Disabilità, nasce il bollino per la certificazione del turismo accessibile nel Lazio
Redattore Sociale del 16/12/2021

Oggi pomeriggio a Rieti il seminario del Modavi. Il presidente Pozzi: “Abbiamo lavorato per costruire una rete tra amministrazioni locali, terzo settore, organizzazioni culturali e aziende del settore turistico per sviluppare un turismo inclusivo e accessibile”. Un lavoro che culmina con la creazione di una certificazione rilasciata a quelle realtà che rendono pienamente fruibile e accessibile l’esperienza turistico-culturale

ROMA. “Oggi pomeriggio saremo a Rieti, presso la Sala Polifunzionale del complesso di Santa Lucia, per il nostro ultimo seminario del progetto “VATIS Valorizzazione Turismo Inclusivo e Sostenibile”. E’ quanto dichiara Mario Pozzi, Presidente Nazionale del Modavi Onlus, il Movimento delle Associazioni di Volontariato Italiano.
“In questi mesi – continua Pozzi – abbiamo lavorato per costruire una rete tra amministrazioni locali, enti del terzo settore, organizzazioni culturali e aziende del settore turistico per sviluppare un turismo inclusivo, accessibile e sostenibile. Grazie al contributo di LazioCREA della Regione Lazio, abbiamo realizzato un ciclo di 7 incontri di approfondimento sul tema dell’accessibilità del patrimonio artistico, culturale e turistico alle persone con diverse abilità e particolari bisogni. Questo lavoro culmina con la creazione di una certificazione, una sorta di bollino che sarà rilasciato a tutte quelle realtà che rendono pienamente fruibile e accessibile l’esperienza turistico-culturale, senza alcuna barriera e in piena autonomia. Un punto di partenza – conclude – per arrivare alla piena integrazione delle persone con diverse abilità.”
A Rieti interverranno: Daniele Sinibaldi, vicesindaco Rieti; Mariano Calisse, presidente della Provincia di Rieti; Juri Morico, segretario generale di Opes Italia; Francesca Danese, portavoce Forum del Terzo Settore Lazio; Veronica Barbati, delegata nazionale Coldiretti Giovani; Michele Casadei, presidente Federalberghi Rieti; Mario Pozzi, presidente nazionale del Modavi”. 

Lettera al Ministro sulla legge di bilancio

Al Ministro dell’istruzione
Prof. Patrizio Bianchi
Viale di Trastevere 76/a
00153 Roma
segreteria.ministro@istruzione.it

Illustre Ministro,

siamo in pieno iter di approvazione della legge di bilancio e, quindi, ritengo opportuno riproporre alla Sua attenzione le principali richieste già formulate dall’ANP in precedenti occasioni di confronto.

  1. Adeguare la retribuzione di posizione (parte variabile) e la retribuzione di risultato a quelle degli altri dirigenti dell’area “istruzione e ricerca”.
  2. Allineare la contrattazione integrativa all’anno scolastico in corso nel più breve tempo possibile, superando anche la scandalosa vicenda dei colleghi entrati in ruolo negli ultimi anni che, per inspiegabili meccanismi burocratici, non stanno ancora percependo tutte le voci retributive loro spettanti per contratto.
  3. Favorire al massimo la mobilità interregionale dei vincitori di concorso assegnati lontano dalle regioni di residenza, sia incrementando dal 30% al 100% la disponibilità di posti, sia rendendo disponibili per l’immissione in ruolo le sedi scolastiche con almeno 500 studenti.
  4. Incrementare il fondo per il cosiddetto “organico Covid”, lasciando ai dirigenti la possibilità di scegliere quale personale nominare (docente o ATA) in base alle concrete esigenze del servizio.

Inoltre – ma non certo in ultimo per importanza – si deve trovare la soluzione a un problema che ritengo sempre più grave: a seguito dell’emergenza sanitaria in corso da quasi due anni, i colleghi e i loro staff lavorano continuativamente, sette giorni su sette e spesso anche in tarda sera, senza possibilità di recuperare le loro energie psicofisiche.

Il senso di responsabilità con cui la dirigenza delle scuole sta accanitamente garantendo alle famiglie la didattica in presenza – rispettando il protocollo di gestione delle quarantene e quasi sempre sostituendosi alle autorità sanitarie – non può e non deve in alcun modo giustificare la compromissione della propria salute. Lavorare la sera può rendersi necessario, così come lavorare durante il fine settimana, ma non è pensabile che lo si faccia sempre, senza soluzione di continuità, privandosi della propria vita per ottemperare alle “esigenze del servizio”.

Siamo perfettamente consapevoli di dover combattere una vera e propria guerra contro la pandemia e non intendiamo “lasciare il fronte” ma a nessun soldato in guerra si può richiedere tutto questo.

Confido nella Sua sensibilità e colgo l’occasione per porgerLe i più distinti saluti.

Roma, 16 dicembre 2021

Antonello Giannelli

Il siero magico

Il siero magico

di Maurizio Tiriticco

Copio da fb: “L’insegnate AI di Bresca è stata sospesa dalla scuola per rifiuto di ‘siero magico’”. Sembra che l’insegnante avrebbe così definito il vaccino anti-covid a cui avrebbe dovuto sottoporsi, operazione che, com’è noto, di norma, interessa tutto il personale delle nostre scuole. Mi chiedo, e lo scrivo su fb: ma adesso abbiamo anche le maestre no-vax? Eppure non si tratta di concittadine, come si suol dire, ignoranti, perché hanno studiato, conseguito titoli professionali ed esercitano una professione più che nobile. Ma allora mi chiedo: che cosa hanno imparato? E che cosa insegnano? Poi AM – sempre su fb – scende in difesa di AI e mi risponde che “insegnano che la libertà personale è inviolabile, come recita l’art. 13 della nostra Costituzione”.

Ed io allora mi sento di rispondere così. CarissimeAI ed AM! Voi due sapete senz’altro – e me lo conferma il web – che oggi i vaccini che riguardano i neonati sono in totale 9: l’anti difterite, l’anti tetano, l’anti pertosse, l’anti poliomielite, l’anti epatite B, l’anti Haemophilus influenzale di tipo B, l’anti pneumococco coniugato, l’anti meningococco B e l’anti rotavirus. Io, invece, oggi 93enne, nel 1928, appena nato, fui sottoposto ad un unico vaccino – e non vorrei sbagliarmi – quello contro il vaiolo: quella malattia tremenda che fece strage in Europa. La vicenda vaccini è ricca di storia! E tutti sappiamo quanto dobbiamo a Jenner e a Pasteur. Per gli opportuni approfondimenti, si veda: https://www.wikivaccini.regione.lombardia.it/wps/portal/site/wikivaccini/DettaglioRedazionale/storia.

Sappiamo tutti che la ricerca scientifica si è evoluta nel corso degli ultimi anni e che malattie una volta terribili, quali la poliomielite ad esempio, sono state sconfitte. Pertanto penso che essere vaccinati alla nascita contro una serie di malattie che hanno funestato l’umanità per secoli, e che oggi sono solo un vago ricordo, sia una delle nostre conquiste più importanti. E ciò accade purtroppo solo nei Paesi ad alto sviluppo. Nei Paesi sottosviluppati si muore come mosche, e non solo di covid.

E allora, care amiche, Perché non vi opponete anche ai vaccini che sono “imposti” da decenni ai neonati dall’attuale “dittatura sanitaria”? Ma vi invito a riflettere: non credete che si sia tutti più liberi e più sicuri, se cerchiamo di non ammalarci? Grazie ad una risorsa estremante “piccola”, un semplice vaccino al braccio, ma estremamente “grande” per le garanzie che offre. Riflessione zero! Ma poi in tv ogni tanto assistiamo al tristissimo spettacolo del “convinto e libero no vax”, recuperato poi alla vita da medici pazienti e valorosi – ma non so poi anche quanto incazzati – nonché piagnucoloso e pentito.

Ed è anche opportuno chiamare in causa la nostra Costituzione, una delle più belle del mondo, che abbiamo potuto varare nel lontano 1947, dopo anni di dittatura, di guerre, di sacrifici, un documento che purtroppo pochissimi leggono e pochi insegnanti fanno leggere ai loro alunni. Penso a quei primi 12 articoli, i “principi fondamentali” che fondano appunto il nostro “convivere insieme” in un regime di democrazia e di libertà. E poi penso all’articolo 32, che così recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. E, purtroppo, la garanzia della libertà di scelta viene poi brandita dai no vax come arma per combattere la presunta “violenza dello Stato” contro i suoi cittadini.

Infine, cara Al di Brescia, ti prego di non chiamare “siero magico” quelle gocce di un vaccino che sono l’esito di faticose ricerche e di sperimentazioni, e che ha salvato, salva e salverà migliaia di nostri concittadini, e forse anche te, qualora non invocassi una pretesa libertà da… in effetti… non si sa che cosa… 

TRACCIAMENTO CONTAGI SI CONFERMA ANELLO DEBOLE

COVID, DI MEGLIO: TRACCIAMENTO CONTAGI SI CONFERMA ANELLO DEBOLE

“I dati sui contagi nelle scuole di cui disponiamo, pur se frammentari, indicano che in molte scuole ci sono serie difficoltà a causa di numerose classi poste in quarantena e del mancato tracciamento che rappresenta anche quest’anno il vero anello debole della catena. Per avere un quadro più preciso, dovremmo conoscere i dati del monitoraggio su cui, invece, c’è poca trasparenza perché il ministero dell’Istruzione non diffonde in maniera puntuale e completa”. Ad affermarlo è Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda degli Insegnanti, in merito all’aumento dei casi di Covid-19 tra i banchi.

“Non possiamo non essere preoccupati rispetto allo scenario che si sta verificando nei Paesi del Nord Europa a causa della variante Omicron – prosegue Di Meglio – perché l’esperienza di questi due anni di pandemia ci ha insegnato che, quando un Paese europeo viene colpito da una recrudescenza del virus, l’allargamento agli altri Paesi è soltanto una questione di tempo”.

Tra i problemi segnalati dalle scuole, anche l’assenza di indicazioni chiare da parte del ministero sulle modalità di impiego del personale che per motivi di salute è esentato dalla vaccinazione. 

