Francesco G. Nuzzaci
1. Non può sorprendere l’ennesima pronuncia giudiziaria favorevole a un docente che aveva impugnato per difetto di competenza la sanzione disciplinare di sospensione dal servizio di giorni tre, infittagli dal dirigente scolastico seguendo le direttive dell’Amministrazione periferica. Perché il magistrato del lavoro si è semplicemente attenuto al consolidato principio di diritto della Corte di cassazione – da ultimo ribadito con tre ordinanze a stretto giro di tempo: n. 20845 del 2 agosto 2019, n. 28111 del 30 ottobre 2019, n. 30226 del 20 novembre 2019 –, secondo cui il dirigente scolastico può ben comminare al personale ATA sanzioni disciplinari fino alla sospensione dal servizio edallo stipendio per non più di dieci giorni,siccome previste nel CCNL,ma non può andare oltre la censura per il personale docente.
Sulle ragioni addotte dalle toghe del Palazzaccio sul Lungotevere ci eravamo soffermati giusto un anno addietro (cfr. Le sanzioni disciplinari irrogabili dal dirigente scolastico, in Dirigere la scuola, Euroedizioni, 4/2020), compendiandole nei passaggi che seguono.
a) Attese la tipicità e la tassatività delle fattispecie disciplinari, sulla scorta dei principi penalistici estensibili al più ampio diritto punitivo, per i docenti non può darsi luogo alla sospensione dal servizio fino a dieci giorni, perché prevista solo per il personale ATA.
Sul punto l’articolo 29 del nuovo CCNL, comparto Istruzione e Ricerca, rinvia a una specifica sessione negoziale a livello nazionale la definizione della tipologia delle infrazioni disciplinari e delle relative sanzioni per il personale docente ed educativo; e per intanto, nell’articolo 91, dispone che “continuano ad applicarsi le norme di cui al Titolo I, Capo IV della parte terza del D. Lgs. 297/94”,contemplanti – dopo l’avvertimento scritto e la censura – la sanzione della “sospensione dell’insegnamento fino a un mese”: che non è ex litteris nella disponibilità del dirigente scolastico.
b) Il dirigente scolastico deve infatti, per la definizione della propria competenza, limitarsi a inquadrare la fattispecie in relazione alla sanzione edittale irrogabile sulla base della disciplina codificata nell’art. 492, comma 2, lettera b) del menzionato decreto legislativo. E se ritiene che debba essere superiore alla censura, rimetterà gli atti all’Ufficio per i procedimenti disciplinari.
c) Secondo il principio di legalità e del correlato principio del giusto procedimento, non può dunque egli – contrariamente alle indicazioni della fondamentale circolare esplicativa del MIUR n. 88/10 – scindere la fattispecie dell’articolo ultimo citato (Sospensione dall’insegnamento o dall’ufficio fino a un mese) qualora ravvisi, con una valutazione ex ante, che la sanzione da infliggere in concreto possa essere contenuta entro i dieci giorni di sospensione dal servizio: dato che lo farebbe sulla base di “deduzioni meramente ipotetiche e discrezionali … incerte e opinabili, che ben potrebbero essere smentite all’esito del procedimento (ordinanza 28111/2019, cit.)”.
d) Conclusivamente, ha una mera valenza programmatica – per il personale docente e in parte per il personale ATA: infra – la statuizione, pure espressamente qualificata dal legislatore norma imperativa, contenuta nell’articolo 55-bis, comma 9-quater del D. Lgs. 165/01, introdotta dal D. Lgs. 75/17, al di cui tenore “per il personale docente, educativo e amministrativo, tecnico e ausiliario presso le istituzioni scolastiche ed educative statali, il procedimento disciplinare per le infrazioni per le quali è prevista l’irrogazione di sanzioni fino alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per dieci giorni è di competenza del responsabile della struttura in possesso di qualifica dirigenziale”.
Dunque, è precluso al dirigente scolastico il potere di irrogare qualsivoglia delle sanzioni sospensive – anche di un solo giorno – direttamente prescritte dalla legge:
a) “fino a un massimo di quindici giorni” al dipendente che, essendo a conoscenza per ragioni d’ufficio o di servizio di informazioni rilevanti per un’azione disciplinare in corso, rifiuta senza giustificato motivo la collaborazione richiestagli dal soggetto procedente ovvero rende dichiarazioni false o reticenti (art. 55-bis, comma 7, D. Lgs. 165/01);
b) per “un minimo di tre giorni fino a un massimo di tre mesi” al dipendente che, in violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, abbia determinato la condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno, salvo che ricorrano i presupposti per l’applicazione di una più grave sanzione disciplinare (art. 55-sexies, comma 1, D. Lgs. 165/01).
