa) che al Sud d’Italia (Palermo e Bari). Si è potuto così constatare quanto diffusa e capillare fosse la mutazione in atto nel nostro Paese. Una metodologia innovativa basata sui sopralluoghi e sulle pratiche dell’ascolto attivo ha consentito di esplorare, inoltre, i diversi contesti urbani nelle pieghe più intime della vita quotidiana e di valutare quanto fosse profondo il grado di coinvolgimento delle popolazioni e dei luoghi indagati in un processo di transizione che coinvolgeva il locale e il globale proprio al confine tra lo spazio pubblico e lo spazio privato. Aprendosi ad altre esperienze disciplinari, il gruppo di Palermo giungeva alla comprensione di quanto traumatica e spaesante fosse la transizione in atto e di quanto ineludibile la necessità di adottare una strategia di ricerca innovativa. La diaspora mediterranea s’impose, così, come asse portante dell’esperienza di ricerca e dei suoi prodotti a stampa e come fuochi tematici di due eventi cui si decise, come vedremo, di dare vita all’insegna de La città cosmopolita.
La compressione spazio-temporale aveva prodotto contesti urbani e territoriali il cui profilo non poteva essere descritto senza adottare uno «sguardo cosmopolita». Senza mettere, cioè, in discussione quel «nazionalismo metodologico» che è, per così dire, congenito alle scienze sociali e territoriali e che consiste nel considerare ogni evento di natura socio-spaziale entro l’orizzonte costituito dai singoli Stati nazionali e dalle loro frontiere. Nel corso della ricerca il gruppo locale di Palermo è pervenuto alla convinzione che, piuttosto che esporre i paesaggi urbani a uno sguardo cosmopolita, una strategia più appropriata s’imponesse e che si dovessero sondare le opportunità metodologiche offerte dalle «geografie dell’ascolto. Procedere dunque per sopralluoghi, esplorare quelle che Clifford chiama «zone di contatto» e provare a costruire «luoghi dell’ascolto», situazioni e contesti, cioè, in cui la narrazione autobiografica fosse resa possibile dall’interazione tra intervistatore e intervistato. Il mondo vissuto dei migranti incontrati nel corso dell’inchiesta si dimostrava così intenso, sofferto e partecipato da sconsigliare ogni forma di generalizzazione o di astrazione. Il valore di ogni singola esistenza umana, che emergeva dalle interviste, era tale da imporsi come qualcosa di singolare e non sovrapponibile alle altre esperienze. La stessa diaspora mediterranea, da esodo di massa, si diversificava e frastagliava così in una varietà e molteplicità di esperienze soggettive.
Praticare le geografie dell’ascolto acquisiva il senso di misurarsi non con fenomeni collettivi quanto piuttosto con orizzonti di eventi specifici e singolari. Tutto questo induceva anche noi stessi ad assumere, rispetto al campo della ricerca e alla drammaticità delle esperienze di cui siamo diventati testimoni, un atteggiamento che non poteva che ispirarsi all’icastica frase di Michel Foucault: «La sofferenza degli esseri umani non deve mai essere un residuo muto della politica» e a fare nostro il programma d’azione enunciato dal pensatore francese: «non siamo altro che singoli individui che parlano, e lo fanno insieme, unicamente a titolo di una certa comune difficoltà a sopportare quanto accade».
L’orizzonte di eventi mediterranei
Il Mediterraneo descrive attorno a noi un orizzonte di eventi. Non sono due i mondi che entrano in contatto, né quattro (Nord/Sud, Est/Ovest) ma molti in una combinazione plurale – per dirla con Roberto Esposito –, e sempre mobile di singolarità. Per cogliere l’eco di tali eventi, per raccoglierne i molteplici segnali, le scienze storiche e sociali devono assumere posture nuove e dimostrarsi sensibili a ciò che è mobile, singolare e plurale al tempo stesso. Nelle pagine che seguono proverò ad articolare un discorso sulle nuove geografie, quelle che chiamerò «geografie dell’ascolto». Nella speranza che da esse si possa accedere a qualcosa che accade all’incrocio tra l’altra vita e un mondo altro.
Le politiche europee nei confronti di migranti, rifugiati politici e richiedenti asilo disegna attorno a noi un tragico orizzonte di eventi. Ciascuno di essi, nello stillicidio della successione, merita di essere affrontato per il valore che ha in sé, ma la serie assume una rilevanza tale da indurre ad adottare la più pregnante parola «strage» e tende ad assumere i connotati di un vero e proprio crimine contro l’umanità.
Pensare ogni singolo evento – e il luogo – rappresenta una sfida sia per il pensiero filosofico sia per la ricerca geografica in quanto comporta la necessità di operare uno sfondamento nel regime di pensiero consolidato e confrontarsi con una situazione paradossale. L’elemento chiave, che mi preme sottolineare, è che il pensiero critico si attiva quando ci si trova in presenza di una relazione paradossale, cioè di una relazione che non è tale. Riuscire a pensare insieme il dramma del naufragio e la banalità della vita quotidiana non è così semplice, né naturale, perché c’è un mare che li separa. Un mare che oggi funziona come una frontiera.
Il gruppo di ricerca, però, si convinse ben presto che un obiettivo così ambizioso come pensare in forme inedite un evento, che si ripeteva con ossessiva cadenza sotto gli occhi di tutti (e nell’indifferenza di tanti) non potesse realizzarsi all’interno della ristretta arena della comunicazione scientifica. Per operare lo sfondamento, occorreva confrontarsi con una platea più vasta. Ecco perché il programma di ricerca aveva avuto inizio con due edizioni (2006 e 2007) di un evento denominato, come abbiamo visto, La città cosmopolita, in cui s’intrecciavano i momenti del dibattito scientifico, i sopralluoghi in «zone di contatto» e manifestazioni pubbliche comprendenti spettacoli, musica e performance artistiche.
Topografie diasporiche
Se non si pongono spazio e luogo in opposizione, fare del mapping equivale a disegnare un orizzonte di eventi. E tale orizzonte altro non è che un universo di senso. Anzi, universi di senso. Il plurale è d’obbligo, in quanto attorno a ciascun evento si dispiegano molteplici universi di relazioni. Il singolo evento non ha significato e valore per sé, ma lo acquista entrando in relazione con gli altri. Se assumiamo che il luogo è l’evento. Allora, ad un estremo troviamo il luogo, all’altro estremo, il mondo. Cioè, ad un estremo, gli eventi la cui ripercussione si esaurisce alla scala locale, all’altro estremo, gli eventi la cui eco si estende al mondo intero, cioè alla scala globale. Ma tra l’uno e l’altro estremo si dispiegano orizzonti di senso, cui noi abbiamo accesso in virtù delle scelte che operiamo. Non tutti gli eventi sono alla nostra portata. Ecco perché assume valore euristico la nozione di «orizzonte». Ogni volta che il pensiero e l’azione, che ne deriva, operano uno sfondamento, si amplia l’orizzonte di vita a cui abbiamo accesso.
Il movimento ha – come dice Chiara Giubilaro – un ruolo decisivo in tutto questo. È, per così dire, il moltiplicatore e il differenziatore dei luoghi. Quando due esseri umani si incontrano – e uno rimane, mentre l’altro parte o arriva – è quest’ultimo a innescare il processo e scatenare più scie sul suo cammino. Per questo motivo, forzando un po’ le cose, si può affermare che è il movimento a creare lo spazio e i luoghi. Seguiamo il ragionamento di Giubilaro. Il primo richiamo è a Edward Said, il quale si domanda: Ma se invece il mondo fosse cambiato così drasticamente da consentirci oggi, forse per la prima volta nella storia, una nuova coscienza geografica, decentrata e/o multicentrica, restituendoci la consapevolezza di un mondo non più confinato nei compartimenti stagni dell’arte, della cultura e della storia, ma mischiato, confuso, vario, complicato dalla nuova e complessa mobilità delle migrazioni, da nuovi stati indipendenti, da nuove culture emergenti?
