Monitoraggio ITS 2021

Monitoraggio ITS 2021, l’80% dei diplomati trova lavoro entro un anno

 Nel 92% dei casi, i giovani trovano un’occupazione in un’area coerente col percorso di studi

Il Ministro Patrizio Bianchi: “Rilancio sistema obiettivo fondamentale”

Roma, 7 giugno 2021 – È disponibile il monitoraggio nazionale 2021 dei percorsi ITS (Istituti Tecnici Superiori), realizzato da INDIRE su incarico del Ministero dell’Istruzione. Il monitoraggio analizza gli esiti occupazionali a dodici mesi dal diploma delle studentesse e degli studenti che hanno concluso i percorsi presso gli ITS fra il primo gennaio e il 31 dicembre 2019. La rilevazione si è concentrata sull’analisi dei 201 percorsi oggetto di monitoraggio perché terminati nel 2019, erogati da 83 Fondazioni ITS su 104 costituite al 31 dicembre 2019 con 5.097 studenti e 3.761 diplomati.

“A dieci anni dalla sua nascita, il sistema degli Istituti Tecnici Superiori continua a dimostrare la sua piena efficacia in termini di occupazione – dichiara il Ministro dell’IstruzionePatrizio Bianchi – Questi dati ci dicono, però, che possiamo fare di più ed è l’obiettivo della riforma alla quale stiamo lavorando e che presenteremo a breve. È il momento di uscire definitivamente dalla fase sperimentale e creare una rete nazionale in grado di valorizzare le specificità territoriali. Una rete che renda questa scelta più attrattiva per i giovani e per le loro famiglie. Gli ITS devono essere percepiti sempre di più come parte integrante del sistema nazionale di istruzione terziaria, con una loro autonomia e una loro più forte caratterizzazione nell’ambito dei cicli di studio”. “Il loro rilancio, al centro anche del nostro Pnrr, è un punto qualificante della strategia del Paese per uscire da stagnazione e bassa crescita e innalzare i livelli di studio”, ha concluso il Ministro.

“Gli ITS propongono un’offerta strettamente integrata con il mondo economico e produttivo – ha dichiarato il Presidente di INDIREGiovanni Biondi -, valorizzando tanto il capitale umano quanto il sistema produttivo nazionale e dei territori. Come evidenzia anche il monitoraggio, gli ITS confermano, nonostante la pandemia, la forza sul piano dell’occupabilità, della formazione e dal punto di vista sociale. Ciò è possibile grazie a un modello dinamico caratterizzato da una flessibilità organizzativa e didattica, da una rete di governance costruita insieme alle imprese, dalla capacità di intercettare l’innovazione, in particolare sul fronte dell’uso delle tecnologie abilitanti proprie al piano Industria 4.0, dalla coerente ricerca sulle metodologie di apprendimento e di acquisizione di competenze per i nuovi lavori”.

Cosa sono gli ITS

I percorsi in settori tecnologici d’avanguardia erogati dagli ITS hanno una durata biennale o triennale e fanno riferimento alle seguenti filiere: Mobilità sostenibile, Efficienza energetica, Tecnologie innovative per i beni e le attività culturali – turismo, Tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nuove tecnologie della vita, Nuove tecnologie per il made in Italy: sistema agro-alimentare, sistema meccanica, sistema moda, servizi alle imprese, sistema casa.
Ciascun diploma corrisponde a figure nazionali, a piani di studio definiti con le imprese e a competenze sviluppate nei luoghi di lavoro. Si collocano al V livello EQF (European Qualification Framework). Sono progettati sulla base di piani triennali predisposti dalle programmazioni regionali e assumono come riferimento le competenze delle specifiche figure nazionali riferite alle aree tecnologiche (Decreto 7 Febbraio 2013), la ricognizione dei fabbisogni formativi dei diversi territori rispetto alle specifiche filiere produttive e considerano le esigenze di innovazione scientifica, tecnologica e organizzativa delle imprese. Rispondono ad alcuni standard minimi: stage obbligatori almeno per il 30% della durata del monte ore complessivo, presenza di non meno del 50% di docenti che provengono dal mondo del lavoro, con una specifica esperienza professionale maturata nel settore per almeno cinque anni (D.P.C.M. 25 gennaio 2008).

Le performance occupazionali dei diplomati ITS a un anno dal diploma

L’80% dei diplomati ITS ha trovato lavoro a un anno dal diploma, il 92% degli occupati in un’area coerente con il percorso di studi. Il dato risulta particolarmente significativo perché riferito al 2020, anno di esplosione della crisi pandemica. Del 20% dei non occupati o in altra condizione: l’11,1% non ha trovato lavoro, il 4,1% si è iscritto ad un percorso universitario, il 2,7% è in tirocinio extracurricolare e il 2,4% è risultato irreperibile. I dati relativi al tasso di occupati a 12 mesi, per area tecnologica, evidenziano in generale un trend in crescita per Mobilità sostenibile (83%) e Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (82%). In generale per gli ambiti delle Nuove tecnologie per il made in Italy si registra una lieve diminuzione rispetto all’anno precedente, nonostante i valori rimangano alti, è il caso dell’ambito del Sistema meccanica (88%) e del Sistema moda (82%) dove si ottengono i migliori risultati.


Le tipologie di contratto

Il 42,1% degli occupati ha trovato lavoro con contratto a tempo determinato o lavoro autonomo in regime agevolato; tipologia contrattuale più utilizzata in tutte le aree tecnologiche. Unica eccezione per le Tecnologie dell’informazione e della comunicazione, area nella quale prevale l’apprendistato.

Gli studenti

Sono giovani in prevalenza maschi (il 72,6%) tra i 20 e 24 anni (il 42,4%) e 18-19 anni (il 38,0%), in possesso di un diploma di istruzione secondaria di secondo grado ad indirizzo tecnico (il 59%). Costante e progressivo è anche l’incremento degli iscritti con diploma liceale (21%). Il 10,5 % degli iscritti risiede in una regione diversa rispetto alla sede del percorso. La percentuale degli iscritti fuori sede più significativa è per l’area tecnologica della Mobilità sostenibile (17,5%).

Una rete di governance agìta con le imprese

Il 44,6% dei 2.462 soggetti partner degli ITS con percorsi monitorati sono imprese e associazioni di imprese. Il 91% delle 4.043 sedi di stage sono imprese dove gli studenti sperimentano la digitalizzazione dei processi produttivi delle aziende. Nonostante la maggior parte delle imprese sedi di stage sia di piccole dimensioni (il 37,8% per la classe di addetti 1-9 e il 34,3% per la classe di addetti 10-49), i dati per area tecnologica evidenziano la prevalenza della classe di addetti 500 e oltre per le aree: Mobilità sostenibile (25,6%), Sistema meccanica (17,8%).

Flessibilità organizzativa e didattica

La rete dei docenti è rappresentata per il 71% da professionisti provenienti dal mondo del lavoro che svolgono il 71% delle ore di lezione previste nei percorsi. Il 41,3% delle ore del percorso è realizzato in stage mentre il 27% delle ore di teoria è realizzato in laboratori di impresa e di ricerca. La presenza di esperti provenienti dal mondo delle imprese garantisce il livello di “aggiornamento” delle attività che vengono proposte, degli stage e delle attività di laboratorio integrati nei percorsi formativi. In particolare, i laboratori (di proprietà dell’ITS 24,4% e in convenzione d’uso 75,6%) diventano il luogo dell’apprendimento, il cuore dell’attività formativa centrata sullo sviluppo di competenze.

