Scuola del merito e qualità dell’insegnamento (1)
Francesco G. Nuzzaci
1. Il merito: dove, come e perché
Si è ironizzato sulla nuova denominazione di Ministero dell’Istruzione e del Merito (e perché allora – si è detto – non dell’Equità, o della Prosperità?); e soprattutto si è ferocemente polemizzato. È però legittimo che una coalizione votata dal Popolo Sovrano voglia con immediatezza caratterizzare il proprio programma all’insegna di un vocabolo, che con altrettanta immediatezza ha fatto venire l’orticaria ai pronti a replicare il mantra del “merito come forma di esclusione sociale, tipico del pensiero liberista neoconservatore e autoritario (1).
Certamente, il merito sconta questo peccato originale, che si trascina da sempre, siccome declinato in chiave di esasperata competitività individualistica, così che “parrebbe contraddire quel principio di uguaglianza che, scolpito nell’articolo 3, rappresenta uno dei pilastri sui quali si regge il sistema costituzionale” (2). Ma è, per l’appunto, solo apparenza; poiché la valorizzazione del merito è l’antidoto, ivi prescritto, di cui dispone la scuola (e nella misura in cui può disporne) a una società classista giustificativa delle diseguaglianze o – e non è men peggio – a una società appiattita sull’ignoranza.
Nella Carta fondamentale della Repubblica Italiana, all’articolo 34, primo comma, si afferma che la scuola è, intanto, aperta a tutti e l’istruzione ivi impartita è obbligatoria e gratuita per almeno otto anni (poi, com’è noto, portati a dieci dalla successiva legislazione ordinaria, che vi ha aggiunto l’obbligo formativo con il conseguimento di almeno una qualifica di durata triennale entro il diciottesimo anno d’età).
E la più attenta dottrina (3) ha, meritoriamente, colto da tempo la novità di un principio – la scuola è aperta a tutti – che non poteva limitarsi a una mera riproposizione della normativa preesistente, che in sostanza – ad una sua prima interpretazione – riduceva il diritto all’istruzione a mero diritto ad essere accolti nella scuola una volta che questa fosse stata istituita e che, tutt’al più, ammetteva misure di assistenza scolastica per facilitare la sola istruzione obbligatoria ai meno abbienti. In realtà l’articolo 34 andava – e va – letto congiuntamente al contenuto dell’articolo 3, posto nei Principi Fondamentali, laddove, dopo aver sancito l’eguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini, “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, prosegue attribuendo anche alla scuola, quale articolazione della Repubblica e per quanto di propria competenza, il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale impeditivi la realizzazione del “pieno sviluppo della persona umana”: può dirsi, con un’espressione di sintesi, il suo diritto di cittadinanza attiva o, meglio, di cittadinanza sociale, implicante anche il dovere – a mente dell’articolo 4, comma 2 – “di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (4).
Trattasi, dunque, del diritto a un’istruzione di qualità generalizzata, perciò inclusiva; che, investendo tutti, comprende “gli inabili ed i minorati” (art. 38), oggi ed estensivamente i soggetti con bisogni educativi speciali e per i quali, in più, si richiedono ulteriori misure compensative e di supporto nel quadro di una discriminazione positiva o di un’uguaglianza sostanziale.
Se l’incipit dell’articolo 34 è governato dall’universalismo del sistema dell’istruzione inferiore, gratuita e aperta a tutti, il successivo secondo comma disegna un percorso più articolato riguardo l’istruzione superiore, per principio parimenti un diritto di tutti (nel senso che non devono costituire impedimento gli ostacoli di ordine economico e/o sociale), ma garantita solo ai – congiuntamente – capaci e meritevoli; che, se privi di mezzi, sono sostenuti, a mente del comma 3, con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso. È, questa, una restrizione imposta dal limite degli investimenti pubblici, che attingono dalla tassazione generale (5); ma è da ritenere che dipenda non meno dal fatto che i titoli di studio rilasciati hanno valore legale, a significare certezza legale del possesso, da parte dei titolari, di determinate conoscenze (e competenze) professionali in conformità agli standard fissati dall’ordinamento, a tutela della fede pubblica (6).
Può allora conclusivamente qui affermarsi che il merito a scuola è rappresentato dal saper condurre a termine una sfida con sé stesso, calcolata sulle proprie potenzialità, sfruttando tutte le risorse rese disponibili. Ovvero, “meritare significa, per tutti, perseguire efficacemente il proprio obiettivo di vita sin dalle prime fasi dell’età evolutiva, in un ambiente di apprendimento che usa lo strumento della valorizzazione come premio atto a rinforzare la conoscenza e la sicurezza di sé” (7). E il suo riconoscimento è ancor più prezioso per chi “sconfiggendo un destino avverso che sembrava già scritto, riesce a costruire qualcosa di rilevante, grazie a impegno, perseveranza, coraggio, spirito di sacrificio” (8).
