Le relazioni insegnanti-alunni

Le relazioni insegnanti-alunni

di Francesco Scoppetta

Secondo un sondaggio Gilda 4 insegnanti su 10 vogliono cambiare lavoro: “Bassi stipendi, condizioni inaccettabili” (Repubblica, 28/3/22). Perché? Mi è capitato una volta di ascoltare un docente universitario il quale in una scuola superiore parlava ai maturandi per invitarli ad iscriversi al suo ateneo. Ad un certo punto ha ricordato che a lui capita di parlare a 250 studenti in aula magna per cui, sottolineava, “davanti a me ci sono tutti perfetti sconosciuti,la cosa difficile è interessarli, saper parlare in pubblico è difficile, ma se poi l’uditorio è vasto occorrono doti particolari”.

Riflettevo su quale idea gli studenti presenti si costruissero dell’insegnamento universitario e ho concluso che forse coincideva esattamente con quella che avevo io dopo aver preso la laurea. Solo che nel frattempo è trascorso più di mezzo secolo eppure non è cambiato nulla, uno immagina che il docente universitario debba essere capace di parlaredavanti a platee numerose di studenti. In realtà le platee possono essere anche ristrette ma non cambia il concetto di fondo, insegnare sembra corrispondere a “saper parlare” in pubblico.

Ogni insegnante italiano che lavora nelle nostre scuole ha un modello in testa, vorrebbe replicare quel che faceva unsuo docente universitario, le lezioni, qualche seminario e poi gli esami, scritti e/o orali. Ammettiamo che sia così, che l’unica qualità essenziale per fare il docente sia la competenza “saper parlare in pubblico”. Avendo già una laurea si presume che conosca bene una disciplina e, come si pensa in Italia, che sia scontato che sappia anche comunicare, divulgare i fondamenti della disciplina. 

Ma sa parlare in pubblico, senza microfono (nelle aule scolastiche non si usa)? Già se dovessimo selezionare i docenti italiani sulla base di questa sola competenza, una parte (non sappiamo quanti) non potrebbe insegnare, perragioni che riguardano la fonologia e la fonetica, perchè ha una voce troppo sottile, perché incapace per timidezza di parlare in pubblico, perché parla troppo veloce e non si fa capire. Ma se a tale “abilità” aggiungiamo poi le altre necessarie per poter efficacemente insegnare, il discorso si complica.

La Treccani spiega che insegnare significa “…far sì, con le parole, con spiegazioni, o anche solo con l’esempio, che qualcun altro acquisti una o più cognizioni, un’esperienza, un’abitudine, la capacità di compiere un’operazione, o apprenda il modo di fare un lavoro, di esercitare un’attività, di far funzionare un meccanismo”. Pertanto è abbastanza pacifico che non devi soltanto saper usare le parole (semantica lessicale e relazionale) ma occorre anche saper spiegare e fare esempi. Daniel Pennac è l’autore di un noto aforisma che cominciava così: “Ho sempre pensato che la scuola fosse fatta prima di tutto dagli insegnanti” ma poi finiva con una domanda: “in fondo, chi mi ha salvato dalla scuola se non tre o quattro insegnanti?” Pennac come tanti sa che “insegnare” deriva da signum «segno»,«lat. insĭgnare, propr. «imprimere segni (nella mente)», per cui pochi lasciano il segno. Il suo aforisma è la negazione più completa di tutta la politica scolastica italiana che è basata su un solo dogma che riassumo così: con una laurea tutti sono in grado di insegnare e tra tutti quelli che insegnano non è possibile valutare chi lascia il segno.