La capacità di intercettare l’innovazione

Il 55% dei percorsi monitorati ha utilizzato le Tecnologie abilitanti 4.0, di questi l’84% ne utilizza più di una. Le tecnologie abilitanti maggiormente utilizzate sono la simulazione tra macchine interconnesse per ottimizzare i processi (Simulation 47,3%) e la gestione elevata di quantità di dati su sistemi aperti (Cloud 46,4%). Le Tecnologie abilitanti 4.0 si accreditano per la formazione di tecnici della conoscenza (knowledge worker). La progettazione degli ITS si rinnova creando contesti esperienziali nei quali gli studenti utilizzano le tecnologie esercitando anche le soft skills come la propria capacità di risolvere problemi.

PREMIALITÀ

I percorsi che accedono alla premialità sono 89 (il 44,3% del totale dei percorsi monitorati).

Il rapporto più alto tra percorsi premiati e percorsi monitorati spetta alle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione con il 53,8% e alle Nuove tecnologie per il made in Italy con il 51,7% dei percorsi premiati sul totale dei percorsi monitorati (in particolare il Sistema meccanica con una percentuale di 78,9% di percorsi premiati).

Le regioni con percorsi che accedono alla premialità sono Veneto (18), Lombardia (17), Emilia-Romagna (10), Piemonte (9), Puglia (9), Liguria (3), Lazio (5), Friuli-Venezia Giulia (6), Umbria (3), Toscana (4), Campania (2), Sicilia (2) e Abruzzo (1). Nessun percorso accede alla premialità per Calabria, Marche, Molise, e Sardegna.

 I primi classificati per area tecnologica nel monitoraggio 2021

·  Nuove tecnologie per il Made in Italy, Sistema MeccanicaITS per la Mobilità sostenibile – Aerospazio/Meccatronica, Torino, Piemonte.

·  Tecnologie dell’informazione e della comunicazioneITS Nuove Tecnologie per il Made in Italy – JobsAcademy, Bergamo, Lombardia.

·  Nuove tecnologie per il made in Italy, Sistema ModaITS per le Nuove tecnologie per il Made in Italy: Sistema moda – Tessile, Abbigliamento e Moda, Biella, Piemonte.

·  Mobilità SostenibileITS per la Mobilità sostenibile – Fondazione G. Caboto, Latina, Lazio.

·  Tecnologie innovative per i beni e le attività culturali – TurismoITS per il Turismo Veneto, Venezia, Veneto.

·  Nuove tecnologie per il made in Italy, Servizi alle impreseITS Nuove tecnologie per il Made in Italy JobsAcademy, Bergamo, Lombardia.

·  Nuove tecnologie per il Made in Italy, Sistema Agro-alimentareITS per la Mobilità sostenibile nei settori del trasporto marittimo e della pesca – Accademia Italiana della Marina Mercantile, Genova, Liguria.

·  Nuove tecnologie per il made in Italy, Sistema casaITS Umbria Made in Italy – Innovazione, tecnologia e sviluppo, Perugia, Umbria.

·  Efficienza energeticaITS per lo sviluppo dei sistemi energetici ecosostenibili, Torino, Piemonte.

·  Nuove tecnologie della vitaITS Nuove tecnologie della vita, Modena, Emilia-Romagna

Roma, 7 giugno 2021

Patto per la scuola al centro del Paese

Patto per la scuola al centro del Paese: tavolo  tecnico  al Ministero sulle problematiche della dirigenza scolastica e del personale ATA

7 Giugno 2021

L’ANP ha partecipato oggi in videoconferenza a un incontro con il Ministero dell’istruzione, rappresentato dalla Dott.ssa Capasso, durante il quale sono state affrontate alcune problematiche relative alla dirigenza scolastica, al personale ATA – con particolare riferimento al DSGA – e agli insegnanti di religione cattolica nell’ottica di proporre emendamenti al cosiddetto ‘Decreto sostegni bis’.  

Si tratta di uno dei tavoli tecnici previsti per la realizzazione del Patto per la scuola al centro del Paese, fermo restando che si terrà un tavolo tecnico specifico sui dirigenti scolastici il prossimo 11 giugno. 

L’ANP ritiene che, in sede di conversione del citato decreto legge, debbano prioritariamente essere affrontati due aspetti: da un lato, la questione delle scuole normodimensionate sulla base dei commi 978 e 979 dell’art. 1 della legge di bilancio per l’anno 2021 e, dall’altro, la questione della cosiddetta ‘chiamata veloce’ dei DSGA. 

Come noto, i commi 978 e 979 dell’articolo 1 della legge n. 178 del 2020 modificano, per l’anno scolastico 2021/2022, la disciplina relativa al numero minimo di alunni necessario per l’assegnazione alle istituzioni scolastiche di un dirigente scolastico con incarico a tempo indeterminato e di un direttore dei servizi generali e amministrativi in via esclusiva. Ciononostante, il D.M. n. 157 del 14 maggio scorso, nel definire la consistenza complessiva delle dotazioni organiche dei dirigenti scolastici per l’anno scolastico 2021/2022, non tiene conto di tale disposto vanificandone di fatto la portata. Ci attendevamo ben altra ricaduta dalla previsione della legge di bilancio in termini di aumento del numero delle sedi disponibili e, dunque, di agevolazione anche della mobilità interregionale e del rientro nelle regioni di residenza dei vincitori del concorso del 2017. L’ANP ha pertanto richiesto che la legge di conversione del ‘Decreto sostegni bis’ faccia chiarezza sul punto e determini le condizioni per l’attuazione piena della norma. 

Per quanto riguarda il DSGA, abbiamo sollecitato il ripristino della cosiddetta ‘chiamata veloce’, prevista dall’art. 32-ter, cc. 2-4, D.L. 34/2020 e abrogata dall’art. 58, c. 2, lettera b), D.L. 73/2021 nell’ottica di garantire la maggiore copertura possibile dei posti vacanti e disponibili all’avvio del nuovo anno scolastico. 

L’ANP si è riservata di affrontare nel tavolo tecnico appositamente dedicato alla dirigenza le criticità riferibili a tre ambiti: le condizioni di lavoro, le responsabilità e la retribuzione dei dirigenti scolastici.  

Mobilità dei dirigenti scolastici

Mobilità dei dirigenti scolastici: confronto al Ministero dell’Istruzione sui criteri nazionali

7 Giugno 2021

L’ANP ha partecipato in videoconferenza alla prosecuzione del confronto, avviato il 3 giugno scorso ai sensi dell’art. 5, c. 3, lett. g)del CCNL 8/7/2019 dell’area istruzione e ricerca, tra il Ministero dell’istruzione e le organizzazioni sindacali rappresentative della stessa, sui criteri per il conferimento degli incarichi dirigenziali da applicare con decorrenza 1° settembre 2021. 

