INVALSI, Rapporto nazionale

INVALSI, Rapporto nazionale. FLC CGIL: basta ipocrisia, la scuola ha bisogno di investimenti

Roma, 6 luglio – Il Rapporto sugli esiti delle prove Invalsi del 2022, pur con tutti i limiti di questo sistema di rilevamento, da noi sempre denunciati, fornisce l’ennesima fotografia avvilente della scuola italiana: il dato è preoccupante è che aumentano sensibilmente i divari territoriali, proprio mentre si torna assurdamente a discutere di autonomia differenziata.

Siamo di fronte ad una mancanza della politica, troppo impegnata ad evitare un vero investimento di risorse nella scuola.

E’ invece da ascrivere unicamente alla professionalità dei docenti e del personale scolastico il fatto che, nonostante i due anni di pandemia, i risultati non abbiano segnato globalmente un calo generale degli apprendimenti.  

Emerge una qualità media elevata del sistema scolastico, che ha fatto fronte a due anni di disagi solo grazie alla professionalità e alla generosità del personale scolastico tutto.

Dalla lettura del Rapporto restano confermate le nostre perplessità sulla definizione di dispersione implicita, cioè quel sistema di certificazione delle conoscenze che mette in discussione la valutazione individuale degli alunni di cui sono responsabili soltanto i docenti del consiglio di classe e del collegio docenti. La FLC CGIL rifiuta infatti l’idea che l’Invalsi certifichi le competenze dei singoli alunni, perché non rientra nelle sue competenze e soprattutto invade il campo della valutazione dei docenti, attività didattica molto più complessa di una semplice rilevazione estemporanea, generando confusione fra genitori e non addetti ai lavori. Peraltro la stessa idea che un ritardo negli apprendimenti sia equiparabile alla dispersione vera ha già fatto un grande danno nella distribuzione delle risorse del PNRR.

Piuttosto la politica si interroghi sulle differenze territoriali che mettono in discussione l’esigibilità e l’unitarietà del diritto allo studio sul territorio nazionale, e si interroghi partendo dalla modalità di gestione delle risorse: continua oggi a prevalere l’idea di associare alla diminuzione degli alunni una razionalizzazione del personale, quando in tempi difficili servono politiche espansive, serve poter aumentare il tempo scuola attraverso un aumento degli organici.

Il dato fornito dall’Invalsi deve far pensare in questa direzione: più organici, più tempo scuola, e invece, il Governo va nella direzione opposta.

Evitasse almeno l’ipocrisia dei commenti preoccupati e allarmati. La scuola si cambia con i giusti investimenti, non con la retorica sulla sua centralità.

Ius Sanguinis, Ius Soli, Ius Scholae: Ius

Ius Sanguinis, Ius Soli, Ius Scholae: Ius

di Maria Grazia Carnazzola

1. Per iniziare.

Ciò che l’uomo desidera veramente è la felicità, e la felicità non è sempre sinonimo di ricchezza. La vera felicità consiste nella considerazione di cui si gode verso gli altri, nella salute, nella libertà dai debiti e nel sentirsi a posto con la propria coscienza”.