Si tratta, dunque, di alimentare una nuova coscienza geografica a partire da quei luoghi, disseminati per il mondo, in cui s’impara fin da piccoli che essere cittadini del mondo vuol dire assistere senza paura alla diaspora dei luoghi, oltre che delle persone: «Essendo stati portati attraverso il mondo […] sono uomini e donne traslati». Riconoscersi come persone che appartengono a più di un mondo, parlano più di una lingua (letteralmente e metaforicamente) abitano più di un’identità, hanno più di una casa; che hanno imparato a tradurre tra le culture, e che, essendo irrevocabilmente il prodotto di molte e intercomunicanti storie e culture, hanno imparato a vivere, anzi a parlare con la ‘differenza’. Parlano dalla ‘via di mezzo’ tra le differenti culture, sempre rimuovendo i presupposti di una cultura dalla prospettiva di un’altra, e trovando così il modo di essere ‘uguali’ e ‘differenti’ dagli altri in mezzo a cui vivono.
L’esperienza dell’esilio è cruciale in tutto questo: «L’esilio è qualcosa di singolarmente avvincente a pensarsi, ma di terribile a viversi. È una crepa incolmabile, per lo più imposta con forza, che si insinua tra un essere umano e il posto in cui è nato, tra il sé e la sua casa nel mondo. La tristezza di fondo che lo definisce è inarrivabile».
Ma cediamo di nuovo la parola a Chiara Giubilaro: «Se il movimento, dunque, rappresenta la caratteristica costitutiva del soggetto e dell’esperienza migrante, è opportuno provare a soffermarsi sulla sua definizione e sulle implicazioni ad esso connesse. Il movimento è l’azione di muoversi da un punto ad un altro, ed implica sempre una dislocazione (displacement), uno spostamento da un luogo ad un altro. Spazio e tempo si compongono in ogni evento dinamico secondo modalità interessanti. Il movimento – scrive Cresswell – non è altro che una spazializzazione del tempo e una temporalizzazione dello spazio. È, potremmo dire, un tempo percorso e uno spazio trascorso, richiama cioè una durata e una distanza, e le fa coincidere. Ogni spostamento distende lo spazio sull’asse del tempo, lo trasforma in linea, o meglio, in segmento, come risulta evidente in ogni sua rappresentazione visuale. Ma il movimento a cui qui ci richiamiamo è ben lontano dall’astrattezza nella quale considerazioni come quelle appena fatte potrebbero confinarlo. Al di là delle figure e dei modelli utilizzati negli spazi della rappresentazione e nei discorsi che a questi si rifanno, infatti, spostamenti e dislocazioni sono anzitutto esperienze corporee (embodied experiences), fisiche e concrete.
Sin qui mi pare di avere chiarito il nesso tra le città cosmopolite, le nazioni plurali e le esperienze del limite. La comprensione degli eventi in un orizzonte così mobile presuppone quella che Carlo Ruta chiama «mobilità dello sguardo» e noi «geografie dell’ascolto». Presuppone cioè la capacità di misurarsi con l’universo sconfinato delle narrazioni, di cui esuli e migranti sono straordinari interpreti. Soggetti migranti e intellettuali di frontiera sono stati i veri protagonisti dei due volumi dedicati a La città cosmopolita.
And So Europe Deshumanized Itself: performance artistica e convegno internazionale
Nel 2014, ancora una volta, una performance artistica ha dato avvio a un nuovo stadio della ricerca. Questa volta l’iniziativa fu assunta da Giulia de Spuches che decise di organizzare un evento aperto a un pubblico di non addetti ai lavori. Mise in scena con attori, musicisti e una cantante un evento teatrale dal titolo «And So Europe Deshumanized Itself». L’efficacia dello spettacolo si fondava sul ricorso alla lettura di pagine altamente drammatiche di Beloved di Toni Morrison, creando una connessione emotiva e intellettuale tra il dramma della schiavitù e lo sconvolgente destino cui le politiche europee espongono i migranti. In entrambi i casi, l’esercizio del potere è così violento e prevaricante da compromettere l’umanità non soltanto di chi lo subisce, ma anche di chi lo pone in essere.
Il momento scientifico seguì nel novembre del 2015 e fu convocato attraverso una Call for Action, nella consapevolezza che le parole del discorso scientifico non fossero più sufficienti a opporre resistenza all’ondata di xenofobia e nazionalismo avanzante e che occorresse mettere in campo più decise azioni di contrasto. I convegnisti si sforzarono di elaborare un nuovo linguaggio e nuove pratiche, nella consapevolezza del fatto che l’impegno scientifico e politico messo in atto negli anni precedenti non facesse più presa sull’opinione pubblica, sopraffatto da parole d’ordine certo più rozze, ma di gran lunga più pervasive, ovvero le «chiusure iperdidentitarie» di cui parla Carlo Ruta. Il gruppo dei geografi palermitani che aveva promosso l’iniziativa, raccolse quanto emerso dalla discussione e gli fece prendere la forma del Manifesto e che è stato riproposto nel corso del XXXII Congresso geografico di Roma (7-10 giugno 2017) nella sessione «Il Mediterraneo: per una geografia critica della frontiera» coordinata da C. Brambilla, A. Casaglia, R. Coletti, P. Cuttitta, G. de Spuches e V. Guarrasi.
Dopo la complessa azione performativa messa in atto con La città cosmopolita, in cui per la prima volta provavamo a confrontarci con un pubblico costituito non soltanto da addetti ai lavori, il Manifesto And so Europe Dehumanized Iteself segnò una ancora più forte esposizione al contemporaneo e alle sue contraddizioni. Nacque dalla consapevolezza del trovarsi in Sicilia in una vera zona di frontiera, luogo dello scontro e della spettacolarizzazione di alternative e conflittuali visioni del mondo e della vita.
La nostra terra brucia
Quando si parla di migranti, rifugiati e richiedenti asilo, da qualche anno sentiamo riproporre una improbabile distinzione tra chi fugge dittature, guerre, persecuzioni politiche e chi, invece, non è altro che un migrante economico. Tale distinzione artificiosa è funzionale a delle politiche che tendono – sulla carta ovviamente – ad accogliere i primi e respingere i secondi. Fatica a farsi strada una più pregnante espressione, quella di «profughi ambientali», che nella realtà tende a coprire la gran parte delle attuali e future generazioni di migranti. A causa del riscaldamento globale, i fenomeni più estremi – siccità, alluvioni, perdita di fertilità dei terreni, desertificazione, ecc. – tendono a essere sempre più frequenti in ogni parte del globo, ma in alcune aree manifestano particolare virulenza. Chi abbandona la propria casa e la propria famiglia spesso è forzato a farlo dal fatto che la terra, in cui è sempre vissuto e da cui ha tratto sostentamento, è diventata inospitale, di fatto inabitabile. Perché stenta a farsi spazio un’espressione che pure sembra attagliarsi a un alto numero di spostamenti? Il motivo è lo stesso, ritengo, che ha portato una parte del mondo politico e pubblicistico ad adottare termini meno appropriati alla realtà attuale – cambiamento climatico piuttosto che riscaldamento globale, migranti economici piuttosto che rifugiati ambientali – e meno cogenti rispetto alle politiche da adottare. Mutamenti del clima ce ne sono sempre stati, ma l’attuale riscaldamento globale è un fenomeno inedito, le cui responsabilità sono chiaramente da imputare all’azione umana.