L’Amministrazione, rappresentata dal Direttore Generale Dott. Serra, ha esposto alle organizzazioni sindacali la nota con cui si individuano i criteri a livello nazionale – come previsto dall’art. 5, c. 4 del CCNL del 8/7/2019 – per disciplinare le operazioni di attribuzione degli incarichi dirigenziali. Essa prevede l’applicazione degli artt. 19 e 25 del D. lgs. 165/2001, degli artt. 11, 13 e 20 del CCNL dell’area V dell’11/4/2006, degli artt. 7 e 9 del CCNL 15/7/2010 dell’area V e dell’art. 53 del CCNL 8/7/2019 dell’area istruzione e ricerca.  

L’assegnazione degli incarichi dirigenziali sarà, pertanto, effettuata nel seguente ordine: a) conferma degli incarichi ricoperti alla scadenza del contratto; b) assegnazione di altro incarico per ristrutturazione, riorganizzazione o sottodimensionamento dell’ufficio dirigenziale; c) conferimento di nuovo incarico alla scadenza del contratto e assegnazione degli incarichi ai dirigenti scolastici che rientrano dal collocamento fuori ruolo, comando o utilizzazione; d) mutamento d’incarico in pendenza di contratto individuale; e) mutamento d’incarico in casi eccezionali; f) mobilità interregionale.  

Il Dott. Serra ha poi illustrato le modifiche apportate dall’Amministrazione al testo della nota presentata durante l’incontro del 3 giugno scorso:  

  • è stato eliminato dai criteri – adottati a livello nazionale – il riferimento alla rotazione degli incarichi dirigenziali alla luce dell’Allegato 2 al Piano nazionale anticorruzione 2019-2021 per quanto riguarda la conferma degli incarichi ricoperti alla scadenza del contratto;  
  • è stato specificato che, nel caso di assegnazione ad altro incarico per ristrutturazione, riorganizzazione o sottodimensionamento dell’ufficio dirigenziale, la norma di riferimento per l’individuazione del dirigente ‘perdente posto’ è l’art. 1, c. 978 della legge 178/2020. Partecipa, quindi, alle operazioni di mutamento di incarico, sia nel caso di scadenza del contratto al 31 agosto sia in costanza di incarico, il dirigente titolare presso un’istituzione scolastica sottodimensionata in base ai parametri individuati dalla stessa legge 178 (istituzione scolastica con meno di 500/300 alunni). L’ANP, a proposito di tali istituzioni scolastiche, ha ricordato che proprio in mattinata si è svolto un tavolo tecnico, convocato dal Ministero dell’istruzione, con la finalità di valutare interventi emendativi per la conversione del cosiddetto ‘Decreto sostegni bis’. In tale contesto abbiamo chiesto al Ministero di adoperarsi affinché si colga l’occasione della conversione del decreto per rendere pienamente attuabile la previsione del comma 978, consentendo l’utilizzazione delle sedi in questione per la ‘mobilità’ dei dirigenti scolastici in servizio e per le immissioni in ruolo. 

L’Amministrazione ha precisato che la domanda per richiedere la mobilità deve essere inoltrata all’USR di appartenenza entro il 21 giugno 2021. Nel caso di mobilità interregionale, la domanda dovrà pervenire entro il 21 giugno all’USR di appartenenza che valuterà se esprimere l’assenso e, in caso positivo, trasmetterà entro il 5 luglio la richiesta agli UU.SS.RR. di destinazione. I provvedimenti finali saranno adottati entro il 15 luglio 2021. 

L’ANP ha chiesto all’Amministrazione di delineare con chiarezza la tempistica e la procedura di immissione in ruolo a decorrere dal 1° settembre 2021 dei vincitori del concorso del 2011 presenti nella graduatoria regionale della Campania senza riserva all’esito del recente pronunciamento del Consiglio di Stato. L’Amministrazione si è dichiarata disponibile a fornire tali chiarimenti nel corso di un prossimo incontro, dopo aver attivato la necessaria interlocuzione con l’USR per la Campania. Il numero delle sedi disponibili, comunque, all’esito dell’attuazione del dimensionamento, è inferiore al numero dei vincitori in graduatoria e questo spiega perché, nella nota per il conferimento degli incarichi, si faccia riferimento all’art. 1, c. 92 della legge 107/2015 e alla procedura di immissione in ruolo interregionale. 

Un saluto a Roberto Pellegatta

Un saluto a Roberto Pellegatta

Dopo un breve periodo di malttia, ci ha lasciato improvvisamente Roberto Pellegatta, ideatore e primo presidente nazionale dell’associazione DiSAL, che aveva fondato insieme ad alcuni presidi nel 2001 con l’intento di dar vita ad un luogo di solidarietà e collaborazione professionale teso a sostenere l’attuarsi di una figura dirttva di scuola attenta agli asptti educativi e generativi di comunità e di apprendimento efficaci.

Docente prima, e poi, dagli anni ’90, preside nelle scuole statali, Roberto era autentico uomo di cultura che fu capace di coinvolgere, fin dall’inizio dell’esperienza di DiSAL, molti dirigenti scolastici, coordinatori didattici e docenti, per verificare con loro la proposta culturale di Cesare Scurati e la sfida educativa di don LuIgi Giussani, autore de Il rischio educativo.

A Roberto si deve l’impostazione originale e attuale di un’Associazione concepita quale luogo di compagnia professionale al lavoro, di rete di professioniste per l’educazione nella scuola intesa come spazio di progettazione formaEva autenEcamene libero ed autonomo.
Lungimirante l’idea di Pellegatta di cosEtuire un’Associazione di responsabili di scuole insieme statali e paritarie, tutti chiamati a giocare appieno le proprie competenze, il proprio ruolo, la propria funzione, indipendentemente dall’ente gestore dell’istituzione scolastica, per generare comunità educative, comunità di apprendimento, “comunità di destino”, secondo la felice definizione del filosofo francese Gustave Thibon. Sono cenEnaia e cenEnaia le persone che hanno incontrato in questi venti anni DiSAL attraverso i numerosissimi eventi, seminari, corsi di formazione e convegni svolti in tutte le regioni italiane, tutti debitori della felice intuizione associattiva di Pellegatta.

Personalità forte, decisa, indomita, sempre teso alla ricerca del bene e dell’unità, seppe accompagnare e introdurre alla professione direttiva moltissimi amici e docenti che, ancora oggi, gliene sono grati.
Sostenne con energia e intelligenza lungimirante la collaborazione tra associazioni di scuola e non solo, consapevole del valore sociale delle stesse quali corpi intermedi e prossimi alle istanze delle persone, e quali strumenti qualificati per il dialogo propositivo nei confronti dell’amministrazione scolastica e della politica.

Dal 2008 ha diretto la rivista «Dirigere scuole» credendo egli moltissimo nell’importanza della riflessione critica sull’esperienza professionale e nella comunicazione di esperienze di direzione, coinvolgendo attorno alla rivista medesima una fitta ed autorevole rete di ricercatori, di accademici e di esperti, molti dei quali devono alla iniziativa editoriale di Pellegatta la scoperta dell’ambito della leadership educativa quale loro terreno di studi e di innovazione.

L’apertura internazionale, infine, che ha consentito a DiSAL di incontrare molte scuole, associazioni professionali e reti di istituti stranieri, traduceva l’anelito europeista ed il desiderio di dialogo che animava Roberto Pellegatta.
È con gratitudine infinita e con commozione intensa che oggi DiSAL, le associazioni di scuola e tutto il mondo scolasEco ed educativo lo saluta.

