Un piano Marshall per contrastare la dispersione scolastica

Ogni anno 110 mila studenti abbandonano la scuola

Un piano Marshall per contrastare la dispersione scolastica

Paola Bortoletto (presidente Andis), “occuparsi soltanto delle dotazioni tecnologiche non sembra una strategia vincente” 

Roma, 11 dicembre. “Il perdurare della pandemia ha fatto esplodere tutte le contraddizioni del nostro modello di sviluppo ed ha maggiormente evidenziato le disuguaglianze e i divari infrastrutturali, sociali e di genere esistenti nel Paese, squilibri che si ripercuotono in modo drammatico sui risultati dell’azione educativa. L’ultima rilevazione disponibile (AGIA, M.I. 2021) riporta che sono circa 110mila gli alunni che abbandonano annualmente la scuola italiana e un elemento rilevante in questa analisi è che il ritardo scolastico, per bocciature o altre cause, molto spesso si rivela come un fattore che precede l’abbandono. Per la scuola superiore il fenomeno si differenzia tra i vari percorsi di studi: il tasso di dispersione scolastica più alto si registra negli istituti professionali (7,2%) e nei tecnici (3,8%), è contenuto nei licei”. E’ quanto si legge in una nota diffusa dall’Associazione Nazionale Dirigenti Scolastici (Andis).

“Quello che preoccupa – spiega la presidente Andis, Paola Bortoletto – è anche la dispersione implicita, che riguarda quegli studenti che ottengono un titolo di studio ma non hanno le competenze minime necessarie per esercitare la cittadinanza attiva, proseguire gli studi o intraprendere un percorso professionale”. Secondo i dati forniti dall’Invalsi, si stima che il 14,5% degli allievi esca dalla terza media con livelli di competenza inadeguata in matematica, italiano e inglese. In sintesi, si ritiene che il numero totale di studenti dispersi – espliciti ed impliciti in Italia sia superiore al 20%, un problema che riguarda quindi uno studente su cinque.

Il basso livello di istruzione sostanziale, osserva la Bortoletto, “non solo investe direttamente lo sviluppo dell’economia, ma espone ai rischi della società della disinformazione, con la manipolazione costante dei cittadini e l’analfabetismo funzionale priva una parte consistente della popolazione degli strumenti di base per la comprensione di fenomeni sociali complessi e limita la partecipazione ai processi decisionali in modo attivo e pienamente consapevole”.

Per contrastare questo fenomeno “serve mettere in campo un Piano Marshall che rafforzi l’attività sia in continuità educativa, attraverso il coinvolgimento dei due cicli di istruzione a partire dalla scuola dell’infanzia (verticalizzazione del curricolo) e attraverso l’interdisciplinarità (curricolo orizzontale), sia in continuità temporale, evitando l’estemporaneità o la ripetitività con cui spesso alcuni progetti sono presentati e vissuti nell’ambito scolastico”.

“Bisogna ampliare o rinsaldare reti e patti educativi territoriali che consentano l’integrazione e il miglior impiego delle risorse già disponibili. Occuparsi soltanto delle dotazioni tecnologiche non sembra una strategia vincente se ad esse non si accompagna una modifica del modo di fare scuola soltanto di tipo trasmissivo.

“Chiediamo al Ministro di potenziare i percorsi formativi offrendo agli studenti la possibilità di scegliere una parte del curricolo scolastico in quantità sempre più consistente con il passare degli anni; maggiori risorse per favorire partenariati, interventi regionali e locali; una formazione congiunta scuola e famiglia per innescare un vero e proprio cambiamento culturale. Da questo punto di vista un piano di formazione per i docenti è l’elemento centrale affinché la dispersione vada affrontata con un progetto che tocchi la vita dello studente, non con una misurazione di apprendimenti effettuata su base docimologica, in cui i termini “valutazione”, “misurazione”, “certificazione” sono considerati sinonimi, dentro una confusione che produce anziché ridurre la dispersione scolastica”. 

Il disciplinarismo e la pedagogia

Il disciplinarismo e la pedagogia

di Stefano Stefanel

            Il dibattito sulla valutazione formativa, i richiami alla valorizzazione del merito, l’idea che lo studente migliore è quello che studia sulla carta e solo se autorizzato va sul web, il concetto di apprendimento inteso come forma guidata di conoscenza, i miliardi riversarti sul digitale ma collegati ad una cultura proibizionista sull’uso dei dispositivi di proprietà, il concetto vago di divari territoriali collegato ad azioni di recupero finanziate prima ancora di essere decise, la richiesta di finalizzare il sapere al proprio futuro anche se nessuno sa indicare quale sarà sono tutti elementi dell’attuale contemporaneità che cozzano contro lo scoglio da aggirare: la pedagogia.

            In teoria disciplinarismo e pedagogia dovrebbero essere strettamente collegate: se voglio insegnare qualcosa devo avere a che fare con un contenuto e questo contenuto sta per forza dentro una disciplina, che, a sua volta, richiede un determinato metodo per essere insegnata, cioè la pedagogia dovrebbe servire per transitare contenuti (e abilità e competenze che ne seguono) dalla mente di un sapiente alla mente di un non sapiente. Difficilmente vado ad imparare qualcosa che già so, difficilmente qualcuno mi insegna ciò che pensa io sappia o ritenga io debba sapere (i prerequisiti).

            Da oltre cento anni la pedagogia è stata considerata una “materia” a sé stante, non necessariamente collegata al suo compito: far apprendere. Infatti, in alcune scuole si studia la pedagogia come una forma di pensiero filosofico minore, interessante, ma con valore più storico-sociale che metodologico. Il problema, però, è un po’ più complesso e va a toccare le discipline così come sono state codificate e così come si sono imposte, le uni a scapito delle altre. Da questo punto di vista Le parole e le cose di Michel Foucault ha dimostrato che le discipline sono strumenti di potere (politico) e che talune hanno preso il sopravvento, mentre altre vivono nell’ombra. In Italia questa evidente stortura ha dato vita al costrutto artificiale delle “classi di concorso”, una struttura di sapere che è diventata struttura di potere con un valore economico molto forte, strettamente collegato ai posti di lavoro che è in grado di farsi riconoscere.

            L’ostilità dei disciplinaristi nei confronti dell’educazione civica sta tutta qui: l’educazione civica è una disciplina chiara e obbligatoria che non ha prodotto nuovi posti di lavoro. Quindi la sua trasversalità va abbattuta. Finora non ci sono riusciti, ma chi ha pazienza vedrà presto nascere le cattedre di educazione civica con tanto di abilitazione. Il disciplinarismo ha alcune caratteristiche molto marcate, che si possono riassumere in tre modalità didattiche.

  • La trasmissività vista come l’elemento base della disciplina: io ti racconto, ti spiego, ti argomento quello che devi imparare, tu studi e lo impari. La trasmissività impone la conferenza, la cultura del contenuto, la spiegazione anche di ciò che è già chiaro, la meta-spiegazione artigianale (la lezione in classe) di quello che è oscuro, il riassunto virtuoso, la chiacchiera diventata orazione.
  • Il manuale o il libro di testo in cui è codificato il riassunto di tutto lo scibile disciplinare, in fascicoli da compulsare e leggere annualmente, visto che tutto è diviso per annualità e prevede una chiara spesa da sostenere come base per accedere a quel sapere codificato, stantio e immobile, ma comunque certo, almeno nei limiti di quanto la comunità disciplinare ha deciso sia certo in quel momento.
  • La memoria come ricordo di ciò che è stato trasmesso attraverso conferenze (anche operative: gli esperimenti nei laboratori) e che deve essere esercitata senza supporti tecnici e multimediali in quelle che sono le prove disciplinari per eccellenza, cioè i compiti in classe e le interrogazioni.