E sono altresì legittimate ex post per il personale ATA, sempre in via interpretativa, le incursioni contrattuali che – è vero – consentono la definizione pattizia della tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni, ma “salvo quanto previsto dalle disposizioni del presente Capo” (rectius: Titolo IV-Rapporto di lavoro, artt. 51-57, D. Lgs. 165/01). E queste disposizioni non attribuiscono al CCNL del comparto Istruzione e Ricerca – articolo 12, comma 2, lettere a) e c) – il potere d’incidere sugli aspetti procedurali né sulle competenze dei soggetti che emettono i provvedimenti disciplinari, arrogandosi il diritto d’indicare che spetta, “in ogni caso”, all’Ufficio per i procedimenti disciplinari la comminazione delle due poc’anzi citate sanzioni di cui agli articoli 55-bis, comma 7 e 55-sexies, comma 1 del D. Lgs. 165/01, in aggiunta – sempre debordandosi dai propri argini – alla sanzione del successivo comma 3, di “sospensione dal servizio fino a un massimo di tre mesi” per il mancato esercizio o per la decadenza dell’azione disciplinare: che non può riguardare il personale amministrativo, tecnico e ausiliario, e neanche i docenti, in quanto soggetti solo passivi!
2. Ora, non può revocarsi in dubbio che occorre guadagnare la consapevolezza di doversi attenere al predetto principio di diritto. Ma, tanto premesso, ben si può – e di deve – sottoporre a vaglio critico una giurisprudenza quando non si dimostra persuasiva. E soprattutto, per conseguenza, si possono – e si devono – prospettare soluzioni per superarla, recuperandosi il principio della prevalenza della legge sulle sue interpretazioni abrogatrici.
Riprendendo le obiezioni avanzate nel nostro ultimo intervento sulla materia (ante):
a) confermiamo che il ragionamento della Cassazione appare fondato su una falsa premessa: di equiparare, nella struttura e nella funzione, al diritto penale il diritto punitivo in genere e in particolare il diritto disciplinare, ovvero al processo penale il procedimento disciplinare.
Si sa che il diritto penale è preordinato alla difesa dei beni fondamentali e dei valori supremi della collettività, perciò dispiegando effetti totalizzanti sull’intera sfera giuridica dei soggetti che li abbiano violati, o messi in pericolo, una volta che la loro colpevolezza risulti provata oltre ogni ragionevole dubbio. Ne derivano – oltre la tassatività delle fattispecie legali costituenti reato e il conseguente divieto di analogia – le ineludibili garanzie del giusto processo, che si svolge in contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale precostituito per legge (articolo 111, Cost.).
Il procedimento disciplinare, per contro, è uno strumento di gestione del datore di lavoro: sia esso un soggetto privato o un’amministrazione pubblica, l’unica differenza essendo la facoltatività della sua attivazione nel primo caso e l’obbligatorietà nel secondo, qualora si sia in presenza di fatti ritenuti di rilevanza disciplinare e sempre nel rispetto delle procedure legali e pattizie per evitarsi abusi e per tutelare il lavoratore che si trova in una posizione di soggezione economica.
Esso pertiene dunque al potere direttivo nei confronti dei subordinati venuti meno ai loro doveri contrattuali ed è diretto a ristabilire, con immediatezza, il regolare svolgimento dell’attività lavorativa turbato dalle inadempienze e/o dalle trasgressioni del lavoratore, in tal modo ripristinandosi la posizione direttiva del datore di lavoro nell’organizzazione aziendale (Cassazione civile, sez. VI, 06.02.2015, n. 2330).
Certezza, immediatezza, effettività dello strumento disciplinare costituiscono il fondamento del D. Lgs. 150/09 e dei correttivi introdotti dal D. Lgs. 75/17, nel punto in cui, riscrivendo l’articolo 55-bis del D. Lgs. 165/01 (“Forme e termini del procedimento disciplinare”), statuisce che “il mancato rispetto dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare … non determina la decadenza dell’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività”,essendo perentori solo i termini per la contestazione dell’addebito (trenta gg. dalla piena conoscenza dei fatti) e per la conclusione del procedimento (centoventi gg. da detta contestazione). Ciò che è semplicemente, e giustamente, improponibile nel diritto penale, caratterizzato da un rigido formalismo e dal favor rei.
