Riorientamento scolastico

Riorientamento scolastico
L’ultimo tabù?

di Davide Fricano

Forza di carattere. Accogliere moltissimi stimoli e lasciare che agiscano profondamente, lasciarsi deviare moltissimo, quasi fino a perdersi, soffrire moltissimo – e tuttavia riuscire ad attuare il proprio orientamento complessivo.
Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, 1869-1889

Introduzione: scuola formale e scuola materiale

“Riorientamento scolastico”, espressione che non da molto tempo è stata “sdoganata” nel lessico scolastico manifestandosi in occorrenze sempre più frequenti, ma non tanto spesso quanto dovrebbe. Anzi, la sostanziale trascuratezza in cui versa tale aspetto, invece cruciale, del processo di scolarizzazione degli studenti della secondaria di secondo grado contribuisce probabilmente in modo decisivo a produrre certe criticità che a livello sistemico si tende a superare per lo più con strategie e soluzioni che alla lunga corrono il rischio di rivelarsi in effetti come diversivi, accorgimenti elusivi che finiscono per spostare il focus del problema altrove e, semmai, complicare loro malgrado altri aspetti nevralgici del funzionamento della vita scolastica. Tra le tante linee guida, indicazioni prescrittive, note esplicative, circolari e direttive integrative, ordinanze interpretative, gli altrettanti decreti attuativi emanati a supporto di misure normative generali, perché non dedicare un documento di istruzioni tecniche e operative in modo peculiare al fenomeno del riorientamento di quegli studenti che hanno sperimentato gli effetti di una scelta di indirizzo scolastico rivelatasi purtroppo infelice e inopportuna?

Rispondere a tale interrogativo è uno degli obiettivi di questa riflessione: esponendo una breve rassegna delle norme più significative in tema di orientamento e cercando di capire quanto ci sia di coerente, con questo impianto normativo, in ciò che è stato concretamente fatto e nelle interpretazioni applicative che nel mondo della scuola sono risultate più diffuse, si espliciteranno alcune ipotesi sulle ragioni per cui sono scaturite e si sono affermate nel corso degli anni talune pratiche orientative e cosa in tali concezioni e processi non funziona. Infine, si proporrà un modello alternativo di riorientamento scolastico, ovviamente emendabile, che dal punto di vista teorico e pratico possa costituire un’opzione da percorrere.

Lo sfondo di questa disamina è costituito dalla rielaborazione di una metafora che ha avuto notevole successo nel mondo del diritto e che può tornare utile a comprendere le dinamiche con cui si è sviluppata la logica dell’orientamento scolastico e quelle con cui può essere utilmente riconfigurata. Il modo in cui esso è stato concepito scaturisce dall’incrocio dialettico di due dimensioni del sistema scolastico: il piano formale, costituito da ciò che le norme prescrivono, e quello sostanziale o materiale, dato dal filtro ermeneutico con cui sono state poi trasferite sul piano attuativo, operativo. Si sa che in ogni produzione normativa lo snodo critico sta nel delicato processo di bilanciamento tra un insieme di valori di base, cui ci si ispira assiologicamente, e le esigenze reali, concrete del tessuto che dovrebbe essere normato da tali leggi; così anche per la comunità scolastica ciò che le scuole di volta in volta hanno manifestato come esperienza di bisogni e dati, direbbe il buon Machiavelli, “effettuali” si è dovuto confrontare con la sfera ordinamentale delle norme ponendosi di volta in volta o come correttivo (in caso di scarto tra quanto rappresentato in sede legislativa e quanto espresso dalla realtà concreta), oppure come fisiologico e diretto riscontro applicativo (che si ha quando ciò che pragmaticamente accade nel mondo della scuola diventa una sorta di naturale laboratorio coerente con l’impianto normativo di riferimento che vede quindi confermata sia la propria validità, che la propria efficacia). Ma è pur vero che non sempre questo travaglio ermeneutico “correttivo” ha poi onestamente determinato risultati apprezzabili: a volte nelle norme di diritto scolastico in tema di orientamento si è letto molto di più, di differente, in termini peggiorativi, di quanto le norme stesse riportassero. La verità è che i due piani, materiale e formale, condividono meriti e demeriti rispetto al lacunoso inquadramento dell’orientamento scolastico in termini di riorientamento.

Come la Costituzione materiale, originaria, teorizzata da Costantino Mortati[1] dovrebbe compenetrarsi con quella formale cercando di trovare in essa un punto di equilibrata stabilità rispetto agli scopi e alle forze che la animano, così la sfera della prassi scolastica, l’uso, le abitudini, le esperienze effettive maturate nel mondo della scuola di giorno in giorno, le istanze e le necessità che da questo variegato e proteiforme organismo vanno, letteralmente, emergendo si spera possano trovare idonea interlocuzione e convergenza nella prescrizione normativa. Speranza però, come dicevamo, non di rado vana o a causa di una specie di sordità/ritardo del dettato normativo relativamente alle voci del campo vivo e vitale della scuola cui dovrebbe dar corpo e che al contempo dovrebbe recepire, o – all’opposto ‒ per un’indebita sovrapposizione di senso giuridico che la pratica della comunità scolastica impone a volte per effetto di forzature ideologiche o professionali. Ecco che allora per tanto tempo si è imposto materialmente un certo modo di realizzare orientamento scolastico in conseguenza di interpretazioni normative che ‒ “approfittando” della laconicità regolamentare, formale, sulla questione “riorientamento” ‒ hanno proposto modelli che si sono rivelati in poche parole controproducenti. D’altro canto questa stessa laconicità giuridica è già di per sé un notevole  problema che, in quanto tale, concorre a complicare lo scenario, e non solo perché ha predisposto a quel tipo di operazione, ma anche perché a sua volta è verosimilmente segno di una determinata visione della questione cui – questa volta virtuosamente – la dimensione materiale dell’autonomia scolastica ha ultimamente cercato di porre rimedio con progetti e regole che sempre più istituzioni scolastiche hanno finalmente deciso di darsi.

1. Orientamento normato, orientamento “normale”

Il sistema scolastico investe molto sull’orientamento, è risaputo. Misure ed interventi normativi arricchiscono un corposo dossier legislativo ripetutamente aggiornato ed integrato dall’Amministrazione centrale nel corso degli anni e delle varie declinazioni ministeriali cui governi e maggioranze differenti hanno dato vita nel loro succedersi[2]. Se ne impone dunque una ricognizione, seppure sommaria, finalizzata anche ad estrapolare il senso, la direzione cui le visioni ministeriali di “orientamento” finora maturate hanno dato vita.