Eppure, che il riscaldamento globale sia la priorità assoluta, anche per i tempi ristretti che impone all’agire umano, è una convinzione e un sentire profondo che tende a diffondersi tra la popolazione in ogni angolo della superficie terrestre. Soprattutto tra i giovani. Ecco perché non può non suscitare sgomento un fenomeno, per cui la Sicilia si presenta ancora una volta come terra di frontiera e di evidenti contraddizioni. Essa, infatti, continua a distinguersi per un fenomeno presente e diffuso in ogni dove, in Italia e nel mondo, ma che nell’Isola mostra una sorta di orrida e beffarda sistematicità: la distruzione ad opera di incendi di natura dolosa del manto boschivo. Le attività distruttive messe in atto ogni qual volta spiri lo scirocco o comunque le condizioni climatiche siano favorevoli alla diffusione degli incendi ci hanno indotti a pubblicare una petizione, promossa da Giovanna Soffientini e da me, su un canale dedicato, change.org, che in pochi giorni ha raccolto più di 4.000 firme. La petizione intitolata «La nostra terra brucia: appello alle Siciliane e ai Siciliani» così recita:
«La nostra terra brucia. Da ieri sera, per tutta la notte. Dappertutto. Vanno in cenere interi boschi, la macchia mediterranea, ogni copertura vegetale. La nostra terra si spoglia del suo manto protettivo e siamo tutti più indifesi di fronte all’avanzare del riscaldamento globale.
Evidentemente, in questa terra desolata si è dimenticato che l’ambiente della vita è stato creato dalle piante e che questa potenza generativa è all’opera in ogni momento e in ogni dove. Essa costituisce la nostra unica garanzia di sopravvivenza. Come ha magistralmente mostrato Stefano Mancuso ne La nazione delle piante la nostra speranza di vita è, sicuramente, legata alla decisa determinazione umana di smettere di avvelenare l’ambiente con le emissioni dei nostri veleni. Ma questo sforzo da solo sarebbe destinato all’insuccesso se non venisse accompagnato da una nuova alleanza con quel mondo vegetale di cui siamo figli: bisogna arrestare il processo di deforestazione ancora in atto in ogni parte del mondo – pensiamo a quanto sta avvenendo in Amazzonia – e piantare alberi e altre essenze vegetali dappertutto, anche e soprattutto nelle città e metropoli, che ospitano ormai la stragrande maggioranza della popolazione mondiale.
Se vogliamo vivere, se vogliamo che i nostri figli e i nostri nipoti possano vivere, dobbiamo chiedere aiuto a chi ha la potenza di rigenerare ciò che abbiamo colpevolmente distrutto sia sulle terre emerse che nella profondità degli oceani. Le piante sì, lo ribadisco: molto dipende da loro.
Perché tutto ciò avvenga è necessaria una profonda svolta culturale. Una messa in questione del senso stesso d’identità. Al di là delle maschere che indossiamo, non vi è identità che non sia relazionale, non vi è identità che non sia plurale. Anche in questo, le piante ci fanno da modello, esse vivono in comunità di diversi. Cooperano con insetti e animali in un tipo di rapporto in cui la solidarietà batte nettamente il conflitto. La concorrenza lasciamola al mercato e alle sue logiche perverse. Abbandoniamo un darwinismo malinteso che ci induce a pensare all’ambiente naturale come a un mondo in cui tutti sono contro tutti e vince il migliore. Come dice David Quammen ne L’albero intricato, la selezione naturale premia il più adatto e non il migliore. E, comunque, il migliore non siamo certo noi, essere umani, come la storia naturale dimostra a piene mani.
Come sostiene Bruno Latour ne La sfida di Gaia, a forza di cure, si può guarire dalla convinzione che noi non apparteniamo al mondo, che quel che accade al mondo non ci riguarda. Ci riguarda, eccome. E dobbiamo imparare a prendercene cura. Soltanto così potremo imparare a guarire noi stessi: è un compito impellente, soprattutto in Sicilia, dove agli effetti devastanti del riscaldamento globale, dovuto all’azione umana su scala globale, si sommano le azioni criminali di quanti per perseguire i propri miopi personali interessi continuano a distruggere quanto di più prezioso ci circonda e ci sostiene e la colpevole latitanza delle istituzioni, che continuano a lamentare i danni, ma non mettono in atto alcuna azione di contrasto significativa rispetto a un fenomeno le cui modalità sono assolutamente ripetitive e prevedibili in ogni occorrenza.
Come avvenne, dopo le stragi di Falcone e Borsellino, si richiede oggi una mobilitazione straordinaria dei Siciliani per interrompere questa nuova stagione di stragi. Iniziamo, prendendo a modello Danilo Dolci e organizziamo uno sciopero alla rovescia, che consista nel piantare alberi luoghi della Sicilia che abbiano un grande valore simbolico (…).»
La rottura paradigmatica: fare appello alle piante per riscoprire il senso della solidarietà e della cooperazione
Eccola qui la rottura paradigmatica: l’ambiente dell’esperienza umana si qualifica come una sottile pellicola, che ospita la vita. Ma questo sottile strato biotico, che fa del pianeta Terra un apax, osserva Bruno Latour ne La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, non è il prodotto né del caso né della necessità. Come scrive Stefano Mancuso ne La Nazione delle piante, esso è il frutto di un processo di creazione e di manutenzione costante da parte delle piante. Il punto sta proprio qui: il pur breve percorso evolutivo – tale appare se commisurato alla scala del mondo abiotico – che ha interessato la comparsa e la diffusione della vita sulla Terra ha come protagonista assoluto il mondo vegetale. Esso prevale sul mondo animale, non soltanto per il suo ruolo attivo e generativo, ma anche per la durata e per la dimensione quantitativa. E non finisce qui, le piante costituiscono la nostra unica opportunità di sopravvivenza di fronte alla sfida epocale che ci troviamo dinnanzi:
«Che dalle piante dipende la nostra unica possibilità di sopravvivenza dovrebbe essere insegnato nelle scuole ai ragazzi e agli adulti in ogni altro luogo. I registi dovrebbero farne film, gli scrittori libri. Chiunque è chiamato a mobilitarsi, e se credete che stia esagerando e non vedete alcun vero motivo per alzarvi dal divano per difendere l’ambiente e le foreste, sappiate che questa è l’unica, vera, emergenza mondiale. La maggior parte dei problemi che affliggono l’umanità oggi, anche se apparentemente lontani, sono collegati al pericolo ambientale e rappresentano gli innocui prodromi di ciò che verrà se non l’affronteremo con la dovuta fermezza ed efficienza.
Le piante possono aiutarci. (…) Le nostre città (…) dovrebbero essere completamente ricoperte di piante. Non soltanto negli spazi deputati: parchi, giardini, viali, aiuole, ecc. ma dappertutto, letteralmente: sui tetti, sulle facciate dei palazzi, lungo le strade, su terrazze, balconi, ciminiere, semafori, guardrail ecc. La regola dovrebbe essere una sola e semplice: dovunque sia possibile far vivere una pianta, deve essercene una. La cosa non richiederebbe che costi irrilevanti, migliorerebbe in una miriade di modi la vita delle persone, non esigerebbe nessuna rivoluzione nelle nostre abitudini, come molte altre soluzioni alternative proposte e avrebbe un grande impatto sull’assorbimento di CO2. Difendiamo le foreste e copriamo di piante le nostre città, il resto non tarderà a venire».
Pur avendo immaginato per millenni di essere le creature più perfette dell’universo, abbiamo irresponsabilmente attivato un processo di distruzione dell’ambiente che ci circonda e dona la vita. Il riscaldamento globale rappresenta un processo che noi, esseri umani, abbiamo innescato e non siamo più in grado di arrestare. Anche se riuscissimo a rispettare gli impegni di riduzione delle emissioni assunti in importanti eventi internazionali alla scala globale, il sistema delle azioni e delle reazioni di fatto scatenato con il consumo massiccio di combustibili fossili negli ultimi secoli farebbe sì che questi sforzi non sarebbero comunque sufficienti a garantire l’arresto della sesta estinzione di massa di specie in atto sulla superficie terrestre. Soltanto l’ausilio da parte delle piante, come abbiamo visto, potrebbe contribuire a riparare e restaurare una situazione già in larga parte compromessa.