Dai codici linguistici al Debate

di  Pietro Boccia

    Il dibattito argomentato (Debate) è un’attività metodologica di cooperazione che mette a confronto due gruppi, costituiti da due o tre allievi. Il docente assegna un argomento che viene discusso dai due gruppi che si pongono in campi avversi e su tesi contrapposte. Il dibattito argomentato (Debate), come metodologia, fa emergere e sviluppare diverse competenze: linguistiche; logiche; argomentative; espositive;  analitiche; democratiche e così via. Pertanto diventa preliminare per i partecipanti a tale didattito argomentato (Debate) conoscere in maniera critica e approfondita non solo la tematica, scelta per argomentare, ma anche i codici linguistici (verbale, paraverbale e paraverbale) per comunicare e relazionarsi con feedback appropriate alle circostanze.

 Il comunicare non corrisponde solo al parlare. Ci sono, infatti, tre codici della comunicazione che si diversificano e si completano reciprocamente. Il primo è verbale (i contenuti della comunicazione: parole, linguaggio, gergo e così via). Il secondo è non verbale (posizione del corpo, contatto visivo, gestualità, abbigliamento e così via). Il terzo è paraverbale (tono della voce, altezza della voce, ritmo e velocità – numero di parole nell’unità di tempo-, sottolineature, esitazioni – non volute-, pause – volute -, volume del parlato – determinato da quanto tempo si parla prima di lasciare la parola all’interlocutore-). Soltanto il primo codice è un patrimonio che appartiene esclusivamente all’uomo. Esso, infatti, è codificato dalla lingua parlata ed è strutturato con regole grammaticali, sintattiche e semantiche.

  L’uomo, tuttavia, è in possesso anche degli altri codici. Secondo Mehrabian (Nonverbal Communication, 1972), le persone decretano il nostro successo (o insuccesso) secondo quanto siamo credibili, quando parliamo, analizzando prima di tutto il non verbale (55%) e il paraverbale (38%), fattori spesso del tutto estranei al contenuto di quanto affermiamo. Per questo motivo, riteniamo importante rafforzare proprio questi aspetti. E così, per migliorare la nostra immagine, spendiamo molto nel non verbale, vale a dire in abiti, parrucchiere, cosmetici, profumi, palestra e accessori.

   Il verbale è, invece, rappresentato soltanto dal 7%. I tre codici, per comunicare correttamente, dovrebbero armonizzarsi tra loro; per un efficace rapporto comunicativo, la voce, l’intonazione e l’espressione, dovrebbero sincronizzarsi perfettamente. Un utilizzo congiunto dei diversi codici comunicativi produce i risultati più efficaci. L’apprendimento varia al variare delle tecniche comunicative e, dunque, dei diversi canali di percezione.

Il codice verbale

  Il codice della comunicazione verbale è il prodotto di parole pronunciate (canale uditivo) o scritte (canale visivo). Essa si basa su regole grammaticali, sintattiche e semantiche e si esplica, in pratica, nella lingua, che permette sia di esprimere modi di pensare, bisogni, stati affettivi e fatti osservati, sia di assolvere pienamente la funzione comunicativa.

  Il codice della comunicazione verbale è un linguaggio che, come si è detto, appartiene solo all’uomo: molte sono, infatti, le differenze di ordine fisiologico e neurologico tra gli animali e l’uomo che permettono solo a quest’ultimo di esprimersi con le parole. Esso trasmette ordini e permette resoconti, consente un’azione volontaria, permette di mentire ed esprime complessità e astrazione. L’essere umano, a differenza degli animali, possiede un apparato vocale (cavità orale lunga, mandibola meno mobile, apparato faringeo), una postura eretta e un’organizzazione cerebrale che gli permettono non solo maggiori possibilità di articolazione, ma anche lo sviluppo di concrete capacità linguistiche.

  Nel processo della comunicazione verbale non è importante solo l’aspetto fisiologico, ma anche quello neurologico. Infatti, nel cervello sono localizzati i centri del linguaggio: area di Broca e area di Wernicke.

   La neurologia, oggi, afferma che il linguaggio non è elaborato solo all’interno delle aree scoperte da Broca e da Wernicke: numerosi studiosi sostengono che è l’intera corteccia cerebrale a essere implicata nell’elaborazione linguistica. Il linguaggio verbale, comunque, è strettamente legato alla maturazione e all’apprendimento dell’individuo. Non c’è, infatti, comunicazione senza apprendimento e quest’ultimo non si realizza senza la capacità di memorizzare.

  Per il singolo individuo comunicare verbalmente è una base insostituibile nella conduzione della propria vita: grazie al linguaggio verbale, egli conversa, chiede e riceve aiuto, esprime se stesso, ascolta messaggi radiotelevisivi, legge e scrive, assimila la cultura del suo gruppo, impara concetti e pensa.

  Nel parlare comune, linguaggio e lingua sono spesso usati come sinonimi; sappiamo bene, però, che in linguistica queste due parole hanno significati diversi:

  • il linguaggioè uninsieme di processi psichici,determinati dalla vita sociale, cherende possibile l’apprendimento, l’acquisizione e l’utilizzo concreto di una qualsiasi lingua; è, cioè, la cosiddetta facoltà umana di comunicare verbalmente, ossia di parlare e di scrivere;
  • la lingua, invece, non è altro che un sistema di segni linguistici (le parole) e di regole (grammaticali) che ci permette di realizzare la capacità di esprimerci verbalmente.

  Il linguaggio,al contrario della lingua che è un prodotto sociale ovvero un fatto esterno costruito nel tempo e da una società, è una capacità naturale, comune a tutti gli uomini. L’eloquio èl’uso individuale, personale della lingua; il parlare, infatti, segue le regole imposte dalla lingua con cui parliamo, ma riflette anche le scelte e le abitudini personali di ciascun individuo. Il modo di usare una lingua, adeguata alla situazione (cioè al contesto) e ai comunicanti con cui interagiamo, viene dettto registro linguistico. Come allora comunicare verbalmente in modo efficace? Una risposta a queste domande può essere la cosiddetta regola delle sette «C», che sono:

  1. Chiarezza, cioé i messaggi che dobbiamo trasmettere devono essere chiari, lineari e diretti. Per evitare fraintendimenti, è opportuno non lasciarsi andare a discorsi contorti o complicati. Per parlare in modo chiaro, è necessario usare frasi brevi, essenziali, con termini semplici e aderenti ai loro significati. È, infatti, opportuno usare un linguaggio tecnico/specialistico solo con gli esperti di uno specifico settore, mentre con chi non è del settore è preferibile usare un linguaggio comune, poiché potrebbe non comprendere adeguatamente ciò che viene detto.
  2. Completezza, in altre parole i nostri messaggi devono contenere tutti gli elementi essenziali che s’intendono trasmettere. Una comunicazione parziale, infatti, può far nascere degli equivoci. Bisogna, quindi, evitare di parlare per sottointesi, dando per scontato che l’interlocutore sia già in possesso di alcune informazioni.
  3. Concisione, in altre parole il livello di attenzione degli ascoltatori diminuisce in modo progressivo con il trascorrere del tempo e con l’accumularsi delle informazioni che vengono ricevute. Pertanto, è importante anticipare i concetti fondamentali e arrivare al punto con poche parole. Infatti, se la comunicazione si dilunga, sono maggiori i rischi di incomprensioni, fughe di notizie, distorsioni dei contenuti, a causa della stanchezza, della distrazione o della noia.
  4. Concretezza, ovverosia il passaggio di informazioni risulta più efficace se la comunicazione è fondata su fatti ben delineati. Essere concreti significa essere aderenti il più possibile alla realtà, evitando discorsi astratti, complessi e troppo generali. Se ciò non è possibile, si possono utilizzare esempi, metafore, aneddoti o similitudini, che siano però attinenti e alla portata cognitiva dell’interlocutore, altrimenti risulteranno inefficaci.
  5. Correttezza, vale a dire una comunicazione efficace deve essere fondata sull’onestà e sulla sincerità: solo un rapporto di reciproca fiducia, infatti, consente agli interlocutori di essere ben disposti fra loro e quindi di collaborare attivamente. Infatti, con il linguaggio verbale si può mentire facilmente, ma con quello non verbale è molto difficile;
  6. Cortesia, la quale rivolta l’interlocutore, non forzando mai la risposta, realizza un ambiente ideale per una comunicazione efficace. Un clima positivo dispone l’interlocutore all’attenzione e ad una comunicazione positiva;
  7. Considerazione, che è fondamentale per la riuscita di una comunicazione efficace; è di vitale importanza, infatti, che l’emittente tenga nella dovuta reputazione quello che il ricevente pensa.   Il comunicare efficacemente si compie quando chi comunica si dispone positivamente, immedesimandosi, all’esperienza del ricevente.

  Nell’ambito di una lingua si distinguono:

  1. un registro informale o familiare,usato generalmente e prevalentemente nel parlato quotidiano,con interlocutori con cui si è in grande confidenza e per trattare argomenti non elevati;
  2. un registro medio o standard, usato prevalentementenelle comunicazioni normali, parlate e scritte, della vita quotidiana e con persone con le quali non si hanno rapporti di stretta confidenza;
  3. un registro formale,usato prevalentementenelle comunicazioni parlate e scritte di argomento elevato, in situazioni di tipo ufficiale (cerimonie, conferenze e incontri importanti) o più in generale se si ha a che fare con interlocutori con cui non si è in confidenza e verso i quali si nutre un certo rispetto.

  Nella comunicazione, la lingua parlata rispetto a quella scritta è un processo dinamico di costruzione, di retroazione, di cui non si ha sempre consapevolezza e dal quale emergono le regole del particolare contesto culturale cui si appartiene. Vi è un lungo addestramento sul verbale, sull’uso appropriato e sull’acquisizione delle regole che lo sostengono; tale linguaggio è direttamente legato ai contenuti che si vogliono esprimere, ma anche alla relazione, cioè al rapporto che si forma con gli interlocutori. In tale contesto, sono da considerare significative tre funzioni linguistiche, soprattutto in ambito aziendale e commerciale: espressiva, centrata sull’emittente; conativa, orientata verso il ricevente; referenziale, centrata sull’argomento.