Sin dal TU (il Dlgs 297/1994), nell’art.193-bis (aggiunto dalla Legge 352/1995 in fase di conversione del DL 253/1995, art.2) poi abrogato dall’art.17 del DPR 275/1999, siparla di attività didattiche integrative volte a favorire il passaggio di indirizzo degli studenti. Con la Legge 59/1997, art. 21, e il DPR attuativo 275/1999, l’orientamento è inquadrato nell’aspetto funzionale dell’autonomia scolastica, previsto com’è sia tra le voci di spesa vincolanti per il fondo finanziario ordinario, sia nell’ambito della ricerca, dello sviluppo e della sperimentazione, intendendolo come transito dello studente tra istruzione e formazione, ma anche tra indirizzi scolastici diversi. Su questa falsariga di autonomia, la Legge 107/2015 raccomanda di riservare una voce del PTOF all’orientamento, al fine di strutturare reti e convenzioni per contrastare la dispersione, incentivando autoformazione e istruzione per adulti, favorendo anche l’uso di locali scolastici nell’ottica dell’apprendimento permanente e monitorando grazie all’INDIRE i percorsi CPIA; il c.7 inserisce infatti esplicitamente l’orientamento tra gli obiettivi formativi da dover conseguire. Sempre la “Buona scuola” curva all’orientamento la sezione dedicata al curricolo, per le varie aree (Alternanza-Scuola/Lavoro[3], istruzione degli adulti, Istruzione e Formazione Professionale, ricerca, sperimentazione, innovazione –  anche tecnologica/digitale – rapporti col territorio, inclusione), invitando dirigenza e organi collegiali ad attivare iniziative di orientamento e a definirne al contempo un sistema complessivo (di cui parte non trascurabile è la redazione del curriculum degli studenti)[4]. Del resto, lo Statuto delle studentesse e degli studenti (DPR 249/1998) annovera esplicitamente l’orientamento tra i diritti degli alunni. Una buona, prima, organica sintesi degli indirizzi emersi fino al periodo a cavallo tra i secoli è rappresentato dalla Legge 53/2003: essa affida parte dell’orientamento alla regolamentazione dell’A-S/L[5]; indica l’acquisizione di crediti formativi conseguiti con la frequenza di segmenti del secondo ciclo e spendibili per un eventuale futuro reinserimento nei percorsi di studi; raccomanda che all’ultimo anno ci sia intesa con l’istruzione tecnica superiore e universitaria per programmi che implementino competenze e abilità nonché conoscenze specifiche per l’accesso a tali settori di istruzione. Inoltre, rispetto al PECUP (profilo educativo, culturale e professionale dello studente) si sostiene che la sua articolazione non può che passare per l’orientamento (conoscere forza e debolezza della preparazione, verificare l’adeguatezza delle decisioni circa il futuro scolastico, operare con flessibilità nei cambiamenti di percorsi, secondo le logiche del Long Life Learning). Il tutto viene preparato sin dalla secondaria di primo grado: in essa il terzo anno è volto a completare l’orientamento (va sottolineato del resto che nell’e-portfolio dell’orientamento confluisce la certificazione della scuola secondaria di primo grado). Il che riporta alla decretazione collegata al disposto normativo in materia di obbligo scolastico, formativo e orientamento: con il Dlgs 76/2005 (attuativo della delega presente nella legge) si auspica un orientamento funzionale alla scelta delle superiori o alla maturazione di un titolo conclusivo del primo ciclo. Il Dlgs 59/2004 all’art.9 aveva già previsto una diversificazione didattica in relazione all’orientamento verso percorsi futuri. E proprio il versante didattico, proiettato verso l’orientamento, è stato curato nelle norme successive, anche a proposito – ad es. – della certificazione delle competenze. Gli assi culturali e le relative metodologie didattiche (empirica, laboratoriale, ricerca-azione) vanno infatti canalizzati all’orientamento e le stesse competenze andranno poi certificate con modalità che lo favoriscano (Dlgs 62/2017 e DM 742/2017). Con i DM 139/2007 (che recepisce la Raccomandazione europea 2006[6]) e 9/2010, quest’ultimo sostituito dal DM 14/2024 (modelli di certificazione delle competenze per l’obbligo scolastico), si declina esplicitamente tale certificazione di competenze chiave ai fini dell’apprendimento lungo il corso della vita e dunque dell’orientamento (che diviene così il vero scopo dell’insegnamento/apprendimento).

L’ultima tappa di tale iter è il DM 328/2022 con le relative Linee Guida, su cui si è aperto – come ampiamente prevedibile – un serrato dibattito tra chi lo valuta come l’ennesima occasione persa per un serio ripensamento di un aspetto così importante delle politiche di istruzione nazionale, inquadrandolo come l’ultimo dei tanti interventi legislativi di settore che cambiano l’assetto della vita scolastica finendo però così per forzare i necessari e opportuni tempi di metabolizzazione di innovazioni precedenti (introdotte con modalità analoghe), e chi invece ne sottolinea la novità, la condivisibilità e la rispondenza all’esigenza di attualizzazione, cioè di avvio di un reale cambiamento che renda coerente la politica di istruzione del Paese con gli indirizzi europei prevalenti, da contrapporre ad un immobilismo, una stagnazione nella vita scolastica effettiva che sussisterebbe a dispetto delle tante norme di riassetto ed evoluzione di sistema periodicamente proposte.

Da questa rassegna si evince dunque l’importanza rivestita dall’orientamento nella determinazione delle politiche di istruzione, ormai da decenni. Orbene, tale centralità si gioca e ribadisce su più versanti: organizzazione ministeriale, expertise e performances attese da figure e profili professionali, valutazione (interna ed esterna) di sistema, ossia delle istituzioni scolastiche, attenzione specifica riservata ad alunni titolari di BES. Di questi, velocemente, daremo adesso conto.

1.a Uffici e organizzazione ministeriale

L’art.50 della Legge 12/2020 (riorganizzazione del Ministero) stabilisce che una delle aree funzionali ministeriali è quella dedicata anche all’orientamento (con la pianificazione per es. di esperienze formative indirizzate al lavoro, alla filiera formativa professionale, all’ITS). Col DPCM 208-2023 (riordino dei Dipartimenti ministeriali) il “Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione” si occupa di orientamento allo studio e professionale, di supporto alla realizzazione di esperienze formative finalizzate alla valorizzazione del merito e all’incremento delle opportunità di lavoro e delle capacità di orientamento degli studenti. In particolare è la “Direzione generale per lo studente, l’inclusione, l’orientamento e il contrasto alla dispersione scolastica”(una delle direzioni afferenti al Dipartimento) che con l’Ufficio II – “Welfare dello studente, partecipazione scolastica, dispersione e orientamento” si dedica al coordinamento di attività di orientamento allo studio e professionale, di analisi, ricerche, iniziative di contrasto alla dispersione, e di incentivazione del successo formativo. La “Direzione generale per gli ordinamenti scolastici, la formazione del personale scolastico e la valutazione del sistema nazionale di istruzione” con l’Ufficio IV – “Ordinamenti dei percorsi dell’istruzione tecnica, dell’istruzione professionale, dell’istruzione tecnica superiore e dell’istruzione degli adulti” elabora linee guida, note, guide operative, atti di indirizzo e standard, attiva il monitoraggio e stabilisce l’assegnazione di risorse per la realizzazione di PCTO, di tirocini e stage, fatte salve le competenze delle regioni e degli enti locali in materia; promuove infine azioni di orientamento al lavoro e alle professioni e di rafforzamento della filiera tecnico-scientifica non universitaria.