La pedagogia, dunque, viene sempre più vista come un elemento di ostacolo alla disciplina, quasi che il piegarsi alle esigenze del discente debole sia un cedimento inaccettabile verso una contaminazione al ribasso della purezza disciplinare. Il discente forte – ed è questo il punto di grande ambiguità del concetto di merito – è perfettamente inserito nello specifico disciplinare ed apprende per trasmissione, tradizionalismo manualistico, memoria. Siamo dunque di fronte ad un problema molto serio che vede la disciplina come strumento delle élite e la pedagogia come strumento del popolo. Il sapiente è un disciplinarista se comprende che deve esserci un elitarismo nell’insegnamento che non può permettere alla disciplina di scendere verso la banale comprensione, il modesto impegno, il poco interesse; mentre è un pedagogo se cerca di raggiungere il popolo col sapere. Con il termine dispregiativo di “pedagogismo” si indica la china facilitatrice verso concetti e apprendimenti non facilitabili e come tali necessari più per il mantenimento del potere della disciplina che per migliorare l’apprendimento della stessa in studenti comunque giovani e generalisti.

Tutto questo lo aveva già detto Foucault molto chiaramente, ma il pensiero pedagogico novecentesco (Montessori, Dewey, Gardner, Brunner) ha sottovalutato la forza del potere economico sotteso alla disciplinarietà dei saperi. Ne ha fatto le sue spese anche la filosofia, per sua natura trasversale, diventata nei libri di testo liceali una parodia di un percorso storico-letterario, con teorie elencate insieme a dati biografici e bibliografici in cui tutti i pensieri sono metafisici, astratti, simpaticamente astrusi. Lo spacchettamento tra filosofia e pedagogia ha fatto il resto e la lezione di un grande pedagogo come San Tommaso d’Aquino è andata totalmente perduta.

Se si scende a questo livello la partita non si può vincere: il sapere alto, la specializzazione non ha pedagogia e, infatti, la disciplina più forte negli studi liceali è la matematica, che avanza solo per trasmissione e spiegazioni di teorie sempre più complesse, rese forti da un’inutile prova finale d’esame, troppo semplice per chi la matematica la conosce da disciplinarista, troppo difficile per gli altri che dimenticano tutto subito e vivono il resto della loro vita senza la matematica, dimenticando la matematica, per lo più odiando o disprezzando la matematica. D’altronde non c’è nessuno che a tavola o al bar dica: “io a scuola non capivo niente di grammatica o di scienze o di storia”, ma molti dicono, spesso con orgoglio: “sono sempre andato male in matematica”. La disciplina prima e più importante dei nostri giorni è finita in mano a indiani e cinesi, capitale primo delle multinazionali, mentre in Italia è lo spauracchio dei liceali e basta. Tutto il resto, da noi, lo fanno le macchine, che la scuola non vuole affiancare all’insegnamento della matematica come parte essenziale di supporto, perché vuole una matematica di memoria e lavagne d’ardesia.

Gli specialisti ci sono sempre stati nella storia dell’umanità e sempre ci saranno: non è mai stato questo il problema. Ma i disciplinaristi non sono degli specialisti, sono, forse, dei cultori della materia, cioè competenti dentro i limiti di una disciplina. La contaminazione è inutile in uno specialista, ma viene ritenuta pericolosa da coloro che non sono specialistici, ma sono solo disciplinaristi, perché la contaminazione fa perdere potere alle discipline. La struttura enciclopedica è una “lotta mortale” tra discipline, che vogliono avere più voci riconosciute possibili, perché tante sono le voci, tanto è il potere. Le arti del trivio e del quadrivio una battaglia simile l’hanno disputata circa mille anni fa.

Se torniamo a noi lo svilimento della funzione della pedagogia, soprattutto nelle scuole superiori, non è un modo per preservare il rigore e la precisione disciplinare, ma solamente per delimitare il campo del potere. Discipline che si contaminano, che agiscono su base multidisciplinare e interdisciplinare alla fine finiscono per perdere la loro specificità e a trasformarsi in altro. Questa battaglia la scienza, ad esempio, l’aveva già combattuta alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento quando si è sviluppata una notevole filiera di divulgazione scientifica, iniziata da Ernst Mach con e Letture scientifiche e popolari e continuata anche con grandi scienziati che si sono impegnati nella divulgazione come Einstein, Bohr ed Heisenberg. Ed è una battaglia che ha reso le discipline più arcigne, desiderose di essere trasmesse, ma ostili verso la pedagogia, cioè verso quell’azione del docente che comprende come raggiungere la mente del discente, non per riempirla, ma per farla diventare migliore.

Per questo servono i voti e non le valutazioni formative: per delimitare il campo della disciplina. Se il voto è negativo viene sancito il “debito disciplinare”, cioè quel terreno incerto e di controllo per cui l’insegnante non deve trovare metodi nuovi per raggiungere risultati di apprendimento che non ha raggiunto con i metodi trasmissivi, sperimentali, misurativi in vigore, ma semplicemente rubricare l’insuccesso, quella debolezza disciplinare che non permette di andare avanti. Più le discipline sono obsolete più sono difficili e astruse e per questo forti, perché essendosi tramutate in classi di concorso alimentano la schiera di chi insegnerà quella disciplina nella scuola italiana. Il tramonto della pedagogia, però, è il tramonto dell’apprendimento. E senza apprendimento non c’è progresso. 

Un nuovo appuntamento per il regionalismo differenziato

Un nuovo appuntamento per il regionalismo differenziato

di Gian Carlo Sacchi

Al varo di ogni nuova maggioranza politica viene riproposto il tema del “regionalismo differenziato”, cioè un aumento di poteri dato alle Regioni a statuto ordinario per  meglio adeguare l’azione di governo alle esigenze dei territori. C’è chi pensa che sia un’iniziativa legata al federalismo di stampo leghista, già anticipato con una legge di carattere fiscale che però non ha avuto sostanziale applicazione; anche il centro sinistra avendo sostenuto la riforma del titolo quinto della Costituzione con l’art 116, oltre al decentramento delle competenze dello Stato, proponeva una riorganizzazione istituzionale che valorizzasse le autonomie locali, comprese quelle scolastiche. Forza Italia addirittura optava per la privatizzazione del sistema formativo con la trasformazione delle scuole in Fondazioni. L’unica forza politica che non aveva espresso nessuna opinione al riguardo era Fratelli d’Italia, che oggi si trova al vertice del nuovo esecutivo di fronte alla proposta, ripresa da maggioranza e opposizione.