Peraltro, se nella scuola ha un ruolo elettivo, nel significato dianzi riassunto, il merito va oltre la scuola, ponendosi come principio e valore in tutti i luoghi in cui ogni soggetto, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, svolge la sua personalità e nel contempo onora il richiesto adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2 Cost.). Così, “per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” si può essere nominati senatori a vita (art. 59); è per concorso che si selezionano le competenze per accedere agli impieghi nella pubbliche amministrazioni, salvi i casi stabiliti dalla legge (art. 97); è “per meriti insigni” che professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno quindici anni di esercizio della professione e iscritti negli albi speciali possono essere chiamati all’ufficio di consigliere di Cassazione (art. 106).
2. Il merito del ministro Valditara
Ai principi costituzionali testé riassunti si è espressamente richiamato il neo-ministro Valditara, anticipando alla stampa (9) come intende il merito e poi illustrando il suo pensiero con maggior compiutezza nelle linee programmatiche del Dicastero davanti le apposite commissioni parlamentari riunite di Camere e Senato il 30 novembre u.s.
Favorire il merito – ha affermato – significa assicurare alle scuole infrastrutture e dotazioni di qualità, valorizzare gli operatori scolastici, sintonizzarsi con il mondo del lavoro, agire sulle competenze, fornire a tutti gli strumenti per sviluppare un percorso di crescita individuale e collettiva. Si lavorerà pertanto per una scuola che torni ad essere un vero ascensore sociale e che non lasci indietro nessuno, stimolando i talenti che ogni ragazzo possiede, non deprimendone le potenzialità.
Oggi – ha proseguito – la scuola è classista, non è la scuola dell’uguaglianza, con una dispersione del 12,7%, che sale al 20% se vi si aggiunge la dispersione implicita. E non è scuola dell’uguaglianza perché non è scuola del merito. Dovrà quindi essere assicurata una più incisiva personalizzazione dei piani di studio, anche con un’articolazione della funzione docente, che consenta di coltivare le potenzialità di tutti, sostenendo chi è in difficoltà e alimentando le capacità dei più bravi.
Dovrà, ancora, attuarsi un orientamento sistematico per famiglie e studenti, che fornisca informazioni per effettuare scelte consapevoli dopo la scuola media, al riguardo occorrendo potenziare l’istruzione tecnico-professionale, che va costruita in filiera con gli ITS, di pari dignità con l’istruzione liceale e su solide competenze di base, rafforzando le materie caratterizzanti, con più investimenti per laboratori e in sinergia con il mondo delle imprese.
3. La qualità dell’insegnamento
È già attingibile per mero intuito che edifici scolastici sicuri e funzionali ad approcci didattici plurimi e innovativi, con infrastrutture e dotazioni adeguate, dispiegano effetti non irrilevanti sulle prestazioni e sui risultati degli apprendimenti. E qui potranno sovvenire le ingenti risorse del PNRR ereditate dal nuovo Governo (che si aggiungono alle disponibilità dei fondi europei REACT-EU e a quelle del Piano nazionale per gli investimenti complementari), relative alla costruzione di nuove scuole e/o di sostituzione di edifici vetusti e/o costruiti in funzione della sola didattica di aula ovvero della classica e uniforme lezione frontale, nonché alla costruzione di asili nido, scuole dell’infanzia, oltre all’estensione del tempo pieno e mense: luoghi di stimolo e cura dei talenti sin dall’età prescolare, che ogni persona possiede come doti innate, casualmente distribuite da madre natura, ma spesso obnubilati da una passione nascosta o da un’inclinazione sopita. E lo stesso vale per i già previsti investimenti per lo sviluppo del sistema di formazione professionale terziaria (ITS), unitamente alla riforma degli istituti tecnici e professionali, sì da riscattarli dalla comune opinione di essere scelte di risulta e/o rifugio per chi proprio non ce la fa.
Ed èparimentifuori discussione l’incidenza che sul merito hanno le condizioni familiari, così come è indubbio il peso del contesto socio-economico-culturale in cui le istituzioni scolastiche operano, come ripetutamente posto in luce da studi e indagini sia nazionali che internazionali (10).