Un insegnante che non sa spiegare e non sa fare esempi, per muoverci dentro la definizione della Treccani, al massimo può “as-segnare” agli studenti un paragrafo: studiate da pag. 102 a pag. 120. Se prima di assegnarlo come compito a casa non è in grado di spiegare (lat. explĭcare; v. esplicare) un argomento, cosa farà? Chiamerà un ragazzo e lo metterà a leggere, per poi concludere: Avete visto? E’ tutto chiaro. Invece il suo compito sarebbe quello di far capire, di rendere chiaro e intellegibile qualcosa di oscuro e di difficile comprensione. Lo “spiegare” consiste nello “svolgere, distendere ciò che era ripiegato o avviluppato, in modo che l’intera superficie risulti aperta e distesa, e visibile”, per cui il bravo insegnante rende chiaro ciò che era oscuro, liscio ciò che era ruvido e rasposo, semplice ciò che era complesso. Gli esempi poi arricchiscono la spiegazione di metafore, paragoni, rimandi, come tanti ganci o appigli che collegano e fissano l’argomento teorico alla realtà quotidiana e all’esperienza concreta degli studenti. 

Ma saper parlare, spiegare e fornire esempi rappresentano solo una parte del lavoro degli insegnanti, quello svolto ex cathedra, ammesso e non concesso che egli abbia la possibilità di farlo davanti all’intera classe seduta che ascolta in silenzio. Rappresentano abilità che in un concorso o esame possono essere testate perché “simulare una lezione su un argomento disciplinare” è una prova alla quale l’aspirante insegnante può essere sottoposto. In pratica la parte più difficile del lavoro docente è un’altra ed è quella che nel nostro paese non interessa, non viene approfondita né discussa. 

Il nostro professore, nel suo primo giorno di supplenza, aprirà la porta dell’aula per cominciare la sua prima lezione davanti ad una scolaresca. E’ il suo battesimo, il suo primo volo, e tutto quello che ha fatto o immaginato sino a quel momento si sta per scontrare con la realtà. La sua mente è piena di domande e subito si accorge che nessuno gli ha finora fornito possibili risposte: entro in classe e cosa faccio, come mi comporto? E’ come un attore che entra in scena per recitare e appena si è aperto il sipario si accorge che nessuno gli ha fornito il copione. L’unica cosa che conosce è il numero di ore di lezioni settimanali che dovrà svolgere in quella classe e in quali giorni. 

Il copione dove c’è scritto esattamente cosa dovrà dire e fare non esiste, per cui ogni professore recita a soggetto, deve improvvisare, e spesso capita che la prima cosa che inventa è quella di andare alla lavagna per scrivervi il proprio nome e cognome. Insomma, la prima comunicazione all’uditorio coincide con l’anagrafe. Il personaggio fornisce il suo nome, se vuole può aggiungere notizie sull’età e sul luogo di provenienza, ma quel che dirà in seguito deve ancora essere scritto o magari pensato. Abbiamo costruito la professione-docente sulla improvvisazione, prima di entrare in aula mai nessuno lo ha intrattenuto, per dire, sui 5 assiomi della comunicazione, sulla prossemica, sulle capacità relazionali.

Eppure nel mondo iperconnesso imparare a gestire la comunicazione è un mezzo fondamentale per stare al passo con tutto quello che ci circonda. Ma soprattutto è fondamentale per relazionarci con gli altri e vivere dei rapporti sani a livello lavorativo, famigliare, amicale o d’amore.  Esistono tanti tipi di comunicazione, dalla comunicazione aziendale, alla comunicazione sociale, a quella politica, istituzionale, digitale e affettiva. Come fare per gestire al meglio quella tra un adulto e un gruppo di studenti in una classe? Nella scuola italiana eccoindividuato l’argomento tabù, da sempre marginale, secondario, trascurato, come se fosse sconveniente oscandaloso. Di fatto non viene trattato se non in spazi specialistici, in qualche sporadico corso di aggiornamento.

E’ chiaro che con una voce sottile e bassa un docente ha obiettive difficoltà a parlare ad una classe, sarà costretto agridare e dopo un po’ sarà stanco di dover urlare per farsi sentire. Ma anche se avesse una bella voce suadente e forte e autorevole non è una passeggiata relazionarsi con 20 o più giovani irrequieti. 