E’ noto che il principale partito di governo si stia battendo per il presidenzialismo e chissà potrebbe accadere che al vertice si possa avere un concentramento dei poteri nelle mani di un presidente, eletto dal popolo, come in Francia, ma alla base il governo venga attribuito a regioni ed enti locali, come accade in tanta parte d’Europa. Ci sono ancora realtà, soprattutto al sud d’Italia, che temono una penalizzazione in termini di risorse economiche, ma tutte sono ormai d’accordo sul fatto che il centralismo nazionale è sempre meno efficiente e meno equo, perché legato alla spesa storica, secondo parametri astratti e poco aderenti alle vere esigenza dei territori.       

E’ ripartito il dialogo tra il governo centrale e le regioni, attraverso una proposta di legge del ministro per le autonomie regionali, Calderoli, che nel 2009 aveva firmato la legge sul federalismo fiscale, e dopo  tredici anni torna per cercare di mettere un punto fermo sulla questione. I corsi e i ricorsi……Nel frattempo ci sono state alcune timide prove di intesa con il governo Gentiloni, referendum e deliberazioni da parte di alcune regioni in senso positivo, ma altrettante in senso contrario soprattutto al meridione.

La sfida attuale è tenere insieme tutte le istanze, sempre espresse in modo trasversale alle diverse appartenenze politiche, che oltre ad incontri tra centro e periferie sono sfociati in una proposta di legge che possa coinvolgere tutti gli attori istituzionali: governo centrale, regioni e parlamento, e non proseguire per atti bilaterali, come sembrava l’interpretazione della prima ora.

Torniamo all’applicazione del titolo quinto della Costituzione approvato nel 2001, per le materie indicate nell’art. 117,  tra le quali compare l’istruzione, fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche, che possono essere oggetto di trasferimento in base al predetto art. 116, con un’eventuale azione di sussidiarietà verticale prevista dall’art. 119. Nel quadro di questa legge ci stanno le richieste delle regioni, le quali, sentiti gli enti locali, presentano una delibera in tal senso per arrivare ad un’intesa che può riguardare una o più materie. L’approvazione avviene ad opera del consiglio dei ministri e poi l’intesa sottoposta alle commissioni parlamentari.

Il punto sul quale si è ricostruita l’unanimità delle regioni è la definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) la cui prima comparsa si perde nella notte dei tempi, ma che ora è la conditio sine qua non perché l’iter autonomistico possa giungere al termine.  I LEP vengono ritenuti indispensabili per l’istruzione, la tutela dell’ambiente e dei beni culturali, della salute e nella sicurezza sul lavoro; devono essere stabiliti dal governo nazionale a valere su tutto il territorio della Repubblica. Le risorse finanziarie non sono più stanziate mediante la spesa storica, ma vengono calcolati, com’è noto, i fabbisogni standard e i costi standard, già previsti nella predetta legge sul federalismo fiscale. In questo modo le regioni possono compartecipare al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale. Le funzioni amministrative saranno a loro volta trasferite agli enti locali.

Ogni anno sarà prevista una valutazione dei profili finanziari dell’intesa e la legge statale potrà stabilire in relazione al ciclo economico e all’andamento dei conti pubblici, misure transitorie a carico delle regioni a garanzia dell’equità nel concorso al risanamento della finanza pubblica con contestuale adozione di analoghe misure per altre regioni.

Oltre al nuovo governo l’occasione per affrontare di petto la questione da parte di tutti gli interlocutori istituzionali, a cominciare dal Presidente della Repubblica, è stato il primo festival delle Regioni, un appuntamento che sarà annuale, per fare il punto sull’Italia delle Regioni. Un luogo che esprime la peculiarità territoriale, ma che nell’ambito delle Conferenze offrono un contributo all’unità nazionale: far vivere insieme l’autonomia nell’unità.

La sfida per il futuro dunque è per tutti il nuovo regionalismo e la ricerca di un nuovo pensiero regionalista. Il PNRR vede tra le priorità di intervento trasversale il riequilibrio territoriale e la ripresa del processo di convergenza e di inclusione sociale e territoriale. Nel rapporto EURISPES 2022 si evidenzia che una maggiore autonomia delle regioni è auspicata da due italiani su tre, in aumento rispetto allo scorso anno, mentre un maggior potere al governo non convince la metà degli intervistati.

Siamo dunque all’ultimo miglio ? Maggiori poteri alle regioni è un’operazione ormai condivisa da tutti i Governatori, da nord a sud; tali poteri non hanno intenti destabilizzanti. Tutti si impegnano al rispetto del dettato costituzionale e dei diritti civili e sociali ed alle esigenze perequative, su tutto il territorio nazionale. Un processo da costruire in un’ottica di solidarietà e di interdipendenza, a cominciare dalla definizione dei LEP. E in questo quadro si inserisce anche il capitolo istruzione, senza gridare allo sfascio della scuola italiana, ma ripartendo dalle “norme generali” indicate dallo Stato come previsto dall’art. 117 della Costituzione, da un ordinamento che manterrà il valore dei titoli di studio per tutto il Paese, mentre di deve arrivare alla gestione decentrata dei servizi, comprese le risorse finanziarie che rientrano nel “fabbisogno standard” e del personale, un concorso tra regioni e stato, sia nell’assunzione che nella distribuzione, che già una sentenza della Corte Costituzionale del 2004 aveva sancito, applicando per quanto riguarda il curricolo le norme che già ci sono per la componente nazionale, quella regionale e di istituto, adottando ogni opportuna flessibilità, in modo che vi possa essere una maggiore intesa con le realtà locali ed il mondo del lavoro.    

Si può essere ormai tutti d’accordo che il centralismo deve essere superato, ed è proprio dalle regioni più in difficoltà che deve venire la richiesta di maggiore autonomia, per avere più margini di manovra anche nei bilanci; una volta stabilito il quadro finanziario fra stato e regioni si potrebbero verificare risparmi derivanti da migliori capacità gestionali, il che dovrebbe stimolare comportamenti virtuosi anche nella definizione dei “costi standard”.  L’elaborazione e la gestione del PNRR sono la dimostrazione che anche in questo caso il centralismo non paga e che un maggiore coinvolgimento delle regioni avrebbe da un lato avuto più riscontro rispetto alle esigenze dei territori e dall’altro avrebbero potuto meglio interagire ed aiutare gli enti locali.

Einaudi nel presentare la carta costituzionale diceva che “ognuno dovrà avere l’autonomia che gli spetta”; dopo oltre vent’anni dalla riforma del Titolo Quinto i tempi per una maggiore responsabilizzazione delle Regioni sono maturi da un punto di vista storico e culturale, per un ammodernamento ed un efficientamento delle nostre strutture istituzionali.

Scuola del merito e qualità dell’insegnamento

Scuola del merito e qualità dell’insegnamento (1)

Francesco G. Nuzzaci

1. Il merito: dove, come e perché

Si è ironizzato sulla nuova denominazione di Ministero dell’Istruzione e del Merito (e perché allora – si è detto – non dell’Equità, o della Prosperità?); e soprattutto si è ferocemente polemizzato. È però legittimo che una coalizione votata dal Popolo Sovrano voglia con immediatezza caratterizzare il proprio programma all’insegna di un vocabolo, che con altrettanta immediatezza ha fatto venire l’orticaria ai pronti a replicare il mantra del “merito come forma di esclusione sociale, tipico del pensiero liberista neoconservatore e autoritario (1).