3.1. Proprio per contrastare e/o per mitigare gli effetti delle condizioni familiari e dei contesti socio-economico-culturali, resta preponderante la qualità dell’insegnamento: di un insegnamento professionalmente organizzato, inteso come “esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura, di contributo all’elaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tale processo e alla formazione umana e critica della loro personalità” (art. 395, D. Lgs. 297/1994, Testo unico della scuola, rubricato Funzione docente). E che dunque va imprescindibilmente fondato sulle discipline di studio, nelle quali è strutturato/formalizzato il sapere prodotto dalle passate generazioni e quello riveniente dalla sua evoluzione: discipline di studio che possiedono una componente hard o una materia (conoscenze, nozioni o contenuti in senso lato), che va trasmessa nei modi e nei termini esigiti dal differente grado di maturità dei discenti e dalle loro specifiche caratteristiche (11); ma hanno altresì una componente soft, cioè l’insieme delle peculiari norme fondanti e costitutive (premessa necessaria per la didattica specifica), quali l’area di competenza (la c.d. specializzazione), l’oggetto d’indagine (documenti, reperti archeologici, ovvero un costrutto mentale più o meno ampio ma pur sempre circoscritto e/o precisato da un determinato angolo visuale) e infine il linguaggio tecnico quale garanzia di rigore nella comunicazione intersoggettiva e quindi di costruzione-ricostruzione-sviluppo della conoscenza. Ed è la pratica di questa seconda dimensione che consente di favorire processi di elaborazione critica, da coltivare sin dai primi passi a scuola, sebbene – anche qui – considerandosi le modalità d’intervento in relazione al grado di maturità degli allievi.
Questo doppio e inscindibile paradigma connota chiaramente sia le Indicazioni nazionali per il primo ciclo e per i licei che le Linee guida per gli istituti tecnici e gli istituti professionali, ma l’effettiva pratica dell’insegnamento continua ad essere schiacciata sulle materie di studio, vieppiù che a mano a mano si sale verso i livelli superiori, con la prevalenza della lezione frontale rivolta indistintamente all’intera classe, presunta omogenea, e con cui vengono trasmessi enciclopedici contenuti, nozioni, saperi cristallizzati, destoricizzati, decontestualizzati, secondo la vecchia logica degli abrogati Programmi di studio.
Il risultato è che da anni l’Italia, tranne per la scuola primaria, permane nei livelli più bassi degli apprendimenti rispetto ai partner europei, come testimoniato dalle prove INVALSI e da tutte le più accreditate indagini internazionali. A meno che non si vogliano chiudere gli occhi e/o continuare a disquisire sull’inidoneità degli afferenti strumenti impiegati nel coglierne le complessità.
Sicché s’impongono dei correttivi verso direzioni, peraltro da tempo già tracciate, di contrasto al nozionismo-enciclopedismo con l’incessante prolificazione delle materie di studio. Sappiamo che in tutta Europa, non meno che in Italia, è generalmente acquisito che la dimensione informativa (e addestrativa) la si soddisfa di più e meglio nel variegato extrascuola. In una società articolata, differenziata, tecnologicamente avanzata, con pervasiva dominanza della multimedialità e dell’informatizzazione, la scuola deve piuttosto educare a criticare le informazioni apprese e le abilità acquisite. Dunque non una scuola caleidoscopica, ma snella, in cui si discutono bene, ma con rigore e profondità, poche cose, per poche ore al giorno. Il resto è opzionalità, è luogo degli apprendimenti non formali ed informali, è lifelong learning … col supporto di sistemi di certificazioni capitalizzabili. Per cui dovrebbe puntarsi sui contenuti essenziali, sui nuclei fondanti, che liberino spazi per agire le conoscenze, per trasformarle (in un processo di interiorizzazione) in competenze (trasferibilità delle loro valenze in altri campi), per integrarle in capacità (che si colgono sul soggetto in azione, nell’ hic et nunc, compendiandosi, ancora e sempre, nella triade sapere-saper fare-saper essere). Si tratta di scegliere alcune cose bene e a fondo, accompagnandole con un processo di verifica-valutazione (e certificazione).
Sposiamo quindi la dichiarata volontà del ministro dell’Istruzione e del Merito di volersi muovere secondo questa – e tutt’altro che nuova – logica, con una più incisiva personalizzazione dei piani di studio che consenta di coltivare le potenzialità che ciascuno possiede, sostenendosi chi è in difficoltà ma anche valorizzandosi al massimo le capacità dei più dotati. Si tratta di rafforzare – ma per tutte le tipologie e gli indirizzi di studio, non solo per l’istruzione tecnica e professionale – le materie (recte: discipline) fondamentali e caratterizzanti e lasciando un ampio ventaglio alle opzionalità definite nel curricolo nazionale e integrate dalle istituzioni scolastiche, singole o in rete, nell’esercizio della loro autonomia funzionale.
3.2. Se la scuola del merito, in armonia con la lettera e lo spirito della Costituzione, vuole “coltivare le potenzialità che ciascuno possiede, sostenendo chi è in difficoltà ma anche valorizzando al massimo le capacità dei più dotati”, dovrà di conseguenza essere, come suol dirsi, learning centered e non teaching centered.