Lo scrittore Marco Lodoli ha raccontato: “Ecco…lo schema che seguo anch’io, da tanti anni insegnante in una scuola di frontiera. Cerco di entrare con delicatezza nei problemi dei ragazzi, di capire cos’è che non va nei loro giorni, e di proporre lezioni un po’ diverse, magari mostrando un film o un quadro, facendo ascoltare una canzone che ha un testo particolare, allargando quanto possibile il discorso per non impantanarmi in uno stagno inerte, dove nessuno ascolta più nessuno. Qualche volta funziona, e allora mi sento come Robin Williams ne “L’attimo fuggente”, sento di aver dato una spallata all’indifferenza generale e di aver socchiuso o spalancato nuove porte. Ma a volte, invece, tutto questo non basta, il film della scuola non si chiude con un happy end struggente.(…) L’altro giorno cercavo di interessare un gruppo di ragazzi abbandonati agli ultimi banchi, di coinvolgerli in tutti i modi, ma sono stato bruciato dal commento di una sedicenne: “A professò, è inutile che insisti, ’ste cose non interessano nessuno, la cultura è ’nacosa pe vecchi”. Ahi, che coltellata al cuore! Ero sicuro che prima o poi li avrei conquistati, è invece no, per niente. E allora ho provato a chiedere: “Ma cos’è che a te interessa?”. E la sedicenne, apparentemente sicura di sé, mi ha risposto che a lei interessano gli amici della piazzetta, i vestiti, i soldi, la libertà di divertirsi e fare quello che vuole. Mi sono sentito una barchetta contro un incrociatore, ho percepito la debolezza della poesia, della bellezza, della sensibilità artistica contro lo strapotere di un mondo che gira attorno a valori completamente diversi, che attirano e poi respingono con brutalità”.

La lezione è un incontro tra persone e pertanto o scatta l’empatia oppure la relazione non s’instaura. Il meccanismo è complesso da analizzare perché la relazione tra due persone dopo poco tempo si può mettere a fuoco, le due parti si piaceranno oppure no, ma la relazione tra un prof e una classe di 25 alunni moltiplica le variabili. Il docente potrà ben presto essere accettato da tutti oppure essere respinto, ma tra questi due estremi ci sono molteplici situazioni intermedie. Potrà piacere ad una parte soltanto e potrà soprattutto piacere o non piacere ai leader del gruppo. Perché nei venticinque ci sono i sottogruppi e, naturalmente o forzosamente, i leader, i ragazzi/e che prevalgono, influenzano o comandano sugli altri, i seguaci. Il rapporto tra il docente e i leader ha una importanza fondamentale solo che il primo scoprirà col tempo (se mai ci riuscirà) quali siano gli influencer della classe, non è che lo trova già scritto sul registro di classe.

Talvolta il “capo” rimarrà invisibile e nascosto, una sorta di agente segreto che agisce nell’ombra senza esporsi più di tanto. Quando verrà scoperto magari avrà già provocato tutti i danni possibili mentre il gruppo dei docenti, che procede sempre separato e diviso, non si è accorto di nulla. Basta fare un sondaggio, se chiedete ai 12 insegnanti di unconsiglio di classe di indicarvi il leader più ascoltato degli studenti, riceverete 12 indicazioni diverse. Insomma, per insegnare le doti naturali di empatia e di socievolezza del docente risultano, in una ipotetica classifica, decisive edessenziali. Chiunque abbia praticato scuole e classi sa bene le difficoltà oggettive che insegnanti timidi, o chiusi, incontrano nel corso della loro attività. Professionisti di grande valore a causa del loro “carattere” e della propria “indole” si trovano spesso in serie difficoltà nel rapporto con i propri studenti. Facciamo il caso, per capirci, del tipico insegnante “orso”, definizione per indicare chi si mostra introverso nel comportamento, povero di parole e di commenti, poco propenso a far nuove conoscenze, magari abitudinario e, per sovraprezzo, poco disposto a ridere o far ridere, serioso. Già nel contesto familiare uno zio “orso” non attira grandi simpatie, figuriamoci in quello lavorativo.E immaginiamo una classe di sedicenni o tredicenni che non possono scambiare una parola scherzosa con il proprio insegnante, che non possono mai uscire dal seminato e dai binari, che devono essere sempre prevedibili e ripetitivi perché le modalità della lezioni sono ormai rituali.L’insegnante “orso” semplicemente non comunica, nel migliore dei casi ne viene riconosciuta la “buona fede” per cui lo si accetta senza però “parlarne bene”. Chi sta vicino all’orso non è contento, perchè i ragazzi a scuola sentono che con lui non c’è scambio affettivo. Insomma chi pensa di comunicare attraverso il semplice insegnamento della propria materia (mi pagano per questo) a scuola appare come un anaffettivo. 