Lo salutiamo impegnandoci ora con lui, in una collaborazione dai modi nuovi e misteriosi, ad interpretare da figli questa sua paternità e a sviluppare dentro questi tempi di travaglio e di novità incipienti, la sfida di una amicizia e di un protagonismo innovativo delle scuole e degli ambiti educativi.
Grazie Roberto!

Milano, 7 giugno 2021

Tempo pieno, svuotato di senso

Tempo pieno, svuotato di senso

di Domenico Ciccone

Lo spunto dell’amico Nicola Puttilli[1] che anche attraverso le storie sull’organizzazione del tempo pieno, in primis quella che ha vissuto direttamente, ha ricostruito una felice epoca della scuola  elementare italiana, mi offre la possibilità di scrivere alcune riflessioni sul tema che ho maturato nel tempo. 

Desidero innanzitutto focalizzare l’attenzione del lettore su una domanda che mi pongo da sempre: la quantità del tempo scuola è di per sé un fattore di miglioramento dell’offerta formativa, in termini di outcome, risultato tangibile, effettivo, misurabile oppure rappresenta un risultato atteso, un ouput, in termini di novità e di gradimento del cambiamento che si utilizza come cavallo di battaglia politico?

Le giustificazioni pedagogiche, sottese all’introduzione del tempo pieno, hanno da sempre sostenuto che, fin dall’inizio, esso si è configurato come un modello di scuola adatto al cambiamento sociale dell’ultimo scorcio del ‘900, quando l’accresciuta nuclearizzazione delle famiglie e la decadenza della società rurale consigliavano una scuola le cui attività fossero diluite in una soluzione temporale più lunga. Tali attività andavano inoltre migliorate, nella loro funzione educativa, introducendo linguaggi e alfabeti capaci di sostenere uno sviluppo armonioso delle persone in una società finalmente dinamica dopo secoli di stasi. Nel lungo arco di tempo che ci separa dall’introduzione del tempo pieno, una scelta complessa e variegata, compiuta da diversi attori chiamati a decidere ( parlamento, ministero, scuole, enti locali, genitori) sull’argomento, ha determinato una situazione di fatto che vede generalmente diffuso il modello in alcune zone dell’Italia e limitato alla media del 20% nella rimanente parte della Nazione. 

Il tempo scuola più lungo, sebbene animato da modelli pedagogici ed organizzativi molto condivisi a livello di comunità scientifica, non è mai stato percepito come una panacea e, meno che mai la soluzione di tutti i mali dei sistemi educativi, primo tra tutti quello annoso della deprivazione sociocultutrale  che oggi riappare con  la denominazione di “povertà educativa”.

Anche all’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso Milena Santerini pubblicò un interessante saggio[2] con il quale intese analizzare  lo svantaggio scolastico e le possibili strategie educative per il suo contrasto. In quel frangente con una tanto coraggiosa quanto indispensabile azione ordinamentale, il ministro della Pubblica istruzione Sergio Mattarella, oggi nostro Capo dello  Stato,introdusse la vera riforma democratica della scuola elementare: la legge 148/90. Vera riforma democratica perché interessava tutte le classi della scuola in ogni angolo del Paese, perché non calpestava alcun diritto ed alcuna prerogativa tra gli organi e gli operatori della scuola, anzi auspicava che ciascuno facesse la propria parte non tanto allungando il tempo scuola ma migliorando il livello di qualità complessiva dell’offerta formativa, introducendo una poderosa innovazione dei modelli didattici, organizzativi e metodologici. La scuola italiana lungo i diciotto anni nei quali hanno funzionato i moduli, contaminando anche il tempo pieno con la “ modularizzazione”, ha raggiunto lusinghieri risultati nelle indagini internazionali e nelle prove standardizzate e ed ha vissuto la sua stagione migliore di sempre. Di questo, nessuno più ne parla, o quasi.  

Recentemente anche Franco Lorenzoni[3] ha espresso il proprio punto di vista sulla questione  adducendo a conforto della sua tesi, assolutamente positiva al tempo pieno nella scuola primaria, sette buone ragioni che spaziano da quelle che attengono al curricolo, al bilanciamento tra apprendimenti formali, informali e non formali, all’organizzazione di attività utili alla costruzione di competenze sociali più complete ed attualizzate, alla necessità di somministrare pasti in comune come beneficio per l’anoressia o per l’obesità infantile. 

Credo semplicemente che si stiano radicalizzando, da più parti, i propri punti di vista e soprattutto si stiano ricercando orizzonti comuni partendo da prospettive completamente diverse che, come dimostrano i cinquanta anni di storia del tempo pieno in Italia, non hanno fatto altro che segnare il passo a questo modello organizzativo e ne hanno mostrato più spesso i limiti piuttosto che le potenzialità.

Premesso che, sebbene se ne ricerchi il senso tra le fonti più disparate, non esiste una relazione diretta e causale tra la diffusione del tempo pieno ed i risultati scolastici intesi in termini di outcome. Anche se i territori italiani meno afflitti da povertà educativa, quelli che gareggiano in termini di risultati scolastici nelle prove standardizzate con i migliori contesti mondiali, sono quasi tutti serviti dal tempo pieno generalizzato, occorre sottolineare che essi primeggiano soprattutto per i dati di contesto, quelli che l’INVALSI riunisce sotto il mitico indicatore ESCS e che ogni anno viene rilevato e rafforzato nella sua valenza tanto da essere utilizzato anche dall’agenzia nazionale PON per calcolare le modalità d finanziamento in alcune azioni. 

In secondo luogo, leggendo la pubblicazione annuale dell’OCSE “ Uno sguardo sull’istruzione 2019”  si apprende che uno dei temi trattati da Franco Lorenzoni, quello del rapporto tra istruzione formale, non formale e informale, che sono tre aspetti indispensabili in qualsivoglia ragionamento sulla attuale idea di educazione, esige una riflessione attenta e soprattutto svincolata da modelli radicali di analisi pedagogica, troppo dipendenti dalla visione ineluttabile che dà per scontata la leadership della scuola tra le agenzie formative.

Franco Frabboni, già negli anni ’80 del secolo scorso[4] auspicava un patto di ferro tra le agenzie intenzionalmente educative, per contrastare il mercato dell’educazione a pagamento che già a quei tempi aveva assunto dimensioni ragguardevoli. La visione ampiamente profetica del professor Frabboni non contemplava, come giusto poteva essere quaranta anni fa, le declinazioni che avrebbero assunto i modelli educativi imposti dalle emergenze dei Bisogni educativi speciali che hanno rivoluzionato la didattica nella direzione della personalizzazione e della interazione tra l’azione della scuola e quella delle altre agenzie educative, anche operanti a titolo oneroso, con le quali adesso la leadership della scuola deve confrontarsi giungendo ben altro che a un patto di ferro!

Sono i dati che davvero rilevano per scegliere il modello più adatto di organizzazione del tempo scuola e qui mi soffermo sulla posizione demagogica di quelli che hanno promesso più tempo scuole come panacea, imitando posizioni alla “Laqualunque” pur di estorcere consenso. E certamente questa è musica, anche per le orecchie di chi continua bussare alle porte dei dirigenti scolastici per raccomandare “ qualsiasi maestra purché sia tradizionale e  severa”, per la bambina o il bambino che si apprestano a iniziare la scuola primaria. 

