L’inclusione, oltre i progetti per i bambini con disabilità

L’inclusione, oltre i progetti per i bambini con disabilità

Vita del 01/03/2021

Ha preso il via “Inclusi. Dalla scuola alla vita, andata e ritorno“, un progetto innovativo finanziato da Con I Bambini con l’obiettivo di lasciare in 5 regioni italiane buone pratiche più inclusive, non solo nella scuola. Tecnologie, reti con le aziende, sport, percorsi di autodeterminazione: Francesca Gennai presenta le nove azioni previste.

di Sara De Carli

Dalla scuola alla vita, andata e ritorno. È un movimento circolare quello che sta al cuore di “Inclusi”, il nuovo progetto per il contrasto della povertà educativa minorile con una precisa intenzionalità sull’inclusività. Non un progetto non i bambini e i ragazzi con disabilità, ma per costruire una società più inclusiva là dove essi vivono. Cominciando dalla scuola, certo, ma non fermandosi ad essa.

«È proprio questo l’elemento di innovazione, il fatto di intendere l’inclusione non come un elemento riferibile a un target specifico di bambini e famiglie, ma al contrario leggere l’inclusione come processo che coinvolge tutti quelli – bambini, insegnanti, educatori, allenatori, compagni di classe e di squadra, famiglie – che condividono un momento della vita» precisa Francesca Gennai, vicepresidente del Consorzio Consolida, capofila del progetto. «Anche il sottotitolo dalla scuola alla vita andata e ritorno va nella direzione di rompere i muri della scuola, in favore di quel continuum che abbracci tutta la sfera della vita di questi ragazzi. L’idea è quella di ricomporre una dimensione, quella della disabilità, oggi approcciata in maniera frammentata e disomogenea».

Il progetto è partito a novembre 2020 e durerà tre anni. Coinvolge 52 partner di 5 regioni diverse, fra cui 17 scuole. Molti gli strumenti in campo: tecnologie, competenze professionali degli insegnanti e degli educatori, rappresentazione pubblica e mediatica della fragilità, orientamento formativo e professionale. Il consorzio Consolida di Trento è capofila ed è stato finanziato da Con i Bambini con oltre 1,2 milioni di euro, proprio sul bando “Un passo avanti”, nato per stimolare progetti innovativi.

Il progetto, pensato e presentato in periodo pre Covid, incrocia alcune fra le tematiche più pregnanti di oggi, prima fra tutte la questione tecnologia e disabilità: «Se da un lato diversi alunni con disabilità sono stati esclusi dalla didattica a distanza, d’altro lato molti bambini con disabilità o difficoltà legate all’apprendimento hanno trovato nella modalità della dad la possibilità di essere più seguiti rispetto ai loro bisogni specifici. La tecnologia può aiutare quel processo di personalizzazione della didattica che molto spesso non riesce ad esser fatto nella classe in presenza. Alcune volte inclusione passa anche da un maggior investimento nell’individualizzazione, la forma ibrida è la più auspicabile e non è detto che ibrido debba per forza essere altrove, non è necessariamente riferito allo spazio. Il tema è rafforzare le competenze dei docenti sulla didattica personalizzata, anche con i supporti tecnologici adeguati. A questo sarà dedicata un’azione specifica sulle 9 del progetto», afferma Gennai.

Le nove azioni previste oltre a quella su “tecnologia e disabilità” sono le seguenti: “orientamento personalizzato”, perché la scelta della scuola superiore va preparata in anticipo e con una visione ampia, a maggior ragione per un alunno con disabilità e poi anche l’orientamento al mondo del lavoro, cominciando dai 16 anni e sviluppando una rete di aziende; “prevenzione al bullismo” perché gli adolescenti con disabilità hanno una probabilità 2-3 volte maggiore rispetto ai loro coetanei senza disabilità di essere vittime di bullismo; un’azione sulla mobilità nelle aree interne; la formazione di mentor; sport; narrazione della disabilità perché l’esclusione spesso è dovuta più allo sguardo degli altri che alla disabilità; l’autodeterminazione e l’auto-rappresentanza dei giovani con disabilità, azione in capo ad Anffas.

Una parola in più merita l’azione legata al mentor: «Ci scontriamo spesso con questo tema, fra chi lavora con la disabilità. Occorre creare una filiera educativa e professionale coerente con le competenze residue dei ragazzini con disabilità, mentre quello che viviamo nei servizi è che spesso c’è una scuola che potenzia al massimo le aspettative delle famiglie, anche rispetto al curriculm lavorativo mentre poi nella realtà, quando si chiude la rete protettiva della scuola, i ragazzi si ritrovano in un contesto che non sa accoglierli», dice Gennai. La figura del mentor va in questa direzione, del «creare una filiera scolastica e lavorativa che sia coerente rispetto alle competenze residue delle persone. È un’azione molto in correlazione con la narrazione della disabilità: ci scontriamo troppo con una narrazione che nel timore di dare una visione pietistica della disabilità allora va verso una dimensione esaltativa delle disabilità ma questo porta a una distorsione nel pensare e proporre percorsi scolastici e lavorativi realistici, poggiati con i piedi per terra. La nostra idea è che il mentor sia un po’ il case manager, il trait d’union nell’allineare il progetto di vita della persone e della famiglia con i dispositivi di protezione e di orientamento con cui questa persona si trova a interfacciarsi, in modo da avere un allineamento dello sguardo del mondo adulto, così da assumere un atteggiamento coerente nei diversi ambiti».

Cosa sperate che resterà, alla fine dei tre anni? «Che restino delle pratiche lavorative, sia nel contesto scolastico che nei servizi, affinché si riconosca in capo anche alle persone con disabilità la possibilità di tracciare la direzione della propria vita e quindi che venga loro consegnato un perimetro decisionale realistico in cui poterlo fare. Che dentro le scuole si sviluppi un modo di lavorare con la disabilità che porti a rendere accessibili percorsi didattici e di apprendimento dedicati. Ma anche la consapevolezza delle differenza che le persone possono portare nei contesti: negare la disabilità o normalizzarla è una modalità di occultamento che non porta a fare un pensiero di inclusione e armonizzazione», conclude Gennai.

Subito la proroga della norma a tutela dei lavoratori fragili!