Certamente, il merito sconta questo peccato originale, che si trascina da sempre, siccome declinato in chiave di esasperata competitività individualistica, così che “parrebbe contraddire quel principio di uguaglianza che, scolpito nell’articolo 3, rappresenta uno dei pilastri sui quali si regge il sistema costituzionale” (2). Ma è, per l’appunto, solo apparenza; poiché la valorizzazione del merito è l’antidoto, ivi prescritto, di cui dispone la scuola (e nella misura in cui può disporne) a una società classista giustificativa delle diseguaglianze o – e non è men peggio – a una società appiattita sull’ignoranza.

Nella Carta fondamentale della Repubblica Italiana, all’articolo 34, primo comma, si afferma che la scuola è, intanto, aperta a tutti e l’istruzione ivi impartita è obbligatoria e gratuita per almeno otto anni (poi, com’è noto, portati a dieci dalla successiva legislazione ordinaria, che vi ha aggiunto l’obbligo formativo con il conseguimento di almeno una qualifica di durata triennale entro il diciottesimo anno d’età).

E la più attenta dottrina (3) ha, meritoriamente, colto da tempo la novità di un principio – la scuola è aperta a tutti – che non poteva limitarsi a una mera riproposizione della normativa preesistente, che in sostanza – ad una sua prima interpretazione – riduceva il diritto all’istruzione a mero diritto ad essere accolti nella scuola una volta che questa fosse stata istituita e che, tutt’al più, ammetteva misure di assistenza scolastica per facilitare la sola istruzione obbligatoria ai meno abbienti. In realtà l’articolo 34 andava – e va – letto congiuntamente al contenuto dell’articolo 3, posto nei Principi Fondamentali, laddove, dopo aver sancito l’eguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini, “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, prosegue attribuendo anche alla scuola, quale articolazione della Repubblica e per quanto di propria competenza, il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale impeditivi la realizzazione del “pieno sviluppo della persona umana”: può dirsi, con un’espressione di sintesi, il suo diritto di cittadinanza attiva o, meglio, di cittadinanza sociale, implicante anche il dovere – a mente dell’articolo 4, comma 2 – “di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (4).

Trattasi, dunque, del diritto a un’istruzione di qualità generalizzata, perciò inclusiva; che, investendo tutti, comprende “gli inabili ed i minorati” (art. 38), oggi ed estensivamente i soggetti con bisogni educativi speciali e per i quali, in più, si richiedono ulteriori misure compensative e di supporto nel quadro di una discriminazione positiva o di un’uguaglianza sostanziale.

Se l’incipit dell’articolo 34 è governato dall’universalismo del sistema dell’istruzione inferiore, gratuita e aperta a tutti, il successivo secondo comma disegna un percorso più articolato riguardo l’istruzione superiore, per principio parimenti un diritto di tutti (nel senso che non devono costituire impedimento gli ostacoli di ordine economico e/o sociale), ma garantita solo ai – congiuntamente – capaci e meritevoli; che, se privi di mezzi, sono sostenuti, a mente del comma 3, con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso. È, questa, una restrizione imposta dal limite degli investimenti pubblici, che attingono dalla tassazione generale (5); ma è da ritenere che dipenda non meno dal fatto che i titoli di studio rilasciati hanno valore legale, a significare certezza legale del possesso, da parte dei titolari, di determinate conoscenze (e competenze) professionali in conformità agli standard fissati dall’ordinamento, a tutela della fede pubblica (6).

Può allora conclusivamente qui affermarsi che il merito a scuola è rappresentato dal saper condurre a termine una sfida con sé stesso, calcolata sulle proprie potenzialità, sfruttando tutte le risorse rese disponibili. Ovvero, “meritare significa, per tutti, perseguire efficacemente il proprio obiettivo di vita sin dalle prime fasi dell’età evolutiva, in un ambiente di apprendimento che usa lo strumento della valorizzazione come premio atto a rinforzare la conoscenza e la sicurezza di sé” (7). E il suo riconoscimento è ancor più prezioso per chi “sconfiggendo un destino avverso che sembrava già scritto, riesce a costruire qualcosa di rilevante, grazie a impegno, perseveranza, coraggio, spirito di sacrificio” (8).

Peraltro, se nella scuola ha un ruolo elettivo, nel significato dianzi riassunto, il merito va oltre la scuola, ponendosi come principio e valore in tutti i luoghi in cui ogni soggetto, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, svolge la sua personalità e nel contempo onora il richiesto adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2 Cost.). Così, “per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” si può essere nominati senatori a vita (art. 59); è per concorso che si selezionano le competenze per accedere agli impieghi nella pubbliche amministrazioni, salvi i casi stabiliti dalla legge (art. 97); è “per meriti insigni” che professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno quindici anni di esercizio della professione e iscritti negli albi speciali possono essere chiamati all’ufficio di consigliere di Cassazione (art. 106).

2. Il merito del ministro Valditara  

Ai principi costituzionali testé riassunti si è espressamente richiamato il neo-ministro Valditara, anticipando alla stampa (9) come intende il merito e poi illustrando il suo pensiero con maggior compiutezza nelle linee programmatiche del Dicastero davanti le apposite commissioni parlamentari riunite di Camere e Senato il 30 novembre u.s.

Favorire il merito – ha affermato – significa assicurare alle scuole infrastrutture e dotazioni di qualità, valorizzare gli operatori scolastici, sintonizzarsi con il mondo del lavoro, agire sulle competenze, fornire a tutti gli strumenti per sviluppare un percorso di crescita individuale e collettiva. Si lavorerà pertanto per una scuola che torni ad essere un vero ascensore sociale e che non lasci indietro nessuno, stimolando i talenti che ogni ragazzo possiede, non deprimendone le potenzialità.

Oggi – ha proseguito – la scuola è classista, non è la scuola dell’uguaglianza, con una dispersione del 12,7%, che sale al 20% se vi si aggiunge la dispersione implicita. E non è scuola dell’uguaglianza perché non è scuola del merito. Dovrà quindi essere assicurata una più incisiva personalizzazione dei piani di studio, anche con un’articolazione della funzione docente, che consenta di coltivare le potenzialità di tutti, sostenendo chi è in difficoltà e alimentando le capacità dei più bravi.

Dovrà, ancora, attuarsi un orientamento sistematico per famiglie e studenti, che fornisca informazioni per effettuare scelte consapevoli dopo la scuola media, al riguardo occorrendo potenziare l’istruzione tecnico-professionale, che va costruita in filiera con gli ITS, di pari dignità con l’istruzione liceale e su solide competenze di base, rafforzando le materie caratterizzanti, con più investimenti per laboratori e in sinergia con il mondo delle imprese.

3. La qualità dell’insegnamento

È già attingibile per mero intuito che edifici scolastici sicuri e funzionali ad approcci didattici plurimi e innovativi, con infrastrutture e dotazioni adeguate, dispiegano effetti non irrilevanti sulle prestazioni e sui risultati degli apprendimenti. E qui potranno sovvenire le ingenti risorse del PNRR ereditate dal nuovo Governo (che si aggiungono alle disponibilità dei fondi europei REACT-EU e a quelle del Piano nazionale per gli investimenti complementari), relative alla costruzione di nuove scuole e/o di sostituzione di edifici vetusti e/o costruiti in funzione della sola didattica di aula ovvero della classica e uniforme lezione frontale, nonché alla costruzione di asili nido, scuole dell’infanzia, oltre all’estensione del tempo pieno e mense: luoghi di stimolo e cura dei talenti sin dall’età prescolare, che ogni persona possiede come doti innate, casualmente distribuite da madre natura, ma spesso obnubilati da una passione nascosta o da un’inclinazione sopita. E lo stesso vale per i già previsti investimenti per lo sviluppo del sistema di formazione professionale terziaria (ITS), unitamente alla riforma degli istituti tecnici e professionali, sì da riscattarli dalla comune opinione di essere scelte di risulta e/o rifugio per chi proprio non ce la fa.