Sembra che i luoghi comuni stiano sopravvivendo oltremisura, tanto da condizionare una scelta importante come quella che dovrà dirigere gli investimenti del PNRR sull scuola e su cui anche l’ANDIS si è ampiamente confrontata. 

In verità, leggendo il report dell’OCSE relativo all’anno 2019, con alcuni riferimenti anche al 2018, si confermano quelle che, oltre le interpretazioni appassionate, sono le vere emergenze del sistema educativo italiano in termini di equità e di capacità di essere un ascensore sociale. Allo scopo di bloccare sul nascere eventuali commenti sulle eccellenze italiane e sui cervelli rubati dalle multinazionali estere, rimando anticipatamente alla curva di Gauss ed alle inevitabili presenze eccellenti in ogni gruppo casuale di persone, per chi dovesse così cercare una giustificazione alle carenze dell’attuale sistema formativo italiano nel quale il tempo pieno pure è diffuso, sebbene non capillarmente. 

La fonte OCSE, impietosamente rileva:

  • Che abbiamo un tasso di istruzione terziaria 9 punti più basso della media europea
  • L’Italia ha la quota di docenti ultracinquantenni più alta dell’OCSE ( 59%) dovrà rinnovare la metà del personale nel prossimo decennio e non c’è una chiara, seria e definita politica sulle assunzioni, se non proclami e tirate di giacca verso sanatorie inqualificabili;
  • L’istruzione tecnica e professionale (TVET),  che garantisce prospettive di impiego e livelli di reddito e di occupabilità paragonabili a quelli dei possessori di titoli terziari , rileva livelli di iscrizione ai minimi storici;
  • L’Italia registra la terza quota più elevata di giovani che non lavora, non studia e non frequenta un corso di formazione (NEET) tra i Paesi dell’OCSE: il 26% dei giovani di età compresa tra 18 e 24 anni è NEET, rispetto alla media OCSE del 14%. Circa l’11% dei 1519enni sono NEET, ma questa quota triplica per i 20-24enni, raggiungendo il 29% per le donne e il 28% per gli uomini nella classe d’età in cui inizia la transizione verso l’istruzione terziaria e il mercato del lavoro. Sebbene il livello d’istruzione sia più alto tra le donne, il tasso di giovani NEET aumenta fino al 37% per le donne di età compresa tra i 25 e i 29 anni e scende al 26% per gli uomini della stessa coorte.

Dobbiamo spendere dei soldi quelli del Recovery found e promettere di aumentare il tempo scuola ai bimbi fa pendant, la tradizione che sottende questa intenzione è prestigiosa, autorevole, riconosciuta a livello scientifico e culturale. Tutti, o quasi, dimenticano, però, che i risultati degli adolescenti e degli adulti sono condizionati dall’insieme dei fattori che hanno caratterizzato la loro storia educativa ed il loro curriculum (oggi anche legittimato con la sua introduzione ufficiale anche all’esame di Stato II ciclo). Nessuno pone la scuola primaria di fronte ai risultati impietosi sopra descritti ricordando che quelli che finiscono nella condizione di povertà educativa e di dispersione implicita, magari iscritti a in un indirizzo dell’istruzione professionale, sono, spesso, innocenti risultati umani di colpevoli omissioni educative, che provengono da lontano, anche dalla scuola primaria, anche da quella a tempo pieno. 

I Paesi dell’OCSE che conseguono risultati migliori non restaurano la scuola ad ogni piè sospinto riutilizzando modelli datati e anacronistici. Il tempo pieno come promessa elettorale di un partito ma anche come modello di coesione ed equità sociale è ormai quello svuotato di ogni senso, che ha abbandonato le intelligenti attività integrative in nome di un curricolo senza identità, talvolta colpevolmente replicato nel pomeriggio privando i bambini delle esperienze fatte con le mani, con gli occhi e con il corpo nella sua interezza. 

Se il lettore distratto sta dimenticando l’influsso del contesto sui risultati scolastici, condizione e frutto dell’ineluttabile interdipendenza tra le occasioni formali, informali e non formali di apprendimento, gli lasciamo volentieri la convinzione che il tempo pieno possa risolvere ogni difficoltà o problema della seconda e terza infanzia; lo invitiamo però a presentare dati diversi da quelli che leggiamo noi, ogni anno, da troppi anni, nelle impietose indagini internazionali nelle quali è analizzato il sistema scolastico italiano. I cinquanta anni di tempo pieno non hanno risolto, pardon, contribuito a risolvere, i problemi che l’OCSE elenca ciclicamente e non rappresentano una stagione della scuola italiana che possa essere il modello unico per spendere efficacemente e risorse del PNRR.

Ogni critica è inutile senza proposte. Abbiamo tutti bisogno di soluzioni definitive, quelle che riportino l’Italia in una posizione autorevole, prestigiosa, adeguata alla sua storia ed al valore dei suoi cittadini.  Infatti, nonostante le innumerevole esperienze di tempo lungo a scuola abbiamo un preoccupante tasso di analfabeti intellettuali tra i giovani e le competenze disciplinari e trasversali ormai indispensabili sono estremamente carenti nella fascia 16-24 che ormai è straboccante di NEET secondi solo alla Grecia e Turchia per numero. 

 E a mio modesto parere occorre insistere con investimenti capaci di lasciare segni durevoli sui territori disagiati, messi all’angolo per decenni dalla carenza di infrastrutture. Quelle che non ci sono mai state servono a poco ormai. Occorre puntare alle opere infrastrutturali che occorrono oggi, (connettività, intelligenza artificiale, blockchain e banche dati). Sarebbe un gravissimo errore mirare su quelle che occorrevano decenni fa e non sono state realizzate allora. 

Servirebbero scuole strutturalmente adeguate, studiate nella configurazione delle aule, degli spazi e delle funzionalità, come si fa con gli ospedali e con le fabbriche, ad esempio. In Italia anche le scuole nuove vengono costruite con spazi adatti soltanto alla didattica frontale secondo parametri che risalgono al 1971 mondo lontanissimo rispetto a quello di oggi, ben più lontano dei cinquanta anni di calendario.

Se non usciamo dalla logica della classe, da quella dell’appello, del registro e della responsabilità di svolgere il “programma” potremo fare mille proposte di miglioramento ma dovremo sempre fare riferimento al passato, a quello forse bello, fulgido di esperienze brillanti ma legate a modelli anche burocratici che sono ingabbiati ed immodificabili.

Tempo pieno sì, ma per chi lo vuole, lo richiede, oppure per chi ne ha bisogno. Un tempo pieno svincolato dalle classi come le pensiamo ora, dai gruppi, dai docenti di classe o di classi aperte. E poi, attenzione a quello che davvero serve:  

servizi e strutture sociali e culturali sul territorio organizzati secondo un criterio di complementarietà con la scuola e secondo la logica della corresponsabilità di enti ed istituzioni rispetto ai processi educativi dei giovani. 

Strutture sportive organizzate e gestite come sopra, sotto la responsabilità dei costosi comitati ed enti nazionali che sembrano talvolta molto più inutili di quanto possano permettersi di essere.

