In Vinitaly veritas

In Vinitaly veritas

di Giovanni Fioravanti

Perché no? Si potrebbe istituire il liceo del made in Italy per dare luce, come dice la parola stessa, alle virtù creative nazionali. Tanti studenti licenziati al termine dei cinque anni di corso con l’etichetta “made in Italy “ stampigliata addosso.

Tutto coerente con quanto già scritto nel programma “Per l’Italia” con cui il centro-destra si presentò alle elezioni del 25 settembre scorso: “Made in Italy, cultura e turismo”, “Italiani all’estero come ambasciatori del Made in Italy”.

L’ultimo governo di centro destra fu un incubo per la scuola. Il Berlusconi IV, con dentro da Meloni a Salvini, da Forza Italia al Movimento per le autonomie del siciliano Raffaele Lombardo, tagliò in maniera drastica e indiscriminata le risorse per l’istruzione pubblica. Ripristinò l’obbligo del grembiulino, la valutazione in decimi alla scuola elementare e media, il maestro unico, tempo scuola a 24 ore settimanali, niente tempo pieno, fino all’affossamento definitivo degli istituti professionali, quelli dell’istruzione che ora il nuovo governo vorrebbe riverniciare.

Già abbiamo sei sorte di licei che divengono dieci se si considerano le diverse opzioni: scienze applicate, indirizzo sportivo, economico-sociale, beni culturali e ambientali. Più  undici indirizzi di istituti professionali e altrettanti di istituti tecnici. Uno dice fatto trentadue si può fare trentatré come le settimane di scuola ogni anno.

Eventualmente si tratterà di comprendere le differenze tra il liceo Made in Italy e l’indirizzo professionale Industria e Artigianato made in Italy, oppure con l’istituto professionale per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera tutto made in Italy, o, ancora, con l’istituto professionale per i servizi culturali e dello spettacolo o gli istituti tecnici per il turismo, quelli per il Sistema Moda sempre made in Italy, per non parlare del  liceo per i beni culturali e ambientali rigorosamente made in Italy.

Forse più che della moltiplicazione dei pani e dei pesci avremmo bisogni di semplificazioni e di sintesi, a meno che non si consideri il proliferare delle cattedre un buon investimento per accrescere il consenso elettorale.

In “Vinitaly veritas” viene da concludere. Perché l’impressione che la proposta del liceo Made in Italy non sia solo un ulteriore passo avanti nella promessa elettorale di rivedere in senso meritocratico e professionalizzante i percorsi scolastici e così andare incontro ai desiderata da tempo avanzati dall’imprenditoria nazionale. Ma sia piuttosto una tappa verso quella revisione culturale che questa destra ideologica, conservatrice e illiberale si è proposta come vero obiettivo della sua permanenza alla guida del paese.

È successo che l’Unione europea, l’immigrazione, la globalizzazione dei mercati e dell’economie minaccino quotidianamente l’identità nazionale, l’identità di un popolo e, dunque, una scuola del made in Italy è lo strumento più efficace per recuperare generazioni che rischiano il cosmopolitismo e la mondializzazione all’orgoglio per la propria italianità. Formarle al senso di appartenenza alla “Civiltà italiana”, quella del Colosseo quadrato all’EUR che sulla facciata porta scritto: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori e di trasmigratori”.

Questo in forte contrasto con la visione di una scuola luogo di formazione alla multiculturalità, alla mondialità, alla cittadinanza planetaria attraverso un’istruzione dal respiro globale a beneficio dell’intera umanità.

Non è un’operazione nuova quella di difendere la propria integrità nazionale, appartiene alla storia della nascita ottocentesca degli stati-nazione, ma da tempo avrebbe dovuto essere superata dalla globalizzazione, dalla domanda di libero movimento di merci, denaro e lavoratori, di culture e saperi.