Questa affermazione di Adam Smith, generalmente noto come il teorico del laissez- faire e del libero mercato, è contenuta in un articolo di Venkatesh Seshamani, professore di economia all’Università dello Zambia. Partendo dalla definizione di Smith, Seshamani ha delineato un concetto di sviluppo che sottolinea come l’attività umana sia volta essenzialmente al raggiungimento di due obiettivi: il reddito monetario e il reddito psichico. L’utilità del primo è determinata da quanto si possiede; quella del secondo dall’appagamento che si raggiunge con quanto si possiede. La crescita economica dipende dallo sviluppo scientifico, tecnologico e finanziario. La crescita del reddito psichico è legata all’affermarsi di valori morali ed etici che rimandano all’identità personale e culturale del gruppo di appartenenza e al rapporto con l’ambiente naturale e sociale.  Quanto appagamento psichico deriverà ai ragazzi figli di immigrati, nati in Italia o qui giunti prima dei 12 anni, dall’acquisizione della cittadinanza italiana- chiesta da un genitore- alla fine di un percorso scolastico quinquennale?  Non ho una risposta, ma alcune considerazioni di fondo andrebbero fatte. Siamo sicuri che tutti i ragazzi immigrati vorranno rimanere in Italia? Che ritengano la nostra civiltà e  i valori che la connotano- quella che si suol definire  cultura occidentale- essere   la migliore? Ma ancora prima sarebbe necessario definire quale sia il modello ispiratore del disegno di inclusione degli stranieri che sottende la proposta avanzata da una parte della politica. La scuola, la pubblica amministrazione, i servizi pubblici e assistenziali devono adottare criteri universali e trattare tutti i cittadini in base alle loro caratteristiche individuali, senza tener conto delle loro specificità legate a tradizione, religione, lingua, cultura? Non è una questione da niente. Se la cittadinanza può essere richiesta alla conclusione di un quinquennio di istruzione/ formazione, che cosa si insegna/impara in quel quinquennio diventa fondamentale. Sappiamo che i modelli europei che riguardano i percorsi di integrazione sono diversi- qui ricostruiti a posteriori sulla base delle politiche praticate-, se ne possono individuare tre: quello assimilazionista, quello pluralista, quello di istituzionalizzazione della precarietà. I primi due sono modelli a vocazione fondamentalmente inclusiva e chiamano in causa, in misura e con peso diverso, il rapporto democrazia/libertà: essere membri di una nazione è considerato un atto di volontà del singolo, di accettazione di contratti e di regole, di stili di vita e di valori. Può essere cittadino chiunque nasca nel territorio della nazione e voglia esserne parte (ius soli). In entrambi i modelli, che hanno ciascuno delle valenze positive, le relazioni di potere tendono però a rimanere occultate dall’esaltazione dei criteri di equità e di giustizia. Il terzo modello, che rimanda soprattutto alle politiche tedesche, considera gli immigrati ospiti temporanei e l’intervento dello Stato mira non all’assimilazione ma alla tutela della loro diversità, stabilizzandone la precarietà, curando l’integrazione nel mondo del lavoro ma non nella cultura.  Viene favorita ogni iniziativa finalizzata alla conservazione della lingua e della cultura d’origine, in attesa del probabile e auspicabile rientro nel paese di provenienza. Al di là dei modelli, la riflessione dovrebbe riguardare la possibilità di mantenere una distinzione tra sfera pubblica e sfera privata e ricercare quali siano le condizioni che rendono possibile la convivenza tra individui e gruppi sociali che hanno visioni del mondo, valori e tradizioni profondamente diverse. O, ancora,  cercare di stabilire se le pratiche e i valori sono da considerarsi parte integrante dell’identità personale- e pertanto garantite sospendendo alcune norme generali-  e se questo non si configuri  come un diverso trattamento dei cittadini di fronte alla legge, contraddicendo  i principi democratici, creando un divario tra il funzionamento della democrazia e i principi ispiratori, generando comportamenti di omologazione e conformismo piuttosto che comprensione e capacità di giudizio- fondamento di cittadinanza- negli individui. 

2. I bisogni, le culture, i simboli, le politiche.

Pare esserci un consenso diffuso sulla necessità di promuovere una maggiore inclusione degli immigrati nelle società europee, compresa la nostra, ed esistono strategie ed idee piuttosto diverse sul modi e sui tempi della sua realizzazione, ispirati a politiche che riflettono modelli e tradizioni culturali e giuridiche che rimandano a concezioni diverse di Nazione, di Stato, di cittadinanza, di diritto, del rapporto tra sfera pubblica e privata, tra libertà e responsabilità e tra libertà e democrazia.

Le migrazioni hanno interessato ogni epoca della storia umana, andando a volte dalle società più ricche alle terre da scoprire e colonizzare, altre volte in direzione contraria. Negli ultimi decenni, soprattutto a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, milioni di persone dalla periferia povera della terra o dalle zone di conflitto si spostano verso i paesi più sviluppati, accomunate dal desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita e quelle dei familiari che, eventualmente, rimangono nel Paese d’origine. L’incremento dei flussi, però, non si può spiegare senza chiamare in causa l’endemico bisogno di mano d’opera dei paesi occidentali, nei quali la stasi demografica ha causato un rapido invecchiamento della popolazione e dove c’è una diffusa indisponibilità per i lavori più gravosi e più umili e, forse, per il lavoro in genere. Il problema, allora, non riguarderà più la paura che la concorrenza degli stranieri ingenera in relazione ai beni (l’abitazione, il lavoro, i servizi), ma l’incertezza della possibilità di poter costruire forme di inclusione basate sul rispetto delle diversità, ma anche sul rispetto di regole e valori che fondano la convivenza civile di una nazione. Non si può però non considerare e non soffermarsi sulle implicazioni psicologiche che comporta l’abbandonare la propria casa, il proprio mondo per affrontare la vita in una terra straniera. L’emigrazione, anche quando le cose funzionano, è sempre una perdita, una ferita, per chi parte e per chi si lascia, una perdita individuale, ma anche sociale che impoverisce il Paese d’origine. Spesso è una perdita di capitale personale: basti pensare ai tanti laureati o diplomati che impastano cemento o fanno le pulizie nel nostro Paese. 