Strutture ricreative che garantiscano a tutti i giovani luoghi e tempi capaci di suscitare il loro interesse e i bisogni formativi che ormai rimandano a logiche globali, a modelli plurimi e non svincolabili dal loro contesto.

Una nuova stagione dell’educazione nella quale gli interventi siano dei correttivi all’esistente, lo migliorino, lo ottimizzino e facciano in maniera che risponda ai bisogni di chi ne fruisce, bisogni di oggi ma con la mira allungata al domani non al passato. Un domani che è già oggi, dove le lauree STEM della Cina sono il triplo di quelle italiane (in rapporto alla popolazione studentesca, si intende)  dove la ricerca diventi un settore trainante dell’economia e non un vergognoso fanalino di coda. 

Concludendo, mi permetto umilmente di suggerire un ritorno all’ascolto dei bisogni educativi e un repentino allontanamento dalle istanze alla scuola, molteplici e talvolta giustificate, quasi sempre figlie della parzialità. 

I nostri ragazzi devono essere all’altezza dei tempi che verranno, hanno da pagare i debiti che noi abbiamo contratto per sopravvivere, non possiamo lasciargli un disastro su tutti i fronti e pensare pure di avere ragione!


[1] Su Tempo Pieno e dintorni di Nicola Puttilli

[2] Milena Santerini “ Giustizia in educazione”  Svantaggio sociale e strategie educative.  La Scuola – 1990. 

[3] Sette buone ragioni per garantire a tutti il tempo pieno a scuola, Franco Lorenzoni, insegnante  2 dicembre 2020 Internazionale. 

[4] Introduzione alla Pedagogia generale F. Frabboni.  Introduzione alla Pedagogia Generale – Laterza rist. 2003

Gli anziani dopo il Covid

I diritti

Gli anziani dopo il Covid

Franco Buccino

LA REPUBBLICA ed. Napoli 7 giugno 2020

Al tempo della pandemia, secondo un diffuso luogo comune, stiamo cambiando le nostre abitudini. Ci si dimentica di dire che siamo pronti a riprenderle, soprattutto le cattive abitudini. È il tempo di parlare, di confessarsi e di confrontarsi. È il tempo del cambiamento. Prima che altri decidano per noi, per noi anziani. Che ci releghino nel solito ruolo.

Comincio io. Impegnato da dodici anni nel mondo del volontariato, soprattutto verso gli anziani, mi sono ritrovato dentro la pandemia già con un bagaglio di idee e di convinzioni “in movimento”. Di pari passo con l’evoluzione della mia associazione, l’Auser, e di tutto il Terzo Settore, che è sfociata  nella più compiuta Riforma, ancora in corso di attuazione.

Ho iniziato l’apprendistato nel volontariato, pensando che gli anziani si dividono in due categorie: quelli che hanno bisogno di assistenza, cure, compagnia; e quelli per i quali occorre fare promozione. Dalla ginnastica al tempo libero, dai viaggi alle iniziative culturali. Questa rigida divisione tra chi ha bisogno di protezione e chi desidera promozione sociale, non ha retto molto: presto mi sono convinto, ci siamo convinti, che promozione e protezione sono per tutti. Per esempio: in campo sanitario, non solo cure per chi ha bisogno, ma prevenzione per tutti; in campo culturale, l’apprendimento permanente è un diritto di tutti. È in questa chiave che abbiamo sviluppato le teorie più avanzate: dall’invecchiamento attivo al servizio civico di comunità, dalla casa domotica al cohousing, dall’autogestione degli spazi anziani alla cittadinanza attiva.

Ha cominciato a prender piede la convinzione che gli anziani, nella società, non sono un peso ma una risorsa. Una sorta di rivoluzione culturale, che la pandemia ha messo in discussione, ma che non è riuscita ad abbattere. Anzi, in piena pandemia, mentre morivano di covid soprattutto gli anziani, spesso da soli, senza neppure il conforto di figli e nipoti, ci è capitato, a noi anziani, di pensare a questa grande categoria, la più grande per fasce d’età, come a una sola grande famiglia, senza differenze tra uomo e donna, tra ricco e povero, tra istruito e ignorante, tra autosufficiente e invalido.

Una grande idea di democrazia, di solidarietà generazionale, un qualcosa che sarebbe il caso di continuare a sperimentare e praticare anche quando il covid sarà debellato.  Un terzo, definitivo, passo avanti. Per gli anziani: non solo protezione o promozione, non solo protezione e promozione per tutti, ma protezione e promozione per “tutti insieme”. Non ci sono solo la nascita e la morte che ci rendono tutti uguali. E che non dipendono da noi. C’è la scuola pubblica, la sanità per tutti. la Costituzione. Pensiamo anche a una vecchiaia con gli stessi diritti, almeno con gli stessi diritti fondamentali. A un’alleanza e a una solidarietà tra anziani. Una forza straordinaria a servizio della comunità.

Il virus dà una prima spinta alla transizione digitale dei prof

da Il Sole 24 Ore

di Eugenio Bruno e Claudio Tucci

Per la Buona Scuola del 2015 la formazione degli insegnanti è «obbligatoria, permanente e strutturale». Per il contratto integrativo del 2019 invece è un semplice «diritto». Basta questa dicotomia a spiegare la relazione complicata che molti professori hanno con l’aggiornamento in servizio. Covid o non Covid. L’effetto per gli studenti lo abbiamo visto in un anno e più di didattica a distanza. Quello per i docenti lo possiamo dedurre dai dati della piattaforma nazionale Sofia che da maggio 2017 prova a far incontrare (online) domanda e offerta di attività formative. Senza grande successo visto che gli iscritti ad almeno un corso sono rimasti ai livelli pre-pandemia. Mentre sembrano cambiate le preferenze: se fino al 2019 prevalevano la didattica frontale e i laboratori adesso primeggiano il digitale e i nuovi metodi d’insegnamento. Visto il gap certificato anche dall’Ocse, secondo cui 3 docenti su 4 sono “in affanno” nelle competenze base Ict, non è un caso che il governo, con il Piano di ripresa e resilienza (Pnrr), voglia riformare l’intero sistema di training dei prof.

La fotografia pre-Covid

Tutto parte dalla legge 107/2015. Nel definire la formazione in servizio degli insegnanti «obbligatoria, permanente e strutturale» la Buona Scuola stanzia un fondo di 40 milioni per finanziarla, introduce una card da 500 euro per ogni insegnante e affida alle scuole il compito di stabilire le priorità, in maniera coerente con i loro piani dell’offerta formativa e nel rispetto delle linee guida del ministero dell’Istruzione contenute nel Piano nazionale per la formazione 2016-19, che ha anche introdotto la piattaforma nazionale Sofia. I risultati di questo processo sono riassunti nel volume “Paese formazione” (curato da Maria Chiara Pettenati e pubblicato da Carocci) che, nello scattare una fotografia pre-pandemia esaustiva, solleva anche un dubbio condivisibile: «La mancata soluzione delle questioni contrattuali (in termini di obbligatorietà o meno della formazione, di agibilità di svolgimento, di riconoscimento delle “ricadute” e degli incentivi necessari) è percepita dai diversi soggetti come un vulnus che mette in crisi l’intero sistema della formazione e le sue aspirazioni qualitative. Se ne è avuta traccia nel prosieguo del Piano – aggiunge – ove si sono registrate una flessione nella partecipazione e una forte frammentazione dei percorsi».