  La funzione più usata è quella referenziale, quando il verbo viene usato in terza persona, conferendo un carattere oggettivo alle informazioni (la situazione del mercato è quella di…); c’è poi la funzione espressiva, che è centrata sull’emittente, su chi esprime il messaggio, quando il verbo è usato in prima persona e conferisce carattere soggettivo alle informazioni (io ritengo che la situazione del mercato sia…); vi è infine la funzione conativa, centrata sul ricevente, sul destinatario del messaggio, con la quale sono possibili più espressioni del verbo secondo il codice o registro linguistico che si usa con l’interlocutore (sarebbe utile che lei andasse da quel cliente… oppure sarebbe utile che tu andassi da quel cliente…).

  Se lo scopo è di approfondire un certo problema, l’uso della funzione referenziale è senz’altro efficace; ma se su un certo argomento si vuole far percepire chiaramente un proprio punto di vista, la funzione espressiva coniugata in prima persona contribuisce alla chiarezza; infine, se si vuole inviare un messaggio che spinga il destinatario all’azione, la funzione esplicita conativa semplifica il raggiungimento dello scopo.

  Con il linguaggio verbale è possibile una duttile organizzazione dei contenuti e delle informazioni finalizzate a scopi diversi, appresa attraverso addestramenti fatti nei diversi gruppi professionali e privati, che indicano non solo come utilizzare la costruzione linguistica verbale adeguata, ma anche come esporla secondo obiettivi e con scopi diversi. Ad esempio dire l’azienda in questo momento ha deciso è una declinazione in terza persona, che mette in evidenza l’impersonalità della decisione e il suo contenuto, ma può talora nascondere la volontà di far passare un certo contenuto. Allo stesso modo, nei vari passaggi che vanno dall’io ritengo che, al plurale noi riteniamo che fino a dire che l’azienda ritiene che, l’apparente impersonalità può essere interpretata come il massimo di funzione espressiva nell’identificazione io/azienda.

  La scelta dell’uso di queste funzioni può quindi incidere sia sul contenuto in oggetto sia sulla relazione e sul clima che si può creare con gli interlocutori. Oltre alle funzioni linguistiche, dobbiamo in questa prospettiva considerare le seguenti varietà linguistiche situazionali e geografiche:

  1. I sottocodici, cioè varietà situazionali che si creano nella lingua parlata in ambiente organizzativo. Essi sono legati soprattutto al linguaggio tecnico (ad esempio il sottocodice informatico, quello medico e così via), e contribuiscono a stabilire il senso di appartenenza tra i membri che ne fanno parte. La funzione dei sottocodici da aggregativa può anche diventare, però, separativa, quando alcuni gruppi all’interno dell’organizzazione tendono a chiudersi nel loro linguaggio (sottocodici specifici), rendendo difficile il dialogo con altre funzioni aziendali. Con i clienti non bisogna usare una lingua specialistica, poiché, per comunicare con chiarezza, è importante usare termini conosciuti dall’interlocutore e non dare per scontate informazioni che non possiedono: occorre, infatti, fornire informazioni precise, coerenti ed esaurienti ma usando un linguaggio comune.
  2. I registri sono un’altra varietà della lingua parlata e si caratterizzano per l’utilizzazione di alcuni elementi del codice piuttosto che di altri. Il registro più noto è quello che si muove lungo la polarità formale/informale da scegliere ogni volta nei confronti dell’interlocutore, ad esempio dando del tu o del lei, che riduce o aumenta il peso gerarchico nella relazione con l’altro.
    La decisione di usare un tipo di registro piuttosto che un altro dipende da una serie di valutazioni fatte sul ruolo di chi parla e del destinatario e diventa in tal senso un filtro fondamentale per stabilire il tipo di rapporto; un operatore di un’azienda turistica, ad esempio, deve usare un registro più o meno formale secondo lo stile dell’albergo e della tipologia dei suoi clienti, che può essere raffinata e facoltosa oppure informale e giovanile; se invece il colloquio si svolge con un tour operator, i due interlocutori possono anche usare un gergo specialistico, perché sono entrambi degli addetti ai lavori.
  3. Le espressioni dialettali sono spesso presenti nella comunicazione con alcuni interlocutori e in alcuni contesti regionali. Il dialetto veicola molti stati emozionali ed è talora usato come rinforzo o sintesi di un discorso o di un accordo, anche in contesti professionali. L’espressione dialettale, anche se riferita a una sola battuta, può servire a far condividere una comune condizione che riduce le differenze, per esempio, tra cliente e fornitore; inoltre, la battuta in dialetto conferma l’appartenenza al proprio gruppo culturale.

  Non esiste, per le espressioni linguistiche descritte, una forma giusta o sbagliata, ma diverse forme possibili che possono ottenere effetti diversi secondo i contesti e gli interlocutori che le esprimono e anche in funzione dello stile del soggetto che comunica. Infatti, se incontriamo un interlocutore che parla in modo formale e ridondante, mentre noi ci riteniamo caratterizzati da uno stile più sintetico e informale, l’efficacia delle espressioni verbali utilizzate sarà legata alla capacità di essere attenti a trovare una soluzione comunicativa che rispetti il proprio modo di essere, ma che tenga conto della diversità e, quindi, rispetti lo stile dell’altro, il quale è più a suo agio con modalità d’incontro diverse dalle nostre.

  La comunicazione persuasiva è un procedimento o un insieme di procedimenti attuati intenzionalmente, allo scopo di modificare il comportamento dell’interlocutore, conformemente agli obiettivi che ci siamo prefissati. Più semplicemente, persuadere significa convincere il nostro interlocutore su qualche cosa o a fare qualche cosa.

   Nella Grecia e nella Roma antiche, la retorica, che era l’arte della persuasione e che Cicerone definì come un’arte, costituiva una delle discipline fondamentali nell’educazione della persona. Essa si basava e si fonda, come capacità persuasiva, su tre aspetti:

  1. Il logos, la razionalità. I nostri discorsi, per essere convincenti, devono essere comprensibili, cioè dotati di significati chiari, validi e credibili e devono essere, inoltre, lineari e razionali, vale a dire dotati di forza argomentativa. D’altra parte, però, una comunicazione in cui siano presenti troppe argomentazioni razionali o che sia basata esclusivamente su di esse, risulterebbe sicuramente arida e non favorirebbe l’attenzione, essendo noiosa e generando gradualmente distacco dall’ascolto.
  2. Il pathos, la forza emotiva. Per essere veramente persuasivi, è necessario che i nostri discorsi siano in grado dicatturare l’attenzione delle persone, facendo appello alla loro emotività e alla loro creatività. In altre parole, per realizzare una comunicazione persuasiva, non sono sufficienti la chiarezza e la forza argomentativa dei nostri discorsi (cioè il logos), ma è necessario che questi siano in grado di suscitare emozioni e di stimolare la fantasia dei nostri interlocutori (cioè il pathos). Un discorso, dotato di forza emotiva, infatti, cattura l’attenzione e favorisce la memorizzazione dei concetti trasmessi. D’altra parte, puntare solo sulla forza emotiva non è sufficiente, perché una volta cessato l’effetto suggestivo, l’ascoltatore riflette sui contenuti trasmessi e se questi sono privi di logos non si lascerà convincere. Tipici ingredienti di un linguaggio, dotato di carica emotiva, sono le metafore, le similitudini e gli aneddoti. La metafora è una figura retorica che consiste nel trasferire il significato di una parola o di un’espressione dal senso proprio a un altro senso figurato, avente con il primo un rapporto di somiglianza. Ad esempio, Anna è una gazzella significa che Anna è agile come una gazzella: si tratta di una metafora, in cui viene abbreviato il paragone, attribuendo le caratteristiche dell’animale ad Anna. Una metafora è molto efficace nel coinvolgere l’interlocutore, perché utilizza un linguaggio che suscita emozioni, curiosità e senso di creatività, soprattutto se allude a conoscenze, interessi ed esperienze proprie del soggetto cui è diretto. Per tale motivo, l’uso di metafore adeguate può essere utile nell’ambito di trattative di vendita o nelle comunicazioni con probabili clienti. La similitudine differisce dalla metafora per l’impiego di riferimenti diretti, quali come, simile a e così via. In questo caso diremo che Anna è agile come una gazzella. Allo stesso modo delle metafore, le similitudini sono in grado di catturare l’attenzione dell’interlocutore, stimolando la sua emotività e la sua fantasia. Gli aneddoti, infine, sono racconti di esperienze vissute da persone, patrimonio di una tradizione e sono, pertanto, efficaci. Anche questi ultimi stimolano la curiosità dell’interlocutore, catturando la sua attenzione.
  3. Ethos, forza morale. Per essere veramente persuasivi, bisogna essere dotati di forza morale, cioè credere veramente in ciò che si dice o quantomeno essere in buona fede. Infatti, quando il tentativo di persuasione è fatto in buona fede, esso genera una serie di messaggi verbali, ma soprattutto non verbali, di alta efficacia persuasiva, proprio perché, essendo sinceri, sono captati come tali dall’interlocutore. Essere in buona fede significa credere veramente e profondamente in ciò che si afferma e si trasmette all’interlocutore: l’influenza che ne deriva nel soggetto ricevente è sicuramente elevata. Vi sono alcune parole e frasi, usate frequentemente nel parlare quotidiano anche del mondo lavorativo, che influenzano negativamente l’ascoltatore, spesso senza che questi se ne renda conto coscientemente. Sono espressioni talmente diffuse che nessuno presta attenzione all’effetto negativo che generano, in modo inconscio; esse sono, perciò, da evitare, soprattutto in contesti professionali. Si tratta di espressioni che suggestionano. Ad esempio: le rubo solo un minuto! Il termine rubare dà il senso della perdita di tempo e ci colloca in una posizione d’inferiorità rispetto al nostro interlocutore: solo gli scocciatori rubano il tempo; può dedicarmi un attimo?