1.b Figure professionali: a) Dirigenti Tecnici (DT), b) Dirigenti scolastici (DS), c) Docenti

A) il DT collabora con i dipartimenti ministeriali per la gestione dell’orientamento allo studio e la formazione professionale. Col DM 41/2022 (Atto di indirizzo del ministro Bianchi) si assegna al DT, come ambito di intervento che ne definisca identità e ruolo, anche la formazione degli insegnanti concernente la didattica e, in essa, quella orientativa (volta ad incentivare motivazione e successo scolastico negli alunni).

B) Quanto l’orientamento sia elemento professionalmente strutturale per il DS, lo dimostrano alcuni riscontri. La parola chiave più ricorrente è “promuovere”, la promozione di attività, strutture, figure e processi utili a fini orientativi. Per la valutazione professionale del dirigente, l’orientamento è sia uno degli ambiti dei corsi che può dichiarare di seguire, sia un’eventuale rete di scopo cui può dar vita o partecipare, stando a quanto indicato nella nota esplicativa dell’auto compilazione del portfolio. Nell’Area di processo intitolata “Continuità e Orientamento”[7], da incrociare con gli omologhi dati di auto valutazione interna di Istituto e con quelli di valutazione esterna a cura del NEV, si considera se il dirigente promuova azioni mirate a favorire la continuità educativa nel passaggio da un ordine all’altro, nonché l’orientamento formativo e la didattica per lo sviluppo delle competenze orientative di base. Si valuta inoltre se promuova comunque specifiche attività di orientamento personale, scolastico e professionale degli allievi (anche con il coinvolgimento delle famiglie); parimenti in merito all’Inclusione, si esamina se in raccordo con i docenti referenti (BES, Orientamento, coordinatori di classe) il dirigente predisponga specifiche azioni di orientamento per gli alunni interessati, al fine di favorirne la prosecuzione degli studi e della formazione in contesti tutelati (es. progetti ponte, cooperative sociali ecc.). Azioni esemplificative del dirigente consistono nella promozione della formazione di un gruppo di lavoro sull’orientamento e sulla didattica orientativa (con la nomina di un docente responsabile), nell’organizzazione di percorsi di formazione specifici sull’orientamento destinati ai docenti, e nell’individuazione e definizione di modalità e modelli per l’espressione di consigli orientativi per gli studenti. Il dirigente infine dovrebbe promuovere la verifica dell’efficacia degli interventi sull’orientamento mediante un sistema di monitoraggio, con attenzione specifica ai risultati degli studenti nel segmento scolastico successivo, nel corso di laurea prescelto, nel mondo del lavoro. Auspicabile anche l’attivazione dirigenziale di uno sportello di orientamento affidato a docenti tutor con formazione specifica e l’organizzazione di incontri con Scuole/Università per fornire agli studenti elementi utili per la conoscenza e la scelta delle relative offerte formative (del territorio e non solo). Sempre in questa direzione, segno di un diligente operare dirigenziale sarebbe l’avvio di iniziative mirate alla conoscenza del territorio e delle realtà produttive e professionali, il sostegno alla progettazione e alla realizzazione di attività di sviluppo di “Career Management Skills” (stage, apprendistato, esperienze imprenditoriali, ecc.), la creazione di una sezione del sito web della scuola dedicato all’orientamento.

C) Per i docenti è di più stretta pertinenza il DM 850/2015 (art.8 c.4) – “Obiettivi, modalità di valutazione del grado di raggiungimento degli stessi, attività formative e criteri per la valutazione del personale docente ed educativo in periodo di formazione e di prova, ai sensi dell’articolo 1, comma 118, della legge 13 luglio 2015, n.107” (solo come premessa) poi rinovellato col DM 226/2022 – “Disposizioni concernenti il percorso di formazione e di prova del personale docente ed educativo, ai sensi dell’articolo 1, comma 118, della legge 13 luglio 2015, n. 107 e dell’articolo 13, comma 1 del decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 59, nonché la disciplina delle modalità di svolgimento del test finale e definizione dei criteri per la valutazione del personale in periodo di prova, ai sensi dell’articolo 44, comma 1, lett. g), del decreto legge 30 aprile 2022, n. 36, convertito con modificazioni dalla L. 29 giugno 2022, n. 79”: si fa dell’orientamento  una delle aree trasversali del laboratorio formativo. Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro relativo al personale del comparto Istruzione e Ricerca 2016-2018 e, in particolare, l’articolo 27 statuisce che il profilo professionale dei docenti è costituito da competenze di orientamento; sappiamo infatti che l’accertamento del possesso e dell’esercizio di queste è annoverato tra i criteri per la verifica degli standard professionali del personale docente in percorso di formazione e nel periodo annuale di prova in servizio. La Legge 79-2022 (sul Reclutamento docenti e l’alta formazione), come già il Dlgs 59/2017 (poi rivisto con la Legge 145/2018), prescrive che il percorso di formazione iniziale preveda la capacità di progettare, anche tramite attività di gruppo e tutoraggio tra pari, dei percorsi didattici flessibili e adeguati alle capacità e ai talenti degli studenti da promuovere nel contesto scolastico e in sinergia con il territorio e la comunità educante, al fine di favorire l’apprendimento critico e consapevole, l’orientamento, nonché l’acquisizione delle competenze trasversali da parte degli studenti, tenendo conto delle soggettività e dei bisogni educativi specifici di ciascuno di essi. Sostanzialmente sia per la formazione iniziale, sia per l’accesso ai ruoli del docente della secondaria tra le competenze professionali quelle valutative e orientative sono quindi essenziali. In linea di continuità, infatti, la formazione continua incentivata per i docenti prevede l’acquisizione di contenuti concernenti continuità e strategie di orientamento formativo e lavorativo.