Le scelte durante la pandemia

Poi è arrivato il Covid. E, se gli iscritti ad almeno un corso pubblicato su Sofia sono tornati ai livelli pre-crisi (148.100 come nel 2017/18) – come dimostrano i dati in pagina -, le scelte formative restano frammentate. Sia sugli ambiti trasversali che su quelli specifici. Nel primo gruppo, la materia più gettonata rimane «Didattica e metodologie», che passa però dal 17,6 al 14,1%, davanti a «Innovazione didattica e didattica digitale», che cresce dal 9,7% al 13,5; nella seconda area scende (dall’11,1 al 7%) «Didattica singole discipline previste dagli ordinamenti» e contestualmente sale (dal 5,1 al 10%) «Sviluppo della cultura digitale ed educazione ai media». Un’attenzione alle nuove tecnologie confermata anche dagli ultimi dati sull’utilizzo della card docente. Dei 229,6 milioni di buoni validati per il 2021 il 74% (170 milioni) riguarda hardware e software, il 22% l’acquisto di libri e riviste e solo il 3,6% i corsi di formazione e aggiornamento. Nel 2019/20 le percentuali di questi tre voci erano state, rispettivamente, 66,5%, 23,5% e 6,4 per cento. A conferma della tendenza, fin dalla sua introduzione, a usare massicciamente il bonus da 500 euro per comprare Pc e tablet.

La riforma annunciata dal Pnrr

Il fenomeno appena descritto non sembra aver prodotto la transizione digitale sperata nel nostro corpo docente se è vero che il Pnrr, da un lato, destina 800 milioni alla Didattica digitale integrata e formazione sulla transizione digitale del personale scolastico con l’obiettivo di coinvolgere 650mila unità di personale e 8mila scuole. E dall’altro, stanzia 3 milioni per istituire una Scuola di alta formazione e formazione obbligatoria per prof, presidi e Ata che andrà a regime nel 2026. Ma la prima pietra va posta nel 2022 e, vista la sensibilità sindacale sul tema, la trattativa non si annuncia semplice.

Non c’è vera riforma del reclutamento senza formazione iniziale ai neoassunti

da Il Sole 24 Ore

di Manuela Ghizzoni*

Le norme di ambito scolastico del decreto legge Sostegni bis e il dibattito che ne è scaturito hanno trascurato il tema del profilo professionale dei docenti e delle competenze necessarie a svolgerlo. Tema centrale quanto necessario perché costituisce uno degli indicatori di qualità dei sistemi d’istruzione e contribuirebbe a fornire una cornice di senso nella scuola del dopo-Covid.

Sebbene sia prevista anche nel Pnrr, la formazione iniziale dei docenti di scuola secondaria pare finita nel cono d’ombra: con un inspiegabile ribaltamento di prospettiva, il Governo ha messo mano, nel decreto, alle modalità di “reclutamento” e ha rinviato a un passaggio successivo la definizione delle caratteristiche professionali che i candidati al concorso devono possedere. Ci si riferisce, oltre ai saperi e competenze culturali e disciplinari, a quelli che attengono alle scienze dell’educazione, alle metodologie didattiche, al digitale, alla valutazione e autovalutazione, all’organizzazione, alla relazionale e all’orientamento, alla ricerca e alla riflessività.

Il/la docente opera quotidianamente in questa multidimensionalità, pertanto per la scuola secondaria non è più procrastinabile l’istituzionalizzazione di un percorso di formazione e tirocinio, che per il Partito Democratico deve essere integrato all’immissione in ruolo. Al percorso, post lauream, si deve accedere mediante concorso per un numero di posti corrispondenti al fabbisogno. Ai vincitori è attivato un contratto biennale, con prova finale (ad esempio un progetto di ricerca-azione), dopo la quale si entra in ruolo avendo già assolto all’anno di prova. Il percorso teorico e pratico prevede per il primo anno (retribuito) una formazione tesa alla specializzazione professionale associata ad attività di tirocinio diretto, di accompagnamento riflessivo sulle esperienze maturate e di insegnamento affiancato, con la collaborazione di tutor universitari e scolastici; nel secondo anno, l’attività formativa prosegue contestualmente all’effettivo servizio di insegnamento su posto vacante e disponibile. Il percorso di formazione e tirocinio deve svilupparsi all’interno di un quadro di condivisione di scelte e responsabilità tra università o istituzioni Afam e istituzioni scolastiche statali e deve altresì godere di investimenti specifici che, fino ad ora, non sono mai stati destinati alla formazione iniziale dei docenti delle scuole secondarie, sebbene essa faccia realmente la differenza nei livelli di apprendimento di studentesse e studenti.

Con rigore e coerenza rispetto agli obiettivi, al percorso è raccordata una procedura per chi già insegna nella scuola da almeno 3 annualità senza un titolo abilitativo o di specializzazione: all’accesso e in itinere se ne accerteranno i saperi e le competenze professionali acquisite sul campo, che saranno integrati con specifici moduli formativi.

L’occasione di mettere mano al percorso di formazione iniziale dei docenti di scuola secondaria non va sprecata perché è adesso che serve un supplemento di professionalità per affrontare problemi pedagogici, didattici e relazionali inediti. E ci auguriamo che questa riforma possa essere condivisa dall’ampio schieramento che sostiene il governo: la si metterebbe al riparo dalla damnatio memoriae che ha colpito, una dopo l’altra, le precedenti modalità di formazione dei docenti di scuola secondaria (Siss, Tfa e Pas, Fit) e che ha bloccato – di fatto – le aspettative di tanti giovani di poter insegnare, di saperlo fare e di poterlo fare attraverso un percorso certo, chiaro e di durata limitata, senza dover ricorrere all’autoapprendimento in servizio “precario”.

*Responsabile Istruzione Partito Democratico

Esame di terza media: per 1 su 4 al via subito dopo la fine della scuola

da Il Sole 24 Ore

di Redazione Scuola

L’esame di terza media si avvicina: già nel corso di questa settimana tantissimi ragazzi affronteranno l’unica prova orale prevista. Come l’anno scorso, si tratterà dell’esposizione di un elaborato, da svolgere in presenza. Stando ai racconti dei 2.500 ‘licenziandi’ intercettati da Skuola.net, infatti, per circa 1 su 4 la scuola partirà con i colloqui subito dopo la fine delle lezioni. Ma l’attesa sarà abbastanza breve per quasi tutti, visto che un altro 55% dice che gli esami inizieranno dalla settimana successiva (dal 14 giugno in poi); solo 1 su 5 dovrà aspettare la seconda parte del mese.

Come detto, ancora una volta – a causa della pandemia – non verrà allestito l’esame tradizionale ma tutto si racchiuderà in un lavoro svolto precedentemente dagli studenti e illustrato alla commissione. Stavolta, però, la relazione non avverrà – come dodici mesi fa – online ma si tornerà a farlo in presenza. Una notizia che i ragazzi hanno accolto con entusiasmo: per 2 su 3 è nettamente meglio parlare di fronte ai prof, dal vivo, e non attraverso lo schermo di un computer.