SNALS-Confsal: subito la proroga della norma a tutela dei lavoratori fragili!

Roma, 01-03-2021  –    “Da oggi, 1° marzo, i lavoratori fragili inidonei e perciò soggetti a malattia d’ufficio si trovano nuovamente in regime di malattia ordinaria con tutte le conseguenze derivanti. E’ necessario che il legislatore intervenga con una proroga urgente delle norme già esistenti” – dichiara Elvira Serafini, Segretario Generale dello Snals-Confsal.

Come è noto, per l’anno in corso era stato stabilito che nell’intervallo temporale dal 1° gennaio al 28 febbraio 2021 valesse l’equiparazione del periodo di assenza dal servizio al ricovero ospedaliero per i lavoratori fragili.

“Senza una proroga ci saranno ripercussioni sul computo dei giorni di malattia dei lavoratori” – precisa la Serafini. “La scuola, in questo periodo, ha bisogno di certezze e non di ulteriori elementi di criticità”.

Il Segretario Generale
(Elvira Serafini)

MOBILITÀ, RIAPRIRE CONTRATTO SU VINCOLO QUINQUENNALE

MOBILITÀ, RIAPRIRE CONTRATTO SU VINCOLO QUINQUENNALE, IMMOBILIZZATI E INGABBIATI

“Il vincolo quinquennale, così come quello che coinvolge le categorie dei docenti immobilizzati e ingabbiati, è stato stabilito da una legge dello Stato e per modificarlo è quindi necessario un intervento legislativo della politica. Noi faremo la nostra parte e ci batteremo affinché si riapra immediatamente il contratto per concordare con un’intesa politica, come fu per la chiamata diretta, l’abolizione di tutti questi vincoli da cancellare poi definitivamente con una norma parlamentare”. A dichiararlo è Maria Di Patre, vice coordinatrice nazionale della Gilda degli Insegnanti, alla vigilia dell’incontro sulla mobilità che si terrà oggi pomeriggio con il ministero dell’Istruzione.

“Si tratta di docenti da anni costretti, a fronte di stipendi troppo bassi, a prestare servizio a centinaia di chilometri dalle loro famiglie, patendone tutte le conseguenze emotive che poi rischiano di ripercuotersi sul piano professionale. Se non riscontreremo la volontà politica di accogliere le nostre proposte – conclude Di Patre – non sarà possibile procedere con il tavolo tecnico”.  

La maturità «light» alza il voto medio

da Il Sole 24 Ore

di Eugenio Bruno e Claudio Tucci

Chissà se il ritorno dell’ammissione per la maturità di giugno basterà, da solo, a rendere l’esame 2021 diverso da quello svolto in maniera «light» già lo scorso anno. E, magari, meno generoso nei voti. Nel 2020, alla prima maturità semplificata dell’era Covid e al via libera generalizzato ex lege per tutti gli studenti, è seguito un aumento, altrettanto generalizzato degli esiti finali. Quantificabile in 4,6 punti in più rispetto al 2018/19 pre-pandemia. A dirlo è uno studio dell’Invalsi, su dati dell’Istruzione, che Il Sole 24 Ore del Lunedì è in grado di anticipare e che arriva alla vigilia dell’ordinanza con cui il ministro Patrizio Bianchi, suggellerà il bis a grandi linee del modello emergenziale usato 12 mesi fa: unica prova orale di 60 minuti che parte da un elaborato scritto sulle materie di indirizzo.

Lo studio dell’Invalsi

I ricercatori dell’istituto di valutazione hanno esaminato le serie storiche degli esami di Stato dal 2013-2014 al 2019-2020. Con risultati sorprendenti soprattutto se si considerano tutti gli studi internazionali che stanno certificando come a una sospensione della didattica a distanza e alla sua sostituzione con le lezioni on line stia seguendo, a tutte le età, un calo degli apprendimenti. Fino al 2018-2019 i voti medi sono piuttosto lineari. Ma nel 2019/20 – quando la maturità è stata semplificata, con l’abolizione dei due scritti e il mantenimento di un colloquio in 4 step, compreso l’elaborato sulle materie d’indirizzo di fronte a una commissione tutta interna con il solo presidente esterno – lo scenario cambia. E la manica dei commissari diventa “ultra larga” con aumenti del 6% in tutte le regioni così da annullare anche le tradizionali differenze sui giudizi tra Nord (più rigoroso) e Sud (più generoso). Un balzo che, secondo l’Invalsi, è dovuto in primis al venir meno dell’effetto “calmierante” delle prove scritte che, in genere, assicurano un maggior ancoraggio del giudizio alla prestazione effettiva degli studenti. Da qui l’auspicio che valutazione interna sia bilanciata da quella esterna, per assicurare ai voti di maturità un minimo di credibilità. Tanto più che già da anni la percentuale di “maturi” sfiora il 100% (il 99,5% l’anno scorso). A giugno 2020 un diplomato su 2 ha ottenuto più di 80 e le lodi sono salite a 12.129.

L’ordinanza in arrivo

Il film potrebbe ripetersi alle prove in calendario a partire dal 16 giugno alle ore 8.30. A giudicare dall’ordinanza ministeriale che ha incassato venerdì scorso l’ok del Consiglio superiore della pubblica istruzione (Cspi) e che è attesa ad horas. I punti di contatto con il modello del 2020 sono parecchi: una commissione d’esame con 6 membri interni e il presidente esterno; un colloquio in 4 fasi, che parte da un elaborato sulle materie di indirizzo (latino/greco al liceo classico, matematica/fisica allo scientifico eccetera) e prosegue con l’analisi di un testo d’italiano scelto dalla commissione, la discussione sugli altri materiali predisposti dal consiglio di classe e il racconto delle esperienze di Pcto (l’ex alternanza scuola lavoro); il curriculum vale 60 punti (di cui 18 in terza, 20 in quarta e 22 in quinta) e l’orale 40; niente obbligatorietà – a proposito di raccordo tra valutazione interna ed esterna – delle prove Invalsi e deroga alle ore minime di Pcto. Oltre che sul ritorno dell’ammissione sulla base dei giudizi del consiglio di classe (anche sulla new entry Cittadinanza e costituzione) le speranze di discontinuità sembrano affidate allora all’elaborato di partenza. Che Bianchi si immagina come una mini-tesi. Lo studente conoscerà entro il 30 aprile il tema da approfondire e avrà un docente tutor con cui confrontarsi prima dell’invio definitivo via mail del lavoro entro il 31 maggio. Chi non lo farà dovrà comunque discutere oralmente lo stesso argomento e verrà penalizzato al momento del voto finale.