Ilprimato – se di primato vuol parlarsi – è allora quello dell’apprendimento, con l’insegnamento in funzione servente: se la conclamata centralità dello studente non vuol restare un semplice slogan.
L’apprendimento, comunemente inteso come modificazione stabile del comportamento in seguito a input provenienti dal mondo esterno, importa – è noto – un processo attivo di costruzione di conoscenze, abilità, atteggiamenti, in un necessario contesto di interazione sociale (implicito o esplicito), che quindi coinvolge la persona nella totalità delle sue dimensioni: cognitiva, affettivo-emozionale, relazionale-sociale. Deve allora l’insegnamento favorire la progressiva scoperta e l’acquisizione di strategie di studio adeguate, l’utilizzo di nozioni apprese in contesti diversi da quello scolastico, l’uso sempre più mirato e affinato di procedure e metodi (che attengono a una disciplina o a campi disciplinari) per organizzare o vedere l’esperienza secondo plurime e/o nuove prospettive.
Sul come si apprende, invece, le risposte non sono univoche, perché diverse sono le teorie che si contendono il campo, frutto di ricerche empiriche in ambito psicologico, poi tradotte in complessi dispositivi pedagogico-didattici nella configurazione di onnicomprensive teorie dell’istruzione, che fondamentalmente si compendiano in tre modelli (al loro interno articolati in variegate sfaccettature), di matrice comportamentista e neo-comportamentista, di matrice cognitivista, infine definibili olistici (in seguito alle ricerche, sempre più accurate e approfondite, sulla mente umana ad opera delle neuroscienze, della cibernetica, delle intelligenze artificiali; nonché in conseguenza dello studio dei meccanismi affettivo-emozionali per l’innanzi un po’ trascurati) che si concentrano sul pensiero modulare, visto come un reticolo dai molteplici e complessi nodi e attorno ai quali l’apprendimento si organizza secondo mappe concettuali sulla base del vissuto, delle conoscenze e preferenze pregresse, in modo simultaneo e sincronico più che lineare-sequenziale-diacronico (su cui si struttura e in cui si risolve la tradizionale lezione).
Un insegnamento esperto, consapevolmente organizzato (e controllato), si avvarrà così di una loro sapiente combinazione a seconda delle circostanze; e sarà fatto oggetto di riflessione condivisa tra gli stessi soggetti professionali al fine di ri-orientarlo sui canoni di una (ritenuta) efficacia e sempre salva sua verifica, atteso che il nesso insegnamento-apprendimento non è causale bensì probabilistico poiché inciso dalle tante variabili che non sono nella disponibilità della scuola. Ed è una verifica da svolgersi sistematicamente nel quadro delle regole concordate, poste, formalizzate negli appositi luoghi istituzionali; costituenti il perimetro entro cui ogni docente dovrà esercitare la sua discrezionalità tecnico-professionale: la famosa libertà d’insegnamento, che non può essere intesa e agita in senso individualistico, se non anarcoide, sciolta da qualsivoglia vincolo che non sia la propria scienza e coscienza.
Può così rendersi il dovuto plauso alla dichiarata intenzione del ministro Valditara di potenziare il nuovo percorso di accesso alla professione docente, che prevede laurea magistrale, sessanta crediti formativi inerenti l’ambito socio-psico-pedagogico, tirocinio con prova finale abilitante e concorso, seguiti da percorsi di formazione permanente-strutturale-obbligatoria.
3.3. Per valorizzare il merito occorre che esso sia stimolato e riconosciuto: ciò è a dire fatto oggetto di apprezzamento, quindi che deve essere valutato.
È pacificamente acquisito che fino alla metà degli anni Settanta del secolo scorso la valutazione degli apprendimenti (se non la valutazione tout court) è stata solo valutazione del profitto dello studente, sintetizzato nel voto a scala decimale, con conseguente alto tasso di soggettività e quindi di precario significato scientifico, cui si sono aggiunte in progresso di tempo la valutazione dei comportamenti – non più riduttivamente intesa come il vecchio voto di condotta – e infine la certificazione delle competenze. Con i decreti delegati del 1974, introduttivi della programmazione educativa e, più ancora, con la legge 517/1977 nel punto in cui promuove l’insegnamento individualizzato, appare sulla scena la valutazione formativa, non preordinata alla semplice espressione di un giudizio finale o sommativo, bensì quale strumento, diagnostico e prognostico, per aggiustamenti in itinere del percorso, che quindi diviene plurale e flessibile, consentendo di migliorare-integrare-affinare la valutazione sommativa e che affianca alle prove aperte tradizionali (i compiti in classe, le interrogazioni …) quelle strutturate e quelle semistrutturate oltre che l’utilizzo di griglie di osservazioni et similia.