Tra l’altro questa modalità d’esame, senza scritti, piace: il 60% la promuove a pieni voti, solo il 20% avrebbe preferito ripristinare lo schema classico.Tutto bello ma c’è comunque un problema: l’elaborato multidisciplinare protagonista della prova, in teoria, dovrebbe essere consegnato proprio in queste ore (entro il 7 giugno). Probabilmente, però, in parecchi non ce la faranno a rispettare la scadenza: più di 1 su 3 o ha iniziato ma è ancora in alto mare o addirittura non l’ha iniziato proprio; solo 1 su 7 l’ha già concluso, circa 1 su 2 lo finirà giusto in tempo.

Eppure le condizioni per riuscire agevolmente nel compito c’erano tutte, visto che oltre la metà dei ragazzi (57%) ha avuto carta bianca dai professori nel decidere il tema principale da approfondire e un altro 23% lo ha concordato assieme ai docenti; appena il 20% lo ha avuto assegnato dagli insegnanti, come da ordinanza, senza aver potuto esprimere il proprio punto di vista.

Allora, cosa ha causato così tanti ritardi nella consegna? Probabilmente l’approccio degli stessi docenti: solo 1 studente 4 si è sentito seguito a sufficienza dal proprio insegnante di riferimento, il 44% giusto un po’, il 30% per niente. Considerazioni, queste ultime, che potrebbero essere alla base anche del boom degli immancabili ‘furbetti’: quasi 1 su 2 ha confessato di aver fatto copia-incolla di ampi passaggi dell’elaborato, se non proprio di tutto il contenuto.

Un esame che, dunque, per più di qualcuno non si presenta con le premesse migliori. Dovendo, inoltre, considerare gli aspetti emotivi legati al contesto in cui si svolgerà. Perché il ritorno della prova in presenza significa, anche per i più piccoli, che ci sarà un protocollo sanitario da rispettare. Che in parecchi non conoscono. Ad esempio, pur sapendo che sarà obbligatorio indossare la mascherina, solo 1 su 4 ha compreso che potrà abbassarla durante il colloquio (se si rispettano le distanze).

E quasi 4 su 10 pensano, erroneamente, che tutti i tipi di mascherina vadano bene (quando, invece, quelle “di comunità” sono vietate e le FFP2 sconsigliate). Confusione che investe pure gli altri dettagli del protocollo. Come quello sul distanziamento: per 7 su 10 la distanza minima tra i presenti deve essere di almeno un metro quando, in realtà, i metri devono essere almeno due (cosa che sa solamente 1 su 4). O quello sugli accompagnatori: solo il 31% dice, giustamente, che si potrà far entrare in aula solo uno spettatore, il 27% allarga la platea a due persone, il 10% non mette limiti, il 31% è estremo e chiude a qualsiasi presenza esterna ai protagonisti della prova (studente e docenti).

Formazione sulla disabilità: è scontro fra Ministero e sindacati

da La Tecnica della Scuola

Sulla questione della formazione obbligatoria per i docenti che operano in classi che accolgono alunni con disabilità è ormai scontro aperto fra il Ministero e i sindacati ed è molto difficile che si possa arrivare ad una ricomposizione fra le parti in tempi brevi.

Il problema prende origine da una disposizione contenuta nell’articolo 1, comma 961, della legge di bilancio 2021 “Il fondo di cui all’articolo 1, comma 125, della legge 13 luglio 2015, n. 107, è incrementato di 10 milioni di euro per l’anno 2021 destinati alla realizzazione di interventi di formazione obbligatoria del personale docente impegnato nelle classi con alunni con disabilità. Tale formazione è finalizzata all’inclusione scolastica dell’alunno con disabilità e a garantire il principio di contitolarità nella presa in carico dell’alunno stesso”.
“Con decreto del Ministro dell’istruzione, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge – prosegue la norma – sono stabiliti le modalità attuative, prevedendo il divieto di esonero dall’insegnamento, i criteri di riparto, le condizioni per riservare la formazione al solo personale non in possesso del titolo di specializzazione sul sostegno, la determinazione delle unità formative comunque non inferiori a 25 ore di impegno complessivo, i criteri e le modalità di monitoraggio delle attività formative di cui al presente comma”.

In questi giorni, con ampio ritardo rispetto ai trenta giorni previsti dalla legge il Ministero ha annunciato alle parti sociali che il decreto attuativo è pronto ma i sindacati hanno già espresso la propria contrarietà.
Oltre alla Gilda, anche la Flc-Cgil si è detta in totale disaccordo e chiede di “sospendere l’emanazione del decreto o, in subordine, di rivedere il principio dell’obbligatorietà, la quantificazione delle ore, il divieto di esonero dal servizio, riportando le materie nell’ambito contrattuale e collegiale per gli aspetti di relativa competenza, anche al fine di stabilire un criterio di coerenza tra le disposizioni in oggetto e gli impegni assunti dal Governo con la sottoscrizione delle recenti Intese”.

Su come le 25 ore saranno organizzate stanno già circolando le prime notizie: si parla di 17 ore di “lezione” sui temi della disabilità e di 8 ore di attività “laboratoriali”.
Il modello però non piace a tutti: nel corso dei lavori dell’Osservatorio nazionale sulla disabilità, di cui però i sindacati non fanno parte, diverse associazioni e lo stesso Anci (Comuni Italiani) hanno chiesto che il percorso preveda anche la possibilità di formare gruppi d’insegnanti della stessa classe o della stessa scuola, in relazione a casi specifici seguiti, consentendo in tal modo di affrontare li aspetti fondamentali della didattica individualizzata, della didattica di gruppo, delle tecnologie didattiche e della valutazione formativa, in rapporto alle diverse tipologie di disabilità effettivamente presenti nella scuola.
Ma alla fine sembra che si rimarrà fermi su una impostazione più “tradizionale”.

Secondo molti, la prospettiva di rendere il corso di formazione obbligatorio per tutti è importante perché significa ribadire che il progetto di inclusione riguarda tutto il team docente e non solamente il docente di sostegno.

“Trovo molto grave tutta la situazione” commenta Raffaele Iosa, ex ispettore scolastico, per molti anni responsabile dell’Osservatorio nazionale sull’inclusione, che aggiunge: “Ciò che sta accadendo mi sembra indicativo del fatto che la disabilità sta vivendo una deriva isolante sempre più grave. Questa vicenda delle 25 ore aumenterà il degrado, non per il numero di ore, i contenuti e la forma, ma per il significato anche simbolico del disinteresse. Nel documento di un sindacato si arriva perfino a scrivere che le 25 ore servono a formare i docenti curricolari sul sostegno così da ridurre nel tempo i posti di sostegno. La trovo una affermazione priva di senso e del tutto contraria ai più elementari principi pedagogici”.

Resta in ogni caso il fatto che ad oggi resta del tutto irrisolto un aspetto importante: in non pochi casi gli alunni con disabilità frequentano classi in cui nessuno dei docenti del team ha mai svolto specifiche attività formative in materia di disabilità e inclusione e questa situazione – al di là delle buona volontà dei docenti coinvolti – non favorisce di certo i processi di inclusione.

Decreto Dipartimentale 7 giugno 2021, AOODPPR 42

Ministero dell’Istruzione
Dipartimento per le risorse umane, finanziarie e strumentali

Avviso “Contrasto alla povertà e all’emergenza educativa”, emanato con Decreto Dipartimentale del 14 maggio 2021, n. 39 – Graduatoria provvisoria