In altri termini, il legislatore ha inteso rinforzare le ragioni dell’azione disciplinare certa-immediata-effettiva; facente, per così dire ed entro certi limiti, premio sulle garanzie dei soggetti incisi: che ben troveranno – qualora la sanzione inflitta venga impugnata – la naturale loro difesa in sede giudiziaria (giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro per i dipendenti pubblici contrattualizzati, TAR e Consiglio di Stato per quelli rimasti in regime di diritto pubblico), in cui sarà assicurata la piena applicazione delle regole del giusto processo.
Al riguardo appare invero incoerente quel passaggio dell’ordinanza 28111/2019 che opera una scomposizione tra sanzioni disciplinari non gravi (avvertimento scritto e censura per i docenti, sino alla sospensione dal servizio non superiore a dieci giorni per il personale ATA) e gravi (le successive, sino al licenziamento ovvero alla sua versione pubblicistica della destituzione).
Le prime – è scritto – sono legittimamente irrogabili dal dirigente datore di lavoro – che pure qui assomma gli stigmatizzati poteri istruttori, accusatori e decisori –, dovendosi privilegiare “il più veloce esercizio del potere disciplinare”; mentre per le seconde deve prevalere “l’esigenza di apprestare maggiori garanzie al lavoratore pubblico” mercé la specializzazione dell’Ufficio per i procedimenti disciplinari e “soprattutto la sua indifferenza rispetto al capo della struttura del dipendente incolpato, perché non coinvolto direttamente nella vicenda disciplinare”.
Appare incoerente, perché le esigenze di garanzia non possono essere discriminate ancorandole a meri parametri quantitativi, per sanzioni soggiacenti alla stessa procedura, che partecipano di un’unica natura, che importano i medesimi effetti (si veda art. 12, commi 1 e 3 del CCNL del comparto Istruzione e Ricerca del 19.04.18);
b)sempre lo stesso legislatore, con una sua libera valutazione politica, ha voluto rivedere il preesistente assetto normativo, stimando – a ragione o a torto – che certezza, immediatezza ed effettività delle sanzioni potessero meglio realizzarsi modificando il D. Lgs. 150/09 e affidando agli uffici per i procedimenti disciplinari il potere di comminare le sanzioni superiori al rimprovero verbale. Ma ha conservato, rinforzandola, e qui disattendendo il parere del Consiglio di Stato (Commissione speciale, parere dell’11.04.2007), l’eccezione per i dirigenti scolastici, in considerazione dell’alto numero delle scuole e dei dipendenti in ciascuna di esse, sì da ingolfare altrimenti i predetti uffici e derivandone sostanzialmente la non perseguibilità di gravi o reiterate negligenze in servizio, di violazione dei segreti d’ufficio e del pregiudizio al suo regolare funzionamento, dell’uso dell’impiego a fini d’interesse personale et alia: atteso che con la misura massima della censura – ex art. 493, D. Lgs. 297/94 – potrebbero essere sanzionate solo una generica inosservanza degli obblighi di servizio e le non meno generiche condotte non conformi ai doveri verso i superiori, verso i colleghi e verso l’utenza;
c)l’eccezione prescritta dal legislatore è dunque una scelta assistita da intrinseca ragionevolezza: requisito, quest’ultimo, che sembra invece difettare nel canone ermeneutico adottato dalla Cassazione, che abroga virtualmente una norma imperativa, la cui effettività è fatta dipendere dalla mera volizione delle organizzazioni sindacali del comparto scuola di dar seguito a quanto previsto dall’articolo 29 del CCNL 19 aprile 2018, che al comma 1 ripropone per i docenti la “specifica sessione negoziale” per la definizione della tipologia delle infrazioni disciplinari e delle relative sanzioni, nonché per l’individuazione di una procedura di conciliazione non obbligatoria, fermo restando che il soggetto responsabile del procedimento deve in ogni caso assicurare che l’esercizio del potere disciplinare sia effettivamente rivolto alla repressione di condotte antidoverose dell’insegnante “e non a sindacare, neppure indirettamente, la libertà d’insegnamento”.