Il che significa che la valutazione formativa, pur se prima facie sembra riguardare l’alunno/studente, in realtà è funzionale a una continua progettazione e ri-progettazione di un insegnamento efficace ed inclusivo o, per riprendere i termini figuranti nel Regolamento dell’autonomia (art. 1, comma 2, D.P.R. 275/1999), alla “progettazione e realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento”. E difatti le stesse periodiche rilevazioni dell’INVALSI – che continuano assurdamente ad essere demonizzate da cospicue parti dei sindacati della scuola – hanno ex lege lo scopo di fornire alle istituzioni scolastiche elementi conoscitivi a che lavorino sui punti di debolezza rivelati dagli alunni e sui loro punti di forza per ulteriormente migliorarli e valorizzarli anche in funzione del loro futuro orientamento: detto diversamente, rappresentano uno stimolo aggiuntivo offerto da un occhio esterno per progettare e ri-progettare l’insegnamento nel segno della sua qualità.
Ne riviene, per coerente conseguenza, che oltre agli alunni/studenti vanno valutati i docenti (così come tutte le figure professionali della scuola, i dirigenti per primi, ma di cui qui non potremo occuparci). Ovvero, il merito riguarda anche loro.
Quella dei docenti permane, però, a tutt’oggi una valutazione impossibile, osteggiata dai soliti replicanti il coriaceo mantra che “non hanno bisogno di essere valutati attraverso opinioni altrui. Il docente si autovaluta nel momento in cui entra in classe e stabilisce un rapporto empatico con i propri alunni, ai quali apre la mente, li stimola a un tipo di sapere critico e li rende liberi” (12): mirabile esempio di quello che la logica definisce fallacia della petitio princìpi o del ragionamento circolare, quando tra le premesse di un’argomentazione (il docente che non ha bisogno di essere valutato) figura la tesi che si vuol sostenere, e che resta da dimostrare (il docente che stabilisce un rapporto empatico con i propri alunni, apre la loro mente, li stimola a un tipo di sapere critico e li rende liberi).
Vero è che per i docenti s’impongono cautele e garanzie aggiuntive nel momento in cui li si dovrà valutare, perché socialmente sovraesposti e perchéla loro autorevolezza o immagine positiva non può essere intaccata, nel senso di ricevere uno stigma negativo agli occhi degli studenti, se non in casi acclarati di incapacità o di persistente insufficiente rendimento (13). Ma non per il fatto che si tratti di una valutazione difficile la si deve rinunciare, potendo – e dovendo – essa essere condivisa, non invasiva, circoscritta e precisata negli esiti, circondata da procedure trasparenti e magari garantita dalla presenza di associazioni professionali che attutiscano o filtrino il potere del soggetto valutatore. Rispettate queste e altre possibili ragionevoli condizioni, non dovrebbero sussistere impedimenti a che la prestazione fondamentale o istituzionale – l’insegnamento – sia valutata nella sua idoneità ad innescare significative strategie di apprendimento efficace, previa formalizzazione di profili di qualità, secondo criteri di sensatezza e da tempo indicati dalla comunità scientifica (14).
Di sicuro non stimiamo condivisibili valutazioni che si basino sugli esiti dei test di profitto degli alunni/studenti, nella presunzione della loro oggettività, che condurrebbero inevitabilmente a un impoverimento della didattica (risolventesi in un addestramento dei discenti sui predetti test), indurrebbero riflessi negativi su un apprendimento critico, metterebbero in competizione i docenti e così accentuando il loro individualismo, che ben si evidenzia nei gradi superiori, nel mentre l’insegnamento – la sua progettazione, realizzazione e verifica – è impresa collettiva di una comunità professionale.
3.4. Sanzionando e all’occorrenza allontanando dall’insegnamento coloro che si dimostrino palesemente inidonei alla funzione, ben potrebbe privilegiarsi la premiazione per gruppo: tipo i docenti della classe o quelli di un plesso che lavorino a stretto contatto, integrandosi la retribuzione di base, collegata all’anzianità di servizio, con quella professionale, di adeguata consistenza e utile agli effetti del trattamento pensionistico e del trattamento di fine rapporto.