Perché non riusciamo a prendere atto della scarsa rilevanza dell’umano rispetto all’incidenza positiva del mondo vegetale? Forse ciò dipende dal fatto che non abbiamo del tutto assorbito le tre ferite narcisistiche di cui parlò a suo tempo Sigmund Freud e tanto meno siamo disposti ad accettare che ce ne venga inferta una quarta. Per comprendere fino in fondo la lezione delle piante e configurare l’umano entro lo sfondo della grande storia disegnata dal mondo vegetale nella conquista della Terra, bisogna prima rivivere i tre traumi che secondo Freud hanno caratterizzato la formazione stessa della cultura occidentale moderna:
«… dapprima Copernico, poi Darwin e infine Freud stesso. Tre volte di seguito l’arroganza umana sarebbe stata profondamente ferita da scoperte scientifiche: la prima volta, dalla rivoluzione copernicana che avrebbe scacciato l’uomo dal centro del cosmo; poi, straziata ancora più a fondo dall’evoluzione darwiniana che ha fatto dell’umano una specie di scimmia nuda; infine, per la terza volta, dall’inconscio freudiano che avrebbe espulso la coscienza umana dalla sua posizione centrale.»
Sono riti di passaggio, per così dire, di cui è lastricata la strada che ci porta verso una visione adulta del nostro posto nel mondo.
Lo stesso Bruno Latour, però, integra il processo di promozione di nuove rotture paradigmatiche, quando ci suggerisce come l’ambiente non possa più essere interpretato come qualcosa di inanimato. In chiave geostorica non soltanto viene rimesso in questione il rapporto tra le società umane e il contesto in cui esse vivono. Quest’ultimo non costituisce lo sfondo e la cornice in cui la storia umana e i conflitti sociali prendono forma, ma si anima di una serie d’intenzionalità tali da mettere in forse la distinzione tra soggetti umani e non umani.
Soltanto se assumiamo coscienza della pluralità e singolarità degli agenti in gioco, possiamo comprendere la lezione che proviene dalla Nazione delle piante.
Qui, però, il discorso di Latour si fa più impervio, soprattutto quando, sulla scia di Lovelook e di Pangulis, prova a spiegare la sibillina frase: «There is only one Gaia, but Gaia is not One». Una visione olistica di Gaia ci indurrebbe a sottovalutare la sua più importante proprietà: essa non funziona come un superorganismo che tutto contiene e comprende, quanto piuttosto come la risultante mobile, fluida, complessa e imprevedibile di un pullulare continuo e costante di una molteplicità di agenti, ciascuno dei quali appare mosso da una propria intenzionalità:
«In senso stretto, per James Lovelock e ancora più chiaramente per Lynn Margulis, non esiste più ambiente a cui potersi adattare. Poiché tutti gli agenti viventi seguono costantemente le loro intenzioni, modficando i loro vicini quanto più possibile, è del tutto inconcepibile discernere quale sia l’ambiente a cui l’organismo si adatta e quale sia il punto in cui la sua azione cominci.»
Quando incrociamo Mancuso e Latour, ne deriva una miscela esplosiva: se il primo ci ricorda che, attraverso la sintesi clorofilliana, le piante hanno messo a disposizione degli altri viventi l’ossigeno, presupposto della loro vita, il secondo, affermando che l’ossigeno è pur sempre tossico, mutageno e probabilmente cancerogeno e che per questo fissa un limite alla durata della vita, ricorda però, al tempo stesso che fu proprio la disponibilità di un po’ di ossigeno, alla fine dell’Archeano, a modificare la chimica dell’ambiente e ad innescare la mutazione dei primi ecosistemi di allora.
Le implicazioni di questa miscela non possono sfuggire ai cultori della ricerca storica e delle discipline sociali e umane: ora sì che comprendiamo perché la vecchia storia evenemenziale aveva comunque una presa sull’animo umano: «tutto quel che accade non accade che una volta sola, non accade che a noi, qui». Sta tutto in quel «qui», la dimensione locale dell’esistenza esplode con forza incomprimibile nel divenire globale del mondo. Si fondono così locale e globale, naturale e culturale, e precipitano insieme con la stessa forza rivelata nel mondo fisico dalla scissione dell’atomo. Tutto ciò appare difficile, anzi quasi impossibile da governare entro un quadro teorico ed epistemologico coerente, che potremmo chiamare geostorico, ma dobbiamo comunque provarci. Come accade a tutti i viventi, anche ai ricercatori non è dato sottrarsi alla dittatura della contingenza. Si suole dire d’altronde: hic Rodus, hic salta!
* Vincenzo Guarrasi è professore emerito di Geografia all’Università degli Studi di Palermo. È stato direttore dell’Istituto di Scienze antropologiche e geografiche della Facoltà di Lettere e Filosofia, di cui nel triennio 2007-2010 era stato preside. Studioso delle fenomenologie migratorie nel mondo contemporaneo, ha dedicato al tema numerosi saggi scientifici tesi a sottolinearne l’ampiezza, i caratteri e gli effetti, anche nel medio e lungo periodo. È stato impegnato in programmi di ricerca e convegni internazionali sul rapporto tra le migrazioni mediterranee e il colonialismo europeo. Ha focalizzato inoltre una serie di tematiche specifiche: la condizione marginale; la produzione dello spazio urbano; il paesaggio e il patrimonio storico e culturale; la città cosmopolita. Dal 1988 al 1994 presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche ha rappresentato i geografi italiani ed è stato componente del Comitato nazionale per le scienze storiche, filosofiche e filologiche. È stato vicepresidente dell’Associazione dei Geografi Italiani.
I genitori dei ragazzi di seconda e terza media che a causa della zona rossa non possono andare a scuola in presenza possono chiedere il congedo parentale con un’indennità al 50% della retribuzione purché lavoratori dipendenti e purché non sia possibile lavorare in modalità agile. Lo precisa una circolare Inps riferita all’articolo 22 bis della legge 176/2020.
Il congedo può essere chiesto per il periodo di sospensione dell’attività didattica a partire dal 9 novembre 2020 data di entrata in vigore del decreto 149/2020. Può essere utilizzato anche da parte di genitori lavoratori dipendenti di figli con disabilità in situazione di gravità accertata iscritti a scuole di ogni ordine e grado o a centri diurni per i quali è stata decisa la chiusura.
Il congedo può essere fruito da uno solo dei genitori oppure da entrambi, ma non negli stessi giorni. «Il congedo – si precisa – può essere fruito nei soli casi in cui i genitori non possano svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile».
Non è necessaria la convivenza del genitore con il figlio per cui si chiede il congedo. Non è possibile fruire del congedo negli stessi giorni in cui l’altro genitore stia svolgendo attività di lavoro in modalità agile concesso per esigenze legate allo stesso figlio né quando l’altro genitore stia fruendo del medesimo congedo, per lo stesso figlio. E’ invece possibile la fruizione del congedo negli stessi giorni in cui l’altro genitore stia fruendo del congedo per un altro figlio di entrambi i genitori.
«La crisi ha pesato e pesa in modo diverso sui nostri studenti. Chi appartiene alle fasce deboli paga due volte questa emergenza che ha aumentato i divari sociali, rendendo ancora più urgente la necessità di garantire pari opportunità ai gruppi sociali più fragili». È quanto ha ricordato ieri mattina la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, presentando al ministero gli interventi per contrastare le povertà educative che saranno realizzati in collaborazione con il Terzo settore e l’associazionismo.