1.c Orientamento nella valutazione delle Istituzioni scolastiche

Inserire l’orientamento esplicitamente come criterio di misurazione della qualità dell’offerta formativa delle istituzioni scolastiche è accorgimento che il sistema di istruzione italiano condivide con altre realtà scolastiche europee, in particolar modo quella francese e quella olandese. Nel Paese transalpino ispettori dell’educazione nazionale (Inspecteurs de l’Éducation Nationale – IEN) controllano la qualità dell’insegnamento offerto, i tassi di ripetenza, l’orientamento. Anche in Olanda oggetto di valutazione ed ispezioni sono le politiche di orientamento attuate dalle istituzioni scolastiche.

In Italia sia il RAV, sia lo speculare rapporto di valutazione redatto dal NEV dedicano ampio spazio alla gestione delle pratiche di orientamento da parte delle istituzioni scolastiche. La configurazione di questo spazio e le modalità previste dicono molto della visione strategica di sistema in ordine al tema.

Sono previsti appositi paragrafi: “Attività di orientamento” e “Tipologia delle azioni realizzate per l’orientamento”. Facendo un confronto con le stime delle realtà nazionali, regionali, provinciali, si deve valutare se siano state attivate, ed eventualmente quali, risorse operative finalizzate all’orientamento, e cioè: percorsi di orientamento per la comprensione di sé e delle proprie inclinazioni da parte degli alunni, il ricorso a collaborazione con soggetti esterni (consulenti, psicologi, ecc.), l’uso di strumenti specifici e mirati (es. test attitudinali), la presentazione agli alunni dei diversi indirizzi di scuola secondaria di secondo grado (anche ad es. con visite organizzate degli studenti agli istituti superiori, oppure con l’implementazione di incontri tra insegnanti della secondaria di primo grado e quelli della secondaria di secondo grado per definire competenze in input e output o per forme di coprogettazione) o dei corsi di studi universitari (incontri con i Centri di Orientamento e Tutorato degli Atenei, o anche con ex studenti dell’Istituto che frequentano l’Università) e post diploma,  il monitoraggio degli studenti dopo l’uscita dalla scuola (ad es. con la rilevazione degli esiti al termine del primo anno del corso universitario frequentato), l’organizzazione di incontri individuali di alunni con i docenti referenti per l’orientamento al fine di ricevere supporto nella scelte del percorso da seguire, la predisposizione di un modulo articolato per il consiglio orientativo da consegnare agli alunni (solo per le scuole del primo ciclo) e la valutazione della corrispondenza ed adeguatezza (ad es. numero di ammessi al secondo anno in percentuale tra coloro che hanno seguito e quelli che invece non hanno seguito le indicazioni dei consigli di classe della secondaria di primo grado) tra consiglio orientativo e scelta poi effettuata dagli alunni, le interazioni col territorio e con le realtà produttive e professionali (per le scuole del secondo ciclo), l’organizzazione di gruppi di lavoro (e la previsione di una referenza con cui enti esterni, famiglie e studenti possano periodicamente relazionarsi), reti e selezione di progetti[8] prioritari (soprattutto con riferimento alla sezione PCTO). Ovviamente, più sono le risorse attivate più elevata sarà la valutazione dell’efficienza del sistema operativo di Istituto e dell’efficacia delle azioni messe in campo. Il criterio di qualità prevede come giudizio ottimale (in un scala di punteggio da 1 a 7) il seguente: la scuola garantisce la continuità dei percorsi scolastici e cura l’orientamento personale, scolastico e professionale degli studenti; le attività di continuità sono ben strutturate; la collaborazione tra i docenti di diversi ordini di scuola è consolidata; la scuola realizza diverse attività finalizzate ad accompagnare gli studenti nel passaggio da un ordine di scuola all’altro; le attività di orientamento sono ben strutturate e coinvolgono anche le famiglie; la scuola realizza percorsi finalizzati alla conoscenza di sé e delle proprie attitudini; gli studenti dell’ultimo anno e le famiglie, oltre a partecipare alle presentazioni delle diverse scuole/indirizzi di studio universitario, sono coinvolti in attività organizzate all’esterno (scuole, centri di formazione, università); la scuola realizza attività di orientamento alle realtà produttive e professionali del territorio; la scuola monitora i risultati delle proprie azioni di orientamento; un buon numero di studenti segue il consiglio orientativo della scuola. In più, per la scuola secondaria di secondo grado: la scuola ha stipulato convenzioni con un variegato partenariato di imprese ed associazioni del territorio; ha integrato nella propria offerta formativa i percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento; questi ultimi rispondono ai fabbisogni professionali del territorio, le relative attività vengono monitorate, adeguatamente pubblicizzate e le competenze esitate vengono valutate e certificate.

Oltre alla sezione della piattaforma specificamente dedicata all’orientamento, quest’ambito interessa trasversalmente altre due dimensioni o aree: nella parte riguardante “Territorio e capitale sociale” la definizione delle caratteristiche economiche del territorio, della sua vocazione produttiva, la selezione di istituzioni ed enti significativi del distretto vengono effettuate e valutate tenendo conto di criteri tra i quali l’inclusione, la lotta alla dispersione scolastica, l’orientamento. Nella dimensione “Processi”, alla voce “Pratiche gestionali e organizzative”, nelle aree “Strategie e modalità organizzative” – “Sviluppo/valorizzazione risorse umane” – “Rapporti con territorio e famiglie”, gli indicatori includono la definizione della profilatura dei progetti prioritari, e tra questi sono espressamente previsti quelli dedicati all’orientamento, all’accoglienza e alla continuità.

Nel protocollo operativo delle visite del NEV, infine, le interviste a docenti con incarichi particolari, a studenti o rappresentanti dei genitori vertono esplicitamente anche sull’orientamento, le cui azioni – calibrate sui bisogni formativi appositamente rilevati – vanno esplicitate nel PTOF.

1.d Orientamento nelle varie tipologie, nei vari indirizzi e gradi di istruzione

Il tempo e lo spazio dedicati all’orientamento sono direttamente proporzionali al crescere del grado di istruzione, tanto che lo stesso esame di Stato nella secondaria di secondo grado conosce come sua funzione di fondo anche quella orientativa, per la prosecuzione degli studi. Si comincia sin dall’infanzia: nelle “Indicazioni nazionali per il curricolo dell’infanzia e del primo ciclo”, nelle “Linee Guida pedagogiche 0-6”, nonché nei recenti “Nuovi scenari” del 2018 è ripetutamente sottolineato che, anche in quel grado di istruzione, la scuola svolge un ruolo di orientamento verso gli studi successivi[9] ed a tale scopo sono indirizzate le istanze pedagogiche e l’articolazione del curricolo.