Sport, lingue, volontariato: gli hobby sbarcano all’esame

da Il Sole 24 Ore

di Eu. B. e Cl. T.

Nella seconda maturità formato Covid delle tante conferme e delle poche novità spicca il doppio debutto del curriculum dello studente. Oltre ad accompagnare il diploma finale e a certificare il profilo scolastico ed extrascolastico di uscita di ogni diplomato questo documento avrà un ruolo già durante l’esame di Stato. Nel personalizzare l’elaborato di partenza sulla materia d’indirizzo, la mini-tesi voluta dal ministro Bianchi, ogni maturando potrà infatti attingere non solo alle altre discipline ma anche agli hobby e alle altre esperienze svolte nel tempo libero.

Il modello da adottare

Arriva così al traguardo una delle innovazioni volute dal decreto legislativo 62 del 2017 e rimandata più volte. Il curriculum dello studente – stando al Dm n.88 dell’agosto scorso che lo ha regolamentato – deve riportare «i dati relativi al profilo scolastico dello studente e gli elementi riconducibili alle competenze, conoscenze e abilità acquisite in ambito formale e relative al percorso di studi seguito». Sulla base di un modello standardizzato allegato allo stesso decreto ministeriale e organizzato in tre parti. Nella prima, denominata “Istruzione e formazione” vanno indicate le esperienze scolastiche curriculari ed extracurriculari (crediti, corsi integrativi, esperienze di alternanza eccetera); nella seconda (“Certificazioni”) vanno dettagliate le conoscenze linguistiche e informatiche acquisite; nella terza (“Attività extrascolastiche”) e ultima sezione vanno elencati gli hobby e gli interessi coltivati nel tempo libero. Si va dallo sport alla musica al volontariato.

Il tassello che manca

Al netto dell’utilizzo che ogni ragazzo ne farà per arricchire la sua tesina di partenza il curriculum va redatto con l’aiuto delle scuole che devono farsi carico di compilare (in esclusiva) la prima sezione del documento e (in tandem con lo studente) la seconda. Agli alunni viene invece lasciata libertà d’azione sulla terza parte. Ma la nota ad hoc, preannunciata a settembre dal ministero dell’Istruzione per spiegare come farlo e attesa entro gennaio, non è ancora arrivata.

Le scelte degli studenti

Per avere un’idea delle attività extrascolastiche che i maturandi hanno svolto e che potrebbero ora finire nel curriculum possiamo utilizzare l’ultima fotografia di Almadiploma. Dall’indagine sul profilo 2020 dei diplomati – che ha coinvolto 37mila ex studenti delle superiori – ad esempio emerge che un’esperienza lavorativa durante gli studi – prevalentemente stagionale o saltuaria– riguarda il 54,5% dei diplomati (il 63,6% negli indirizzi professionali, il 60,3% nei tecnici e il 49,7% nei licei). Più elevato invece il tasso di partecipazione alle attività sportive che è del 62,4 per cento (di questi, il 41,2% gli dedica almeno 7 ore a settimana): numeri da verificare con le palestre e le piscine chiuse da ottobre a causa della pandemia. Mentre dovrebbe essere andata meglio a quel 54,9% che ha svolto nel tempo libero almeno un’attività culturale tra fotografare, suonare, disegnare, danzare, scrivere testi, cantare,sviluppare un proprio sito web o blog, recitare, fare riprese video o dipingere. E che ora potrà raccontare in sede d’esame.

Invalsi, partono le prove per i 490mila maturandi

da Il Sole 24 Ore

di Cl. T.

Partiti e poi bloccati nel 2020 a causa della pandemia, tornano quest’anno i test in italiano, matematica, inglese. Si svolgeranno al pc. Non sono però requisito per la maturità

Partiti, e poi bloccati, lo scorso anno a causa dell’aggravarsi della pandemia, tornano quest’anno le prove Invalsi. Parliamo dei test in italiano, matematica e inglese (lettura e ascolto), che da lunedì, 1° marzo, si svolgeranno (negli istituti aperti) per i ragazzi di quinta superiore. Parliamo di circa 490mila studenti, che il prossimo 16 giugno saranno impegnati nella maturità (solo orale). La macchina è pronta, assicura la presidente Invalsi, Anna Maria Ajello, da sempre sostenitrice delle prove, anche per capire gli effetti che le lezioni on line che durano da oltre un anno hanno prodotto sui processi di apprendimento degli alunni. Il tema molto caro all’attuale governo Draghi. Ma procediamo con ordine.

Calendario “flessibile”
Il coronavirus e le sue varianti preoccupano, e non a caso l’esecutivo sta valutando nuove restrizioni nelle zone più in difficoltà (le rosse) con la chiusura di tutti gli istituti e l’immediato passaggio alla didattica a distanza. Tutto questo, oltre ovviamente alle quarantene in caso di positivi a scuola, è ben chiaro all’Invalsi che infatti ha predispsto un calendario per far svolgere le prove “molto flessibile”, che si spinge fino a fine maggio per consentire, appunto, a tutti i ragazzi di fare, in sicurezza, i test.

Prove al pc e in piccolissimi gruppi (per la sicurezza)
«La finestra per far svolgere le prove è stata allargata – racconta Anna Maria Ajello -. In questo modo le scuole hanno più tempo e potranno convocare i ragazzi in piccolissimi gruppi o spostare le prove ai prossimi mesi in quelle zone in cui le lezioni non sono in presenza. Insomma, il decollo è lunedì, per l’atterraggio vedremo». Le prove, ormai da tempo, si svolgono al pc, durano più o meno un’oretta, le correzioni sono automatiche, e indagano tre discipline “core”, italiano, matematica e inglese.