      Ci poniamo in una posizione d’inferiorità, autodefinendoci poco importanti e supplicando il nostro interlocutore di degnarsi di gettare uno sguardo su di noi; non vorrei disturbare. Espressione molto usata da ciascuno di noi nel quotidiano. Anche con questa espressione ci collochiamo in una posizione di inferiorità. Non solo: con essa, lasciamo trapelare la nostra insicurezza e una scarsa considerazione verso il messaggio che vorremo trasmettere al nostro interlocutore; non intendo annoiarla con i miei discorsi, ma… Espressione che spesso denuncia il timore che quanto abbiamo da trasmettere all’interlocutore sia da noi stessi ritenuto poco interessante e noioso. Al di là di quanto recepisce, il destinatario del messaggio, che può porsi in una situazione di ascolto negativa, è possibile che ci auto/influenziamo negativamente, perdendo sicurezza e forza di convinzione man mano che emettiamo il messaggio; non vorrei che lei pensasse male. Frase tortuosa e ambigua che lascia forti dubbi sulla sincerità o sulla buona fede di quanto si comunicherà. Durante la conversazione (soprattutto telefonica), possono, inoltre, ricorrere spesso espressioni o parole con valenza suggestiva e negativa quali abbiamo avuto dei problemi, abbiamo alcune difficoltà, vi sono state carenze oppure in azienda si sono verificati sbagli; queste espressioni hanno un denominatore comune, rappresentato dalla sensazione che possiamo trasmettere al nostro interlocutore di allontanare da noi una possibile colpa.

   Vi sono altri comportamenti verbali, i quali, anziché provocare interesse nell’interlocutore, lo possono influenzare (suggestione negativa) in modo negativo facendolo gradualmente allontanare dall’ascolto, quali:

  1. L’uso ricorrente del pronome io, molto frequente nelle conversazioni quotidiane e generalmente usato in frasi negative a propria discolpa (io non ho detto, o non ho fatto ecc.), oppure in frasi affermative che rimarcano la propria persona (io dico che, io ho sempre detto che e così via). L’uso ripetuto del pronome io e l’uso di frasi in prima persona indeboliscono notevolmente la comunicazione, poiché creano nell’ascoltatore disagio, fastidio e antipatia in modo più o meno accentuato. Infatti, questo modo di esprimersi denuncia, di solito, una personalità infantile, che cerca di richiamare continuamente in causa la certezza della propria identità.
  2. L’uso categorico del no, che risulta di estrema durezza per ciascun interlocutore. In realtà, quando compare un no secco, può essere inteso come una sfida tra due contendenti.
  3. Parole ed espressioni di dubbio e incertezza, come, ad esempio, usare frequentemente verbi quali credere, sperare, cercare o tentare e avverbi quali forse, però o magari, che possono condizionare negativamente l’ascoltatore, poiché, può percepire incertezza e mancanza di sincerità. Spesso, infatti, l’uso di questi verbi e avverbi avviene inconsapevolmente da parte del soggetto emittente, proprio perché nel suo intimo egli non è sufficientemente convinto di ciò che sta affermando.
  4. L’uso del condizionale, che indebolisce notevolmente la forza espressiva del messaggio e lascia dubbi e incertezze nell’ascoltatore: vorrei, direi, o farei possono denunciare incertezza e l’efficacia della comunicazione può esserne indebolita.

   La comunicazione può diventare efficace applicando alcune semplici regole, quali: adoperare il pronome noi, ad esempio, trasformando la frase le idee che io intendo presentarvi consistono in nella frase le idee che noi vedremo insieme consistono in (…). Con la seconda frase, infatti, viene proposto qualcosa che coinvolge tutti. Il noi, cioè, crea spirito di appartenenza, solidarietà e spirito di gruppo; usare l’indicativo al posto del condizionale; ad esempio, invece di dire domani ti inviterei al cinema, sarà opportuno dire domani ti porto al cinema. Nel primo caso prevale, orbene, una situazione d’incertezza, che può portare a una risposta negativa; ciò è meno probabile, viceversa, nel secondo caso; utilizzare espressioni a suggestione positiva: è regola fondamentale della comunicazione proporre il messaggio sempre in termini positivi, poiché l’obiettivo è di generare nell’ascoltatore una sensazione di sicurezza e di certezza di soluzione. Esistono inoltre parole a forte valenza positiva e suggestiva, che ben predispongono lo stato di animo del soggetto che ascolta, perché suscitano, soprattutto a livello inconscio, immagini mentali positive: nascita, novità, crescita e sviluppo, oppure soluzione e opportunità, o alcuni avverbi, quali sempre, certamente e sicuramente.

  La dimostrazione dell’efficacia di determinate parole è data dall’uso delle stesse nella comunicazione pubblicitaria. Ad esempio, la frase “è nato un nuovo modello” accompagna da sempre le raffigurazioni sognanti e cariche di emozionalità dei prodotti in vendita. La suggestione positiva è molto importante in ogni forma di comunicazione aziendale e ancora di più in ogni comunicazione esterna all’azienda, perché basta già di per sé a creare un’ampia aspettativa positiva.

  L’espressione comunicazione ecologica è stata coniata dallo psicologo J. K. Liss e indica l’applicazione dei principi ecologici alle relazioni umane, vale a dire: coltivare le risorse di ogni persona, rispettare la diversità e mantenere una coesione globale, in modo che le persone possano agire insieme per un obiettivo comune. I punti, che caratterizzano tale tipo di comunicazione, sono:

  1. evitare di monopolizzare, cioè di dominare la scena della comunicazione, condensando i propri interventi in poche frasi e accettando il feedback degli altri;
  2. sfuggire al dogmatismo, cioè di imporre le proprie idee, rispettando le opinioni dei propri ascoltatori, anche se non si è d’accordo. Non bisogna mai dire io so, si deve, ma secondo me, a mio giudizio, né formulare giudizi pesanti, evitando di dire hai torto o non capisci, ma affermando invece ho un’opinione diversa, la penso in modo diverso;
  3. modificare i giudizi pesanti che si ricevono in suggerimenti positivi, evitando, quindi, la provocazione o usandola come punto di partenza per un dialogo migliore. Infatti, chi non si lascia andare alle contro/provocazioni, mira a mantenere una buona volontà nella relazione;
  4. evitare di fare la morale. Se diciamo tu devi o è tuo dovere, usiamo, infatti, espressioni moralistiche, che mettono l’ascoltatore in una posizione di inferiorità. Ciò può portarlo a ribellarsi, perché si può sentire non rispettato. È molto più proficuo manifestare i propri desideri in modo diretto: desidero che, mi piacerebbe che e così via; fare, di continuo, proposte in positivo, anche nella critica: bisogna mettere sempre in rilievo ciò che sarebbe positivo in futuro, invece di ciò che è stato negativo in passato.

 Il codice non verbale

  Il codice della comunicazione non verbale si esprime attraverso posizioni e movimenti del corpo, gestualità, espressioni del volto, ma anche tramite un determinato abbigliamento, l’utilizzazione dello spazio, la direzione dello sguardo, i movimenti degli occhi e così via.

  La posizione complessiva del corpo (postura), le espressioni del viso, la maniera in cui il corpo si dispone in rapporto all’interlocutore (orientazione), la disposizione nello spazio (comunicare da vicino o da lontano, assumere una posizione centrale o periferica) e altri elementi di questo genere, influiscono sul significato di un messaggio verbale. Durante una normale conversazione, l’espressione del volto è utilizzata soprattutto come strumento per regolare l’alternarsi di chi parla e di chi ascolta.

  I soggetti interagenti non sono mai fermi: essi, oltre ad assumere differenti posture, gesticolano e fanno cenni con il corpo, fornendo, quindi, precisi feedback a chi parla. Coloro che vogliono produrre livelli più elevati di affiliazione e di solidarietà, dovranno utilizzare nella conversazione particolari tecniche sia verbali sia paralinguistiche. L’espressione, come fattore del codice non verbale nella dinamica della comunicazione, ha il compito di regolare rigorosamente il rapporto dei ruoli tra chi parla e chi ascolta.

  Il codice non verbale trasmette relazioni e sentimenti, consente azioni involontarie, non permette di mentire ed esprime semplicità e concretezza. In una conversazione, i ruoli degli interlocutori devono alternarsi: chi emette un messaggio e chi lo riceve deve costantemente mantenere il ritmo nella distribuzione dei contenuti del processo di comunicazione in una sincronica interazione. Chi parla e chi ascolta, in tal modo, sono sincronizzati e usano gli stessi movimenti. Il codice della comunicazione non verbale, oltre ad avere una funzione ausiliaria e a volte sostitutiva del linguaggio, serve anche a gestire le relazioni sociali e a trasmettere emozioni.

  Anche l’orientazione e l’uso dello spazio e dell’abbigliamento sono espressioni importanti del codice non verbale: secondo come si colloca nello spazio e della distanza che pone fra sé e gli altri, un individuo instaura rapporti comunicativi diversi. Per questo motivo, ad esempio, il capo in un ufficio siede dietro una scrivania molto grande che generalmente domina la stanza: riesce, così, a porre molta distanza tra sé e l’interlocutore e ad abbracciare tutto il campo visivo.

  L’uso di un particolare abbigliamento, inoltre, permette di esprimere messaggi ben determinati: esso non solo può informare sul gruppo di appartenenza di una persona, ma può anche segnalare alcuni atteggiamenti sociali, quali la trasgressione, il conformismo, l’aggressività, il rigore e così via. Le parole e l’intonazione che scegliamo sono sempre accompagnate da movimenti complementari del corpo, che danno espressione materiale a pensieri e sentimenti inconsci o subliminali. Noi siamo, infatti, consapevoli del fatto che comunichiamo, ma non sempre di tutto il nostro comunicare, che è fatto anche del non verbale e che deve essere congruente con il messaggio verbale per non creare confusione nell’interlocutore.   Attraverso diverse ricerche è emerso che le persone producono circa ventimila diverse espressioni del viso e circa mille variazioni paralinguistiche. Questa gran varietà di segnali, che accompagna l’interazione comunicativa, può essere organizzata in tre categorie: segnali para-linguistici,cioè quelli che produciamo con la voce nel pronunciare le parole. Anche le vocalizzazioni, che vengono introdotte nel discorso, contribuiscono a dargli un preciso significato: il riso, il pianto, i sospiri, le pause, i suoni come uh, ehm o i colpi di tosse forniscono all’interlocutore informazioni utili su chi sta parlando e su ciò che vuole comunicare; le espressioni del volto, vale a dire l’insieme dei segnali più importanti nell’esprimere le emozioni e gli atteggiamenti verso gli altri.