Al riguardo non possono considerarsi soddisfacenti le soluzioni apprestate dall’ultima legislazione, in particolare per quel che concerne l’estemporanea figura del docente stabilmente incentivato e già docente esperto (15), forse creata in conseguenza della fretta e dell’approssimazione con cui si son dovute tradurre in un testo normativo entro i termini imposti dal PNRR per non perdere i relativi finanziamenti dell’Unione europea. Potranno e dovranno pertanto – sussistendo la volontà e la forza per abbattere le barricate che saranno frapposte – essere riviste e corrette, in tempi più distesi, per impostare una vera carriera per i docenti, “anche con un’articolazione della funzione”: sì da rendere attrattivo l’insegnamento come professione dignitosamente remunerata e – perciò e soprattutto – socialmente apprezzata (16).
4. A seguire
Ben s’intende che la realizzazione di un insegnamento di generalizzata qualità, perciò inclusivo, richiede interventi di sistema,affrontandosi e armonizzandosi le eterogeneevariabili che lo incidono e che sono, ragionevolmente, nella disponibilità del ministro dell’Istruzione e del Merito e del Governo che l’ha espresso: che pertanto – e non è cosa di poco momento – dovranno ora metterci del proprio, ma avendo una prospettiva di durata di gran lunga più garantita rispetto alle precedenti coalizioni anomale o ai cd. governi tecnici per affrontare le emergenze, le une e gli altri di corto respiro.
Sicché, in relazione ai predetti – e ineludibili – interventi di sistema, sul merito dovremo ritornarci.
NOTE
(1) Francesco SINOPOLI, Sul concetto di merito e sull’idea costituzionale della scuola pubblica, www.flcgil.it , 25.10.2022.
Ma fa decisamente specie che consimili posizioni, che “Il merito è una bufala”, vengano assunte da docenti universitari in prestigiose università straniere ed editorialisti nei maggiori quotidiani nazionali, non di certo digiuni di scuola: così Michela MARZANO, Chi sa riconoscere il vero merito?, la Repubblica, 03.11.2022.
(2) Quirino CAMERLENGO, Costituzione e merito, tra solidarietà e pari dignità sociale, https://eticaeconomia.it/argomenti/diritti-politiche-sociali/. Ma – prosegue l’Autore, professore ordinario di Diritto costituzionale – la Costituzione attribuisce valore al merito che, “lungi dall’esaltare la dimensione individualistica della persona, ne sancisce la vocazione solidale e inclusiva”.
(3) Cfr. Umberto POTOTSCHNIG, Istruzione, Enciclopedia del diritto, 1973; Sabino CASSESE-Alberto MURA, in Commentario alla Costituzione italiana, artt. 33-34, a cura di Giuseppe Branca, 1976; Alberto MURA, Scuola, cultura, ricerca scientifica, in Giuliano AMATO-Augusto BARBERA (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Il Mulino, Bologna (ed. 1994), pp. 893-906.
(4) “Preso sul serio il principio della pari dignità sociale, esso impone di riconoscere al merito un’attitudine universale, quale condizione aperta a chiunque, indipendentemente dal titolo di studio, dal lavoro svolto, dalla posizione assunta all’interno della compagine sociale… E come qualità sociale il merito esige una restituzione alla comunità in termini di impegno responsabile per la coesione sociale”: Quirino CAMERLENGO, cit.
(5) Anna Maria POGGI, L’articolo 34 della Costituzione, lamagistratura.it/primo-piano/lart -34della – costituzione/ -, 13.06.2022, in cui puntualizza che l’istruzione superiore non è impedita a nessuno, tuttavia solo ai capaci e meritevoli la Repubblica (e dunque qui essenzialmente la scuola) si obbliga a renderla possibile anche ai privi di mezzi. Per l’ordinaria di Diritto costituzionale è una restrizione imposta dal limite degli investimenti pubblici, che attingono dalla tassazione generale; ma è da ritenere che dipenda non meno dal fatto che i titoli di studio rilasciati hanno valore legale, a significare certezza legale del possesso, da parte dei titolari, di determinate conoscenze (e competenze) professionali in conformità agli standard fissati dall’ordinamento.
(6) Sempre la Corte costituzionale, con sentenza n. 208/1996, ha ribadito che il diritto allo studio non è indiscriminatamente generalizzato, essendo in realtà riservato ai capaci e meritevoli. Sicché conferma la sua decisione n. 274/1993, che l’impegno profuso dalle istituzioni verso i capaci e meritevoli non possa prescindere da un’attenta valutazione del merito scolastico, ciò implicando un riscontro del profitto.
Analogamente, Guido CORSO, Il merito nella Costituzione italiana, https://www.ilmerito.org, per il quale anche l’istruzione superiore può essere gratuita, ma non per tutti, bensì solo per i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi. Non basta però il merito – ossia la buona volontà, l’operosità – se manca l’attitudine: “ciò vuol dire che capacità e merito sono un tutt’uno”.
(7) Rita MANZARA, Gestire il merito all’interno dell’inclusione, www.edscuola.it, 04.11.2022.