L’eventuale recupero dei gap formativi
L’Invalsi è tornato sotto i riflettori dopo le parole del premier, Mario Draghi, in Parlamento sulla necessità di conoscere i gap formativi dei ragazzi causati dall’abuso di Dad per l’emergenza sanitaria. E uno degli strumenti per testare gli apprendimenti è proprio l’Invalsi. «Dalle informazioni che arriveranno dalle prove – ha aggiunto Ajello – avremo un primo dato importante, senza colpevolizzare nessuno per i tanti eventi contrari che ci hanno colpito in questi mesi. Con queste prove avremmo infatti i primi dati attendibili per poter dire cosa è successo e come e dove dovremo recuperare».

Le prove Invalsi non saranno requisito di ammissione alla maturità
Lo svolgimento delle prove Invalsi non sarà però, come lo scorso anno, requisito d’ammissione alla maturità. Questa almeno è l’intenzione, salvo sorprese dell’ultima ora, che dovrebbe essere scritta nero su bianco nell’ordinanza sugli esami di Stato in uscita dal ministero dell’Istruzione. Oltre all’Invalsi anche le ore di scuola-lavoro non costituiranno ostacolo alla maturità, se non sono state fatte tutte. L’ex alternanza comunque farà parte dell’esame, in un momento dell’orale.

«Solo il 12% dei figli si laurea se i genitori sono poco istruiti»

da Il Sole 24 Ore

di Claudio Tucci

Per alcuni è l’onda lunga della “generazione 1000 euro”, con laureati, in discipline con poco appeal sul mercato, inchiodati in impieghi precari. Per altri, è la difficoltà economica, acuita dalla crisi. Per altri ancora, è la mela avvelenata della “scolarizzazione di massa”, dove a quella sfida di consentire a tutti, abbienti e non, di ambire ai livelli più elevati di istruzione non è poi corrisposto un forte orientamento e valorizzazione del merito, facendo così perdere di vista a tanti genitori, soprattutto quelli meno formati, e figli, i vantaggi, anche economici, del “pezzo di carta”. Fatto sta che quell’ascensore sociale, un mantra di tutti i ministri dell’Istruzione dagli anni ’70 in poi, si sta pericolosamente fermando.

Lo studio che l’Inapp, l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, rende noto domani, e poi il 4 marzo sul nuovo numero della rivista scientifica Sinappsi, parla da solo: appena il 12% dei giovani ha probabilità di arrivare alla laurea se i genitori posseggono la licenza media. Scendiamo al 6% se mamma e papà non hanno alcun titolo di studio. Se invece nella famiglia d’origine si è arrivati almeno al diploma, il 48% dei figli, quasi uno su due, può arrivare al titolo terziario. Se il ragazzo è più fortunato, e ha i genitori laureati, sale al 75% di probabilità di laurearsi anch’egli.

La ricerca ha preso in considerazione un campione di individui nati il 1977 e il 1986, quindi i “quarentenni” di oggi, il cuore della forza lavoro.

I dati trovano una conferma nell’ultima rilevazione Ocse (2018). Nel nostro Paese, tra i 25 e i 64 anni, appena il 30% ha completato il livello di studi secondario, l’8% quello universitario e il 62% quello elementare e medio inferiore. Questo significa che oltre 6 italiani su 10 hanno un livello di istruzione basso, e ciò ci colloca tra gli Stati meno istruiti. Tutto ciò ha un impatto diretto sul rendimento degli investimenti in istruzione, anch’esso tra i più bassi nell’area Ocse: i soggetti con titolo di studio universitario guadagnano in media solo il 40% in più rispetto a quelli con istruzione secondaria superiore, 20 punti in meno della media Ocse (60%), e siamo molto lontani da Germania e Francia.

Sul perché le famiglie meno istruite non trovano vantaggioso investire nel capitale umano dei propri figli il presidente dell’Inapp, Sebastiano Fadda, economista ed esperto di welfare e formazione, indica motivi economici (cali di reddito, sempre più famiglie con una sola entrata) e aspetti culturali, ma chiama in causa pure il sistema scolastico, «che va ricalibrato», puntando su «politiche pubbliche che incidano sulle disparità offrendo agli individui capaci e meritevoli, ma privi di mezzi le risorse necessarie a raggiungere un livello di istruzione adeguato».

Per Carmela Palumbo, dg dell’Usr Veneto, e 30 anni di esperienza ai vertici della scuola, dietro il disinvestimento delle famiglie nell’istruzione legge altre due ragioni: «In primo luogo, il sentimento di sfiducia circa lo scenario economico futuro del nostro Paese: uno scenario che non sembra promettere una fase espansiva – osserva -. E poi, si enfatizzano molto storie di successo individuale, numericamente esigue in realtà, che non appaiono costruite sulla competenza, ma su altri fattori quali ad esempio la notorietà sui social network». «Le famiglie oggi si sentono abbandonate dallo Stato – sottolinea Gigi De Palo, presidente nazionale del Forum delle Associazioni Familiari -. La fatica di arrivare a fine mese, i costi troppo elevati di tasse e spese di formazione, e i dubbi sull’effettiva utilità a livello di carriera e di realizzazione economica sono alcuni dei motivi che influiscono nella scelta di tanti genitori». Chi ci prova spesso lascia in anticipo gli studi; la dispersione è al 13,5%, ed è destinata ad aumentare con la pandemia e l’abuso di Dad. La fotografia dell’Inapp sui quarantenni di oggi è preoccupante in un Paese già in affanno. Abbiamo circa 13 milioni di adulti con basso livello di istruzione (il 20% della popolazione adulta europea), 11 milioni tra i 16 e i 65 anni con difficoltà nelle “literary” (indagini Piaac); siamo in coda per laureati, 19,6%, contro una media Ue pari a un terzo (33,2%, dato Istat); e andiamo male quanto a giovani laureati Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics), peraltro le più ricercate nelle assunzioni: il 24,6% dei 25-34enni ha una laurea in queste materie tecnico-scientifiche (il 37,3% sono uomini, appena il 16,2% donne).