Questo governo non si smentisce e ancora una volta dimostra di puntare ad una scuola come luogo dove plasmare le coscienze nazionali, promettendo un ritorno al passato, a un modello di scolarizzazione che serva esclusivamente alle necessità della nazione. In questo modello il contenuto dell’istruzione è determinato dall’interesse e dalle necessità nazionali in opposizione a quelle puramente individuali dell’ I Care, legate alla realizzazione dei singoli e al loro successo formativo.

Un sistema scolastico che supporti le necessità politiche della nazione attraverso l’educazione e la disciplina alla lealtà, alla patriottica cittadinanza imbevuta di made in Italy: una scuola etica e professionalizzante.

Ciò che interessa a questo governo non è dare realizzazione al PNRR per la scuola con i suoi ambiziosi traguardi e i i suoi diciannove miliardi da spendere entro il 2026. Forse  sono proprio quelli che pensano di restituire piuttosto che spenderli male in direzioni non desiderate, perché non condivise come asili nido, tempo pieno e mense, riduzione dei divari territoriali, competenze e nuovi linguaggi, nuove aule didattiche e laboratori, riqualificazione dell’edilizia scolastica. 

No, l’importante è ristabilire l’ordine in opposizione alle pedagogie progressiste, accusate di aver rovinato la scuola dai tempi della scuola media unica e di Barbiana fino ad averla ridotta addirittura ad essere causa di discriminazione. È scoccata l’ora della restaurazione, del restyling della scuola vera, quella del modello occidentale, diffuso in tutto il mondo dagli stati-nazione dei secoli già tramontati.

L’ educazione, quella vera, impartita in edifici specifici dove bambine e bambini, ragazze e ragazzi stiano separati dagli adulti. Con i rituali e le usanze di sempre, proprie delle scolaresche. Alunni contenuti nelle classi a cui deve essere insegnato secondo i metodi standardizzati in accordo con gli obiettivi del curricolo, con il libro di testo specificatamente scritto per l’uso scolastico come fonte maggiore di apprendimento. Giovani separati dalla comunità e sistemati in ambienti in cui controllarli, che consentano di plasmare intere generazioni per servire agli interessi politici ed economici della patria.

Un sistema scolastico che torni a dar forza allo patria-nazione attraverso l’unificazione culturale contro le minacce etniche, linguistiche e culturali, che sviluppi il senso di appartenenza alla propria cultura made in Italy, con scuole nelle quali apprendere la preparazione professionale necessaria a servire il sistema delle infrastrutture economiche made in Italy.

Un incubo che il paese digerirà come normalità, come assoluta normalità della scuola, anzi come una scuola “finalmente” tornata normale.

Parlare di complessità senza vederla

Parlare di complessità senza vederla

di Maria Grazia Carnazzola

1- Complessità: un paradigma o uno slogan?

Non è facile dire che cosa si intenda per complessità, termine molto usato e abusato. La complessità esiste e si concretizza solo attraverso sistemi di relazioni. La complicazione (cum-plicare) può essere semplificata, la complessità no, va compresa nell’insieme, ogni cambiamento – anche piccolo – di un aspetto porta cambiamenti in molti altri aspetti interrelati. Certe concezioni scientifiche e visioni della realtà, ad esempio- sostiene Morin richiamando l’epistemologia genetica di Piaget- mantengono la loro vitalità perché non si prestano alla chiusura disciplinare. Un esempio. In questi ultimi anni, abbiamo imparato concretamente che la stabilità e la salute di un ambiente non dipendono da ciò che c’è in quell’ambiente, ma dall’interazione degli elementi che lo compongono e dalla loro complementarietà: ci sono elementi che compaiono, altri che si sviluppano, altri ancora che vi si oppongono nella ricerca di sempre nuovi equilibri.