Spetta alla politica individuare forme di convivenza che favoriscano l’interazione culturale e la condivisione di valori civili, tenendo conto dell’incertezza, dei rischi, del problema della sicurezza che attraversano una società moderna, delle ambiguità e delle confusioni che ingenerano i concetti di Stato e di Nazione nella loro continua sovrapposizione. Cercando idee, e non limitandosi a rimestare nelle ideologie; pensando non solo alle prossime elezioni, ma cercando di risolvere i problemi anche se sono stati creati da altri, come diceva il sociologo Anthony Giddens. Non sarà possibile continuare a trattare l’immigrazione esclusivamente dal lato giuridico-amministrativo, senza raccordo alcuno con i paesi di provenienza. Senza un’adeguata politica di programmazione e di regolazione dei flussi migratori, non sarà possibile sostenerli economicamente e socialmente né da parte dei paesi d’origine né dei paesi d’arrivo.  L’unico modo per coniugare solidarietà e legalità, è fare in modo che quanti giungono nel nostro Paese e negli altri paesi ospitanti, trovino idonei percorsi di integrazione che generino senso di appartenenza a una comunità nazionale, immaginata e percepita come condivisione di un progetto comune e di rispetto di regole condivise, superando l’idea che la cittadinanza sia un fattore innato, legato alla discendenza e alla parentela (ius sanguinis). Così come il continuare a considerare i lavoratori immigrati e loro i figli- e i figli dei figli- degli ospiti può non permettere di rilevare gli effettivi processi e dinamiche sociali in atto, cancellando formalmente gli immigrati dalla vita sociale, politica e culturale del paese. Il fenomeno dell’immigrazione va governato e mediato, perché le soluzioni di facciata possono creare pesanti situazioni di rigetto.  È una questione complessa che richiede risposte complesse, a livelli diversi; politicamente si deve essere consapevoli che le idee iniziano il loro viaggio come eresie prima di diventare ortodosse, per governarne il percorso.

Ma forse il problema è proprio quello di pensare a un’idea di buona società, come sosteneva Z. Bauman, che non coincida con il pensare a crearsi una nicchia confortevole per sé, la propria famiglia, i propri sostenitori: quando si pensa di essere l’alternativa in persona, non serve pensare a una società alternativa, più equa e rispettosa delle differenze e delle diversità e per ciò stesso inclusiva. In situazioni come questa, le dichiarazioni e le polarizzazioni giocate più sui media e sui social che nelle sedi deputate non servono a dare un significato a ciò che viene proposto, né fittizio né tantomeno autentico; servono però a liberare la testa di chi ascolta dalle domande sul senso delle proposte.

Le leggi le fa il Parlamento, è vero, ma i politici dovrebbero confrontarsi con la base perché i problemi riguardano i cittadini e la loro vita ai vari livelli. Non è facile quando, come da noi, i politici sono nominati dai partiti e non eletti; manca il dialogo diretto con gli elettori dei territori di riferimento e non si conoscono le evidenze delle difficoltà.  Ci sono poi le leggi sbagliate che dovrebbero portare non tanto a recriminare, ma a pensare a quante idee sono state trascurate, ridicolizzate e respinte perché serviva un cambiamento urgente, un’innovazione per contrastare le insicurezze del presente e l’inconsapevolezza del futuro; o più prosaicamente per motivi elettorali. La questione dei diritti delle persone viene usata in maniera selettiva per interessi di parte e di partito, ma un valore, quando è imposto, non ha alcun valore.