Le imprese sono preoccupate. «In Italia si avverte ancora poco la gravità di un ascensore sociale bloccato, che è anche il frutto di un mancato dialogo tra scuola e impresa – avverte Gianni Brugnoli, vice presidente di Confindustria per il Capitale umano -. Tanti giovanissimi spesso non conoscono le opportunità di lavoro che offrono le aziende del territorio. Ed è per questo che sia loro che le loro famiglie, specie se meno abbienti, non investono in istruzione: non vedono prospettive, finendo quasi sempre in quella trappola dei Neet che sarà ancora di più aggravata dalla pandemia. Dall’esperienza di Confindustria invece è evidente che gli strumenti per collegare l’istruzione all’occupabilità ci sono, a cominciare da un adeguato orientamento alle medie che poi diventa alternanza e apprendistato alle superiori, fino magari a un Its o un dottorato industriale. Questi strumenti di integrazione studio-lavoro vanno messi a sistema e diventare diritto di tutti: è quello che chiediamo al governo di fare, e presto».

La scuola Orienti meglio per aumentare la mobilità sociale

da Il Sole 24 Ore

di Andrea Gavosto

Sappiamo che le società moderne convivono con gradi diversi di disuguaglianza dei redditi, nella ricerca di un difficile equilibrio fra adeguati incentivi al lavoro e all’imprenditività, da un lato, e la partecipazione di larghi segmenti della popolazione ai benefici della crescita economica, dall’altro. Quello a cui nessun sistema – neanche quello più “mercatista” – può però rinunciare è la mobilità sociale fra generazioni e a come favorirla. Parafrasando la nostra Costituzione, sarebbe deleterio per il progresso economico e sociale, oltre che profondamente ingiusto, impedire di realizzare le proprie ambizioni a chi ha sia un elevato potenziale sia la voglia di impegnarsi, solo perché proviene da un ambiente svantaggiato.

Il grado di mobilità sociale è dunque una misura sostanziale dell’efficacia e della giustizia di una società.

Nel 2018 l’Ocse ha pubblicato un importante studio dal titolo “L’ascensore sociale si è rotto?”, da cui emerge come a partire da metà degli anni ‘70 la dinamica sociale nei paesi avanzati abbia sensibilmente rallentato: oggi per un bambino che provenga dal 10% più povero occorrono quattro-cinque generazioni, ovvero 100 anni, per portarsi sui redditi medi del proprio paese. Un tempo infinito e un colossale sperpero di talenti.

L’Italia non è diversa. Secondo uno studio del 2019 di Acciari, Polo e Violante la nostra società risulta avere più mobilità fra generazioni di quella degli Stati Uniti, ma meno dei paesi scandinavi, che sono i più virtuosi. Fra i fattori che determinano una maggiore o minore velocità nel salire i gradini della scala sociale, conta soprattutto l’istruzione. Come sottolinea lo studio dell’Inapp, negli ultimi decenni i figli sono troppo spesso rimasti fermi allo stesso titolo di studio dei loro genitori: solo negli ultimi anni si è assistito a qualche progresso. Non è stato sempre così: nel secondo dopoguerra, erano stati compiuti enormi progressi di mobilità sociale grazie alla rapida scolarizzazione del Paese.

Dove si è bloccato l’ascensore sociale dell’istruzione? Soprattutto in due snodi critici: la scelta dell’indirizzo di scuola superiore e quello dell’università. Il primo rappresenta un vero e proprio ostacolo alla mobilità sociale: un terzo di chi frequenta i licei proviene da famiglie di laureati, a fronte di uno su cinque da famiglie con al massimo la licenza media. All’estremo opposto, uno su due fra gli studenti degli istituti professionali viene da un background di minor istruzione. Come superare questo blocco? La risposta non può che essere una maggiore capacità della scuola media a orientare le scelte scolastiche successive sulla base delle attitudini e non dell’origine sociale, come purtroppo avviene spesso.

Il secondo snodo critico è l’accesso all’università. Mentre l’immatricolazione al triennio non appare particolarmente legata all’origine sociale, il vero rischio è che i ragazzi che vengono da ambienti svantaggiati abbiano minori capacità di orientarsi verso corsi di laurea “forti”, come quelli scientifici, che garantiscono una maggiore occupazione. Inoltre, sappiamo che i figli dei laureati frequentano più spesso lauree magistrali, master, dottorati, che aiutano a promuovere il proprio ruolo lavorativo e sociale: solo il 17% dei figli di non laureati giunge infatti alla laurea magistrale contro il 49% dei figli dei laureati. Anche in questo caso, un efficace orientamento al termine delle superiori è la strada più sicura per aumentare la mobilità sociale.

La generazione sospesa nella scuola a metà che allontana il futuro

da la Repubblica

di Ilvo Diamanti

La pandemia rischia di durare ancora a lungo. Un giorno dopo l’altro, i numeri dei contagi, dei ricoveri e delle vittime rimbalzano sui media. Senza soluzione di continuità. Perché il virus marcia e si diffonde in modo imprevedibile. E tutti lo seguono. O meglio, lo in-seguono. Medici, scienziati, media. E noi per primi. Così, la nostra vita è cambiata. E cambierà ancora. Il nostro presente e, tanto più, il nostro futuro. Per questo, è comprensibile che l’insofferenza e la protesta si allarghino. Fra i lavoratori e gli imprenditori, le categorie economiche che vedono crollare le loro prospettive e, prima ancora, la loro condizione presente. Ma non solo. Le manifestazioni si stanno ri-producendo, in diversi punti del Paese, anche fra gli studenti. Frustrati, oltre che preoccupati, dal “distanziamento sociale” che li coinvolge. E rende loro difficile frequentare i corsi. Alle scuole di ogni ordine e grado. Per problemi di convivenza in aula. E, ancor più, fuori. Perché gli “assembramenti” avvengono soprattutto intorno e all’esterno. Ma la frequenza scolastica è resa difficile anche, e soprattutto, dall’insufficienza e dall’inadeguatezza dei mezzi di trasporto, che molti studenti debbono utilizzare per recarsi a scuola.