Ed èparimentifuori discussione l’incidenza che sul merito hanno le condizioni familiari, così come è indubbio il peso del contesto socio-economico-culturale in cui le istituzioni scolastiche operano, come ripetutamente posto in luce da studi e indagini sia nazionali che internazionali (10).

3.1. Proprio per contrastare e/o per mitigare gli effetti delle condizioni familiari e dei contesti socio-economico-culturali, resta preponderante la qualità dell’insegnamento: di un insegnamento professionalmente organizzato, inteso come “esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura, di contributo all’elaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tale processo e alla formazione umana e critica della loro personalità” (art. 395, D. Lgs. 297/1994, Testo unico della scuola, rubricato Funzione docente). E che dunque va imprescindibilmente fondato sulle discipline di studio, nelle quali è strutturato/formalizzato il sapere prodotto dalle passate generazioni e quello riveniente dalla sua evoluzione: discipline di studio che possiedono una componente hard o una materia (conoscenze, nozioni o contenuti in senso lato), che va trasmessa nei modi e nei termini esigiti dal differente grado di maturità dei discenti e dalle loro specifiche caratteristiche (11); ma hanno altresì una componente soft, cioè l’insieme delle peculiari  norme fondanti e costitutive (premessa necessaria per la didattica specifica), quali l’area di competenza (la c.d. specializzazione), l’oggetto d’indagine (documenti, reperti archeologici, ovvero un costrutto mentale più o meno ampio ma pur sempre circoscritto e/o precisato da un determinato angolo visuale) e infine il linguaggio tecnico quale garanzia di rigore nella comunicazione intersoggettiva e quindi di costruzione-ricostruzione-sviluppo della conoscenza. Ed è la pratica di questa seconda dimensione che consente di favorire processi di elaborazione critica, da coltivare sin dai primi passi a scuola, sebbene – anche qui – considerandosi le modalità d’intervento in relazione al grado di maturità degli allievi.

Questo doppio e inscindibile paradigma connota chiaramente sia le Indicazioni nazionali per il primo ciclo e per i licei che le Linee guida per gli istituti tecnici e gli istituti professionali, ma l’effettiva pratica dell’insegnamento continua ad essere schiacciata sulle materie di studio, vieppiù che a mano a mano si sale verso i livelli superiori, con la prevalenza della lezione frontale rivolta indistintamente all’intera classe, presunta omogenea, e con cui vengono trasmessi enciclopedici contenuti, nozioni, saperi cristallizzati, destoricizzati, decontestualizzati, secondo la vecchia logica degli abrogati Programmi di studio.

Il risultato è che da anni l’Italia, tranne per la scuola primaria, permane nei livelli più bassi degli apprendimenti rispetto ai partner europei, come testimoniato dalle prove INVALSI e da tutte le più accreditate indagini internazionali. A meno che non si vogliano chiudere gli occhi e/o continuare a disquisire sull’inidoneità degli afferenti strumenti impiegati nel coglierne le complessità.

Sicché s’impongono dei correttivi verso direzioni, peraltro da tempo già tracciate, di contrasto al nozionismo-enciclopedismo con l’incessante prolificazione delle materie di studio. Sappiamo che in tutta Europa, non meno che in Italia, è generalmente acquisito che la dimensione informativa (e addestrativa) la si soddisfa di più e meglio nel variegato extrascuola. In una società articolata, differenziata, tecnologicamente avanzata, con pervasiva dominanza della multimedialità e dell’informatizzazione, la scuola deve piuttosto educare a criticare le informazioni apprese e le abilità acquisite.  Dunque non una scuola caleidoscopica, ma snella, in cui si discutono bene, ma con rigore e profondità, poche cose, per poche ore al giorno. Il resto è opzionalità, è luogo degli apprendimenti non formali ed informali, è lifelong learning … col supporto di sistemi di certificazioni capitalizzabili. Per cui dovrebbe puntarsi sui contenuti essenziali, sui nuclei fondanti, che liberino spazi per agire le conoscenze, per trasformarle (in un processo di interiorizzazione) in competenze (trasferibilità delle loro valenze in altri campi), per integrarle in capacità (che si colgono sul soggetto in azione, nell’ hic et nunc, compendiandosi, ancora e sempre, nella triade sapere-saper fare-saper essere). Si tratta di scegliere alcune cose bene e a fondo, accompagnandole con un processo di verifica-valutazione (e certificazione).

Sposiamo quindi la dichiarata volontà del ministro dell’Istruzione e del Merito di volersi muovere secondo questa – e tutt’altro che nuova – logica, con una più incisiva personalizzazione dei piani di studio che consenta di coltivare le potenzialità che ciascuno possiede, sostenendosi chi è in difficoltà ma anche valorizzandosi al massimo le capacità dei più dotati. Si tratta di rafforzare – ma per tutte le tipologie e gli indirizzi di studio, non solo per l’istruzione tecnica e professionale – le materie (recte: discipline) fondamentali e caratterizzanti e lasciando un ampio ventaglio alle opzionalità definite nel curricolo nazionale e integrate dalle istituzioni scolastiche, singole o in rete, nell’esercizio della loro autonomia funzionale.

3.2. Se la scuola del merito, in armonia con la lettera e lo spirito della Costituzione, vuole “coltivare le potenzialità che ciascuno possiede, sostenendo chi è in difficoltà ma anche valorizzando al massimo le capacità dei più dotati”, dovrà di conseguenza essere, come suol dirsi, learning centered e non teaching centered.

Ilprimato – se di primato vuol parlarsi – è allora quello dell’apprendimento, con l’insegnamento in funzione servente: se la conclamata centralità dello studente non vuol restare un semplice slogan.

L’apprendimento, comunemente inteso come modificazione stabile del comportamento in seguito a input provenienti dal mondo esterno, importa – è noto – un processo attivo di costruzione di conoscenze, abilità, atteggiamenti, in un necessario contesto di interazione sociale (implicito o esplicito), che quindi coinvolge la persona nella totalità delle sue dimensioni: cognitiva, affettivo-emozionale, relazionale-sociale. Deve allora l’insegnamento favorire la progressiva scoperta e l’acquisizione di strategie di studio adeguate, l’utilizzo di nozioni apprese in contesti diversi da quello scolastico, l’uso sempre più mirato e affinato di procedure e metodi (che attengono a una disciplina o a campi disciplinari) per organizzare o vedere l’esperienza secondo plurime e/o nuove prospettive.   