Quando parliamo di ecologia, parliamo appunto della ricerca di un equilibrio, di un paradigma che regoli il ritmo, la direzione e la portata dei cambiamenti, riguardino essi l’ambiente, la società o la mente di ciascuno di noi. La storia ci insegna che molte civiltà del passato crollarono e sparirono nel nulla; negli ultimi decenni le ricerche di archeologi, climatologi, storici e paleontologi, a cui si sono aggiunti i palinologi- cioè coloro che studiano i pollini- hanno contribuito a corroborare l’opinione che a determinarne la scomparsa contribuirono in misura considerevole problemi di tipo ecologico e i danni che quelle società hanno causato alle risorse naturali da cui dipendevano. I percorsi che portarono al crollo sono tutti tendenzialmente simili: variazioni sul tema sia sotto il profilo naturale sia sociale, politico, economico e culturale. È stato così per i Maya, per gli abitanti dell’isola di Pasqua, per la città di Harappa nella valle dell’Indo, per Creta minoica…La crescita della popolazione ha spinto ad intensificare la produzione agricola, modificando i mezzi di produzione- l’irrigazione, l’uso di terreni meno fertili e di terrazzamenti- per una produzione sempre maggiore. Pratiche agricole insostenibili che hanno portato progressivamente a una diminuzione della produzione, a carestie che sono ricadute sull’organizzazione sociale, a guerre per il controllo delle risorse e a sommovimenti delle masse. La conseguente diminuzione della popolazione, a seguito di conflitti, carestie o malattie, ha portato con sè conseguenze sociali e perdite della complessità politica, economica e culturale raggiunte.

J. Diamond ha individuato otto categorie di pratiche che possono aver portato alla distruzione dell’ambiente, la cui importanza relativa varia da caso a caso in relazione agli equilibri che si sono composti nel tempo, ma che mantengono la loro forza esplicativa anche nel presente: 1) la deforestazione e distruzione dell’habitat; 2) la gestione sbagliata del suolo- con conseguenti erosione, salinizzazione, e perdita di fertilità-; 3) la cattiva gestione delle risorse idriche; 4) l’eccesso di caccia; 5) l’eccesso di pesca;6) l’introduzione di nuove specie; 7) la crescita della popolazione umana e 8) l’aumento dell’impatto sul territorio di ogni singolo individuo. Ci sono insegnamenti che possiamo trarre dalla scomparsa di queste civiltà cercando di comprendere quale fu il processo che le condusse all’ecocidio o il perché alcune sono scomparse e altre no, che cosa rese queste ultime meno vulnerabili. Ma ci sono aspetti che sono nuovi, e altrettanto devastanti, derivanti dal mancato governo delle tecnologie, di quelle dell’informazione in particolare, per i quali dobbiamo fare ricorso alle scienze dure per l’analisi e alle scienze umane per la sintesi e per la comprensione complessiva dei problemi che via via si pongono. L’incremento delle possibilità di informazione, legate all’utilizzo dei media, modificando fortemente la percezione e l’organizzazione del tempo e dello spazio, del senso di comunità e di appartenenza, contribuisce ad aumentare la complessità del reale. La consapevolezza che ogni media riproduce la realtà piegandola al proprio punto di osservazione e alle proprie modalità espressive, potrebbe costituire uno spunto di riflessione per un uso più accurato dei fatti e delle parole che rappresentano i fatti, per una conoscenza intesa, almeno, come possibilità di gestire la complessità come paradigma di rappresentazione dell’esperienza.

2- Riflettere sui limiti come strumenti di eticità.