Certo, le giovani generazioni, rispetto a quelle che le hanno precedute, hanno alcuni vantaggi importanti. Anzitutto, sono, in gran parte, costituite da “nativi digitali”. Hanno una consuetudine profonda con l’uso dei social . Navigano online con capacità ed esperienza. E, per questo, hanno potuto affrontare l’emergenza scolastica attraverso l’uso della rete. La didattica a distanza. Peraltro, sei mesi fa, a fine estate (tra agosto e settembre), solo il 15% degli studenti — intervistati nel corso di un sondaggio condotto da Demos — immaginava (e, implicitamente, auspicava) che la didattica, alla riapertura delle scuole, avrebbe potuto, anzi, “dovuto”, svolgersi interamente a distanza. Sensibilmente meno rispetto alla media della popolazione (21%). Non solo per vincoli “ambientali”. Perché (come rileva l’Istat) vi sono ancora famiglie che non dispongono di un computer e di un accesso a Internet in casa. Il problema principale è che la domanda di “sicurezza”, soprattutto fra i giovani, si confronta con l’esigenza di “relazione diretta”. Empatica. In presenza. La scuola è anche questo. Non dico soprattutto… ma quasi. È luogo e canale di educazione, formazione. E di “socialità”. Tutti noi, proprio a scuola, abbiamo costruito amicizie e conoscenze che durano nel tempo. Coltivate in classe. E “intorno”. Nelle strade, nei bar e nelle piazze “intorno” agli Istituti superiori. E all’Università.

Io — come altri — ne ho esperienza diretta, visto che da 30 anni insegno a Urbino. Una città universitaria. Meglio ancora, una città che, ormai da decenni, si identifica con l’Università. Oltre che, ovviamente, con Raffaello. La sua “società” associa gli studenti ai residenti. È divenuta una società “ibrida”. Ma il discorso, in modo e in misura diversa, vale per tutte le Università. E per le città di cui sono parte. Per questo non sorprende la delusione, meglio: la disillusione, verso la risposta delle istituzioni e, in particolare, della scuola, di fronte all’emergenza virale. Soprattutto dopo la ripresa del Covid, in autunno. Se alla fine di agosto, dunque: 6 mesi fa, quasi 2 italiani su 3 valutavano positivamente la reazione della scuola all’impatto della pandemia, oggi il giudizio appare assai più scettico. Infatti, meno di metà fra i cittadini intervistati da Demos considera adeguata la risposta delle istituzioni scolastiche. Ma, fra i più giovani, l’orientamento appare molto più negativo: 36% di giudizi positivi. Che crolla al 23% fra gli studenti. Per questo, oltre metà degli italiani pensa che la protesta degli studenti contro la “didattica a distanza” sia giustificata. E, anzi, giusta. Un’opinione che risulta maggioritaria, ma, al tempo stesso, divide la popolazione. Anche gli studenti e i giovani. Perché non è possibile sottovalutare la gravità del momento. Ignorando il rischio che tutti corrono, i più giovani e non solo, se non si provvede — e procede — a contrastare la “trasmissione virale”, alimentata dalla co-abitazione e dalla cor-relazione sociale. Così è giusto assumere tutte le cautele e tutte le precauzioni. Tenendo conto, però, che gli assembramenti di giovani non avvengono “dentro” alla scuola. Semmai “intorno”, come si è detto. Ma è altrettanto giusto favorire la ripresa dell’attività scolastica. Non solo perché la scuola rimane un’istituzione fra le più importanti e riconosciute. Verso la quale esprime fiducia il 52% dei cittadini, secondo le più recenti rilevazioni di Demos s. Ma perché, come si è detto, la scuola costituisce un luogo di formazione culturale — e professionale — per i giovani. A scuola: si prepara e si costruisce il futuro della società. Rappresentato e interpretato dai giovani. Un futuro che appare “sicuramente insicuro”. “Imperfetto”. Perché l’emergenza non permette di pre-vedere, ma neppure “immaginare”, cosa avverrà. Per questo, investire nella scuola, oggi più che mai, è necessario. Per non rassegnarsi a questo “tempo sospeso”. Per non trasformare i giovani in una “generazione sospesa”. Senza futuro e senza passato. Imprigionata in un presente in-finito.

Scuola, per l’Ocse i presidi italiani sono tra i più pagati, ma loro insorgono: “Non è così”

da la Repubblica

Salvo Intravaia

Per l’Ocse, i presidi delle scuole italiane sono tra i più pagati ma anche tra i meno soddisfatti al mondo. E loro non ci stanno. Dopo l’articolo sull’ultimo dossier in tema di educazione pubblicato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, si è levato un coro di proteste da parte di coloro, i dirigenti scolastici, che hanno gestito le scuole in questo difficile anno di pandemia. Ma perché i capi d’istituto italiani non sono d’accordo con uno dei massimi organismi mondiali in campo economico? È Antonello Giannelli, a capo dell’Associazione nazionale presidi (Anp), a spiegare i motivi del dissenso.

Perché non siete d’accordo con il dossier dell’Ocse? 

“Il rapporto non fotografa la realtà in maniera accettabile. Sembrerebbe che i dirigenti scolastici italiani siano ben pagati e che la loro scontentezza sia immotivata”.

Non è così? 

“Dirigere una scuola è un lavoro di grande responsabilità, riconosciuto come importante da tutti i settori della società, ma indecorosamente sottopagato”.

Perché?

“I dirigenti scolastici italiani guadagnano parecchio meno di un dirigente della pubblica amministrazione. E poi non sono i più pagati al livello dell’unione europea: quelli inglesi, anche se ormai fuori dall’Ue, sono più retribuiti. Fare poi il confronto con i laureati e non ha senso. Perché in altre nazioni è possibile fare come primo lavoro il preside in Italia invece no. Devi essere docente per un certo numero di anni e poi affrontare il concorso per preside. Infine, la cifre citate nel rapporto si riferiscono a quanto costa un capo d’istituto allo Stato. Quello che poi percepisce è circa il 40%”.

I nostri presidi restano però i meno soddisfatti in assoluto. 

“Certo che sono scontenti. Sbagliamo a confrontare lo stipendio del docente con quello del preside, si tratta di due lavori completamente diversi. Come ho avuto modo di dire in precedenza, i nostri dirigenti scolastici guadagnano 1.500 ero netti in meno, ad esempio, di un dirigente di un ente di ricerca. E con responsabilità completamente diverse. Basta guardare i numeri. Un capo d’istituto deve fare fronte a un centinaio e più di insegnanti, più alunni e genitori”.