(8) Quirino CAMERLENGO, cit.
(9) Giuseppe VALDITARA, La scuola di oggi è classista. Ora un’alleanza per il merito con studenti e insegnanti, (Intervista a), Corriere della sera, 31.10.2022.
(10) Di tali studi e indagini – e non solo – vi è una puntuale rassegna nel ricco apparato di note in appendice all’ultimo e agile volume di Andrea GAVOSTO, La scuola bloccata, Editori Laterza, 2022.
(11) Art. 1, comma 2, D.P.R. 275/1999, Regolamento dell’autonomia: laddove è prescritto che gli interventi di educazione, istruzione e formazione, in quanto mirati allo sviluppo di ogni persona umana”, vanno adeguati ai diversi contesti… e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento”.
(12) Giuseppe D’APRILE, Facciamo attenzione a come parliamo di scuola, www.uilscuola.it, 29.10.2022.
(13) Scrive Massimo RECALCATI, Merito al merito, la Repubblica, 30.10.2022, che non si può far finta che, accanto ai tanti docenti capaci e meritevoli, non esistano coloro che sono palesemente incapaci e non meritevoli, dai quali trapelano “l’eccessiva durezza, il disincanto rassegnato, il cinismo nel giudizio e perfino, talvolta, il disprezzo aperto verso i propri allievi… assente la consapevolezza dell’importanza cruciale della propria funzione educativa e didattica”.
(14) Sfogliando velocemente la letteratura di settore dovrebbero includersi:
- chiarezza espositiva. Il riferimento è, anzitutto, alla tradizionale lezione, il cui peso, un tempo assorbente, va decisamente contenuto. Pur conservando essa un’importanza strategica, vanno tenuti però ben presenti le regole basilari dell’efficacia comunicativa, in ordine alla quale esistono studi abbondanti e tutti concordi nell’affermare che con la sola parola (ben modulata quanto si vuole, non monocorde, calda, corredata da esempi …) passa, nella migliore delle ipotesi, non più del 45% del messaggio, il restante 55% dipendendo dal linguaggio non verbale. Se poi la parola è nuda, del messaggio passa solo il 7%!;
- equilibrio tra contenuti teorici e applicazioni operative/comportamentali, nei laboratori reali o virtuali;
- ottimale sequenza dei temi affrontati;
- uso di strumentazioni e di materiali a supporto della lezione;
- flessibilità e diversificazione dell’approccio metodologico;
- attenzione al clima d’aula e alla qualità delle relazioni;
- partecipazione/condivisione/trasparenza in ordine ai tempi, strumenti e modalità di verifica/valutazione: va bene anche l’interrogazione, purché esplicitata (e partecipata) nelle sue ragioni e nei suoi esiti;
- coerenza ed esemplarità nei comportamenti, ben tenendosi in mente che l’adulto (e il docente) è sempre, in positivo o in negativo, un modello significativo per il discente.
(15) L’articolo 38 del D. L. 115/2022, come convertito nella legge 142/2022, si riallaccia alle misure contenute nel precedente D. L. 36/2022 (convertito nella legge 79/2022) nel punto in cui ha statuito che “Per gli insegnanti di ruolo di ogni ordine e grado del sistema scolastico statale, al superamento del percorso formativo triennale e solo in caso di valutazione individuale positiva è previsto un elemento retributivo una tantum di carattere accessorio, stabilito dalla contrattazione collettiva nazionale, non inferiore al 10 per cento e non superiore al 20 per cento del trattamento stipendiale in godimento e nei limiti delle risorse disponibili”.
Fermo restando questo primigenio percorso di formazione triennale comportante una retribuzione una tantum se positivamente concluso, s’inserisce – a partire dall’anno scolastico 2023/2024 – il nuovo analogo percorso previsto dall’articolo 38 del decreto legge 115/2022 per i docenti esperti, poi ridefiniti docenti stabilmente incentivati dalla legge di conversione 142/2022.
Il predetto nuovo percorso è sempre rivolto ai docenti di ruolo “che abbiano conseguito una valutazione positiva nel superamento di tre percorsi formativi consecutivi e non sovrapponibili”, per non più di 8.000 unità; che potranno incrementarsi nella stessa cifra per ciascuno dei successivi anni scolastici 2032/2033, 2033/2034, 2034/2035 e 2035/2036, sino al numero massimo e non superabile di 32.000, per esaurimento delle inerenti risorse finanziarie: ammontanti attorno a 250 milioni di euro, recuperati dalla riduzione dell’organico reso possibile dal decremento demografico degli alunni-studenti e riducendosi altresì il fondo per il miglioramento dell’offerta formativa (MOF) delle istituzioni scolastiche. Ragion per cui “dall’anno scolastico 2036/2037 le procedure per l’accesso alla qualifica di docente esperto sono soggette al regime autorizzatorio … nei limiti delle cessazioni riferite al personale docente esperto”.