  Molti psicologi sono d’accordo nel riconoscere l’esistenza di un certo numero di emozioni alle quali sono associati determinati movimenti dei muscoli facciali, che provocano emozioni universalmente riconoscibili, quindi non influenzate dal contesto culturale nel quale si manifestano. In questa categoria si può classificare il contatto visivo. Infatti, molte informazioni passano attraverso gli sguardi che le persone si scambiano; il comportamento spaziale, cheriguarda la posizione del corpo, i gesti, il contatto fisico tra i parlanti. Il significato che si attribuisce al contatto fisico dipende dai fattori di contesto e dalla relazione esistente tra i protagonisti dell’interazione.

  Un elemento di grande importanza è la distanza che viene mantenuta nell’interazione. La distanza interpersonale in termini spaziali viene utilizzata generalmente per regolare il grado d’intimità fra le persone. L’eccessivo avvicinamento di una persona che non si percepisce come particolarmente intima o l’eccessivo allontanamento di una persona che percepiamo intima, procura un certo stress. Infatti, come vedremo, alcuni studiosi sostengono che ogni persona percepisce quattro zone di distanza progressiva alle quali mantiene gli altri, secondo il livello d’intimità raggiunto nella relazione: la zona intima, la zona personale, la zona sociale e la zona pubblica.

  Nella nostra cultura, inoltre, assumono una gran rilevanza i gesti che le persone fanno con le mani per accompagnare la conversazione; essi possono assumere diversi significati, sia sul piano dell’espressione sia su quello della regolazione dell’interazione. La bocca è circondata da un’infinità di piccoli muscoli ed è anch’essa un’inestimabile miniera di informazioni aggiuntive. Quando si cerca di nascondere la verità, ci si sforza di sottrarre la bocca alla vista: si può fare apertamente, coprendola con la mano, o in modo più sfumato, toccando la punta del naso con l’indice in modo così veloce da sfuggire allo sguardo.

  Ci sono poi micro-segnali subliminali, che sono gesti automatici e incontrollati e che possono essere di accoglienza o di rifiuto: un microsegnale di godimento è l’avvicinamento, o il movimento in avanti; un micro/segnale di rifiuto, invece, è il movimento indietro o la smorfia della bocca. Anche la postura può indicare un atteggiamento più o meno di rifiuto o di accoglienza. Quando s’incrociano le braccia o le gambe, ci si pone in un atteggiamento di chiusura, come anche quando ci si sposta con la spalla all’indietro o si guarda altrove rispetto a chi parla. Al contrario, un atteggiamento di apertura può essere quello di protrarsi in avanti e guardare negli occhi chi parla.

  La mano è una parte, cui diamo un gran rilievo, ed è l’elemento che facilita la produzione di molte figure; essa, inoltre, poiché è in coppia simmetrica, permette un arricchimento delle possibilità espressive, come ad esempio: indicare, con l’indice disteso; segnalare alt con la mano allargata e con il palmo rivolto al soggetto che vogliamo fermare; salutare, agitando la mano; tenere tesi e allargati a V indice e medio, raccogliendo a pugno le dita in segno di vittoria; congiungere le mani per pregare; tenere il pollice teso all’infuori e le altre dita chiuse per indicare l’autostop.

  La testa e, in particolare, il viso, sono le parti del nostro corpo particolarmente adatte alla comunicazione. La faccia, infatti, ci mette in diretto contatto con il nostro interlocutore e le sue componenti sono controllate da un sistema neuro-muscolare piuttosto fine. Con il capo, quindi, mandiamo diversi messaggi, tra cui: dire no, roteando la testa da destra a sinistra e viceversa; dire sì, sollevando e abbassando in successione il capo; esprimere dubbio e perplessità, scuotendo la testa.

  Con gli occhi e con lo sguardo, invece, comunichiamo il contatto psicologico; di solito, mandiamo messaggi combinando l’uso di occhi, palpebre, sopracciglia e fronte, ad esempio se strizziamo l’occhio, se spalanchiamo o sbarriamo gli occhi, o, infine, se inarchiamo le sopracciglia verso l’alto. Molto diffuse sono anche le combinazioni mano/testa/viso; ad esempio, lanciare un bacio con un gesto della mano, mettersi le mani nei capelli o accostare l’indice al lobo frontale per indicare intelligenza o pazzia. Il corpo, nel suo complesso, permette un’infinità di messaggi ed è evidente che ciò condiziona notevolmente l’intero processo comunicativo.

  Parlare fluentemente, in modo colorito e avendo la battuta pronta, è legato all’espressività e alla quantità dei gesti che facciamo durante il dialogo. Si suppone da tempo che il linguaggio abbia avuto origine dai gesti e le osservazioni sull’acquisizione della parola sembrano sostenere questa ipotesi; solo in tempi recenti ci si è, però, accorti che l’espressione verbale ha tutt’altro che soppiantato i gesti e che proprio questi ultimi sono parte integrante della facoltà di parlare con scorrevolezza; anzi, pare che il movimento anticipi sempre la parola.

  In un recente studio, in cui i soggetti erano immobilizzati, si è costatato come questi ultimi, parlando, avessero difficoltà a esprimersi e provassero molto spesso la sensazione di avere una parola sulla punta della lingua. Da altri studi è stato invece messo in luce come il numero e la tipologia dei gesti cambi in relazione all’argomento di conversazione: sono minori, quando ci si riferisce a un concetto astratto, mentre sono più vivaci ed espressivi se si descrivono scene, azioni oppure oggetti concreti.

  Durante la terapia, lo psicanalista invita il paziente a stendersi sul lettino in modo che i loro sguardi non s’incrocino e i loro gesti rimangano nascosti l’uno all’altro. Questa pratica mette tra parentesi il corpo e le sue capacità espressive a favore della parola. La società attuale privilegia, in effetti, la parola e gli scambi simbolici a discapito del corpo e del gesto: a tal proposito Wilhelm Reich parlò di corazza caratteriale e affermò che il corpo è chiuso a guscio su se stesso.

  Abbiamo sempre i muscoli e le vertebre contratti perché l’aspetto difensivo della corporeità prevale su quello propositivo e su quello espressivo. È forse venuta meno l’empatia, quel tipo di relazione che risulta così forte tra madre e neonato: quest’ultimo, infatti, comunica essenzialmente con il pianto e con la gestualità e non utilizza dei linguaggi strutturati; nonostante ciò, la madre non fatica a comprendere quello di cui lui ha bisogno. Tale fiducia non è più così riscontrabile e, in alcuni casi, viene perfino considerata sconveniente.

  Se, ad esempio, una persona gesticola troppo può essere giudicata fastidiosa, se non addirittura poco educata. Ciò che veicola il gesto è una potente passionalità, tanto che se abbiamo intenzione di offendere qualcuno ci riesce molto più facile farlo a gesti piuttosto che a parole: questo avviene perché la gestualità ha un’immediatezza che il linguaggio verbale non conosce. È proprio per tale motivo che il gesto provoca tanto timore e dev’essere costantemente disciplinato. Così, fin da bambini veniamo intimati a non muoverci in questo o in quell’altro modo: a scuola, ad esempio, dobbiamo guardare in direzione della lavagna o dell’insegnante e assumere una certa postura. Attraverso potenti forme di educazione avviene ciò che Michel Foucault chiamò la sterilizzazione di sé: si tratta di pratiche indirette, che, in un primo momento, non appaiono come educative, ma che riescono a plasmarci in maniera forte e duratura, fissando ciò che siamo e ciò che non siamo più.

  La psiche deve continuamente relazionarsi con la realtà esterna e il corpo, camuffandosi, assumendo maschere e fisionomie diverse, negozia l’apparire agli altri. Corpo fisico e corpo psicologico, quindi, s’integrano a vicenda (l’energia, ad esempio, si scarica attraverso i muscoli volontari, provocando rabbia e aggressività). In questi ultimi anni, l’attenzione, dedicata al corpo, è diventata sempre più evidente. Le cure per il proprio fisico, lo sport o la danza sono un modo per riscoprire la propria corporeità ed energia.

  Il corpo bello, forte, tonico e igienico è il mito odierno, poiché sentirsi bene fisicamente è percepito come un modo per vivere bene con il proprio io. Il rapporto col corpo e il contatto corporeo, in effetti, sono elementi essenziali della nostra vita fin da quando siamo piccoli, quando con il pianto o il sorriso comunichiamo i nostri bisogni, creando vicinanza e calore. Pertanto, le tante maschere che indossiamo per presentarci al mondo non riescono a nascondere fino in fondo le emozioni.

  Le posture sono le posizioni che ciascuno assume con il corpo e che mantiene per un periodo di tempo. Le posizioni del corpo possono riflettere lo stato emotivo nell’andamento della relazione e possono anticipare le espressioni verbali.

 Le posture maggiormente osservabili sono seduta o eretta, simmetrica o asimmetrica (possono riferirsi a posizioni delle braccia, delle mani, delle gambe e dei piedi) e inclinata o diritta (riferita sia alla testa rispetto all’asse del collo che alla schiena).

  La postura simmetrica viene percepita come controllo della situazione, la postura asimmetrica come libertà espressiva, mentre la postura inclinata è percepita come posizione di sottomissione nella relazione. Altri aspetti riguardano la polarità fissa/mobile della postura e lo stato di contrattura dei muscoli interessati. 

  Le posture mantenute fisse per lungo possono indicare sia sicurezza e controllo della situazione che rigidità e difesa del proprio punto di vista: cambi di postura moderati, ad esempio durante un colloquio di lavoro, possono indicare che la persona si trova a proprio agio, ma se il cambio di postura è frequente, può, invece, diventare indice visibile di ansia. Il cambio di postura è utile da osservare in un colloquio o in una riunione, perché segnala la variazione di stato d’animo o di opinione.