Sul come si apprende, invece, le risposte non sono univoche, perché diverse sono le teorie che si contendono il campo, frutto di ricerche empiriche in ambito psicologico, poi tradotte in complessi dispositivi pedagogico-didattici nella configurazione di onnicomprensive teorie dell’istruzione, che fondamentalmente si compendiano in tre modelli (al loro interno articolati in variegate sfaccettature), di matrice comportamentista e neo-comportamentista, di matrice cognitivista, infine definibili olistici (in seguito alle ricerche, sempre più accurate e approfondite, sulla mente umana ad opera delle neuroscienze, della cibernetica, delle intelligenze artificiali; nonché in conseguenza dello studio dei meccanismi affettivo-emozionali per l’innanzi un po’ trascurati) che si concentrano sul pensiero modulare, visto come un reticolo dai molteplici e complessi nodi e attorno ai quali l’apprendimento si organizza secondo mappe concettuali sulla base del vissuto, delle conoscenze e preferenze pregresse, in modo simultaneo e sincronico più che lineare-sequenziale-diacronico (su cui si struttura e in cui si risolve la tradizionale lezione).

Un insegnamento esperto, consapevolmente organizzato (e controllato), si avvarrà così di una loro sapiente combinazione a seconda delle circostanze; e sarà fatto oggetto di riflessione condivisa tra gli stessi soggetti professionali al fine di ri-orientarlo sui canoni di una (ritenuta) efficacia e sempre salva sua verifica, atteso che il nesso insegnamento-apprendimento non è causale bensì probabilistico poiché inciso dalle tante variabili che non sono nella disponibilità della scuola. Ed è una verifica da svolgersi sistematicamente nel quadro delle regole concordate, poste, formalizzate negli appositi luoghi istituzionali; costituenti il perimetro entro cui ogni docente dovrà esercitare la sua discrezionalità tecnico-professionale: la famosa libertà d’insegnamento, che non può essere intesa e agita in senso individualistico, se non anarcoide, sciolta da qualsivoglia vincolo che non sia la propria scienza e coscienza.

Può così rendersi il dovuto plauso alla dichiarata intenzione del ministro Valditara di potenziare il nuovo percorso di accesso alla professione docente, che prevede laurea magistrale, sessanta crediti formativi inerenti l’ambito socio-psico-pedagogico, tirocinio con prova finale abilitante e concorso, seguiti da percorsi di formazione permanente-strutturale-obbligatoria.

3.3. Per valorizzare il merito occorre che esso sia stimolato e riconosciuto: ciò è a dire fatto oggetto di apprezzamento, quindi che deve essere valutato.

È pacificamente acquisito che fino alla metà degli anni Settanta del secolo scorso la valutazione degli apprendimenti (se non la valutazione tout court) è stata solo valutazione del profitto dello studente, sintetizzato nel voto a scala decimale, con conseguente alto tasso di soggettività e quindi di precario significato scientifico, cui si sono aggiunte in progresso di tempo la valutazione dei comportamenti – non più riduttivamente intesa come il vecchio voto di condotta – e infine la certificazione delle competenze. Con i decreti delegati del 1974, introduttivi della programmazione educativa e, più ancora, con la legge 517/1977 nel punto in cui promuove l’insegnamento individualizzato, appare sulla scena la valutazione formativa, non preordinata alla semplice espressione di un giudizio finale o sommativo, bensì quale strumento, diagnostico e prognostico, per aggiustamenti in itinere del percorso, che quindi diviene plurale e flessibile, consentendo di migliorare-integrare-affinare la valutazione sommativa e che affianca alle prove aperte tradizionali (i compiti in classe, le interrogazioni …) quelle strutturate e quelle semistrutturate oltre che l’utilizzo di griglie di osservazioni et similia.

Il che significa che la valutazione formativa, pur se prima facie sembra riguardare l’alunno/studente, in realtà è funzionale a una continua progettazione e ri-progettazione di un insegnamento efficace ed inclusivo o, per riprendere i termini figuranti nel Regolamento dell’autonomia (art. 1, comma 2, D.P.R. 275/1999), alla “progettazione e realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento”. E difatti le stesse periodiche rilevazioni dell’INVALSI – che continuano assurdamente ad essere demonizzate da cospicue parti dei sindacati della scuola – hanno  ex lege lo scopo di fornire alle istituzioni scolastiche elementi conoscitivi a che lavorino sui punti di debolezza rivelati dagli alunni e sui loro punti di forza per ulteriormente migliorarli e valorizzarli anche in funzione del loro futuro orientamento: detto diversamente, rappresentano uno stimolo aggiuntivo offerto da un occhio esterno per progettare e ri-progettare l’insegnamento nel segno della sua qualità.

Ne riviene, per coerente conseguenza, che oltre agli alunni/studenti vanno valutati i docenti (così come tutte le figure professionali della scuola, i dirigenti per primi, ma di cui qui non potremo occuparci). Ovvero, il merito riguarda anche loro.

Quella dei docenti permane, però, a tutt’oggi una valutazione impossibile, osteggiata dai soliti replicanti il coriaceo mantra che “non hanno bisogno di essere valutati attraverso opinioni altrui. Il docente si autovaluta nel momento in cui entra in classe e stabilisce un rapporto empatico con i propri alunni, ai quali apre la mente, li stimola a un tipo di sapere critico e li rende liberi” (12): mirabile esempio di quello che la logica definisce fallacia della petitio princìpi o del ragionamento circolare, quando tra le premesse di un’argomentazione (il docente che non ha bisogno di essere valutato) figura la tesi che si vuol sostenere, e che resta da dimostrare (il docente che stabilisce un rapporto empatico con i propri alunni, apre la loro mente, li stimola a un tipo di sapere critico e li rende liberi).

Vero è che per i docenti s’impongono cautele e garanzie aggiuntive nel momento in cui li si dovrà valutare, perché socialmente sovraesposti e perchéla loro autorevolezza o immagine positiva non può essere intaccata, nel senso di ricevere uno stigma negativo agli occhi degli studenti, se non in casi acclarati di incapacità o di persistente insufficiente rendimento (13). Ma non per il fatto che si tratti di una valutazione difficile la si deve rinunciare, potendo – e dovendo – essa essere condivisa, non invasiva, circoscritta e precisata negli esiti, circondata da procedure trasparenti e magari garantita dalla presenza di associazioni professionali che attutiscano o filtrino il potere del soggetto valutatore. Rispettate queste e altre possibili ragionevoli condizioni, non dovrebbero sussistere impedimenti a che la prestazione fondamentale o istituzionale – l’insegnamento – sia valutata nella sua idoneità ad innescare significative strategie di apprendimento efficace, previa formalizzazione di profili di qualità, secondo criteri di sensatezza e da tempo indicati dalla comunità scientifica (14).

Di sicuro non stimiamo condivisibili valutazioni che si basino sugli esiti dei test di profitto degli alunni/studenti, nella presunzione della loro oggettività, che condurrebbero inevitabilmente a un impoverimento della didattica (risolventesi in un addestramento dei discenti sui predetti test), indurrebbero riflessi negativi su un apprendimento critico, metterebbero in competizione i docenti e così accentuando il loro individualismo, che ben si evidenzia nei gradi superiori, nel mentre l’insegnamento – la sua progettazione, realizzazione e verifica – è impresa collettiva di una comunità professionale.

3.4. Sanzionando e all’occorrenza allontanando dall’insegnamento coloro che si dimostrino palesemente inidonei alla funzione, ben potrebbe privilegiarsi la premiazione per gruppo: tipo i docenti della classe o quelli di un plesso che lavorino a stretto contatto, integrandosi la retribuzione di base, collegata all’anzianità di servizio, con quella professionale, di adeguata consistenza e utile agli effetti del trattamento pensionistico e del trattamento di fine rapporto.  