A questi docenti così selezionati è corrisposto continuativamente – e valido sia ai fini della pensione che della buonuscita – “un assegno annuale ad personam di importo pari a 5.650 euro che si somma al trattamento stipendiale in godimento”: ma non prima di dieci anni, quando il suo valore d’acquisto sarà come minimo dimezzato e negli anni successivi – trattandosi di cifra fissa – polverizzato dall’inflazione.
La qualifica di docente stabilmente incentivato – prosegue la norma – non comporta nuove o diverse funzioni oltre a quelle dell’insegnamento, imponendo solo il vincolo di permanenza di almeno un triennio nell’istituzione scolastica. Non sono dunque previsti gravami aggiuntivi, di maggiore impegno orario o altrimenti, non essendo l’obiettivo della legge quello di istituire una nuova figura professionale di supporto all’autonomia scolastica e alla progettualità didattica e collegiale, con afferenti implicazioni gestionali e organizzative; né quello di promuovere l’enfatizzata transizione digitale (se non nella sua classe e per i suoi alunni), dato che ai trentaduemila docenti già esperti finali ed ora stabilmente incentivati sarà richiesto di fare esattamente quello che faranno – e quotidianamente già fanno, ingegnandosi a farlo il meglio possibile – all’incirca ottocentomila disconosciuti docenti qualunque.
Si è detto che lo vuole – o, piuttosto, lo avrebbe voluto – l’Europa; per la quale invece la formazione incentivata è funzionale al riconoscimento di un impegno in attività di formazione-ricerca-sperimentazione didattica (includente la padronanza e l’uso delle tecnologie informatiche e multimediali) e al contributo nella diffusione nelle scuole di modelli didattici per lo sviluppo delle competenze; ovvero è intesa a “promuovere e sostenere processi di innovazione didattica e organizzativa della scuola e rafforzare l’autonomia scolastica”. Tal che sonoparte integrante della formazione attività di progettazione, tutoraggio, accompagnamento, guida allo sviluppo delle potenzialità degli alunni-studenti, sostegno ai processi di innovazione didattica, sostegno ai processi di innovazione organizzativa: tutti collegati al Piano triennale dell’offerta formativa, al Rapporto di autovalutazione e al conseguente Piano di miglioramento. Nel mentre, e con una filosofia del tutto opposta, la norma che ha introdotto nell’ordinamento il docente esperto, ora stabilmente incentivato,adombra una sorta di cursus honorum decontestualizzato e perseguito individualmente, con l’inevitabile innesco di meccanismi perversi di esasperata competitività e perciò fortemente divisivi, senza nessun prevedibile vantaggio e nessuna positiva ricaduta sulla complessiva qualità del servizio dell’istituzione scolastica.
(16) Se pure l’annuale rapporto Eurydice rivela una generale tendenza nei paesi dell’Unione europea sulla scarsa attrattività dell’insegnamento ed estensivamente del lavoro nella scuola, in Italia si è su livelli decisamente più marcati. Mancano docenti, con larga prevalenza nelle materie scientifiche, e non più solo al Nord. E mancano per la non proprio ragguardevole considerazione sociale della professione, ad un tempo causa ed effetto dei bassi salari, sia in cifre assolute e non meno se rapportati a quelli percepiti da coloro che a parità di titoli di studio svolgono le rispettive funzioni nelle altre amministrazioni pubbliche. Sicché la scuola, salvo per chi manifesti una vocazione all’insegnamento – o una vera e propria dedizione, per l’ex ministro Bianchi –, è vista alla stregua di un ripiego ovvero come un luogo prettamente impiegatizio, sottratto a una sia pure larvale valutazione delle prestazioni professionali e che fa da contraltare all’assenza di qualsivoglia carriera: mi dai poco e ti do – o mi sentolegittimato a darti – poco.
L’insegnamento come professione, dunque, non come nobile e sacrificale missione: una professione appetibile e socialmente apprezzata, sì da rendere – prosaicamente – convenienteintraprendere percorsi di formazione basica non lievi e derubricandosi a subordinate altre possibili scelte, seguiti da rigorose procedure di reclutamento per concorsi pubblici regolari e frequenti, poi assistiti da una generalizzata formazione in servizio strutturale-permanente-obbligatoria, con significative ricadute economiche in esito a positiva valutazione e non necessariamente escludenti la concorrenza dell’anzianità di servizio (peraltro riconosciuta e praticata, ma non in via esclusiva, in altri sistemi scolastici dell’Unione europea).
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