Parlare di limiti comporta necessariamente il considerare che ha un limite ciò che è per sua natura limitato: i beni, le risorse, lo spazio fisico, lo spazio sociale. Ignorare questa realtà significa dilatare il presente e lo spazio, ignorando la loro finitezza, negando la possibilità di dare un senso al nostro interagire con l’ambiente facendo leva sull’intelligenza e sull’istruzione. Parafrasando il filosofo Carlo Sini, il limite è un confine ma è anche una soglia. Si apre qui il discorso sul rapporto limite-valore: quando la crescita supera il limite e diventa perdita netta per tutti, come la cattiva qualità dell’aria, dell’acqua, la distruzione delle foreste, l’inquinamento acustico, le solitudini e il diffondersi del senso di disagio, la mobilità insostenibile, la percezione sociale della salute, della malattia e della sicurezza… si rende evidente che è necessario collegare strettamente l’aumento delle risorse con il loro uso equilibrato, l’ecologia con la giustizia. Porre dei limiti alla “crescita necessaria”, all’inquinamento, al degrado… significa aver accettato l’ambiguità della loro presenza in partenza, accettare che sono al contempo un rimedio e un lasciapassare verso la definizione del “poco e del molto” e del poco e del molto “per chi”. È il “senso del limite” che la Scuola deve contribuire a promuovere, insieme alla consapevolezza che la vita- che viene prima di tutto- per essere compresa e vissuta deve accogliere il paradigma della complessità e l’idea che la sostenibilità riguarda i comportamenti e non solo le teorie. Se lo sviluppo non porta necessariamente con sé giustizia, cioè migliori condizioni di vita per tutti, bisognerà riconsiderare eticamente il rapporto tra Nord e Sud del mondo, anche alla luce dei nuovi equilibri geopolitici e alle aree di influenza conseguiti alla guerra in Ucraina. Per molti popoli globalizzazione continua ad essere sinonimo di occidentalizzazione; dal loro punto di osservazione è comprensibile: mandare scatole di latte in polvere dove non c’è acqua potabile fa bene certamente a qualcuno, forse non ai bambini a cui sarebbero destinate. Esportare la democrazia- intesa come forma di governo- funziona poco se non si fonda sulla capacità degli individui e dei gruppi sociali di contrapporsi, prima, e di mediare poi, lo constatiamo spesso. Democrazia è negoziazione di posizioni, di visioni del mondo, di valori e di costumi e ha senso solo sul presupposto dell’accettazione delle diversità- del pluralismo, dei valori della tolleranza, del rispetto dei fatti, dell’oggettività e dell’imparzialità-, ha come obiettivo la soluzione di problemi (nell’accezione pragmatista sottolineata da Peirce e ripresa da Dewey), esattamente come le scienze che fondano la formazione del consenso sulla controllabilità descrittiva- i fatti– e normativa –i valori– (Dorato).

3- Senza ecologia non c’è giustizia.

L’aumento della popolazione mondiale e la sua distribuzione condizionano lo sviluppo e sono una variabile importante per la definizione dei limiti, al pari delle scelte economiche e delle scelte politiche, per la salvaguardia dell’ambiente e la conseguente possibilità di uno sviluppo sostenibile.

“I poveri non sono i più grandi consumatori delle risorse del mondo; lo sono i ricchi” sosteneva Yashwant Sinha al Vertice mondiale dello sviluppo sostenibile nel 2002. Le cose non sono cambiate di molto. La popolazione che vive nei paesi ad alto reddito contribuisce in larghissima misura alle emissioni di anidride carbonica, gravando sull’ambiente naturale, e ricchi e poveri faticano a trovare una visione comune ed equa per una crescita che porti sviluppo per tutti. L’economia e la politica mondiali, i Governi sono chiamati a decisioni rispettose e responsabili per la protezione dell’ambiente naturale e per la sconfitta della povertà, ma l’opinione pubblica planetaria ha bisogno di coinvolgimento e di chiarezza, di informazioni dimostrabili e di una comunicazione corretta se si vuole veramente che l’inversione di tendenza si realizzi. Le parole non sono neutre: veicolano la memoria e la cultura a cui appartengono e, associate alle immagini del web, rimandano agli immaginari che generano. Sostenere l’ambiente è un valore, preservarlo è una missione che si realizza con azioni concrete, iniziando dai settori citati da Kofi Annan in un suo discorso: Acqua, Energia, Salute, Agricoltura, Biodiversità, e ripresi dai 17 goals dell’Agenda 2030. Viviamo tutti in un unico e solo pianeta che chiede, a tutti, responsabilità e comportamenti etici. I possibili passaggi perché ciò possa avvenire: prendere coscienza e far prendere coscienza del problema perché emerga un nuovo paradigma etico; costruire il consenso attorno alle possibili soluzioni o, almeno, intorno alla condanna della “crescita necessaria”, questa è cittadinanza politica; puntare sull’educazione, sull’istruzione, per sviluppare, attraverso l’apprendimento, intelligenza ambientale, sottolineando la necessità dei limiti.