3. La scuola e la cittadinanza.  

La scuola ha una grossa responsabilità nei confronti delle giovani generazioni: contribuire allo sviluppo delle competenze adottando la realtà come oggetto di studio e come spazio di prova di quanto appreso, assumendo come elemento di analisi, di scoperta, di confronto e di valutazione -per scelte ragionate- la realtà complessa e densa di problematicità. Ma per educare-formare-istruire persone consapevoli della complessità e del senso del limite, occorre “costruire” la conoscenza come strumento di orientamento ad uno stile di vita sostenibile per un futuro possibile.  Questo riporta al centro il rapporto tra saperi disciplinari, saperi trasversali, atteggiamenti e competenze per la promozione del pensiero critico-argomentativo che può essere esercitato solo attraverso il confronto: la verità non sta mai da una parte sola, le ragioni sono sempre molte e non sempre sono conciliabili, i contrasti non sono sempre componibili. Ma il contrasto non è violenza e lo si può gestire scegliendo da che parte stare, sapendo che ogni scelta non è mai la sola ad essere quella giusta: dipende dal punto di osservazione e dagli interessi in gioco, dai valori etici di riferimento, dal futuro che vorremmo.  Su questo si fonda la democrazia e la scuola dovrebbe insegnarlo. A tutti. 

L’educazione è prodotto e un fattore della società indicava Edgar Faure- moltissimi anni fa- nel suo Rapporto sulle prospettive della scuola che, con qualche licenza e qualche aggiustamento, possiamo riprendere:

  • innalzare i livelli di istruzione e le competenze di tutti gli allievi;
  • contrastare le disuguaglianze socioculturali e la dispersione scolastica;
  • educare alla cittadinanza attiva;
  • garantire il diritto allo studio riequilibrando le opportunità di successo.

Sono traguardi che la scuola persegue da molto, se ne trova traccia in molti documenti, con formulazioni diverse.  Il problema della dispersione scolastica, ad esempio, è stato al centro di progetti, gruppi di lavoro, iniziative nazionali ed europee senza troppi risultati, a partire dal progetto originario Di.Sco nel 1987.  La dispersione non è un evento patologico ma fisiologico, in un sistema scolastico in cui manca la cultura degli esiti e della valorizzazione flessibile delle risorse, per riequilibrare le opportunità di successo degli studenti e contrastare i fenomeni di sotto-apprendimento sempre più diffusi. Basta guardare gli esiti degli esami di Stato, quando non falsati dall’indulgenza docimologica, o agli esiti delle prove Ocse-Pisa che mettono in evidenza da più di un ventennio i risultati inadeguati della scuola italiana. Come si conciliano questi, che sono dati ed evidenze, con l’ipotesi dello ius scholae? Abbiamo dimenticato i problemi (alcuni mai risolti) e i percorsi legati all’accoglienza degli alunni stranieri che le scuole hanno attuato a partire dal decennio 1980/90.  Pare non si abbia più contezza della differenza che esiste tra l’italiano per parlare e per studiare, tra parole basse (i nomi delle cose) e parole alte (i concetti), tra imparare l’italiano e imparare in italiano.  Solo la capacità di comprendere un testo scritto dà veramente l’autonomia di azione e di pensiero che è alla base della cittadinanza attiva; ricordiamoci che leggere significa legare, radice lg da logos, non è compitare. Lo si può fare in cinque anni? Il concetto di libertà è connesso più al concetto di autonomia che a quello di uguaglianza: è l’autonomia che permette di scegliere veramente.   L’ambiguità delle politiche scolastiche del nostro Paese si manifesta ancora una volta, così come si ripropone la modalità di demandare alla scuola i problemi che la politica non riesce non solo a risolvere, ma neppure ad analizzare compiutamente. È successo, spesso a partire dagli anni 1990, con l ’educazione alla salute, all’ambiente, alla democrazia e ai diritti umani, alla cittadinanza europea, alla pace, l’educazione stradale, l’educazione di genere…e più recentemente con il bullismo, il cyber-bullismo, l’educazione sessuale, alla sicurezza… senza una visione generale e sistemica, il rischio dell’ingorgo e del disorientamento dei docenti è inevitabile e I risultati sono gli occhi di tutti.  Sono indubbiamente tutte cose importanti, ma non ci sono altre agenzie educative?  La politica continua a credere che l’azione scolastica si possa estendere alla maggior parte delle esperienze cognitive, affettive e relazionali degli alunni, italiani e stranieri, senza considerare che, ormai da qualche decennio, il contesto socio-culturale delle giovani generazioni presenta percorsi formativi diversificati e fruibili senza mediazione alcuna da parte della scuola e spesso della famiglia. Si fa un gran parlare di tecnologie e di digitalizzazione e si dimentica che con questi strumenti si sviluppano simultaneamente appartenenze a mondi diversi con identità diverse. E che dire dei diritti/doveri del cittadino. Ufficialmente sono entrati nella scuola nel 1958 con l’introduzione dell’educazione civica ad opera di Aldo Moro. Poi sono cambiati gli scenari e le etichette, sottolineando di volta in volta, a seconda dell’urgenza sociale e sotto la spinta emozionale, l’aspetto della legalità, della responsabilità … …fino al rilancio dei temi costituzionali e civili.  Quale sarà la richiesta ora?