Qual è lo stato d’animo dei dirigenti scolastici italiani in questo difficile momento? 

“Sicuramente i colleghi sono consapevoli della centralità del ruolo, riconosciuta anche dalla ministra uscente, Lucia Azzolina, e dal nuovo ministro Patrizio Bianchi. Ma c’è una grande stanchezza perché spesso si sono ritrovati soli a gestire la fase emergenziale. Non sempre infatti gli enti locali non sono riusciti a dare tutto il supporto, per esempio in termini di locali scolastici”.

Cosa auspicate? 

“Come Anp da anni sollecitiamo un adeguamento delle retribuzioni alle altre figure dirigenziali della pubblica amministrazione. Ritengo che tutto il mondo della scuola sia sottopagato, anche gli insegnanti. La società deve riconoscere il ruolo della scuola e non ha senso fare una guerra tra poveri”.

Salgono i contagi tra i più piccoli Scuola, il rapporto che preoccupa

da Corriere della sera

Gianna Fregonara

Roma Non è soltanto questione di fare un po’ d’ordine tra le ordinanze dei governatori e dei sindaci che nelle scorse settimane hanno chiuso le scuole — tutte — di fronte all’allarme delle varianti. A far cambiare linea al Cts, che negli ultimi mesi si era espresso a favore del ritorno in classe, è stato il rapporto dell’Istituto superiore di sanità «Focus età evolutiva» che ha monitorato i casi tra i più giovani dal 24 agosto 2020 al 24 febbraio.

È con questi dati davanti agli occhi che gli esperti del ministero della Salute sabato hanno messo nero su bianco il nuovo parere che entrerà nel Dpcm in preparazione a Palazzo Chigi e che consentirà a governatori, sindaci e prefetti di chiudere le scuole (anche materne ed elementari) nelle zone rosse e di ritagliare misure restrittive anche nelle zone più a rischio delle regioni in arancione e giallo.

Il rapporto dell’Iss mostra che il picco di contagi tra i ragazzi resta quello di novembre che aveva costretto alla chiusura delle superiori dopo neppure un mese e mezzo in classe. Ma dall’8 febbraio i casi nella fascia di età 10-19 anni hanno una maggiore incidenza su 100 mila abitanti degli altri, in parte anche grazie alla diminuzione dei casi tra gli anziani come effetto dei primi vaccini. E dall’11 gennaio, cioè da quando si è tornati in classe dopo la vacanze di Natale, sono in rialzo i casi nella fascia dei più piccoli (0-9 anni). L’incidenza dei contagi tra i bambini e i ragazzi con meno di vent’anni segue plasticamente le aperture e chiusure delle scuole. Va detto che il rapporto certifica che i casi tra i più giovani siano tutti praticamente non gravi, asintomatici o paucisintomatici. I decessi nella popolazione sotto i 20 anni riferibili al Covid, tra settembre e gennaio, sono stati 14: a novembre in ospedale c’erano 1.006 bambini e ragazzi (0-19 anni), oggi meno della metà (470), di cui 21 in terapia intensiva (a novembre erano 53). Ma questa volta gli esperti del Cts vorrebbero giocare d’anticipo visti anche i rischi delle nuove varianti.

Tutto chiuso dunque nelle zone rosse: dalla materna all’Università, se il contatore dei contagi è fuori controllo, i bambini e i ragazzi dovranno stare in casa e ricorrere alla Dad. Nelle zone arancioni potrebbero cambiare i protocolli e dovrebbe valere la regola per la quale nei comuni in cui i contagi superano i 250 su 100 mila abitanti per sette giorni, si applicano le stesse misure restrittive della zona rossa. Ma su questo ieri le Regioni hanno fatto alcuni rilievi al testo del Dpcm che potrebbe essere ancora limato oggi e la soglia dei contagi potrebbe abbassarsi. Nelle zone gialle invece si continua come ora: elementari e medie aperte e superiori in aula al 50 per cento.

Le misure

Nel nuovo Dpcm torneranno i permessi per i genitori dei bimbi fino a 14 anni in Dad

Non si deciderà più regione per regione ma per zone più limitate, ma ci saranno zone in cui si replicherà il copione del primo lockdown. In realtà succede già in Puglia, Campania, e in diversi comuni e città sparse per la Penisola: da Brescia a Bologna, da Macerata a Siena. Si calcola che quasi un terzo degli studenti, circa tre milioni, potrebbe essere toccato dalle restrizioni. Una situazione che è surreale nelle scuole superiori dove oggi cominciano le prove Invalsi.

Dalla settimana prossima, quando entrerà in vigore il Dpcm, tutto sarà regolato da una norma nazionale e saranno reintrodotti permessi speciali (anche retroattivi) per un genitore dei bambini fino a 14 anni, da usare in caso di chiusura delle scuole. Il capogruppo in commissione Cultura, Gabriele Toccafondi, è soddisfatto se ci sarà «una norma del governo con criteri oggettivi». È molto dura la reazione dell’ex ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, che nel governo Conte si era opposta alla chiusura delle elementari a novembre: «Se non ci si organizza è molto più facile trovare la scorciatoia e la scorciatoia è chiudere le scuole. Prima di chiudere tutto, perché non abbiamo dato le mascherine Ffp2 ai docenti o non diminuiamo ulteriormente il numero degli studenti in presenza nelle zone rosse?».

Prof e concorsi in una scuola schizofrenica

da Corriere della sera

Ernesto Galli della Loggia

Ammalata di schizofrenia, la scuola italiana — votata da anni a una rovinosa indulgenza nel valutare il merito dei suoi studenti — quando invece si tratta di giudicare i docenti da ammettere nelle proprie fila, allora si rifà divenendo una sadica esaminatrice. Leggere, per credere, le domande cui sono stati chiamati a rispondere (in 150 minuti!) i partecipanti al recentissimo Concorso Straordinario per il ruolo nella classe di Filosofia e Storia. Che riporto nella loro integralità.