Al riguardo non possono considerarsi soddisfacenti le soluzioni apprestate dall’ultima legislazione, in particolare per quel che concerne l’estemporanea figura del docente stabilmente incentivato e già docente esperto (15), forse creata in conseguenza della fretta e dell’approssimazione con cui si son dovute tradurre in un testo normativo entro i termini imposti dal PNRR per non perdere i relativi finanziamenti dell’Unione europea. Potranno e dovranno pertanto – sussistendo la volontà e la forza per abbattere le barricate che saranno frapposte – essere riviste e corrette, in tempi più distesi, per impostare una vera carriera per i docenti, “anche con un’articolazione della funzione”: sì da rendere attrattivo l’insegnamento come professione dignitosamente remunerata e – perciò e soprattutto – socialmente apprezzata (16).

4. A seguire

Ben s’intende che la realizzazione di un insegnamento di generalizzata qualità, perciò inclusivo, richiede interventi di sistema,affrontandosi e armonizzandosi le eterogeneevariabili che lo incidono e che sono, ragionevolmente, nella disponibilità del ministro dell’Istruzione e del Merito e del Governo che l’ha espresso: che pertanto – e non è cosa di poco momento – dovranno ora metterci del proprio, ma avendo una prospettiva di durata di gran lunga più garantita rispetto alle precedenti coalizioni anomale o ai cd. governi tecnici per affrontare le emergenze, le une e gli altri di corto respiro.

Sicché, in relazione ai predetti – e ineludibili – interventi di sistema, sul merito dovremo ritornarci.


NOTE

 (1) Francesco SINOPOLI, Sul concetto di merito e sull’idea costituzionale della scuola pubblica, www.flcgil.it , 25.10.2022.

Ma fa decisamente specie che consimili posizioni, che “Il merito è una bufala”, vengano assunte da docenti universitari in prestigiose università straniere ed editorialisti nei maggiori quotidiani nazionali, non di certo digiuni di scuola: così Michela MARZANO, Chi sa riconoscere il vero merito?, la Repubblica, 03.11.2022.

(2) Quirino CAMERLENGO, Costituzione e merito, tra solidarietà e pari dignità sociale, https://eticaeconomia.it/argomenti/diritti-politiche-sociali/. Ma – prosegue l’Autore, professore ordinario di Diritto costituzionale – la Costituzione attribuisce valore al merito che, “lungi dall’esaltare la dimensione individualistica della persona, ne sancisce la vocazione solidale e inclusiva”.

(3) Cfr. Umberto POTOTSCHNIG, Istruzione, Enciclopedia del diritto, 1973; Sabino CASSESE-Alberto MURA, in Commentario alla Costituzione italiana, artt. 33-34, a cura di Giuseppe Branca, 1976; Alberto MURA, Scuola, cultura, ricerca scientifica, in Giuliano AMATO-Augusto BARBERA (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Il Mulino, Bologna (ed. 1994), pp. 893-906.

(4) “Preso sul serio il principio della pari dignità sociale, esso impone di riconoscere al merito un’attitudine universale, quale condizione aperta a chiunque, indipendentemente dal titolo di studio, dal lavoro svolto, dalla posizione assunta all’interno della compagine sociale… E come qualità sociale il merito esige una restituzione alla comunità in termini di impegno responsabile per la coesione sociale”: Quirino CAMERLENGO, cit.

(5) Anna Maria POGGI, L’articolo 34 della Costituzione, lamagistratura.it/primo-piano/lart -34della – costituzione/ -, 13.06.2022, in cui puntualizza che l’istruzione superiore non è impedita a nessuno, tuttavia solo ai capaci e meritevoli la Repubblica (e dunque qui essenzialmente la scuola) si obbliga a renderla possibile anche ai privi di mezzi. Per l’ordinaria di Diritto costituzionale è una restrizione imposta dal limite degli investimenti pubblici, che attingono dalla tassazione generale; ma è da ritenere che dipenda non meno dal fatto che i titoli di studio rilasciati hanno valore legale, a significare certezza legale del possesso, da parte dei titolari, di determinate conoscenze (e competenze) professionali in conformità agli standard fissati dall’ordinamento.

(6) Sempre la Corte costituzionale, con sentenza n. 208/1996, ha ribadito che il diritto allo studio non è indiscriminatamente generalizzato, essendo in realtà riservato ai capaci e meritevoli. Sicché conferma la sua decisione n. 274/1993, che l’impegno profuso dalle istituzioni verso i capaci e meritevoli non possa prescindere da un’attenta valutazione del merito scolastico, ciò implicando un riscontro del profitto.

Analogamente, Guido CORSO, Il merito nella Costituzione italiana, https://www.ilmerito.org, per il quale anche l’istruzione superiore può essere gratuita, ma non per tutti, bensì solo per i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi. Non basta però il merito – ossia la buona volontà, l’operosità – se manca l’attitudine: “ciò vuol dire che capacità e merito sono un tutt’uno”.

(7) Rita MANZARA, Gestire il merito all’interno dell’inclusione, www.edscuola.it, 04.11.2022.

(8) Quirino CAMERLENGO, cit.

(9) Giuseppe VALDITARA, La scuola di oggi è classista. Ora un’alleanza per il merito con studenti e insegnanti, (Intervista a), Corriere della sera, 31.10.2022.

(10) Di tali studi e indagini – e non solo – vi è una puntuale rassegna nel ricco apparato di note in appendice all’ultimo e agile volume di Andrea GAVOSTO, La scuola bloccata, Editori Laterza, 2022.

(11) Art. 1, comma 2, D.P.R. 275/1999, Regolamento dell’autonomia: laddove è prescritto che gli interventi di educazione, istruzione e formazione, in quanto mirati allo sviluppo di ogni persona umana”, vanno adeguati ai diversi contesti… e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento”.

(12) Giuseppe D’APRILE, Facciamo attenzione a come parliamo di scuola, www.uilscuola.it, 29.10.2022.

(13) Scrive Massimo RECALCATI, Merito al merito, la Repubblica, 30.10.2022, che non si può far finta che, accanto ai tanti docenti capaci e meritevoli, non esistano coloro che sono palesemente incapaci e non meritevoli, dai quali trapelano “l’eccessiva durezza, il disincanto rassegnato, il cinismo nel giudizio e perfino, talvolta, il disprezzo aperto verso i propri allievi assente la consapevolezza dell’importanza cruciale della propria funzione educativa e didattica”.