4. Cinque anni di scuola: bastano?

E perché proprio cinque. Crediamo davvero che cinque anni di scuola permettano di acquisire minimi strumenti per sostenere una solida identità personale e sociale- che sappiamo essere in continua evoluzione in relazione ai contesti di esperienza e alle scelte praticate- in un mondo complesso come l’attuale e diventare cittadino consapevole? Se la risposta è sì, è perchè qualcuno ha già pensato al lavoro che potrebbero fare questi ragazzi e al posto che dovrebbero occupare nella società, a un futuro costruito per loro e non da loro. Non ci hanno insegnato niente i francesi delle banlieues: le nuove generazioni si stanno adattando, ad esempio, a una situazione di precarietà professionale per cui il lavoro non è più un riferimento solido per definirsi socialmente, così come non lo sono più alcuni aspetti della cultura di provenienza che hanno perso i contorni stabili e definiti.  

In questi giorni molte vere o presunte autorità (mezzi di informazione, intellettuali, leader politici, associazioni…) si sono espressi sulla proposta relativa allo ius scholae, anche la Cei. Non stupisce se si considera che proprio sul piano della sfera religiosa si pongono le discussioni più partecipate sul tema del riconoscimento della differenza e delle sue implicazioni sul piano della politica e delle relazioni con gli altri. Stupisce, per contro, il silenzio del Ministero dell’Istruzione. Forse si pensa, forzando un po’ D. Dennet, che la qualità e la bontà di una norma si valuti dalle conseguenze. Quindi si può aspettare. I bambini e i ragazzi stranieri e non, che frequentano oggi le nostre scuole e che saranno gli adulti di domani, quali strumenti di pensiero e quali tecnologie dovranno saper utilizzare, quali codici e linguaggi e quali sistemi di padronanza dovranno possedere per cercare di governare i cambiamenti graduali o improvvisi? Dovranno certamente affrontare situazioni impreviste e imprevedibili, gestire una grande quantità di dati e di informazioni che non diranno loro niente se non sapranno analizzarli, collegarli, valutarli, contestualizzarli per continuare a conservare la propria “umanità”. Essere uomo dentro l’esistenza significa anche riconoscere che identità e cultura sono strutturalmente connesse e che i cambiamenti sono parte della cultura. Cultura che conserva l’identità umana nei suoi tratti specifici e le identità sociali nelle loro connotazioni peculiari, sostiene E. Morin, ma sostiene anche che bisogna “cambiare strada” per diventare consapevoli della comunità di destino di tutti gli umani, per rigenerare la politica nel suo significato più profondo e consentire la conservazione del pianeta e della specie umana. Tutto quello che facciamo tocca la vita degli altri e viceversa. G.H. Mead  scriveva “Io sono quello che viene dal mio pensiero, quello che sono veramente, quello che è autentico….a questo io che viene dall’interno si aggiunge dall’esterno il Me, quello che le persone intorno a me pensano di me, come mi vedono, come credono che io sia in realtà”.  Dovremmo tenerlo bene a mente per poterlo praticare e insegnare. 

5. Per concludere.

Il PNRR e RiGenerazione Scuola- Piano di transizione ecologica e culturale delle scuole- pensato nell’ambito dell’attuazione dell’Agenda 2030, fanno riferimento a questi aspetti, ma toccherà alle scuole, a ciascuna scuola, costruire un progetto culturale da realizzare- utilizzando gli ambienti, i contenuti e metodi che si affrontano- spingendo verso il massimo per le padronanze, in modo da consentire a ciascuno, quale che sia la sua cittadinanza, di sviluppare e di utilizzare quanto appreso, nelle dimensioni metacognitiva e ideativoimmaginativa. Solo così si riesce ad attribuire significato e senso a ciò che si impara è si è imparato a conoscere, a fare e a come e perché fare; si riesce a prevedere e a prefigurare verso dove orientare o ricollocare le esperienze di conoscenza e di apprendimento. Di questo si tratta quando si fa riferimento alla personalizzazione dello sviluppo dei propri potenziali, che la nostra cittadinanza sia italiana o no.  E ancora di questo si tratta quando si parla degli “apprendimenti significativi” di D. Ausubel che possono essere letti come il prodotto dell’interazione che allievi e docenti mettono in campo nell’identificare e risolvere un qualsiasi problema che riguardi i diritti e i doveri di ciascuno; è il diritto alla conoscenza che fonda la consapevolezza, perché la richiesta di una cittadinanza è una scelta esistenziale, quindi non può essere che personale.