All’evento hanno preso parte Carmela Pace, presidente di Unicef Italia, Raffaella Milano, direttrice del Programma Italia di Save the Children, Cesare Moreno, presidente dell’Associazione Maestri di strada Onlus, Floriana Fanizza, responsabile nazionale Donne impresa Coldiretti, Claudia Fiaschi, portavoce Forum nazionale Terzo settore.
La ministra ha spiegato che «fin dall’inizio della pandemia, grazie anche alle azioni intraprese con partner di alto livello, l’obiettivo è stato quello di raggiungere i più deboli, i ragazzi a rischio dispersione scolastica, quelli che vivono in condizioni di svantaggio. Un lavoro spesso poco visibile, che si svolge nelle periferie, lontano dagli sguardi della maggior parte dei cittadini, che tocca milioni di bambine e bambini, ragazze e ragazzi che non hanno tutti i mezzi che dovrebbero e di cui lo Stato ha il dovere di occuparsi».
Il ministero ha stanziato nel 2020 più di 66 milioni per il contrasto alle povertà educative tra interventi e progetti contro la dispersione, il potenziamento dell’offerta formativa, gli investimenti per garantire connessioni e pc a chi non li ha per la didattica a distanza, il ripristino di aule e strutture vandalizzate.
«Per il 2021 abbiamo altri 118 milioni da destinare a questi obiettivi in collaborazione con il Terzo settore e l’associazionismo: i prossimi mesi saranno cruciali per rafforzare la nostra azione affinché nessuno resti indietro», ha ricordato Azzolina.
«La povertà educativa priva i bambini e i ragazzi delle opportunità cui hanno diritto e richiede soluzioni che utilizzino un approccio organico e sistemico. Garantire a ogni bambino, bambina e adolescente la realizzazione delle proprie potenzialità è un bene comune di cui tutti siamo responsabili» ha spiegato Carmela Pace.
«Abbiamo capito che la situazione era grave e ci siamo dati da fare. Abbiamo sviluppato programmi con oltre 150 partecipanti. Interventi socio-educativi dentro e fuori la scuola nelle periferie di Napoli, per prevenire la dispersione e promuovere l’inclusione sociale e la cittadinanza attiva. Anche così abbiamo promosso la responsabilità nei nostri ragazzi», ha aggiunto Cesare Moreno.
«La crisi che stiamo vivendo ha reso ancora più evidente l’importanza di costruire alleanze educative. Abbiamo visto la scuola entrare dentro le case, i genitori chiedere sostegno agli insegnanti e gli insegnanti rivolgersi agli operatori del Terzo settore, con questi ultimi impegnati ogni giorno a rintracciare bambini e ragazzi che erano fuori dal radar delle scuole. Si tratta di un patrimonio molto prezioso che non deve andare disperso», ha dichiarato Raffaela Milano.
«La scuola rappresenta in certe situazioni l’unico luogo dove poter usufruire di un pasto completo per alcune famiglie», ha sottolineato Floriana Fanizza. «Consolidiamo la collaborazione con le Istituzioni per trasformare presìdi educativi, reti anche spontanee che si sono formate sul territorio in alleanze stabili, in strumenti strutturali a disposizione delle nostre comunità», ha spiegato Claudia Fiaschi.
Sono intervenuti, infine, rappresentanti di scuole già impegnate in progetti finanziati dal Ministero e, in particolare, Paola Carnevale, dirigente scolastica Istituto comprensivo Eugenio Montale di Scampia, che ha presentato il progetto “La Scuola in Movimento” per la quale «è importante non solo curare la dispersione scolastica, ma prevenirla»; Gianni Maddaloni, maestro di Judo che collabora con l’Istituto in un progetto contro la dispersione, ha spiegato che proprio grazie allo sport, a scuola «insegniamo il valore del rispetto per il prossimo e dell’educazione, anche ai figli dei boss. Daniela Mercante, dirigente scolastica dell’Istituto comprensivo Portella della Ginestra di Vittoria, ha raccontato il progetto didattico “Orto in condotta” per «cambiare il mondo a partire dalla scuola». Olimpia Pasolini, Dirigente scolastica Istituto Vittorio Veneto di Napoli, ha illustrato il progetto “La scuola fuori dalla scuola”.
In Lombardia i ragazzi delle superiori potranno tornare (parzialmente) in classe da lunedì prossimo. Il prefetto di Milano Renato Saccone e la direttrice dell’Ufficio scolastico regionale Augusta Celada hanno inviato una lettera al presidente del Tar della Lombardia spiegando che questi sono i «tempi minimi insopprimibili» per dare attuazione al decreto con cui il Tribunale ha sospeso l’ordinanza regionale che imponeva fino al 24 gennaio la didattica a distanza al 100%.
La lettera spiega che ieri si è tenuta una riunione in prefettura a cui hanno partecipato il presidente della Regione Attilio Fontana e l’assessore al Welfare Letizia Moratti per parlare della decisione del Tar.
«Per garantire il rientro a scuola in sicurezza degli studenti delle scuole superiori – si legge nella lettera – tanto il mondo scolastico quanto il sistema del trasporto pubblico locale necessitano di tempi organizzativi minimi». E dunque alla riunione «si è convenuto sulla ragionevole necessità, anche ai fini dell’omogeneità territoriale, che al Decreto de quo venga data attuazione a decorrere dal prossimo lunedì 18 gennaio, al fine di consentire al trasporto pubblico e agli istituti scolastici di disporre di tempi congrui per una opportuna comunicazione anticipata ai fruitori dei rispettivi servizi». E anche se consapevoli che il quadro normativo potrebbe cambiare con il nuovo Dpcm e che i dati epidemiologici potrebbero portare la Lombardia in zona rossa (dove le lezioni alle superiori sono tutte in dad) «si comunica che verrà posto in essere ogni sforzo – assicurano Saccone e Celada – per garantire una ripresa in sicurezza del mondo della scuola quanto più uniforme sul territorio nazionale».
«È stato approvato all’unanimità in Consiglio regionale un mio ordine del giorno alla stabilità con cui il Lazio si impegna a dotare le scuole e gli studenti che ne hanno bisogno di dispositivi di protezione inclusivi, come le mascherine trasparenti – dichiara Eleonora Mattia, presidente della commissione Scuola – che consentano di fruire della didattica e della socialità in maniera più inclusiva possibile. La scuola sta affrontando grandi sfide, ma l’umanità deve sempre essere la nostra priorità. Non sarò un ordine del giorno a risolvere tutte le grandi difficoltà che i ragazzi e le ragazze con disabilità uditiva stanno vivendo a causa della pandemia, ma è sicuramente un segnale con cui il Lazio si mette al servizio dei diritti di tutte e tutti».
«L’obbligo delle mascherine in aula ha reso ancora più complicata la già difficile vita delle bambine e bambini, ragazze e ragazzi non udenti che con la copertura della bocca degli interlocutori si sono trovati ad affrontare un’ulteriore barriera alla comunicazione e all’apprendimento. Io continuerà a battermi affinché il diritto allo studio di tutti gli studenti e di tutte le studentesse sia al centro del dibattito», ha concluso Eleonora Mattia.
Gli studenti italiani con tutta probabilità preferiranno i licei al Sud e al Centro Italia, i tecnici al Nord. E’ quanto emerge da uno studio della rivista specializzata Tuttoscuola che ha elaborato i dati del ministero dell’Istruzione relativi alle iscrizioni all’anno scolastico in corso.
L’anno scorso i vari indirizzi liceali sono stati scelti dal 56,3% dei ragazzi, ma il divario di scelta è stato notevole: oltre 20 punti in percentuale tra il Lazio che ha registrato complessivamente il 68,9% di scelte e l’Emilia Romagna con il 47,4%.
Dopo il Lazio, nella graduatoria dei maggiori gradimenti per i licei l’Abruzzo, la Campania; per i minori gradimenti con l’Emilia R. il Veneto, la Lombardia, il Friuli, il Piemonte. Complessivamente nelle regioni del Centro-Sud (Isole incluse) si accentra più del 64% delle scelte per i licei.