Tutto l’arco della scolarizzazione è dunque coinvolto nella realizzazione di questa delicata operazione formativa e didattica[10], ma di base, ai fini del tema del riorientamento, quel che ci interessa è quanto previsto per la secondaria di secondo grado. Man mano che si transita dal contesto liceale a quello tecnico e a quello professionale il peso riservato alle politiche di orientamento ritrova un riscontro sempre più ampio.

Il DPR 89/2010 concepito per la revisione didattica dei Licei vede come suo scopo anche l’orientamento, per favorire il quale vengono raccomandate a partire dal triennio attività di collegamento con Università, AFAM, ITS.

In merito all’istruzione tecnica, nella Direttiva 57/2010 si prevede una sezione dedicata all’orientamento informativo e formativo, all’insegna della continuità verticale e con l’auspicio della predisposizione di una rete come modello operativo. Nella Direttiva 4/2012 l’orientamento è classificato nella direzione del raccordo al lavoro e agli ITS; si accenna anche a forme di riorientamento, o interno o ad altri indirizzi scolastici, da attivare nel biennio. Infine, negli Allegati alle Linee Guida volte a gestire e accompagnare il passaggio al nuovo ordinamento, lo studio della Storia – al quinto anno – è mirato a far acquisire l’abilità di analizzare storicamente profili professionali anche in funzione dell’orientamento. Tutto il quinto anno in verità è dedicato ad approfondire tematiche ed esperienze finalizzate anche a favorire l’orientamento dei giovani nelle attività di settore, in approfondimenti professionali mirati, nella prosecuzione verso specifiche offerte di Istituti Tecnici Superiori e verso percorsi universitari.

Ma, sicuramente, è l’istruzione professionale quella in cui l’orientamento occupa uno spazio qualitativamente e quantitativamente più rilevante. Già con il Dlgs 226/2005, inerente ai percorsi di istruzione e formazione professionale, tra i livelli essenziali degli obiettivi connessi all’offerta formativa assicurati dalla Regione è previsto l’orientamento funzionale al recupero degli apprendimenti e il tutorato. Nel Dlgs 61/2017, tra gli strumenti per l’attuazione dell’autonomia nell’ambito dell’istruzione professionale, è indicato lo sviluppo di attività e progetti di orientamento scolastico, nonché di inserimento nel mercato del lavoro, anche attraverso l’apprendistato formativo. In tale norma si sollecita la definizione di un sistema di orientamento, del quale possa far parte la metodologia laboratoriale, insieme all’alternanza scuola lavoro (ora PCTO), perché essa viene presentata come fondamentale per la continuità del processo di orientamento teso a favorire la riflessione degli studenti sulle scelte operate rendendole più fondate e consapevoli. Con l’emanazione del successivo Regolamento recante la disciplina dei profili di uscita degli indirizzi di studio dei percorsi di istruzione professionale[11], nonché la revisione dei percorsi dell’istruzione professionale nel rispetto dell’articolo 117 della Costituzione (con il relativo raccordo quindi con i percorsi dell’istruzione e formazione professionale), si prescrive che, nel rispetto dell’assetto organizzativo del biennio dei percorsi dell’istruzione professionale, le istituzioni scolastiche effettuino, al termine del primo anno, la valutazione intermedia concernente i risultati delle unità di apprendimento inserite nel P.F.I[12]. A seguito della valutazione, il consiglio di classe comunica alla studentessa o allo studente le carenze riscontrate ai fini della revisione del P.F.I. e della definizione delle relative misure di recupero, sostegno ed eventuale riorientamento[13] da attuare nell’ambito della quota non superiore a 264 ore nel biennio (quota oraria destinata alla personalizzazione degli apprendimenti). I Piani triennali dell’offerta formativa comprenderanno attività e progetti di orientamento scolastico, anche ai fini dei passaggi tra i sistemi formativi di istruzione professionale e di istruzione e formazione professionale[14] (IeFP), sia per promuovere l’inserimento della studentessa e dello studente nel mondo del lavoro (magari attraverso l’apprendistato formativo di primo livello di cui al Dlgs 15 giugno 2015, n. 81), sia per facilitare la progressiva costruzione del percorso formativo di ciascuna studentessa e di ciascuno studente. Le Università e le istituzioni scolastiche possono stipulare convenzioni allo scopo di favorire attività di aggiornamento, di ricerca e di orientamento scolastico e universitario. Infine, nello schema di Decreto Interministeriale 358/2021 (per la definizione dei criteri e delle modalità per l’organizzazione e il funzionamento della rete nazionale delle scuole professionali, ai sensi dell’articolo 7, comma 4, del Dlgs 13 aprile 2017, n. 61) vengono espressamente richiamati il Dlgs 14 gennaio 2008, n. 21, recante «Norme per la definizione dei percorsi di orientamento all’istruzione universitaria e all’alta formazione artistica, musicale e coreutica, per il raccordo tra la scuola, le università e le istituzioni dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, nonché per la valorizzazione della qualità dei risultati scolastici degli studenti ai fini dell’ammissione ai corsi di laurea universitari ad accesso programmato di cui all’art. l della legge 2 agosto 1999, n. 264, a norma dell’articolo 2, comma l, lettere a), b) e c), della legge Il gennaio 2007, n. 1», e il Dlgs 14 gennaio 2008, n. 22, recante «Definizione dei percorsi di orientamento finalizzati alle professioni e al lavoro, a norma dell’art. 2, comma l, della legge 11 gennaio 2007, n. l», oltre che la normativa sul transito da A-S/L a PCTO, il tutto per ribadire che finalità della rete connessa all’aggiornamento di indirizzi di studio e profili in uscita è anche la promozione di strategie per orientamento (con riferimento pure a quelle in uscita dal primo ciclo).

Gli ultimi due capitoli di questo breve excursus riguardano l’istruzione degli adulti e quella superiore.

Per ciò che concerne i Centri per l’istruzione degli adulti, il Decreto Interministeriale del 2015 stabilisce che sia riservato un monte ore destinato ad attività di accoglienza/orientamento per la definizione del Patto Formativo Individuale; e così nel RAV l’orientamento è valutato sulla base del numero di patti formativi individuali sottoscritti. E, a proposito di RAV, gli esempi di domande guida e di individuazione dei punti di forza e di debolezza del Centro dicono molto sulla cornice entro cui le pratiche di orientamento sono inserite nel mondo dell’istruzione degli adulti: 1) il CPIA realizza percorsi di orientamento per la comprensione di sé e delle proprie inclinazioni? In che modo vengono attuati? 2) In che modo il CPIA realizza attività di orientamento finalizzate alla scelta del percorso formativo successivo? Queste attività coinvolgono le realtà formative del territorio? 3) Il CPIA realizza attività di orientamento al territorio e alle realtà produttive e professionali? In che modo vengono strutturate? La risposta ottimale a tali quesiti configura il livello d’eccellenza, che si può sintetizzare nel seguente profilo: il CPIA realizza azioni di orientamento finalizzate a far emergere le inclinazioni individuali che coinvolgono tutti i gruppi di livello; inoltre propone attività mirate a far conoscere l’offerta formativa presente sul territorio, anche facendo sperimentare agli allievi esperienze esterne (scuole, centri di formazione). Le attività di orientamento sono molto strutturate e pubblicizzate e coinvolgono anche famiglie, tutori, educatori per i minori.