4- Il compito dell’educazione: la scuola e l’istruzione.

I valori e i disvalori di una cultura vengono veicolati attraverso i sistemi simbolici che sostengono la costruzione della conoscenza, dei significati e del senso del vivere. La scuola non può essere mai considerata culturalmente “indipendente”, l’educazione esiste e deve essere progettata dentro una cultura e nell’era postindustriale, tecnologica, il modo in cui si attrezza la mente avrà le sue inevitabili ricadute sul dopo, nel modo di vivere e di concepire il mondo da parte dei cittadini, sosteneva J. Bruner. In questo senso la scuola è un fatto politico perché stabilisce le linee e i valori che dirigeranno le nostre pratiche nel mondo fisico, biologico, sociale e culturale.

Qualunque sia la scelta che facciamo, i quattro pilastri dell’apprendimento, come sostiene S. Dehaene, sono sempre gli stessi: l’attenzione, il coinvolgimento attivo, il riscontro dell’errore e il consolidamento. Vale per l’insegnamento in presenza così come per l’insegnamento a distanza perché, come sappiamo, e come le neuroscienze confermano, l’apprendimento è una dimensione personale, soggettiva. Insegnare significa prestare attenzione ai comportamenti degli allievi, scegliere i percorsi, gli argomenti, gli esempi, le parole più adatte perché le conoscenze di ciascuno si trasformino in sapere scientifico-disciplinare. Significa scegliere i tempi e i modi adeguati perchè ciascuno lavori consapevolmente. Fissare obiettivi chiari per l’apprendimento è un passaggio importante: chi impara deve avere chiaro lo scopo dello sforzo che gli è richiesto, a scuola e a casa, che cosa ci si aspetta da lui al termine di una lezione, di un percorso curricolare, perché l’obiettivo può orientare e facilitare il compito. Sottolineando qui che facilitare l’apprendimento non significa rendere le cose più facili, perché in questo modo si veicola la convinzione che quando non si riesce è perchè non si hanno le capacità; far sentire tutti” in grado di” è uno dei presupposti dell’azione didattica. Facilitare significa strutturare ambienti di apprendimento ricchi, seri, che sappiano catturare l’attenzione, rimuovendo nel contempo le possibili fonti di distrazione che aumentano il cosiddetto carico cognitivo estraneo. Entrano in gioco le teorie della mente sia di chi apprende, sia di chi insegna, gli aspetti metacognitivi dell’apprendimento e la consapevolezza che “qualsiasi relazione educativa sana deve essere fondata sull’attenzione, il rispetto e la fiducia in entrambe le direzioni” (S. Dehaene, Imparare, pag. 213).