Si sarebbe dovuta concludere entro il mese di luglio 2018 e invece, come del resto nel precedente CCNL, è anch’essa abortita, essendosi arrestata al primo e unico incontro del 18 dello stesso mese all’ARAN, al termine del quale le sigle sindacali di comparto firmatarie del CCNL hanno emesso un comunicato per ribadire in via pregiudiziale “la totale indisponibilità a definire la materia qualora dovesse permanere il vincolo della legge Madia (id est: art. 55-bis, comma 9-quater del D. Lgs. 165/01, come novellato dal D. Lgs. 75/17), previsto peraltro solo nel comparto scuola, che assegna al dirigente scolastico la competenza ad irrogare la sanzione disciplinare fino a 10 giorni di sospensione, mentre in tutti gli altri comparti pubblici l’irrogazione di tale sanzione è affidata a un apposito ufficio per i procedimenti disciplinari”. Ne deriva quindi “l’inopportunità di definire un codice disciplinare che, in assenza di un’auspicata e opportuna modifica del quadro normativo, non potrebbe tener conto debitamente delle particolarità e specificità del lavoro docente, a cui va garantita pienamente la libertà d’insegnamento”. Pertanto non se ne farà nulla.
3. Non se ne farà nulla, ma proprio per questo sia il Ministero dell’istruzione che il Dipartimento della funzione pubblica presso la Presidenza del consiglio dei ministri, per quanto di rispettiva competenza, non possono più persistere in una colpevole inerzia, determinandosi finalmente a fornire ai dirigenti delle istituzioni scolastiche indicazioni omogenee: nel continuare ad attenersi a quanto a suo tempo disposto dalla citata c.m. 88/10 oppure, assumendo e generalizzando il contenuto della nota n. 1298 del 04.02.2020 emanata dall’Ufficio scolastico regionale per la Toscana (e finora unica, a quanto ci risulta), per conformarsi intanto – come pensiamo debba essere – al diritto vivente, quello effettivo interpretato e dichiarato dal supremo giudice di legittimità, se non si vogliono emanare provvedimenti suicidi, destinati a sicura cassazione in sede contenziosa, con tutt’altro che ipotetica responsabilità erariale (e forse non solo erariale) per colui che li abbia posti in essere.
Allora, andando a stringere, come dovrebbero in concreto regolarsi i dirigenti scolastici – tuttora sospesi tra l’incudine della tralatizia circolare ministeriale 88/2010 e il martello dei tribunali della Repubblica?
Preliminarmente, devono rendersi avvertiti del significato di “fatti ritenuti di rilevanza disciplinare” (art. 55-bis, comma 4, D. Lgs. 165/01), in presenza dei quali – e solo in presenza dei quali! – scatta l’obbligo di attivarsi.
“Fatti” non sono le notizie vaghe, le voci generiche, le mere supposizioni, il sentito dire. Che lo diventano semmai a seguito di una preliminare e informale istruttoria, supportata da evidenze (documenti, testimonianze, riscontri in loco …).
Ciò sulla falsariga di quel che avviene in materia penale, allorquando il Pubblico ministero incarica la polizia giudiziaria di una prima e sommaria indagine allo scopo di verificarne la consistenza e quindi di essere in grado di reggere in giudizio. Solo se l’esito è positivo egli proseguirà con l’obbligato esercizio dell’azione penale, inviando all’indagato l’informazione di garanzia, l’equivalente della contestazione degli addebiti, che da questo momento assume la qualifica di imputato (incolpato, nel procedimento disciplinare).
Dopo di che, se riguardanti i docenti, i “fatti ritenuti di rilevanza disciplinare” vanno inquadrati nelle astratte fattispecie sanzionatorie figuranti negli articoli 492-498 del D. Lgs. 297/94 (c.d. Testo unico della scuola) e ora con l’aggiunta, al primo comma di quest’ultimo, delle lettere g e h ad opera del comma 3, art. 29, CCNL di comparto.
Trattasi, rispettivamente, di:
– atti e comportamenti o molestie a carattere sessuale che riguardino gli studenti affidati alla vigilanza del personale, anche ove non sussista la gravità o la reiterazione;
– dichiarazioni false e mendaci che abbiano l’effetto di far conseguire, al personale che le ha rese, un vantaggio nelle procedure di mobilità territoriale o professionale.
Se accertate e imputate al soggetto passivo, entrambe comportano la sanzione espulsiva della destituzione, versione pubblicistica del licenziamento disciplinare.
Se invece riguardano il personale ATA, vanno inquadrati nelle fattispecie elencate negli articoli 11 e 12 del predetto Contratto.