L’insegnante che volesse impostare la sua relazione con la classe imitando quella che qualsiasi cliente ha con l’impiegato della posta o della banca, non considera il fattore tempo che regola le due diverse relazioni. Il docente che concepisce il suo lavoro alla stregua di un travet, per cui tra le sue mansioni non  prevede la relazione affettiva con colleghi e discenti, appare dimezzato, il calore essendo necessario in qualsiasi relazione umana significativa. Anche un impiegato se ci fa un sorriso durante una semplice operazione allo sportello che dura un minuto si contraddistingue rispetto al bancomat. Parlare in chat con un operatore su un sito della mia banca non può essere la stessa cosa che parlare a tu per tu con un impiegato della stessa banca. In presenza il calore della relazione deve esserci, perché l’incontro avviene tra due corpi, non in chat o scambiandosi una mail.

Un’ora di lezione presenta una sequenza formata da 5 stadio livelli, il primo e l’ultimo sono il saluto e il commiato. Ogni stadio influenza il successivo, per cui un docente deve capire subito che già attraverso il saluto iniziale la classe interagisce, che la modalità del suo saluto influenza la risposta dei discenti nel tentativo di trovare una relazione. La lezione comincia con l’arrivo in classe del docente e già gli alunni vengono informati del proprio carattere: è un tipo puntuale o un ritardatario? E’ preciso, ordinato, ben vestito, compìto, oppure appare arruffone, scombinato, distratto, inelegante? La comunicazione passa senza scambiarsi una sola parola, ci si capisce a vista, poi tra classe e docente si apre la fase del saluto. Una volta messo piede dentro l’aula cosa dice il prof, saluta gli studenti, e come? Se neppure saluta e si siede mettendosi subito a spulciare registro e carte o peggio maneggiando il cellulare, insomma se è entrato senza rivolgere uno sguardo agli alunni tutto preso dalle sue cose, la fisionomia del docente appare evidente. Il suo status si è rivelato, gli studenti li considera esseri inferiori neppur degni di essere salutati e la relazione instaurata assomiglia a quella con una maschera che ci fa entrare al cinema. E’ lui che deve salutare il cliente e non viceversa, così come è la classe che si alza in piedi (una volta accadeva) salutando il prof, il quale risponde se non è troppo preso dai suoi pensieri.

La domanda è dunque perchè gli effettivi processi sociali che avvengono in classe, la relazione docente-studenti con il suo rituale e le sue procedure, non vengano approfonditisino a considerarli fondamentali quanto la conoscenza disciplinare e per quali motivi in buona sostanza venga tutto relegato a mero “affare” privato dell’insegnante. La scuola ha tante regole ma il “comportamento” in classe dei docenti è affar loro. Le relazioni insegnanti-alunni non sono oggetto di studio e riflessione, la personalità del docente, il suo carattere, non interessano al “sistema”. Così come tutti siamo allenatori di calcio così tutti siamo in grado di insegnare in Italia.

(1. continua)