Se con il Decreto Interministeriale 7/2/2013 (in particolare l’Allegato A – Linee Guida) si indirizza l’istruzione superiore terziaria verso la  promozione dell’apprendistato, dell’apprendimento permanente, del PCTO e dell’orientamento in genere (prevedendo la presenza di funzioni di orientamento e tutoring che supportino gli allievi in ingresso, in itinere e in uscita)[15], la Legge 99/2022 (sul sistema terziario di istruzione tecnologica superiore) assegna agli ITS Academy il compito di sostenere l’orientamento permanente dei giovani verso le professioni tecniche (aspetto ribadito nel DM 89/2023 – Allegato A). Sono peraltro previste azioni di orientamento anche nella scuola secondaria di primo grado e nei vari PCTO attivati in quella di secondo grado. Il DM 228/2023 – Allegato Tecnico, a proposito dell’indicatore n. 1, pone l’attrattività come prima componente di un percorso ITS Academy, collegandola all’esito delle attività di orientamento in relazione al corso proposto. Infine, il DM 191/2023, concernente l’accreditamento degli ITS, inserisce come requisito il fatto che nell’organigramma di Istituto sia presente personale (inclusa la Direzione) con comprovata esperienza nell’orientamento.

1.e Orientamento e BES  

Tra gli scopi fondamentali della Legge 104/1992 si trova l’affermazione dell’orientamento e della continuità come diritto del diversabile. Conseguentemente vanno attivate forme sistemiche e sistematiche di orientamento almeno a partire dalla prima classe della secondaria di primo grado[16]. Il Gruppo di lavoro operativo per l’inclusione che opera a livello d’istituzione scolastica prevede tra i propri membri eventuali specialisti che operano nella scuola nell’ambito dell’orientamento, quali psicopedagogisti o medici[17]. Nell’area BES dedicata ai Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) le linee guida (allegate al DM 5669/2011) indicano l’adozione in ambito scolastico di forme di orientamento e di accompagnamento per il prosieguo degli studi.

2. Postulato della ragion orientativa

Orbene, una prima e sommaria valutazione del prolifico portato normativo e documentale ne sottolinea una caratteristica fondamentale: le norme regolano e incentivano soprattutto l’orientamento da attuare nella nevralgica fase di passaggio tra cicli scolastici e/o tra sistemi formativi (istruzione e formazione professionale), ossia quel che nella prassi delle scuole è stato poi rubricato come orientamento in ingresso e in uscita con relative iniziative e piani organizzativi annessi e rimessi alla loro autonomia. Rispetto all’entità, quantitativa e qualitativa, delle indicazioni e prescrizioni ministeriali proposte nel corso degli anni, non appare invece dedicato uno spazio proporzionato al cosiddetto “riorientamento scolastico”, intendendolo nel suo significato più elementare e conciso: revisione delle scelte scolastiche degli alunni, maturata a seguito dell’emergere di problemi e difficoltà didattiche significative. Peculiarmente dedicate all’argomento appaiono infatti in modo più rilevante le Linee Guida nazionali sull’orientamento permanente, nonché le parti che si riferiscono al rilascio annuale della certificazione delle competenze contenute nelle ultime Linee Guida sull’orientamento attualmente vigenti[18]. Inclusi i riferimenti precedentemente fatti all’accenno nel TU al riorientamento, alle considerazioni presenti nella Direttiva 4/2012 in ordine alla possibilità di riorientare gli alunni ad altro indirizzo durante il biennio dell’istruzione tecnica, e a quanto esposto nell’ambito dell’istruzione professionale a proposito della funzione del tutor e del Consiglio di classe, nonché del monte ore flessibile e personalizzato da dedicare nel Piano di Formazione Individuale, non abbiamo invero molto.

Viene dunque da chiedersi quali siano le ragioni di tale laconicità istituzionale in merito. Siamo giunti pertanto all’incipit di uno degli scopi essenziali di questo lavoro, ossia rispondere al quesito con cui abbiamo introdotto questo studio: perché la normativa generale e quella ministeriale, che adesso conosciamo meglio, non si occupano di individuare e indicare protocolli operativi di attivazione, organizzazione e cura dell’intero processo che sta a monte del riorientamento scolastico che esulino dai meri adempimenti burocratici che regolano “amministrativamente” il transito da un indirizzo scolastico all’altro? Si parla di esami di idoneità, di esami integrativi, si concentra il focus operativo genericamente sul biennio (eredità – questa – ormai ancestrale della non attuata riforma dei cicli progettata dall’allora Ministro Berlinguer) e – per il resto – poco altro.

Tale riluttanza da parte del sistema a curare questo aspetto dell’orientamento sembra effettivamente recepire, e incoraggiare a sua volta, una prassi invalsa nelle istituzioni scolastiche fino a poco tempo fa, e soltanto ultimamente in controtendenza in diversi istituti. In questo caso ci sarebbe pertanto una convergenza sistema/scuole, spesso e per altri tratti vanamente agognata e puntualmente disattesa. Centro e periferia sostanzialmente concordano; tale confluenza si riconduce ad un ragionamento che si potrebbe, ci si conceda una licenza di “semplicismo”, tradurre nella postulazione di un senso di fondo così riassumibile: scopo dell’offerta formativa di ogni istituzione scolastica è il successo formativo e scolastico; tale successo si declina, per una forma di automatismo, nella “promozione” dell’alunno nel proprio corso di studi. Ogni divergenza da tale percorso, ivi compresi i trasferimenti, viene di fatto considerata come un’anomalia, una sconfitta, una criticità da evitare.

2a. Origine e conseguenze del postulato orientativo

Esiste una formulazione esplicita di tale postulato, quanto meno nella forma con cui è stato sopra enunciato? Forse no, ma il suo senso di fondo è stato probabilmente avvalorato dalle indicazioni contenute in una serie di documenti e dalle interpretazioni di cui esse sono state diffusamente oggetto nell’ambito delle istituzioni scolastiche.