Il mondo della formazione tutto, scuola e mondo accademico, è chiamato a riflettere e a far riflettere sulla caduta di senso generato dal paradigma economico della crescita necessaria e smisurata, perché la smisuratezza porta con sé la svalutazione dei fini e la sopravvalutazione dei mezzi che, a sua volta, offusca il senso del tempo (le radici), le speranze (il futuro) ed espande il senso dello spazio, del qui e ora, alimentando la minaccia dello sterminio ecologico e sociale. Le tecnologie hanno influito fortemente sulla convinzione che il progresso tecnologico coincida con il progresso sociale, sono diventate parte integrante della nostra vita quotidiana e iniziamo a percepirne gli effetti negativi quando non le governiamo, quando misuriamo l’impatto esclusivamente sul breve periodo, quando ne accettiamo la “naturalezza” considerandone l’utilità personale, quando non verifichiamo se contribuiscono a risolvere un problema reale o se sono solo commercializzate come se lo fossero, senza tenere conto delle implicazioni sociali, ecologiche, politiche a livello macro e sul lungo periodo, senza chiederci mai “la crescita è buona e necessaria: per chi?” Il rischio di svuotare le parole di senso, trasformandole in slogan, è reale e diminuisce la capacità di comprendere le ragioni degli avvenimenti, di indagarne gli scopi e le finalità, di smascherarne le falsità, le mistificazioni e gli interessi, chiudendoci nel nostro microcosmo esistenziale.

Su questo fronte si giocano le responsabilità degli adulti nei confronti delle nuove generazioni perché “…la ricchezza della vita umana dipende dalle opportunità economiche, dalle capacità sociali, dalle libertà politiche. Se ce ne sono alcune e non altre, tutte sono vulnerabili, se procedono di pari passo, non hanno questa debolezza” ha avuto modo di dire Amartya Sen nel corso di un’intervista ormai molti anni fa. La crescita riguarda il prodotto interno lordo, lo sviluppo ha un significato più ampio, ha a che fare con la libertà, è proiezione nel futuro e deve fare i conti con i modi, cioè i comportamenti e le azioni, necessari per realizzarlo e per sostenerlo. Il mondo di oggi è il frutto delle scelte fatte venti, trent’anni fa; quello di domani sarà il frutto delle scelte che faremo oggi. L’obiettivo è quel “bene sufficiente” su cui fondare uno sviluppo quanto più sostenibile, per un numero sempre maggiore di persone, tra cui il diritto all’istruzione, formazione, educazione. Di questo abbiamo bisogno tutti, nell’intero corso della vita. Di questo hanno bisogno i nostri giovani. Tutte le innovazioni, riforme, tutti i dibattiti su livelli di apprendimento, sulle carenze, sulle eccellenze continueranno a non avere senso se al centro non si pone la professionalità degli insegnanti, il loro reclutamento e la manutenzione della loro professionalità, attraverso la costruzione/ricostruzione di patti e di contratti (e l’inversione di politiche nazionali e sindacali che non possono continuare a garantire il diritto all’incompetenza e all’inadeguatezza) che pongano l’accento sulla necessità di insegnanti colti, competenti, attrezzati dal punto di vista relazionale, pedagogico e psicologico, eticamente attenti a quello che accade e ai cambiamenti in atto nelle società. Per non continuare ad assistere alla crescita dei problemi e delle deleghe educative o a lamentarsi delle manifestazioni di fragilità dei ragazzi (Pietropolli Charmet).

5- Dicono gli adulti…

Si dice che sono disimpegnati, insolenti, indifferenti, apatici, senza ideali. Non sanno scrivere, non leggono, non conoscono la storia, non sanno la geografia; non gli interessa la politica, l’economia; sprecano i soldi, non hanno interessi né passioni; sono depressi. Questo dicono- diciamo- di loro, dei giovani. Pier Paolo Pasolini, nella prima delle “Lettere luterane” scriveva che i giovani sono l’ambiguità fatta carne, hanno occhi che sfuggono, il pensiero perpetuamente altrove, hanno lineamenti contraffatti come gli automi, hanno comportamenti stereotipati e rozzamente primitivi. Non sorridono, ghignano. Non ridono, sghignazzano. Era il 1975. Quei giovani di cui scriveva siamo noi, gli adulti- quasi anziani- di oggi. Noi che osserviamo, critichiamo, biasimiamo, condanniamo. Non sappiamo capire o non vogliamo? Le cose sono sempre quelle sotto il sole, dice Qohèlet. I giovani di oggi sono come i giovani di sempre: falsamente spavaldi, arroganti, aggressivi, con grandi paure. Timidi. Fragili. Con le euforie, le inquietudini, le stanchezze, le debolezze e gli entusiasmi e le sofferenze meravigliose che si hanno da giovani e poi mai più. Ma hanno le loro profondità, dove non sappiamo entrare, o non vogliamo, perché dovremmo accettare, forse, che i giovani non siamo noi e che abbiamo delle responsabilità precise. Allora, forse, sono gli adulti- genitori, nonni, insegnanti- ad essere diversi? Certamente le cose che non sanno non gliele abbiamo insegnate.