RIFERIMENTI

  • Ausubel, D. P. (1991). Educazione e processi cognitivi. Franco Angeli.
  • Bauman Z., (2006). Stranieri alle porte, Laterza.
  • Bauman Z., (2006). La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli.
  • Bruner, J.S., (1997). La cultura dell’educazione: nuovi orizzonti per la scuola. Feltrinelli
  • Colombo E., (2002). Le società multiculturali, Carocci.
  • Dennet D., Caruso G., (2022). A ognuno quel che si merita- Sul libero arbitrio, Raffaello Cortina.
  • Faure E., (1973). Rapporto sulle strategie dell’educazione, Armando-Unesco.
  • Giddens A., (2000). Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Il Mulino.
  • Morin, E., (2001). I sette saperi necessari all’educazione del futuro. Raffaello Cortina. 
  • Morin, E., (2020). Cambiamo strada- Le 15 lezioni del coronavirus. Raffaello Cortina.
  • Seshamani V., (2002). in La globalizzazione vista dal sud del mondo, Laterza.

Avviso 6 luglio 2022, AOODPIT 1664

Ministero dell’Istruzione
FONDO ASILO, MIGRAZIONE E INTEGRAZIONE 2014 – 2020 Obiettivo specifico 1 Asilo – Obiettivo Nazionale 2 Accoglienza/Asilo PROG-3823 “Piano estate minori stranieri 2022”
Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e di formazione Direzione Generale per lo Studente, l’Inclusione e l’Orientamento scolastico

CUP: B51I22000700007

Individuazione di istituzioni scolastiche per la realizzazione di percorsi didattico/educativi destinati ad alunni provenienti da contesti migratori, con particolare riferimento agli alunni provenienti dall’ucraina, nella fascia di età 0-14 anni, da svolgersi nel periodo estivo. Progetto fami 3823 “Piano estate stranieri 2022” obiettivo specifico 1 asilo – obiettivo nazionale 2 accoglienza/asilo lett. C) qualificazione del sistema di 1a e 2a accoglienza

Rapporto INVALSI 2022

Il 6 luglio 2022, dalle ore 10.30, l’INVALSI presenta il Rapporto delle rilevazioni sugli apprendimenti condotte nel periodo marzo – maggio 2022 nelle scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado, con riferimento agli esiti delle classi campione.

“I dati delle rilevazioni INVALSI che sono stati presentati oggi dimostrano che c’è stata una fase di ripresa dopo gli anni più duri della pandemia e che la scelta di riprendere la scuola in presenza è stata giusta, ha permesso di contenere il calo delle competenze delle studentesse e degli studenti e in molte situazioni proprio di invertire la rotta”. Così il Ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, intervenendo questa mattina alla presentazione dei risultati delle prove INVALSI 2022, che si è tenuta all’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma.

“Dobbiamo ricordare, però, un aspetto: sulla scuola si riverberano questioni che riguardano l’intero Paese, i divari tra Nord e Sud, tra centro e periferie. Dalla scuola possiamo e dobbiamo partire per ricucire le fratture e rimuovere le distanze, ma occorre rispondere a problematiche così articolate con una gamma strutturata di strumenti e interventi che coinvolgono diversi settori e richiedono responsabilità condivise. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è una risorsa, un’occasione per costruire una nuova scuola, che rispetti le autonomie, ma che sia eguale e di pari opportunità in tutti i territori italiani”, ha concluso il Ministro.

I materiali di approfondimento sulle rilevazioni nazionali

INVALSI: https://invalsi-areaprove.cineca.it/index.php?get=static&pag=materiale_approfondimento

Il video della presentazione: https://www.youtube.com/watch?v=5eBZLmKcVo0