Con riferimento ai singoli indirizzi, se le scelte degli ultimi due anni saranno confermate, per quanto riguarda il liceo classico (scelto in media a livello nazionale dal 6,7%) in Sicilia, Calabria e Lazio lo sceglierà più del 10% dei ragazzi (a seguire Basilicata, Abruzzo, Campania e Puglia), mentre le regioni del Nord saranno ben sotto la media nazionale con l’Emilia Romagna che non andrà oltre il 3,8%.
Molto interessante la comparazione con la popolazione scolastica di riferimento: il 74% degli studenti che scelgono il classico vivono al Centro-Sud, dove si concentra solo il 57% degli studenti iscritti quest’anno in terza media. Insomma quella che è sempre stata considerata un’eccellenza della scuola italiana attrae ancora soprattutto nel Meridione, mentre al nord dello Stivale ci si orienta in media sempre più verso studi scientifici o tecnici, probabilmente perché considerati con più sbocchi occupazionali.
Scelte che nel tempo producono effetti sulla conformazione culturale, sociale ed economica del Paese.
Non è molto diversa la situazione del liceo scientifico nelle sue tre opzioni di indirizzo (scientifico tradizionale, scienze applicate e indirizzo sportivo) che hanno registrato complessivamente una media nazionale del 26,2%. Tra il 30% e oltre il 32% si posizionano Molise, Abruzzo, Lazio e Campania (seguite da altre regioni meridionali), mentre con percentuali di scelta decisamente sotto la media nazionale si trovano diverse regioni settentrionali con il Veneto in fondo che ha registrato il minor gradimento complessivo attestato al 21,3%.
Le regioni settentrionali raccolgono soltanto un terzo delle iscrizioni per gli scientifici. Range invece piuttosto contenuto (tra 9,8% e 7%, per un valore medio di 8,7%) per i due indirizzi di scienze umane e non significativa differenza di scelta tra i territori.
La stessa considerazione vale anche anche per gli indirizzi minori, come, ad esempio, i licei artistici, il musicale e il coreutico. Merita attenzione l’indirizzo linguistico che ha una media nazionale di gradimento (8,8%) superiore a quella per il liceo classico (6,7%). Il divario territoriale non è evidente.
Divario territoriale non evidente anche per i professionali (range di 6,8 punti) scelti dal 12,9% dei ragazzi.
Un discorso ben diverso è invece quello dei tecnici che nei due indirizzi specifici (economico e tecnologico) sono stati scelti dal 30,8% dei ragazzi. Il range è di oltre 16 punti in percentuale: 38,7% in Veneto e 22,5% nel Lazio.
Nelle regioni settentrionali si raccoglie più del 47% degli iscritti ai tecnici (con il 43% della popolazione scolastica di riferimento). Le percentuali più alte (tra il 38,7% e il 33,3%) si riscontrano in Veneto, Emilia R., Friuli VG, Lombardia e Piemonte. Con percentuali di minor gradimento Lazio, Campania, Basilicata e Sicilia. Entro il 25 gennaio prossimo i circa 550mila ragazzi del terzo anno delle scuole statali e paritarie della secondaria di I grado dovranno scegliere l’indirizzo di scuola superiore.
Adolescenti ancora invisibili nei provvedimenti emanati al rientro dopo la pausa natalizia: tra i banchi l’11 gennaio sono tornati, al 50% delle presenze, solo gli studenti delle superiori di Toscana, Valle D’Aosta e Abruzzo. E mentre il Tar della Lombardia ha respinto l’ordinanza del governatore Fontana che disponeva le lezioni a distanza sino al 25 gennaio e in Emilia-Romagna, dove il provvedimento è stato analogo, un gruppo di genitori ha appena presentato un ricorso, si moltiplicano gli appelli per il rientro nelle aule. E non solo: una sessantina di psicologi ha firmato un documento per sollecitare l’Ordine nazionale e gli ordini regionali a prendere posizione ufficiale sul disagio psicologico di bambini e ragazzi con la scuola a distanza.
L’ultimo appello per la scuola in presenza è promosso da associazioni e movimenti (ActionAid, Coordinamento presidenti Consiglio d’istituto Lazio, Forum Disuguaglianze e Diversità, ‘OQuarantotto, Priorità alla Scuola, Unione degli studenti) e già firmato da intellettuali, infettivologi, pedagogisti, economisti: Tito Boeri, Bruno Tognolini, Raffaele Mantegazza, Silvia Vegetti Finzi, Daniele Novara, Antonella D’Arminio Monforte, Stefano Rusconi e Sergio Lo Caputo, rispettivamente docenti di Malattie Infettive a Milano e Bari, Francesca Incardona (amministratore EuResist Network), i registi Francesco Munzi e Susanna Nicchiarelli, Carlo Federico Perno, professore di Microbiologia a Roma.
“Con scuole secondarie ancora chiuse da dieci mesi e i limiti ormai riconosciuti della Dad, sono minati i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e con essi il futuro dei nostri ragazzi e ragazze e del nostro Paese”, la sintesi dell’appello già consegnato a Nicola Zingaretti e inviato al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e ai ministri alla Salute e all’Istruzione.
“Gli studi dell’Istituto Superiore di Sanità italiano dimostrano lo scarso contributo dato dalla scuola all’epidemia in Italia: solo il 2% dei focolai nel periodo 31 agosto – 27 dicembre – si legge – Il Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (ECDC) ha ribadito che la scuola in presenza con le misure di distanziamento e protezione non è un driver dell’infezione, concludendo che “Chiudere le scuole non è un modo efficace per combattere l’epidemia”.
Le richieste dei firmatari riguardano interventi per garantire la didattica in presenza, la prevenzione sanitaria, la qualità dell’apprendimento. Accanto alla riapertura degli istituti scolastici, l’adozione di misure straordinarie per rafforzare i mezzi pubblici, “che si adeguino alle esigenze scolastiche e non viceversa”; i monitoraggi rapidi a livello scolastico e la tutela dei lavoratori della scuola, “che siano considerati categorie prioritarie nella campagna di vaccinazione”; il rispetto dei decreti delegati e dei diritti di tutte le componenti scolastiche; una strategia a livello nazionale di monitoraggio della qualità degli strumenti di apprendimento a distanza e sulla dispersione scolastica.
I firmatari – qui l’appello completo – chiedono urgentemente anche un piano strategico per il mondo dell’istruzione: che “l’investimento nella scuola, infrastrutture e personale, sia preminente nelle scelte del Governo, in modo da garantire la sicurezza e permettere un’offerta formativa migliorata per recuperare almeno in parte il gap accumulato”.
Gli psicologi: “Si prenda posizione ufficiale sul disagio di bambini e ragazzi”
“Da molti mesi ormai assistiamo ad annunci in cui il governo e le regioni si impegnano a far ripartire le attività scolastiche tutte e in presenza, ma puntualmente le promesse vengono disattese. In particolare sono le scuole superiori a pagare il prezzo più alto, e in parte anche le medie senza contare la grande disparità regionale, che assegna il primato per scuole chiuse alla Campania, in cui anche i bambini della primaria sono rimasti a casa”.
Comincia così l’appello di 60 psicologi e psicologhe di tutta Italia, da Torino a Napoli. Un lungo documento – qui la versione integrale con le firme – dove si riportano gli esiti di ricerche e studi sugli effetti della pandemia e delle scuole a distanza per i bambini e i ragazzi. “Siamo molto preoccupati degli effetti che la chiusura protratta della scuola e il confinamento dentro le mura domestiche hanno e potranno avere sulla salute mentale dei bambini e dei ragazzi. La salute e la cura delle giovani generazioni è un bene comune e anche noi psicologi siamo chiamati eticamente ad esplicitare, viste le nostre competenze, quali sono i danni che la gestione di questa pandemia sta producendo.