  Al di là di queste osservazioni, però, è anche molto importante prestare attenzione alle posture che si assumono, quando, ad esempio, si resta seduti (o in piedi) per molto tempo per ragioni di lavoro o di studio, poiché assumere posture sbagliate può provocare dei danni alla salute. Anche se può essere molto piacevole, è sconsigliabile sedersi su poltrone o divani troppo morbidi; molto meglio una sedia rigida con schienale alto, in modo da poter appoggiare tutta la schiena. L’altezza della sedia deve permettere alle ginocchia distare allo stesso livello delle anche. Se poi la sedia ha anche i braccioli, faremo meno fatica ad alzarci.

  Tutte le altre posizioni (gambe distese, sedia troppo alta o troppo bassa e così via) determinano sollecitazioni eccessive della colonna vertebrale. Per alzarsi, mettiamo i piedi il più possibile vicino alla sedia, incliniamo poi leggermente il busto in avanti e spingiamo su facendo forza con le gambe e non con la schiena. È molto utile addestrarsi all’auto/osservazione delle proprie posture; ciò consente di avvertire in che stato ci troviamo nei confronti di una circostanza comunicativa o di un interlocutore, nonché il livello di ansia e tensione cui siamo sottoposti. Spesso, infatti, nei momenti di pausa o alla fine di una riunione, ci assale un forte senso di stanchezza, di tensione o dolore, frutto del persistente stato di contrattura mantenuto per ore, perché impegnati a seguire i contenuti del discorso e a controllare la situazione.

  La comunicazione non verbale è gestita dall’inconscio e, pertanto, conoscerla serve per decodificare la comunicazione del nostro interlocutore. I codici o segnali del corpo possono essere di gradimento o di rifiuto: vediamo i più importanti, tenendo presente che non è certo sufficiente affidarsi solo a essi, ma occorre invece prestare attenzione all’atto comunicativo nel suo insieme:

  1. I codici o segnali di gradimento. Nel viso il centro del piacere è la bocca (serve per succhiare il latte materno, per mangiare, per provare sensazioni piacevoli); accarezzarsi le labbra o mordicchiarsele indica un notevole gradimento da parte del nostro interlocutore nei confronti di quello che stiamo dicendo. Altri segnali positivi sono succhiare un oggetto, spingere le labbra leggermente in fuori, premere la lingua all’interno delle guance, accarezzarsi mento e collo e spostare il busto o il corpo verso l’interlocutore, (simboleggia un avvicinamento psicologico nei confronti dell’altro). Lo stesso vale per i nostri segnali verso l’altro; ad esempio, lo spostamento di oggetti verso di noi indica la volontà di avvicinare simbolicamente anche il nostro interlocutore. Invece, tenere un atteggiamento aperto, con braccia aperte e gambe non conserte, denota cordialità e disponibilità.
  2. I codici o segnali di rifiuto. Il naso è il centro del non gradimento. Se, mentre stiamo parlando, l’interlocutore si gratta il naso ripetutamente, può significare che l’argomento o la nostra persona, gli stiano causando una forte tensione. Il prurito è, infatti, causato da una vasodilatazione dei capillari, che reagiscono a situazioni di stress. Anche spostare il corpo indietro, lontano dall’interlocutore, non è un buon segnale: equivale a prendere le distanze da lui. Allo stesso modo, spostare oggetti lontano da noi significa che vogliamo allontanare l’argomento o la persona. Spolverare o spazzare via dagli abiti o dal tavolo polvere o briciole ha un significato preciso: non voglio farmi carico di questi problemi, mentre il colpo di tosse e il raschiamento della gola sono un rifiuto netto di quanto stiamo dicendo; inoltre, gambe accavallate e braccia conserte sono segnale di chiusura.

  Le mani ci permettono un’espressività molto articolata e sono una fonte formidabile di messaggi non verbali. Anche la stretta di mano rivela qualcosa di noi e dell’altro; ogni stretta di mano è, infatti, un’esperienza con cui i due comunicanti si fanno una prima impressione reciproca. In base alle diverse modalità della stretta di mano possiamo, infatti, distinguere tra stretta di mano: superiore (rapida, decisa, sicura). Rivela sicurezza e alta autostima; rustica (troppo forte nello stringere e agitare). Rivela schiettezza, abitudine ai lavori manuali e forse ostentazione di forza; assente (denota debolezza, insicurezza, paura di coinvolgersi e forse falsità); infinita (indica un individuo invadente e appiccicoso); tremolante con sudorazione (rivela ansia e agitazione); sensuale (accarezza ed esplora anziché stringere); a sandwich (mostra l’intenzione di mostrare un particolare affetto); qualsiasi (giusta e ponderata). Rivela socievolezza o forse desiderio di non definirsi e quindi prudenza e abilità.

  Guardare l’interlocutore e sostenere lo sguardo denotano apertura, sicurezza e buona gestione relazionale. Sulla base delle diverse tipologie di sguardo, possiamo cercare di individuare in essi dei segnali specifici:

  1. guardare in avanti indica partecipazione alla realtà, attenzione,concentrazione, franchezza ed estroversione, mentre guardare di lato, vuol dire rifiuto del presente, fuga dalla realtà, prudenza e introversione;
  2. guardare in orizzontale è indice di realismo, sincerità, senso dellarealtà e desiderio di contatti stabili e duraturi, mentre guardare in alto, indica proiezione nel futuro, previsioni e voglia di evadere;
  3. guardare in basso significa ripiegamento su di sé, scarso contattocon la realtà, ricordo passato, meditazione o depressione;
  4. guardare in basso e di lato indica dissimulazione, egoismo edisaccordo.

  Acquisire l’abilità del contatto oculare (guardando negli occhi, senza fissare insistentemente) è di fondamentale importanza nel rapporto sociale perché provoca un feedback immediato. Lo sguardo troppo prolungato può, tuttavia, denotare aggressività e sfida.

  Nella comunicazione, la gestualità ha un ruolo fondamentale ma ogni Paese ha le sue regole, per cui bisogna porre particolare attenzione, quando ci si trova all’estero, cercando di usare solo quei gesti la cui interpretazione è ritenuta condivisa. Infatti, in una situazione interculturale possono nascere problemi di omomorfia (gesto uguale ma con significato diverso), responsabile di notevoli fraintendimenti.

  Caratteristica prettamente latina è la forte gestualità, che accompagna, sottolinea e mima gran parte del discorso; però, tali gesti, del tutto spontanei per noi, sono spesso incomprensibili per gli stranieri. Può essere utile individuare degli elementi della gestualità da confrontare nelle varie culture per avere un’idea della complessità e della ricchezza di significati di questo linguaggio.

  Per avere un’immediata rappresentazione del linguaggio non verbale proviamo a immaginare di essere in un Paese straniero e di non conoscere per niente la lingua del posto: se proviamo a osservare attentamente un nostro interlocutore anche mentre parla la nostra lingua, potremo individuare una serie di segnali che si accompagnano alle parole e che ci danno delle interessanti informazioni in quanto differenti dai nostri.

  Esprimere emozioni, sensazioni, giudizi e pensieri con la mimica facciale è una cosa ovvia nell’Europa mediterranea, in Russia e in alcune aree degli Stati Uniti; nell’Europa del nord, invece, ci si attende che queste espressioni siano abbastanza controllate, mentre in Oriente esse sono poco gradite, tanto che si educano i bambini fin da piccoli a una certa imperscrutabilità e alla riservatezza. In alcune culture, come quella turca, tale controllo è richiesto soprattutto alle donne, che devono essere impassibili.

  In Italia spesso si esprimono impressioni e sensazioni più con il viso che con le parole, attraverso una mimica facciale molto articolata. Frequentemente, infatti, facendo il resoconto del dialogo avuto con una persona ci troviamo a dire che ha fatto una faccia! Per noi è, quindi, del tutto usuale lasciar trasparire in questo modo il nostro pensiero, convinti che ciò sia indice di sincerità. Non funziona sempre così presso gli altri popoli: ad esempio, in Giappone, la rigida maschera facciale è una vera e propria necessità sociale.

  È difficile, quindi, per un giapponese non solo interpretare i nostri segnali ma anche capirne la necessità, giacché esistono le parole per comunicare la stessa cosa in modo migliore e in misura marginale. Altre culture, come, ad esempio, quella tedesca, si avvalgono della mimica, ma con meno frequenza ed enfasi, danno, quindi, l’impressione di essere più freddi, perché è difficile comprendere le loro emozioni dallo sguardo o dalla piega della bocca. Quando si sta parlando con un cliente, anche le espressioni del viso devono essere adeguate; occorre, infatti, evitare di essere troppo espressivi, rischiando, in tal modo, di essere poco professionali, ma occorre anche evitare di indossare una rigida e inespressiva maschera facciale, che invece trasmette freddezza e disinteresse. In ogni caso (in ogni cultura), però, un sorriso è sempre gradito!

  Le azioni parlano di per sé senza utilizzare un codice particolare e possono essere distinte in:

  1. azioni spontanee, cioè quelle che comunicano il nostro stato d’animo e provocano delle risposte, come, ad esempio, gridare per dolore o paura portano generalmente un’offerta di aiuto e di conforto;
  2. azioni che si protraggono nel tempo, che comportano in genere una risposta; ad esempio fare per lunghe ore un determinato lavoro può spingere i colleghi a dare una mano;
  3. azioni fatte affinché vengano percepite, cioè quando agiamo perché gli altri si accorgano di quello che facciamo e reagiscano favorevolmente alle nostre azioni; ad esempio, se qualcuno indossa il cappotto mentre è in visita a casa nostra, ci spinge ad accendere il riscaldamento;
  4. azioni volte proprio alla comunicazione, cioè quando l’azione diventa uno strumento codificato, una specie di recita; ad esempio, una persona che sorride a un’altra verso cui nutre antipatia solo perché ha bisogno di un passaggio in macchina.