Cominciamo dal RAV, il documento chiave per l’autovalutazione di Istituto sulla base del quale redigere poi il Piano di Miglioramento dell’istituzione scolastica, da inserire nel PTOF. Sappiamo che il Piano di Miglioramento è un punto basilare della pianificazione dell’offerta formativa di un istituto scolastico: indica le priorità e i traguardi attuativi che nell’arco di un triennio quell’istituto deve dimostrare di essersi sforzato di conseguire (e di cui poi trarrà un bilancio nella Rendicontazione sociale). Tali priorità, su cui incardinare la progettazione scolastica triennale, vanno individuate nell’area cosiddetta degli “esiti”. Nella relativa piattaforma ministeriale vengono infatti caricati a sistema dall’Amministrazione alcuni dati, confrontati con parametri provinciali, regionali e nazionali. La ricognizione di questi dati fa sì che l’Istituto, vagliando quelli più critici (ad es. gli scarti maggiori – in negativo ‒ tra i risultati conseguiti dall’istituto e quelli dei benchmark di riferimento), calibri i propri obiettivi operativi. L’area degli esiti prende in considerazione, con cifre in percentuale, le seguenti voci: alunni ammessi, alunni con giudizio sospeso, diplomati per fasce di voto, risultati nelle prove standardizzate nazionali, risultati a distanza (rendimento universitario e inserimento nel mondo del lavoro) e dulcis in fundo abbandoni e trasferimenti (in entrata ed in uscita). Talché, la deduzione è automatica: indicatore di criticità nell’offerta formativa dell’Istituto sarà – per es. ‒ un elevato numero in percentuale di trasferimenti in uscita e un ridotto numero di trasferimenti in entrata, soprattutto se confermato – in sofferenza ‒ con le cifre medie provinciali, regionali, nazionali. La plausibilità di tale lettura peraltro si auto alimenta in virtù dell’incontro con le attese delle componenti della comunità scolastica che vanno nella stessa direzione, avvalorandola: tra gli obiettivi contenuti nelle lettere di incarico dei dirigenti scolastici sono riportati gli obiettivi regionali, oltre quelli nazionali (estrapolati spesso dall’atto di indirizzo ministeriale) e di Istituto (priorità del RAV); per molti USR tali obiettivi includono la lotta e il contrasto alla dispersione (intesa come esito di un processo multifattoriale comprendente non ammissioni, giudizi sospesi, evasioni, abbandoni ecc.) che si traduce in una flessione del numero di iscritti e frequentanti. I dirigenti scolastici pertanto operano affinché il numero degli iscritti al proprio istituto non diminuisca e, semmai, aumenti, considerato che il conseguimento di tali obiettivi concretizza tra l’altro la possibilità di veder soddisfatta la legittima aspirazione alle gratificazioni premiali in termini di retribuzione di risultato.  I docenti, d’altro canto, hanno tutto l’interesse a non veder diminuito il numero di alunni della scuola, onde evitare il taglio delle cattedre e dunque l’odissea professionale (e logistica) che travolge i perdenti posto all’insegna di una rinnovata precarietà che colpisce gli insegnanti a tempo indeterminato (i quali non di rado sono già reduci da anni di precariato pre-ruolo, che ‒ con tutti i disagi vissuti ‒ rende tale situazione un’esperienza che essi sono comprensibilmente ben lungi dal voler sperimentare nuovamente). Resistenza alla mobilità studentesca interscolastica è poi notoriamente presente sia nelle famiglie, che negli studenti stessi: il cambio di scuola viene vissuto come un fallimento scolastico, considerate le aspettative coltivate a monte della scelta iniziale, una dequalificazione del titolo di studio auspicato, un trauma nell’abbandono di un luogo in cui magari nel frattempo sono nate relazioni affettive che potrebbero cessare con il cambio di una scuola e il venir meno di una quotidianità mattutina di frequentazione stabile.

Quali conseguenze genera l’imposizione di questo assetto ermeneutico? Almeno due: una di tipo organizzativo che è operativa a livello periferico e una di tipo didattico, in realtà più sovrastrutturale e meno diretta, gestita a livello centrale.

Cominciamo dalla prima. Se ogni istituto scolastico investe, e tanto, nell’orientamento in ingresso prevedendo gruppi di lavoro, figure professionali specificamente dedicate (magari tra le funzioni strumentali del piano dell’offerta formativa), iniziative finanziate con appositi capitolati del fondo di Istituto, tra cui spiccano i sempre più articolati “open day”, ciò accade – al netto di tante altre possibili puntualizzazioni – innegabilmente per offrire un’informazione più completa e approfondita sul corso di studi e favorire dunque una scelta più consapevole da parte degli studenti, ma è pur vero che la pratica si è poi spesso tradotta anche nella ricerca del modo di acquisire un maggior numero di iscritti rispetto agli anni precedenti (dato rivendicato spesso come indicatore di efficacia della virtuosità dell’azione implementata) e rispetto alle altre istituzioni scolastiche del distretto o ambito[19].

La seconda ricaduta riguarda la revisione epistemologica della didattica. E qui corre l’obbligo di una precisazione preventiva: non si intende asserire che le ragioni dell’introduzione di una serie di novità didattiche e della scelta delle modalità con cui sono state introdotte risiedano nell’agevolazione del paradigma di orientamento finora delineato. Si vuole semmai sostenere che non può escludersi che una delle ricadute ex post delle svolte didattiche intraprese a livello centrale vada ritrovata, appunto, in quel modello, finendo poi con l’alimentarlo, transitando così (tale cambiamento didattico) da conseguenza a concausa dell’implementazione di quella tipologia di orientamento e del suo postulato di fondo. Lo scenario pressappoco è questo: gli alunni si sono iscritti, magari persuasi anche dalle considerevoli energie profuse dagli istituti per dare concretezza all’orientamento in ingresso; come gestire ora quella quota tutt’altro che trascurabile di studenti il cui rendimento rivela tratti di pronunciata e ostinata problematicità rispetto agli insegnamenti curricolari? Naturalmente, sperimentare tutte le possibili iniziative di recupero rimane la via obbligata e maestra, ma qualora si rivelasse infruttuosa? In questo caso, pur di non disperdere il patrimonio umano rappresentato da questi alunni è veramente del tutto fuori luogo pensare che si sia voluto intervenire anche su piani più strutturali, quali quelli della didattica e della valutazione[20]? Per spiegare meglio il passaggio è opportuno concedersi una breve, ma funzionale digressione in merito.