I professionisti vogliono sollecitare l’ordine nazionale degli psicologi e gli ordini regionali “che ci rappresentano, ad esprimere in modo chiaro e ufficiale, attraverso i canali di cui dispongono, la nostra preoccupazione, che nasce dall’osservazione diretta e dagli studi nazionali e internazionali”.
“La chiusura della scuola – viene osservato – contemporanea alla riapertura delle attività commerciali, trasmette ai ragazzi un segnale di disattenzione nei loro confronti se non come consumatori. Segna un paletto di cui crediamo si sottovalutino le conseguenze, nel rimandare loro il totale disinvestimento sulla dimensione di crescita, di messa a parte del mondo sociale, se non esclusivamente in termini di soggetti abilitati a spendere denaro.
E ancora: “Se la pandemia crediamo possa indurre nella popolazione giovanile una sensazione di ansia e di malessere rispetto all’incertezza del presente e del futuro, vogliamo porre l’attenzione sul fatto che il mantenimento delle scuole chiuse toglie ai ragazzi un luogo di confronto, pensiero e supporto dove potersi immaginare attori agenti del loro futuro, e dove essere sostenuti nel poterlo pensare e diventare”.
Il nuovo DPCM, che il governo si appresta a varare, dopo il decreto legge, non contiene novità di rilievo rispetto a quanto filtrato nelle scorse ore. Vediamo nel dettaglio cosa è previsto.
Le misure indicate nel Dpcm che il governo si appresta ad adottare nelle prossime ore saranno valide dal 16 gennaio al 5 marzo. Nel Dpcm viene inoltre ribadito lo stop agli spostamenti tra Regioni fino al 15 febbraio, approvato con il decreto di mercoledì.
Nuovo DPCM, cosa è previsto
Quasi tutta Italia in zona arancione e il divieto di spostarsi tra le regioni fino al 15 febbraio, con Lombardia e Sicilia che da domenica potrebbero essere le prime zone rosse del 2021. Entrerà in vigore nelle prossime ore la nuova stretta.
Nessun passo indietro, dunque, con il rinnovo di tutte le misure già in vigore a partire dal coprifuoco dalle 22 alle 5, le scuole superiori in didattica in presenza (fino al 75% qualora sia consentito) e l’inasprimento delle soglie per accedere alle zone con restrizioni, introdotte con il decreto approvato mercoledì: con Rt 1 o con un livello di rischio ‘alto’ si va in arancione, con Rt a 1,25 in rosso.
Il divieto di spostamento tra le regioni, comprese quelle gialle, sarà in vigore fino al 15 febbraio e non più al 5 marzo. Fino a quella data sarà invece valida la regola che consente una sola volta al giorno ad un massimo di due persone (oltre ai minori di 14 anni conviventi) di andare a trovare parenti o amici nella regione, se questa è in zona gialla, o nel comune se è in zona arancione o rossa.
“Lo spostamento verso una sola abitazione privata abitata – si legge nella bozza – è consentito nell’ambito del territorio comunale, una volta al giorno, in un arco temporale compreso tra le 5 e le 22 e nei limiti di due persone ulteriori rispetto a quelle ivi già conviventi, oltre ai minori di 14 anni sui quali tali persone esercitino la potestà genitoriale”.
Sempre fino al 5 marzo sarà possibile spostarsi nelle regioni arancioni dai comuni con una popolazione non superiore ai 5mila abitanti, per una distanza non superiore ai 30 km e mai verso i capoluoghi di provincia.
Chiuse anche palestre e piscine – anche se si continua a lavorare per consentire la ripresa almeno agli sport individuali nelle zone gialle – così come cinema e teatri. Confermata, invece, l’apertura dei musei, ma solo nelle regioni gialle e solo nei giorni feriali. “Il servizio di apertura al pubblico dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura di cui” è assicurato a patto che “garantiscano modalità di fruizione contingentata o comunque tali da evitare assembramenti di persone e da consentire che i visitatori possano rispettare la distanza tra loro di almeno un metro. Sono altresì aperte al pubblico le mostre, alle medesime condizioni previste dalla presente lettera per musei e istituti e luoghi della cultura”, si specifica nel testo.
“Sono sospesi le mostre e i servizi di apertura al pubblico dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura”, “ad eccezione delle biblioteche dove i relativi servizi sono offerti su prenotazione e degli archivi, fermo restando il rispetto delle misure di contenimento dell’emergenza epidemica”
Le Università, “in base all’andamento del quadro epidemiologico, predispongono piani di organizzazione della didattica e delle attività curriculari, da svolgersi a distanza o in presenza” secondo le “esigenze di sicurezza sanitaria nel rispetto delle linee guida del Ministero dell’università e della ricerca” e “ferme restando le attività che devono necessariamente svolgersi in presenza”.
La bozza del Dpcm in vigore dal 16 gennaio afferma che “i servizi di crociera da parte delle navi passeggere di bandiera italiana possono essere svolti nel rispetto delle specifiche linee guida validate dal Comitato tecnico scientifico”.
Con il decreto viene introdotta la ‘zona bianca’, in cui le uniche restrizioni sono il distanziamento e l’uso della mascherina. I parametri per entrarci – 3 settimane consecutive di incidenza di 50 casi ogni 100mila abitanti e un rischio basso – fanno sì che ci vorranno mesi prima che una regione possa ottenere questo traguardo.
CAPITOLO SCUOLA – Nel Dpcm c’è scritto espressamente: a partire da lunedì le scuole superiori di secondo grado “adottano forme flessibili nell’organizzazione dell’attività didattica… in modo che…almeno al 50% e fino ad un massimo del 75% della popolazione studentesca sia garantita l’attività didattica in presenza”. Per le scuole dell’infanzia, per le elementari e le medie, prosegue il testo, la didattica continua a svolgersi “integralmente in presenza”.
Ecco il testo integrale: “le istituzioni scolastiche secondarie di secondo grado adottano forme flessibili nell’organizzazione dell’attività didattica ai sensi degli articoli 4 e 5 del decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 275, in modo che il 100 per cento delle attività siano svolte tramite il ricorso alla didattica digitale integrata e che, a decorrere dal 18 gennaio 2021, almeno al 50 per cento e fino ad una massimo del 75 per cento della popolazione studentesca delle predette istituzioni sia garantita l’attività didattica in presenza. La restante parte dell’attività didattica è svolta tramite il ricorso alla didattica a distanza”.
Continuerà lo stop al concorso straordinario. La procedura concorsuale, iniziata il 22 ottobre, non ripartirà a breve. Bisognerà aspettare oltre il 5 marzo. Stop anche ai concorsi ordinari che slitteranno ancora.
La Lombardia (ma probabilmente ciò non accadrà perché sarà zona rossa come la Sicilia) dovrebbe rientrare lunedì 18 così come Lazio, Liguria, Molise, Piemonte e Puglia. Per quanto riguarda invece Campania, Emilia Romagna e Umbria il rientro in classe è previsto per il 25 gennaio. Dureranno invece fino all’1 febbraio, invece, le lezioni a distanza in Friuli Venezia Giulia, Marche, Sardegna, Veneto, Calabria, Sicilia e Basilicata. In quattro regioni, invece – Valle d’Aosta, Toscana, Abruzzo e Trentino Alto Adige – le superiori sono già tornate in classe.
Ogni decisione dovrà però tenere conto del monitoraggio che sarà pubblicato venerdì.
Continuerà lo stop al concorso straordinario. La procedura concorsuale, iniziata il 22 ottobre, non ripartirà a breve. Bisognerà aspettare oltre il 5 marzo. Stop anche ai concorsi ordinari che slitteranno ancora.