  L’aspetto esteriore è ciò che immediatamente notiamo dell’altro e che determina la cosiddetta prima impressione. Nell’incontro con l’altro vi è un immediato impatto visivo, la nostra attenzione va a osservare quanto è alto o basso, grasso o magro, i particolari somatici delle forme del volto, evidenziando dominanze di curve o spigoli; inoltre, osserviamo il colore della pelle, dei capelli, l’eventuale trucco e soprattutto il tipo di abbigliamento, in base al quale facciamo valutazioni (elegante, sobrio, sciatto, adeguato alla situazione e così via). Questi segnali vengono osservati in pochissimi secondi e la descrizione verbale è certamente più lunga dell’osservazione.

  Ciò avviene soprattutto con interlocutori nuovi, per inquadrare il soggetto che si ha di fronte. L’attenzione all’estetica è la cura della bellezza e avere un aspetto gradevole è una vera e propria forma di comunicazione, su diversi piani:

   Gli accorgimenti estetici, come ad esempio trucchi e pettinature, che sono in genere segnali estetici di identità sessuale (come colorarsi le labbra e depilarsi le gambe).

  1. La pulizia corporea, che nasce da necessità d’igiene e di benessere fisico e che nella nostra società non è solo visiva, ma anche olfattiva (infatti, è esplicitamente richiesta in ogni contatto umano).
  2. L’abbigliamento riveste non poca importanza; infatti, l’essere umano si veste per proteggere il corpo da fattori esterni, per coprire alcune parti del corpo, per pudore o anche per decorarsi, cioè per sembrare più attraente. Con l’abbigliamento s’inviano messaggi, relativi al sesso, all’età, alla classe sociale, alla personalità, all’umore e ai gusti personali, ma anche segnali di potere (ad esempio toghe e corone), di posizione economica (ad esempio, gioielli o firme di alta moda) e di competenza professionale (ad esempio, divise e grembiuli).

  Le comunicazioni, realizzate attraverso l’abbigliamento, diventano importanti nelle interazioni e nelle relazioni di breve durata, dove gli interlocutori azzardano dei giudizi sommari perché non sono in possesso di altri elementi ma sono anche molto importanti nel rapporto di lavoro (immaginate di presentarvi a una riunione di lavoro in maglietta e pantaloncini corti!).

  La comunicazione dipende da due fattori, di cui uno esteriore, in altre parole ciò che si vede (ciò che diciamo, come lo diciamo, come ci muoviamo nello spazio e quali gesti accompagnano il nostro comunicare ecc.), l’altro, interiore, in altre parole il nostro intento comunicativo, i pensieri che governano la nostra comunicazione, le attese e il nostro modo di essere.

  La migliore comunicazione è quella che riesce a creare la massima concordanza tra l’identità interiore e quella esteriore. I colori più adatti, quindi, possono dare maggiore visibilità alla nostra personalità, consentendoci di orientare la comunicazione positivamente.

  L’immagine comunica e tutti noi preferiamo che la nostra immagine comunichi davvero ciò che siamo e non qualcosa di diverso; ciò influirà positivamente sulla comunicazione e sui rapporti personali e professionali e anche su di noi, poiché il vero equilibrio nasce sempre dalla consapevolezza e dalla manifestazione consonante e coerente del nostro essere. Anche nei contesti lavorativi, quindi, è fondamentale prestare attenzione all’uso dei colori: provate a immaginare un manager che si presenta a un’importante riunione, indossando un abito giallo!

Il codice paraverbale

  Nel parlare ognuno regola le intonazioni della sua voce, procedendo dai toni più gravi a quelli più acuti. Il codice della comunicazione paraverbale si esprime, infatti, attraverso toni e accenti della voce, pause, ritmi, suoni e così via. Anch’essi, nella dinamica del processo della comunicazione, sono elementi importanti. È proprio l’intonazione che, nel rapporto comunicativo produce effetti diversi e fa emergere una vasta varietà di significati.

  Nella lingua italiana i movimenti d’intonazione sono detti contorni. Questi possono essere discendenti, quando le domande iniziano con che cosa o chi o quale: il tono, in tal caso, scende. Le domande che iniziano, invece, con dove o quando hanno un tono che in un primo momento scende gradualmente, per poi alzarsi in seguito, producendo un contorno discendente/ascendente.

 Nelle esclamative il tono s’innalza progressivamente sino a un’improvvisa impennata finale. Si ha, in tal caso, un contorno ascendente finale. In un soggetto che dichiara cose ovvie, si può osservare un tono alto, che, però, alla fine, crolla in maniera brusca. Il contorno che si produce è detto ascendente/discendente. Nel caso in cui il tono tende a salire progressivamente senza l’impennata finale, si ha il contorno ascendente non finale.

 I codici paraverbali sono detti anche paralinguistici: essi accompagnano il linguaggio, senza farne parte. In tale contesto, la voce ha un gran valore simbolico: sul suo tono si può esercitare minor controllo e, quindi, nella dinamica della comunicazione, essa rappresenta gli stati emotivi e gli atteggiamenti autentici di coloro che interagiscono. Sono appunto il timbro e il tono della voce oppure un accento particolare nel parlare che ci permettono di riconoscere parenti, amici e conoscenti.  La comunicazione interpersonale è un processo complesso e, perciò, per poterla comprendere, deve essere studiata attentamente.

  Ogni uomo, nella società attuale, dovrebbe, dunque, acquisire adeguate strategie e appropriate tecniche comunicative per rendere facile ed efficace la codificazione e la decodificazione dei messaggi e per utilizzare i codici comunicativi adeguati nei diversi contesti (familiari, sociali, professionali e così via.

  Per comunicazione paraverbale s’intendono tutti quei codici che vengono usati in concomitanza, prima, durante e dopo un messaggio verbale orale. Possiamo distinguere in essa il volume e il tono di voce, la velocità di parola, le pause, il silenzio e il riso, nonché altre espressioni sonore. Saper utilizzare la voce permette di raggiungere più facilmente una comunicazione efficace, precisa ed efficiente, che impegni le risorse adeguate alla precisione e alla completezza.

  Una buona impostazione vocale, ad esempio, preferibilmente accompagnata da una buona dizione, può certamente aiutare i rapporti di comunicazione con i clienti, soprattutto se si tratta di conversazione telefonica. Il volume della voce può dipendere dalla distanza tra gli interlocutori o dai rumori presenti, ma può anche essere espressione della personalità dell’individuo. Esso svolge una funzione comunicante molto evidente; ad esempio, una persona arrabbiata tende ad alzarlo, una persona disperata grida i suoi messaggi, mentre un messaggio intimo viene appena sussurrato.

  Il codice paraverbale ha, inoltre, una funzione ausiliaria del linguaggio; modula e regola la voce, ccompagna il linguaggio senza farne parte, ermette alla voce un valore simbolico e fa riconoscere l’autenticità espressiva nell’interlocutore.

  Il soggetto che ha una buona competenza comunicativa non usa sempre lo stesso volume, ma sceglie quello adeguato a un determinato momento.   Alla propria voce si può dare un tono o una modulazione intenzionale: molto comuni, ad esempio, sono le affermazioni, le interrogazioni e le esclamazioni (Sei pazzo. Sei pazzo? Sei pazzo!). Le variabilità del tono sono innumerevoli e molto efficaci: ad esempio, l’intonazione sarcastica o ironica, il modo altezzoso, il tono affabile o dispregiativo, di fastidio, di comando, di remissione e così via.

  Ogni frase acquisterà quindi un significato diverso secondo il tono con cui viene espressa. Altra importante funzione della comunicazione paraverbale è l’espressione di emozioni e sentimenti, che sono fattori sempre presenti in qualsiasi comunicazione.

  La comunicazione paraverbale, con quella non verbale, è, dunque, parte integrante del nostro modo di relazionarci con gli altri; essa viene utilizzata quotidianamente da ognuno di noi, spesso anche a livello inconscio. Se mancassero queste componenti, la nostra comunicazione sarebbe poco comprensibile, cioè non pienamente recepibile dal destinatario.  Un mezzo espressivo particolare è anche la velocità nel parlare; parlare velocemente può manifestare tensione o nervosismo oppure mancanza d’interesse nei confronti dell’interlocutore. Le pause sono quei fenomeni che interrompono il ritmo di produzione delle parole e il loro significato varia secondo il contesto e della situazione.

 Una pausa in un dialogo serve a offrire all’interlocutore la possibilità di parlare, mentre una pausa dell’insegnante può voler significare un momento di riflessione, o attendere che gli alunni facciano silenzio o intervengano.

  Il silenzio è vissuto di solito come la rottura delle regole del comunicare, ma può essere determinato anche dalla mancanza di argomenti, dalla mancanza di desiderio di comunicare con determinati soggetti; esso può, inoltre, accompagnare un momento di tensione emotiva, o ancora essere usato come punizione verso un destinatario che disapproviamo.

  Il silenzio implica una vasta gamma di espressioni: vi è il silenzio oppositivo (ad esempio quello mantenuto dall’accusato mentre viene interrogato), il silenzio comunicativo, grazie al quale si possono provare delle emozioni identiche a quelle della persona che c’è vicina e diversi altri modi di tacere. A rivelare il senso del silenzio è il contesto in cui, di volta in volta, ci troviamo e il suo valore dipende dalle differenti situazioni comunicative.   L’idea che anche il silenzio possa essere una forma di comunicazione, però, può rappresentare una gran conquista. In televisione, ad esempio, vige una sorta di horror vacui: vi è il terrore che si possano presentare dei momenti di silenzio. Gli intervistatori tendono a fare un numero infinito di domande e, se per caso l’intervistato ha una breve pausa, cercano immediatamente di riempire il vuoto che si è creato con un altro intervento.

  Il riso è una manifestazione spontanea, uno sfogo di tensione o una reazione a uno stimolo comico. Esso può comunicare diverse cose: la stessa frequenza nel ridere comunica un aspetto della nostra personalità o segnala qualcosa del nostro umore del momento.

 Il trattenersi dal ridere, invece, comunica la nostra intenzione di nascondere un’emozione, mentre ridere con compostezza comunica il nostro autocontrollo. Ci sono, inoltre, molti modi di ridere: possiamo, così, distinguere tra una risata sarcastica o ironica, artefatta, liberatoria, repressa e così via. Esistono però anche altre espressioni sonore: talvolta, ad esempio, comunichiamo producendo suoni come il fischio oppure alcuni suoni che emettiamo per scacciare gli animali o per richiamarli, che possono anche variare nelle differenti culture.