Compiuta questa operazione sussuntoria, occorrerà ancora verificare l’insussistenza di cause di esclusione della responsabilità, quali il legittimo (cioè non eccedente, adeguato o proporzionato, secondo le circostanze) esercizio del diritto, l’adempimento del dovere, lo stato di necessità, il caso fortuito, la forza maggiore.
Ed è sempre utile, in primo luogo, ricordare che l’obbligo di procedere “immediatamente” nella segnalazione all’Ufficio per i procedimenti disciplinari (art. 55-bis, comma 4, D. Lgs. 165/01) significa solo che non bisogna prendersela comoda. Tanto ciò vero che per il vaglio della rilevanza disciplinare dei fatti, alla stregua del criterio di ragionevolezza, si hanno a disposizione fino a dieci giorni ovvero quarant’otto ore se si versa nella fattispecie della falsa attestazione della presenza in servizio con qualunque modalità fraudolenta: termini peraltro non perentori, non incidendo ex se sul procedimento e sulla sanzione eventualmente inflitta, ferma l’eventuale responsabilità del soggetto ritardatario. Mentre, se si devono direttamente contestare gli addebiti, il principio di tempestività dell’azione disciplinare è parimenti soddisfatto se l’inerente formalizzazione avviene entro trenta giorni dalla conoscenza dei fatti (questo, sì, termine perentorio, unitamente a quello che impone di concludere il procedimento entro centoventi giorni dalla contestazione degli addebiti con l’atto di archiviazione o d’irrogazione della sanzione: ibidem).
In secondo luogo, non è meno utile correggere la radicata convinzione di dover contestare ad horas gli addebiti, magari in seguito a una lettera anonima appena ricevuta, per non incorrere a propria volta nella responsabilità disciplinare: perché è smentita dall’articolo 55-sexies, comma 3 del D. Lgs. 165/01, laddove – oltre al mancato esercizioo alla decadenzadell’azione disciplinare dovuti all’omissione o al ritardo, “senza giustificato motivo” degli atti del procedimento disciplinare e inclusa la segnalazione dovuta all’UPD – sanziona le sole “valutazioni manifestamente irragionevoli” d’insussistenza dell’illecito in relazione a condotte aventi “oggettiva e palese” rilevanza disciplinare.
4. Nello specifico e attenendosi alle coordinate di azione testé riassunte, i dirigenti scolastici contesteranno gli addebiti al personale docente qualora ritengano di non andare oltre la censura (art. 493, D. Lgs. 297/94), se non si determinino per l’archiviazione; e per il personale ATA oltre la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione sino a dieci giorni (lettera d, art. 12, comma 1, CCNL 2016-2018), sempre fatta salva la decisione di archiviare.
Nessun problema pongono le sanzioni di pacifica competenza dell’UPD e importanti il solo obbligo finale della segnalazione (per i docenti elencate negli artt. 495-498 del D. Lgs. 297/94 e lettere g e h, art. 29, comma 3, CCNL 2016-2018; per il personale ATA elencate nelle lettere e, f, g dell’articolo 12, comma 1, CCNL 2016-2018).
In termini diversi si pone la questione per le sanzioni – non più – frazionabili: per i docenti articolo 494 del D. Lgs. 297/94, della sospensione dall’insegnamento o dall’ufficio “fino a un mese”; per il personale ATA articolo 12, comma 2, CCNL, lettere a e b, rispettivamente sospensione “fino a quindici giorni” e “da un minimo di tre giorni ad un massimo di tre mesi”.
Qui il dirigente scolastico, nel rispetto delle procedure e allegando le motivazioni di cui si è discorso, dovrà rimettere gli atti all’Ufficio per i procedimenti disciplinari. Che potrà restituirglieli se riterrà che l’eventuale sanzione possa essere contenuta entro il limite massimo dei dieci giorni di sospensione dal servizio e dallo stipendio.
In tal caso, qualora impugnata, la certa soccombenza in giudizio dell’Amministrazione lo terrà esente da responsabilità per factum principis, perciò escludente gli elementi psicologici del dolo o della colpa.
5. E’ evidente, per quanto argomentato, che l’impasse può essere superata solo con un intervento legislativo sollecitato dall’Amministrazione, che per i docenti introduca nell’ordinamento giuridico la sanzione disciplinare autonoma, o tipica, della sospensione fino a dieci giorni; e/o – per tutto il personale della scuola – l’esplicita previsione della frazionabilità al fine della distribuzione interna delle competenze del dirigente scolastico (fino a dieci giorni di sospensione dal servizio) e dell’Ufficio per i procedimenti disciplinari (oltre i dieci giorni).
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