1) Esporre le funzioni di una webquest per una lezione sul rapporto tra Stato e Chiesa dal 1870 al 1983 rivolta a un gruppo classe eterogeneo in cui sono presenti anche alunni Dsa (cioè affetti da disturbi specifici dell’apprendimento);

2) Partendo dall’uomo di Vitruvio di Leonardo sviluppare un confronto tra l’antropocentrismo di stampo rinascimentale (ad esempio Pico della Mirandola) rispetto a quello di Protagora, guardando poi alla sua evoluzione nella filosofia del Seicento (Cartesio);

3) Sviluppare un percorso didattico mettendo in evidenza obiettivi trasversali, metodologie e riferimenti bibliografici sul rapporto natura ed essere umano nella filosofia contemporanea (scegliendo a piacere un approccio analitico o continentale);

4) Impostare un lavoro di gruppo con l’ausilio di fonti giornalistiche e cartografiche per chiarie i presupposti geopolitici e gli sviluppi dei conflitti in Medio Oriente nel XX secolo;

5) Spiegare le prove dell’esistenza di Dio di Anselmo e di San Tommaso facendo particolare riferimento al XII libro della Metafisica di Aristotele e ai concetti di esistenza e ontologia. Precisare con quale metodologia si potrebbe trattare questo argomento di fronte a una classe.

6) Testo in lingua inglese con cinque domande cui rispondere in lingua.

Mi chiedo: che cosa è accaduto in Italia, in tutti noi, perché potessero verificarsi cose del genere?

Vaccino Covid, da lunedì 1 marzo in Sicilia si potranno vaccinare i docenti over 55 e quelli delle scuole paritarie e private

da OrizzonteScuola

Da domani, in Sicilia, anche il personale docente e non docente di tutte le scuole paritarie, regionali ed enti di formazione Oif (fino alla classe 1956) potrà prenotarsi – attraverso la piattaforma telematica e gli altri servizi gestiti da Poste Italiane – per la vaccinazione anti Covid.

Inoltre, a seguito dalla comunicazione degli elenchi da parte dei ministeri competenti alla Regione siciliana, tale possibilità è stata estesa anche i dipendenti over 55 in servizio presso gli istituti scolastici statali dell’Isola.

Prove Invalsi, si parte il 1° marzo alle superiori. Ajello: gli esiti per capire cosa c’è da recuperare

da La Tecnica della Scuola

Partono lunedì 1° marzo i test Invalsi: si inizia con le verifiche di Italiano, Matematica e Inglese (lettura e ascolto) nelle classi quinte delle superiori, con l’esito che non sarà comunque vincolante per l’ammissione agli Esami di Stato al via il prossimo 16 giugno. La prossima tornata di test si svolgerà per le classi terze della scuola media (da svolgere al computer): prenderanno il via il 7 aprile. Quasi un mese dopo, il 5 maggio, sarà la volta (su carta) delle classi terminali della primaria; il giorno dopo, giovedì 6 maggio, toccherà ai compagni delle classi seconde. Si concluderà il 10 maggio (anche se la data non sembra che sia certa), quando le seconde delle superiori svolgeranno i test Invalsi al computer.

Finestra allargata

“Il decollo è domani, per l’atterraggio aspettiamo e vediamo”, ha detto Anna Maria Ajello, presidente Invalsi, nel corso di un’intervista di un’Ansa.

“Siamo pronti – ha spiegato Ajello – è stata allargata la finestra per far svolgere le prove, le scuole hanno più tempo e potranno convocare i ragazzi in piccolissimi gruppi o spostare le prove ai prossimi mesi in quelle zone in cui le lezioni non sono in presenza”.

I test serviranno a loro stessi

La numero uno dell’istituto nazionale di valutazione fa quindi “i migliori auguri agli studenti. A loro dico che faranno un lavoro interessante per loro stessi ma anche per gli altri”.

“Dalle informazioni che arriveranno – ha detto ancora – , avremo un primo dato importante, senza colpevolizzare nessuno per i tanti eventi contrari che ci hanno colpito in questi mesi”.

Così capiremo meglio

“Con queste prove – ha continuato Ajello – avremo i primi dati attendibili per poter dire cosa è successo e come e dove dovremo recuperare”.

“È dunque anche un atto generoso quello di svolgere queste prove, per aiutare a comprendere l’ampiezza del gap di apprendimento”, ha concluso la presidente dell’Invalsi.

Apertura e chiusura scuole, dal 1° marzo, le indicazioni del CTS

da La Tecnica della Scuola

Il CTS ha riconosciuto ieri che esiste un forte impatto dei nuovi contagi da Covid 19 nelle scuole di ogni ordine e grado soprattutto per il sopraggiungere della variante inglese del virus più contagiosa del 40%.

Di seguito le tre raccomandazioni del CTS che saranno recepite dal Governo in un nuovo DPCM previsto per domani.

1) Saranno chiuse le scuole di ogni ordine e grado in tutte le zone rosse (Basilicata – vedi indicazioni specifiche – e Molise).

2) Nelle zone arancioni (Abruzzo – vedi indicazioni specifiche – Campania – vedi indicazioni specifiche – Emilia Romagna – vedi indicazioni specifiche – Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana, Provincia Autonoma di Bolzano, Provincia autonoma di Trento, Umbria) a decidere la chiusura di tutte le scuole saranno i Presidenti di Regione con proprie ordinanze che potranno chiudere tutte le scuole in tutto il territorio regionale oppure nelle singole province in rapporto al diffondersi del virus.

In caso contrario nelle zone arancioni la didattica continuerà in presenza al 100% e nelle scuole secondarie di secondo grado dal 50% al 75%.

Nelle zone gialle (Calabria,– vedi indicazioni specifiche – Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Puglia, Sicilia, Valle d’Aosta, Venetotutto resterà invariato se il contagio resta stabile per tre settimane.

3) Per chiudere le scuole nelle zone arancioni e gialle il numero dei contagi, secondo il CTS, dovrà ora essere di 250 positivi ogni 100.000 abitanti.

Il CTS consiglia inoltre un approccio differenziato e cioè di modulare la chiusura delle scuole a seconda delle aree di diffusione del contagio e cioè a livello comunale e provinciale e non soltanto a livello regionale.

L’intenzione del Governo Draghi sarebbe quella di convincere le Regioni a seguire le stesse regole e nel caso di didattica a distanza si impegnerebbe a rafforzare l’accesso ai congedi parentali.

La Sardegna è la prima regione a diventare zona bianca.