 Tutti cerchiamo di migliorare la nostra immagine, curando l’abbigliamento, andando in palestra e così via. Ciò non è, però, sempre sufficiente. Se dobbiamo chiamare al telefono una persona che non conosciamo per concludere un affare importante, quanto ci servirà essere abbronzati e in perfetta forma?

 Al telefono, infatti, è soprattutto la nostra voce a parlare di noi. Durante una telefonata, la nostra voce influisce per il 72% sull’impatto comunicazionale, mentre le parole che usiamo rappresentano solo il 28% del messaggio (Albert Mehrabian, Nonverbal Communication). In questo caso, è la voce a essere la nostra immagine. Di persona, del resto, le cose non vanno molto diversamente: in un colloquio di lavoro, una voce sgradevole, incerta o con forti accenti dialettali può vanificare tutta la nostra gradevolezza estetica.

 La voce va intesa come prolungamento, come estensione del corpo. Se con la vicinanza e il contatto incontriamo l’altro con il corpo, con la potenza dell’emissione vocale lo incontriamo con la voce. I segnali, che provengono dal suono della voce, infatti, costituiscono il non verbale della parola. Essendo molti i muscoli coinvolti nella produzione dei suoni, la voce risente degli stati di tensione e di rilassamento cui tutto il sistema muscolare va incontro, quindi dello stato emotivo che accompagna i contenuti che le parole esprimono.

 I parametri della voce sono il volume, che definisce l’intensità del suono (forte-piano), il tono, che definisce l’altezza del suono (acuto/grave), la velocità, che definisce la durata di emissione dei suoni (lento-veloce) e la continuità, che definisce la sequenza di emissione dei suoni (continuo/discontinuo, pausa).

 Di solito, si aumenta il volume della voce per far arrivare il messaggio verbale a chi è distante da noi, ma tale volume viene aumentato anche per dare enfasi a un discorso o per dimostrare l’importanza del proprio ruolo. Si abbassa, invece, per creare intimità tra le persone o perché non si tiene conto del destinatario.Se il volume sonoro supera una certa soglia, si realizza una condizione d’invasione acustica, percepita talora come aggressività. Il tono riflette, in particolare, lo stato di tensione delle corde vocali; per questo di mattino, appena svegli, è mediamente più basso. I suoni acuti tendono a eccitare i destinatari, per esempio, nelle riunioni concitate, dove talvolta si crea il paradosso di richiedere verbalmente la calma con un tono della voce sempre più acuto.

 La coerenza tra i segnali verbali e non verbali della voce è, infatti, di fondamentale importanza negli eventi comunicativi. Al telefono, poi, la voce assume una rilevanza notevole, perché la mancanza del canale visivo sposta l’attenzione su quello uditivo, non solo per la raccolta dei contenuti verbali ma anche per le informazioni sonore che regolano l’interazione e indicano lo stato emozionale dell’interlocutore.

 La velocità definisce le parole e i gesti emessi nell’unità di tempo e riflette lo stato emotivo e quello situazionale. Vi sono persone che parlano molto velocemente, altre che parlano sempre lentamente, anche quando i segnali del contesto indicano impazienza.

 La velocità assume sempre più importanza per una serie di cambiamenti che stiamo vivendo nelle comunicazioni sociali e nel trattamento delle informazioni aziendali: infatti, oggi, l’elemento significativo, spesso non è più il prodotto ma la rapidità con cui il cliente viene soddisfatto.La continuità, invece, definisce l’alternanza tra l’emissione della voce e la pausa. Quest’ultima serve a riordinare le informazioni (da ricevere o dare), ad ascoltare l’altro e a sincronizzare l’interazione. Durante la pausa si ha lo scambio di ruoli tra chi parla e chi ascolta.

 Molte lotte di potere si esprimono attraverso la pausa e spesso si assiste al furto della stessa come condizione comunicativa in cui gli interlocutori cercano di presidiarne il vuoto, affinché non sia occupata da altri. Difficoltà o facilità dell’incontro è dovuta spesso al contrasto o all’omogeneità di tali ritmi, riferiti al modo di formulare i pensieri, di esprimersi con la parola, di interrompere l’altro o di aspettare che finisca il discorso; sentirsi in sintonia con l’altro significa, infatti, avere ritmi omogenei o complementari.

Dibattito argomentato (Debate)

  Il dibattito argomentato (Debate) è una metodologia didattica, che è stata storicamente impiegata nel mondo classico e soprattutto nel Medioevo con le disputationes. Oggi si è rinnovato ed è diventato una specie di gioco didattico o sfida verbale e comunicativa. Le fasi di preparazione del dibattito comprendono la divisione delle argomentazioni in:

  • introduttiva;
  • argomentativa a favore della propria tesi;
  • confutativa della tesi degli avversari;
  • conclusiva.

  Il dibattito argomentato (Debate) è strutturato con regole rigorose, vale a dire due gruppi di studenti di una classe, di una scuola, di istituzioni scolastiche diverse o impegnati in tornei internazionali si devono confrontarre su un tema, suddiviso in tesi antitetiche e contrapposte. Gli studenti coinvolti assumono precisi ruoli (ricercatori, capitani e relatori). Tutti devono prepararsi al tema in maniera critica e approfondita. I ricercatori hanno un compito molto oneroso, perchè, con ricerche anche supportate e coordinate dai docenti, devono fornire a tutto il gruppo informazioni appropriate e rilevanti per le arringhe nel dibattito (Debate). Il capitano ha, a sua volta, un compito notevolmente importante, perchè non solo deve introdurre la tesi del confronto ma anche incanalarla verso gli obiettivi stabiliti e fecondi. Dopo che il capitano ha indrodotto il dibattito, subentrano gli oratori. Questi hanno la funzione di sviluppare, argomentando e dibattendo, la tesi scelta.

  Il dibattito (Debate) è regolamentato e cronometrato da un arbitro, il cronometrista, che non solo ha il compito di far rispettare i tempi degli interventi, ad esempio 3 minuti per ciascun oratore, ma deve anche, con una strumentazione adatta, avvisare alcuni secondi prima, ad esempio 30, la conclusione dell’arringa. Il tempo prestabilito dal cronametrista deve essere per tutti gli oratori lo stesso. Nel dibattito argomentato (Debate) un altro compito delicato è svolto dalla Giuria. I membri della giuria, seguendo tutte le fasi del dibattito, devono decretare la vittoria di una squadra, motivandone la scelta soprattutto in considerazione delle conoscenze messe in atto e delle capacità di utilizzare le strategie più adeguate nel perseguimento degli obiettivi attesi. In conclusione gli elementi fondamentali del dibattito (Debate), da far acquisire, sono: dibattere e argomentare; sviluppare le soft skill e le capacità curricolari; stimolare il ragionamento logico e la ricerca di nuove idee; educare a parlare in pubblico, cercando di trovare un corretto tono di voce; riferire argomenti accattivanti, sia per mantenere vigile l’attenzione sia per persuadere sulla bontà della propria tesi.

Revoca del Super Green pass in caso di contagio, ok del Garante privacy

da La Tecnica della Scuola

Arriva l’ok del Garante per la protezione dei dati personali sullo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri che aggiorna le disposizioni relative alle Certificazioni verdi e agli obblighi vaccinali per alcune categorie di lavoratori.

In particolare, il provvedimento dà piena attuazione alla revoca del Green pass in caso di contagio sopravvenuto, tramite una procedura che prevede anche che l’interessato venga informato, utilizzando i dati di contatto dallo stesso forniti.

Quindi, pur se vaccinati, in caso di accertata positività, la certificazione verde viene temporaneamente sospesa.

Lo stesso decreto contiene anche la precisazione che il personale preposto alla verifica del possesso della certificazione verde Covid-19 in corso di validità debba essere adeguatamente istruito in merito alla necessità di limitare l’utilizzo della modalità di verifica “rafforzata” esclusivamente ai casi in cui la fruizione di servizi, lo svolgimento di attività e gli spostamenti siano consentiti dalla vigente legislazione ai soggetti muniti delle suddette certificazioni.

Nei casi in cui il lavoratore si avvalga della facoltà di consegnare la certificazione verde al datore di lavoro, quest’ultimo è comunque tenuto a effettuare il regolare controllo sulla perdurante validità, mediante lettura del QR code della copia in suo possesso attraverso l’app VerificaC19 o mediante le previste modalità automatizzate (funzionalità SIDI nel caso della scuola per il personale dipendente).

LEGGI IL PARERE

Decreto Interministeriale 16 dicembre 2021, AOOGABMI 353

Il Ministro dell’Istruzione
di concerto con
il Ministro dell’economia e delle finanze

Determinazione della misura dei compensi per i componenti e i segretari delle commissioni giudicatrici dei concorsi banditi nell’anno 2020 per il reclutamento del personale docente delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado. (22A00743)

(GU Serie Generale n.30 del 05-02-2022)

Decreto Direttoriale 16 dicembre 2021, AOODPIT 2587

Ministero dell’Istruzione
Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione
Direzione generale per gli ordinamenti scolastici, la valutazione e l’internazionalizzazione del sistema nazionale di istruzione

Attivazione del percorso sperimentale integrato di Conduzione di apparati e impianti marittimi (CAIM)/Conduzione di apparati e impianti elettronici di bordo (CAIE) definito con decreto ministeriale 31 agosto 2021, n. 269

Nota 16 dicembre 2021, AOODGRUF 29320

Ministero dell’Istruzione
Dipartimento per le risorse umane, finanziarie e strumentali
Direzione Generale per le risorse umane e finanziarie – Ufficio VI

Agli UFFICI SCOLASTICI REGIONALI (indirizzi PEC)
e, p.c. Al DIPARTIMENTO PER IL SISTEMA EDUCATIVO DI ISTRUZIONE E DI FORMAZIONE (dpit@postacert.istruzione.it)
Alle OO.SS. rappresentative della dirigenza scolastica (indirizzi PEO)

OGGETTO: FUN 2019.2020.