Ecco cosa dice il testo
“È sospeso lo svolgimento delle prove preselettive e scritte delle procedure concorsuali pubbliche e private e di quelle di abilitazione all’esercizio delle professioni a esclusione dei casi in cui la valutazione dei candidati sia effettuata esclusivamente su basi curriculari ovvero in modalità a da remoto”.
Nel testo si specifica poi, “nonché ad esclusione dei concorsi per il personale del servizio sanitario nazionale, ivi compresi, ove richiesti, gli esami di Stato e di abilitazione all’esercizio della professione di medico chirurgo e di quelli per il personale della protezione civile, a decorrere dal 15 febbraio 2021 sono consentite le prove selettive dei concorsi banditi dalle Regioni e dagli enti locali nei casi in cui è prevista la partecipazione di un numero di candidati non superiore a cinquanta per ogni sessione di prova, previa adozione di protocolli” anti Covid.
“Resta ferma, in ogni caso, l’osservanza delle disposizioni di cui alla direttiva del Ministro per la pubblica amministrazione n. 1 del 25 febbraio 2020 e degli ulteriori aggiornamenti., nonché la possibilità per le commissioni di procedere alla correzione delle prove scritte con collegamento da remoto”, specifica il provvedimento.
Le prove già svolte, dunque, saranno corrette con collegamenti da remoto.
Potrebbe risultare vana la sentenza del Tar Lombardia che sospende l’ordinanza regionale: la regione potrebbe finire in zona rossa ma anche se dovesse essere inserita in fascia arancione è prevista comunque la Dad alle scuole superiori, con il piano previsto di orari scaglionati e bus aggiuntivi che dovrà quindi attendere.
La riapertura scuole in Lombardia sta diventando un rompicapo: se da un lato la sentenza del Tar ha accolto il ricorso del comitato ‘A scuola’ sospendendo l’ordinanza regionale che prevedeva la Dad al 100%fino al 24 gennaio, dall’altro sarà importante capire in quale fascia di rischio la prossima ordinanza del Ministero della Salute prevista nelle prossime ore, collocherà la Lombardia: se sarà zona rossa le scuole superiori non si torneranno a scuola. Stesso discorso se dovesse essere zona arancione: anche in questo caso, per le scuole secondarie di secondo grado scatta la DaD al 100%. E siccome appare piuttosto remota al momento l’ipotesi zona gialla…
E’ vero che il tema della scuola è stato oggetto di un confronto questa mattina tra lo stesso presidente della Regione e il prefetto di Milano Renato Saccone, al quale ha partecipato anche il neo vicepresidente e assessore regionale al Welfare, Letizia Moratti. Fontana e Moratti – a quanto si apprende – hanno chiesto al Prefetto chiarimenti sui tempi tecnici per la riapertura, confermando la volontà di dare attuazione alla sentenza del Tar.
A Saccone, inoltre, sono stati sottolineati i temi della riapertura delle scuole in sicurezza, del trasporto pubblico locale e dei servizi ausiliari legati alla ripresa, come ad esempio la vigilanza delle forze ordine sugli assembramenti in entrata e uscita.
Tuttavia, appare piuttosto difficile che l’organizzazione prevista per il ritorno in classe in presenza in Lombardia possa essere adottata a breve: nelle ultime ore, come anticipato in precedenza, potrebbero passare in zona rossa Lombardia, Sicilia ed Emilia Romagna. Quindi, per qualche settimana gli studenti saranno ancora in DaD. Anche se la Lombardia dovesse essere in fascia arancione, la situazione con cambierebbe.
Ricordiamo che il Tar sospende l’ordinanza regionale dell’8 gennaio scorso con delle precise motivazioni: “il pericolo che l’ordinanza vuole fronteggiare non è legato alla didattica in presenza in sé e per sé considerata, ma al rischio di assembramenti correlati agli spostamenti degli studenti; emerge così l’irragionevolezza della misura disposta, che, a fronte di un rischio solo ipotetico di formazione di assembramenti, anziché intervenire su siffatto ipotizzato fenomeno, vieta radicalmente la didattica in presenza per le scuole di secondo grado, didattica che l’ordinanza neppure indica come causa in sé di un possibile contagio“.
La Regione Lombardia aveva anche risposto tramite una nota: “Prendiamo atto della decisione del Tribunale Amministrativo Regionale e ci riserviamo, dopo aver valutato nel dettaglio le motivazioni dello stesso, di proporre reclamo, poiché i riferimenti normativi che hanno orientato il giudice del Tribunale, non tengono conto della possibilità delle Regioni di adottare misure più restrittive di quelle previste dai vari Dpcm”.
Il Ministero ha inviato nei giorni scorsi alle scuole la nota n. 484 con oggetto “: Indicazioni per le istituzioni scolastiche in merito al premio previsto dall’art. 63 del DL 17 marzo 2020 n. 18, in favore del personale scolastico che ha lavorato in presenza nel mese di marzo 2020.” La nota, come chiarito, riguarda tutto il personale scolastico, compresi i DSGA.
La nota riprende l’art. 63 del DL 17 marzo 2020 n. 18 e fornisce le istruzioni operative per calcolare quanto spetta a ciascuno dei dipendenti.
Il premio – precisa il Ministero – spetta a coloro che hanno prestato servizio in presenza nel periodo di massima allerta per l’emergenza epidemiologica SARS-COVID2 (cfr. marzo 2020). Di conseguenza, nulla spetterà a coloro che nel mese di marzo hanno svolto la propria attività lavorativa in telelavoro o in smart working, ovvero sono stati assenti per ulteriori motivazioni (ferie, malattia, permessi retribuiti o non retribuiti, congedi, ecc.).
Il calcolo
si chiede di utilizzare il rapporto tra i giorni di presenza in sede (indipendentemente dal numero di ore prestate) effettivamente lavorati nel mese di marzo 2020 e quelli lavorabili, che sono:
a) 22 se la settimana lavorativa è articolata su 5 giorni (lun-ven);
b) 26 se la settimana lavorativa è articolata su 6 giorni (lun-sab).
Conseguentemente, il bonus erogabile al lavoratore è dato dall’importo di 100 euro moltiplicato per il suddetto rapporto, con un’approssimazione alla seconda cifra decimale: 100 * (giorni lavorati in presenza a marzo 2020 / giorni lavorabili a marzo 2020).
Calcolo dal 1° o dal 5 marzo?
Alcune segreterie scolastiche ci chiedono se il calcolo debba essere effettuato dal 1° marzo, includendo quindi tutti coloro che erano in presenza fino al 4 marzo, oppure a decorrere dal 5 marzo, data di sospensione delle lezioni in presenza in tutta Italia.
Va detto che né il DL n. 18/2020 né la nota operativa di istruzioni fanno riferimento alla data del 5 marzo, ma esclusivamente al mese di marzo. Di conseguenza esso deve essere preso in considerazione per intero, altrimenti nessun dipendente potrebbe arrivare a percepire la somma di 100 euro.
Il 100 va infatti calcolato su 22 o 26 giorni, dal primo marzo.
Va da sé che la somma spettante agli insegnanti sarà irrisoria (nessun compenso spetterà invece agli insegnanti in quelle regioni in cui le lezioni in presenza sono già state sospese dal 24 febbraio).
Conclusioni
Il bonus va rimodulato in base agli effettivi giorni lavorati a marzo nella scuola a:
docenti che hanno lavorato fino al 4 marzo
Dirigenti scolastici che si sono recati a scuola durante la sospensione dell’attività didattiche (anche solo per parte del mese di marzo)
personale ATA che si è recato a scuola per svolgere quelle individuate come attività indifferibili dai dirigenti scolastici (anche per parte del mese di marzo).
Quanto spetta?
Se si considera il mese di marzo con 22 giorni lavorativi, e che il bonus per chi ha lavorato tutto il mese di marzo è di 100 euro, spetteranno 4,50 euro per ogni giorno effettivamente lavorato all’interno della scuola.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.