Dicono che i giovani sono disorientati, spaesati, confusi. È vero. Forse vorrebbero insegnanti, padri, madri, nonni, vorrebbero regole anche solo per contestarle, vorrebbero autorevolezze. Cercano sfide che consentano di misurarsi per crescere, conflitti per sentirsi capaci di competere. Ma trovano solo altri compagni, amici non coetanei che capiscono, dicono sempre di sì, iperprotettivi, senza autorevolezza, che vanno a prenderli a scuola perché fa freddo, o fa caldo, o perché ci sono 500 metri da fare a piedi. E poi li lasciano vagare fino alle cinque di mattina a sedici anni.

Dicono che i giovani non sanno affrontare le difficoltà, risolvere i problemi. Un po’ è vero, un po’ è falso. È vero perchè per risolvere problemi ci vuole competenza- che poggia su conoscenza e abilità- ed esperienza. Se nessuno insegna le soluzioni e li mette alla prova, o risolve i problemi al posto loro, o addirittura li rinvia e li nasconde, dov’è l’esperienza? E come si costruisce la capacità di trasferire le soluzioni ad altri contesti? È invece falso quando noi adulti consideriamo problema qualcosa che per loro non lo è, perché si attribuiscono alle situazioni significato e valore diversi.

Anche questa è complessità che va guardata da diversi punti di osservazione e gestita, sapendo che chi guarda è parte del contesto; non vale solo per i fenomeni sociali, una efficace dimostrazione, riferita ad un altro campo del sapere, la si trova nel recentissimo libro “Buchi bianchi” (Rovelli pagg.52-60). Possiamo leggere così quello che accade, gli episodi di violenza nelle scuole, da parte degli studenti e degli adulti; o i comportamenti e le reazioni che questi episodi provocano. Possiamo cercare negli interventi di dirigenti, docenti, del Ministero, un disegno complessivo e condiviso dell’istituzione che duri un po’ più che fino al prossimo episodio. Possiamo chiederci, perché questo è un vero problema, perché i giovani pensino al diploma come diritto esigibile e non come a un percorso di impegno che può costare anche momenti di fatica. Lo studio è un lavoro, si sa che lavorare stanca, è normale essere stanchi dopo una giornata di scuola, preoccupante sarebbe essere annoiati. O possiamo chiederci perché un genitore si lamenti rozzamente sui social per i compiti a casa del figlio, un comportamento che sottolinea ancora una volta la frattura che si è creata tra scuola e società, tra insegnanti e genitori, tra diritto alla collaborazione educativa e la pretesa di intervenire su contenuti e metodi. Uno dei pilastri dell’apprendimento, tornando a Dehaene, è il consolidamento, cioè l’esercizio che deve essere diversificato in relazione alle differenze individuali e ai bisogni. I compiti a casa sono necessari, devono essere assegnati per lo svolgimento in autonomia (i genitori non sono insegnanti), pianificati e distribuiti temporalmente dagli insegnanti per evitare carichi cognitivi eccessivi. I genitori sono liberi di scegliere come comportarsi, assumendosi la responsabilità della scelta. O, ancora, il tema fondamentale dell’orientamento come percorso di costruzione di identità personale, di cittadino, di lavoratore. Quali che siano le attuali professioni, le condizioni del loro esercizio, l’appagamento che ne deriva e i problemi dei canali di accesso, il lavoro dovrebbe essere un tema di riflessione molto prima delle scelte scolastiche. Come si legano i saperi alle professioni? Quante professioni in uno stesso contesto lavorativo? Quali sono i rapporti tra diritti e doveri e cosa è la qualità di un servizio? Cosa significa etica professionale? A me quale lavoro piacerebbe fare e quale sarei in grado di fare? Queste domande, e la ricerca delle possibili risposte, dovrebbero essere un tema con cui misurarsi in tutto il percorso curricolare- attraverso gli sguardi disciplinari- e non essere confinate al momento della scelta, perché le risposte si collocano a un altro livello: chi sono io, cosa voglio essere, cosa posso essere?