(14) Sfogliando velocemente la letteratura di settore dovrebbero includersi:

  1. chiarezza espositiva. Il riferimento è, anzitutto, alla tradizionale lezione, il cui peso, un tempo assorbente, va decisamente contenuto. Pur conservando essa un’importanza strategica, vanno tenuti però ben presenti le regole basilari dell’efficacia comunicativa, in ordine alla quale esistono studi abbondanti e tutti concordi nell’affermare che con la sola parola (ben modulata quanto si vuole, non monocorde, calda, corredata da esempi …) passa, nella migliore delle ipotesi, non più del 45% del messaggio, il restante 55% dipendendo dal linguaggio non verbale. Se poi la parola è nuda, del messaggio passa solo il 7%!;
  2. equilibrio tra contenuti teorici e applicazioni operative/comportamentali, nei laboratori reali o virtuali;
  3. ottimale sequenza dei temi affrontati;
  4. uso di strumentazioni e di materiali a supporto della lezione;
  5. flessibilità e diversificazione dell’approccio metodologico;
  6. attenzione al clima d’aula e alla qualità delle relazioni;
  7. partecipazione/condivisione/trasparenza in ordine ai tempi, strumenti e modalità di verifica/valutazione: va bene anche l’interrogazione, purché esplicitata (e partecipata) nelle sue ragioni e nei suoi esiti;
  8. coerenza ed esemplarità nei comportamenti, ben tenendosi in mente che l’adulto (e il docente) è sempre, in positivo o in negativo, un modello significativo per il discente.

(15) L’articolo 38 del D. L. 115/2022, come convertito nella legge 142/2022, si riallaccia alle misure contenute nel precedente D. L. 36/2022 (convertito nella legge 79/2022) nel punto in cui ha statuito che “Per gli insegnanti di ruolo di ogni ordine e grado del sistema scolastico statale, al superamento del percorso formativo triennale e solo in caso di valutazione individuale positiva è previsto un elemento retributivo una tantum di carattere accessorio, stabilito dalla contrattazione collettiva nazionale, non inferiore al 10 per cento e non superiore al 20 per cento del trattamento stipendiale in godimento e nei limiti delle risorse disponibili”.

Fermo restando questo primigenio percorso di formazione triennale comportante una retribuzione una tantum se positivamente concluso, s’inserisce – a partire dall’anno scolastico 2023/2024 – il nuovo analogo percorso previsto dall’articolo 38 del decreto legge 115/2022 per i docenti esperti, poi ridefiniti docenti stabilmente incentivati dalla legge di conversione 142/2022.

Il predetto nuovo percorso è sempre rivolto ai docenti di ruolo “che abbiano conseguito una valutazione positiva nel superamento di tre percorsi formativi consecutivi e non sovrapponibili”, per non più di 8.000 unità; che potranno incrementarsi nella stessa cifra per ciascuno dei successivi anni scolastici 2032/2033, 2033/2034, 2034/2035 e 2035/2036, sino al numero massimo e non superabile di 32.000, per esaurimento delle inerenti risorse finanziarie:  ammontanti attorno a 250 milioni di euro, recuperati dalla riduzione dell’organico reso possibile dal decremento demografico degli alunni-studenti e riducendosi altresì il fondo per il miglioramento dell’offerta formativa (MOF) delle istituzioni scolastiche. Ragion per cui “dall’anno scolastico 2036/2037 le procedure per l’accesso alla qualifica di docente esperto sono soggette al regime autorizzatorio … nei limiti delle cessazioni riferite al personale docente esperto”.

A questi docenti così selezionati è corrisposto continuativamente – e valido sia ai fini della pensione che della buonuscita – “un assegno annuale ad personam di importo pari a 5.650 euro che si somma al trattamento stipendiale in godimento”: ma non prima di dieci anni, quando il suo valore d’acquisto sarà come minimo dimezzato e negli anni successivi – trattandosi di cifra fissa –  polverizzato dall’inflazione.

La qualifica di docente stabilmente incentivato – prosegue la norma – non comporta nuove o diverse funzioni oltre a quelle dell’insegnamento, imponendo solo il vincolo di permanenza di almeno un triennio nell’istituzione scolastica. Non sono dunque previsti gravami aggiuntivi, di maggiore impegno orario o altrimenti, non essendo l’obiettivo della legge quello di istituire una nuova figura professionale di supporto all’autonomia scolastica e alla progettualità didattica e collegiale, con afferenti implicazioni gestionali e organizzative; né quello di promuovere l’enfatizzata transizione digitale (se non nella sua classe e per i suoi alunni), dato che ai trentaduemila docenti già esperti finali ed ora stabilmente incentivati sarà richiesto di fare esattamente quello che faranno – e quotidianamente già fanno, ingegnandosi a farlo il meglio possibile – all’incirca ottocentomila disconosciuti docenti qualunque.

Si è detto che lo vuole – o, piuttosto, lo avrebbe voluto –  l’Europa; per la quale invece la formazione incentivata  è funzionale al riconoscimento di un impegno in attività di formazione-ricerca-sperimentazione didattica (includente la padronanza e l’uso delle tecnologie informatiche e multimediali) e al contributo nella diffusione nelle scuole di modelli didattici per lo sviluppo delle competenze; ovvero è intesa a “promuovere e sostenere processi di innovazione didattica e organizzativa della scuola e rafforzare l’autonomia scolastica”. Tal che sonoparte integrante della formazione attività di progettazione, tutoraggio, accompagnamento, guida allo sviluppo delle potenzialità degli alunni-studenti, sostegno ai processi di innovazione didattica, sostegno ai processi di innovazione organizzativa: tutti collegati al Piano triennale dell’offerta formativa, al Rapporto di autovalutazione e al conseguente Piano di miglioramento. Nel mentre, e con una filosofia del tutto opposta, la norma che ha introdotto nell’ordinamento il docente esperto, ora stabilmente incentivato,adombra una sorta di cursus honorum decontestualizzato e perseguito individualmente, con l’inevitabile innesco di meccanismi perversi di esasperata competitività e perciò fortemente divisivi, senza nessun prevedibile vantaggio e nessuna positiva ricaduta sulla complessiva qualità del servizio dell’istituzione scolastica.

(16) Se pure l’annuale rapporto Eurydice rivela una generale tendenza nei paesi dell’Unione europea sulla scarsa attrattività dell’insegnamento ed estensivamente del lavoro nella scuola, in Italia si è su livelli decisamente più marcati. Mancano docenti, con larga prevalenza nelle materie scientifiche, e non più solo al Nord. E mancano per la non proprio ragguardevole considerazione sociale della professione, ad un tempo causa ed effetto dei bassi salari, sia in cifre assolute e non meno se rapportati a quelli percepiti da coloro che a parità di titoli di studio svolgono le rispettive funzioni nelle altre amministrazioni pubbliche. Sicché la scuola, salvo per chi manifesti una vocazione all’insegnamento – o una vera e propria dedizione, per l’ex ministro Bianchi –, è vista alla stregua di un ripiego ovvero come un luogo prettamente impiegatizio, sottratto a una sia pure larvale valutazione delle prestazioni professionali e che fa da contraltare all’assenza di qualsivoglia carriera: mi dai poco e ti do – o mi sentolegittimato a darti – poco.

L’insegnamento come professione, dunque, non come nobile e sacrificale  missione: una professione appetibile e socialmente apprezzata, sì da rendere – prosaicamente –  convenienteintraprendere percorsi di formazione basica non lievi e derubricandosi a subordinate altre possibili scelte, seguiti da rigorose procedure di reclutamento per concorsi pubblici regolari e frequenti, poi assistiti da una generalizzata formazione in servizio strutturale-permanente-obbligatoria, con significative ricadute economiche in esito a positiva valutazione e non necessariamente escludenti la concorrenza dell’anzianità di servizio (peraltro riconosciuta e praticata, ma non in via esclusiva, in altri sistemi scolastici dell’Unione europea).