6- Per concludere

La scuola, organizzazione certamente complessa, ha bisogno di ritrovare con autorevolezza il significato e il senso del suo essere istituzione con un compito specifico che non può essere delegato, ma che può essere affiancato da altre istituzioni attraverso percorsi di condivisione concordati, pianificati e gestiti di concerto, magari evitando di ricorrere ogni volta alla logica di “aggiungere” un tassello, ma ripensando a un progetto complessivo che preveda anche la possibilità di “togliere” (P. Legrenzi) senza per questo tornare indietro. Innovazione non è sinonimo di miglioramento, anche se molto spesso questa confusione viene veicolata in modo tendenzioso- non certo per fini etici- dai media producendo nel campo dell’insegnamento/apprendimento i danni che sono sotto gli occhi di tutti e ingenerando nell’opinione pubblica la rinuncia a capire.

La formazione, strumento di condivisione concettuale e di esperienza, può considerarsi tale solo se accoglie la molteplicità e la profondità dei bisogni da soddisfare, l’eterogeneità dei destinatari e delle condizioni di partenza per promuovere professionalità competenti in percorsi co-progettati (Knowles,2008). Il senso dell’insegnare/apprendere diventa così la condivisione del verso, del dove e del come procedere con il supporto di figure competenti, formatori e tutor, che dopo le esposizioni teoriche restano, affiancano, tornano, monitorano e sperimentano. Viviamo in un contesto di complessità che porta con sé condizioni di crescente incertezza, in cui la precarietà diventa dato strutturale e dove il rischio di perdere i significati è reale. A questo proposito, può essere generativo riflettere sul pensiero espresso da Carlo Sini in “L’uomo, la macchina, l’automa”. La cittadinanza, la partecipazione, richiedono impegno, sforzo e lavoro, chiedono di confrontarsi con più contesti dove immaginare le possibili soluzioni per costruire la propria identità, in una società che vive al di sopra dei suoi mezzi fisici, psichici ed ecologici, per dirla con D. Cohen (2022). Quale identità declinano i docenti e la scuola tutta? Non c’è una trama di regole, di principi e di valori che, per quanto “elastici”, siano riconosciuti dalla collettività e da qui bisogna partire. La scuola ha bisogno di ritrovare la sua identità, arricchendo gli strumenti culturali di cui dispone, implementando le competenze professionali dei docenti che non possono limitarsi a diventare “esperti” di tecnologie o di strategie speciali, ma che devono continuare ad essere forti sul piano culturale, psico-pedagogico, didattico e dei valori. A insegnare s i impara, sosteneva E. Claparède. Forse è davvero giunto il momento di lavorare per garantire a tutti, come premessa e orientamento, quell’uguaglianza morale di cui parla A. Sen (1985). Un’uguaglianza di “capacità” – che includa le differenze, le caratteristiche personali e le condizioni di contesto- intesa come raggiungimento di risultati di funzionamento che consentono a tutti di scegliere in autonomia e in libertà e di rispondere delle proprie scelte.

Riferimenti bibliografici

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