2.a.1 Evoluzioni e involuzioni didattiche

Per anni nel mondo della scuola è stata percorsa la stagione delle grandi riforme scolastiche, spesso promosse dalle varie forze politiche di governo per segnare in modo riconoscibile il tracciato della propria azione in un campo della vita del Paese ambìto, ma anche molto difficile e impegnativo, come quello dell’istruzione. Programmi Brocca e lavori della relativa Commissione parlamentare, riforma Berlinguer, riforma Bertagna/Moratti, riforma Gelmini, “Buona Scuola” renziana, sono soltanto gli esempi di alcuni tentativi, più o meno riusciti, di intervento. Non è qui in discussione l’analisi “politica” di tali proposte, né si intendono indagare le retrostanti ragioni ideologiche, culturali o semplicemente finanziarie a monte di tali provvedimenti. Il dato sostanziale è che essi hanno spesso destato un vivace dibattitto, frequentemente scantonato in polemiche e contestazioni, tanto che per vari motivi e in vario modo (per via parlamentare o giurisprudenziale) alcuni di questi, in tutto o in parti (anche centrali) del loro dettato, sono stati accantonati, ridimensionati, congelati. Abbandonata dunque questa strategia di cambiamento, sembra essere stata scelta una maniera operativa radicalmente diversa: interventi mirati, specifici, settoriali, autonomi oppure attuati a distanza di tempo rispetto alla legge cui si richiamano (si pensi a parte della decretazione ricollegabile alla legge matrice 107/2015)[21]. Per citare alcuni esempi: introduzione della metodologia didattica PCTO e dell’insegnamento trasversale di Educazione Civica. In entrambi i casi, sia nei testi, sia nei corsi di formazione organizzati per le misure di accompagnamento all’introduzione di tali novità si è indirizzata la modalità attuativa di tali processi formativi e didattici sul versante delle Unità di Apprendimento, delle esperienze laboratoriali di esperienza civica, del service learning ecc. Tali attività, in particolare l’insegnamento di Educazione Civica (non a caso parzialmente sovrapponibile allo stesso PCTO), sostituiscono, integrano e condizionano le ore di lezione delle ordinarie Discipline curricolari, godendo peraltro di una posizione statutaria “privilegiata”[22]. Stessa logica, in parte, e stesso verso sta a monte dei moduli orari di orientamento previsti dalle recenti linee guida in materia. In definitiva, le ore di lezione delle Materie curricolari devono essere curvate ai fini dell’inserimento nei percorsi sopra menzionati: argomenti e metodi disciplinari quindi si dovranno adattare e dovranno essere rimodulati sulla base delle indicazioni contenute nelle relative linee guida. Seppure con sfumature di cogenza diverse[23], a livello ministeriale è stata caldeggiata e raccomandata più o meno direttamente l’adozione di determinate modalità di organizzazione della lezione da parte dei docenti. Lo si è fatto a volte in modo chiaramente prescrittivo, come nel caso delle Unità di Apprendimento come modello didattico da implementare negli istituti professionali o nei centri per l’istruzione per adulti, a volte in modo più morbido e indiretto per cercare di rispettare i limiti imposti dal dettato costituzionale sulla libertà assicurata all’insegnamento.

Ma perché queste misure costituirebbero un riscontro di quell’idea di orientamento diffusamente praticata e veicolata, da noi tratteggiata nei paragrafi precedenti?

Perché è ad esse sottesa una concezione della valutazione (e dell’istruzione) che agevola in un Istituto la permanenza di quegli alunni che sulla base di altri criteri, qualificati – più o meno correttamente poco importa ‒ come “tradizionali”, si rivelerebbe più difficile.

Vediamo di capire perché.

Gli indirizzi in cui si suddivide l’offerta scolastica della secondaria di secondo grado, determinano una profilatura specifica del curricolo. Possiamo distinguere un indirizzo ordinamentale (Liceo, Tecnici, Professionali) ed un (sotto)indirizzo specifico (scientifico, classico, tecnico economico ecc.). La differenziazione, ovviamente, si calibra sui curricoli e sul peso che in essi esercitano alcune Discipline, denominate appunto di “indirizzo”, rispetto alle altre. Alcune Materie costituiscono i marcatori degli indirizzi ordinamentali (ad es. liceo c’è, ove si insegna Filosofia e una volta ‒ prima della sostanziale ibridazione con i Tecnici, come nel caso dell’opzione liceale “Scienze Applicate” – Latino), altre quelle dello specifico curricolo (quelle cioè il cui monte ore o la cui presenza permettono di distinguere un liceo scientifico, da un classico ecc.). Posta questa strutturazione, è chiaro che il bilancio dei requisiti minimi di apprendimento nei vari corsi è per lo più, de facto, condizionato dal rendimento fatto registrare dagli alunni nell’arco di Materie che ricoprono, quantitativamente e qualitativamente, il maggior numero di ore, richiedendo impegno direttamente proporzionale. Tale impostazione ovviamente “penalizza” quegli alunni dal profitto deficitario nelle Discipline di indirizzo, magari per effetto di una scelta di orientamento in ingresso rivelatasi non fortunata. Poiché tale percentuale si rivela di una certa consistenza (si pensi al novero di alunni iscritti ai licei scientifici che proprio in Matematica denunciano i limiti più evidenti)[24], si è pensato di spostare l’asse della valutazione su un baricentro “eccentrico”. Ossia, si tende a ridimensionare il peso di conoscenze, competenze, abilità e capacità delle Discipline (soprattutto di indirizzo) nell’economia della valutazione complessiva e diluirle in un ambito più esteso, inclusivo di altri elementi che, mentre prima fungevano da corollario complementare e integrativo di valutazione, adesso – invertendo i pesi specifici – esercitano invece una “forza” dominante.

Avvalendoci di esempi: dedicare molte ore ad attività di Educazione Civica e PCTO, e considerare soprattutto tali percorsi come modelli didattici da emulare nelle altre, ordinarie lezioni curricolari delle Discipline, significa in poche parole prendere atto che nella valutazione dell’alunno di un liceo scientifico non peserà più tanto la sua capacità o meno di risolvere un esercizio durante un compito o un’interrogazione, quanto la capacità che ha di metter su una performance attiva su più codici (il più delle volte limitandosi a curare l’implementazione di uno solo dei quali, o addirittura solamente di alcuni segmenti di attivazione dello stesso) in cui lo svolgimento di questo esercizio è inserito, se non semplicemente rappresentato. Il tutto indipendentemente dall’effettiva capacità risolutoria: nate per opporsi a processi didattici rubricati come puramente mnemonici, tali modalità finiscono per riprodurre lo stesso limite; riportare un dato al fine di inserirlo in un processo d’azione più estesa (un compito di realtà, un prodotto multimediale) non garantisce che il report di per sé equivalga all’effettiva comprensione dello stesso, al saperlo padroneggiare. Girare video di buona qualità, accompagnarli con l’esecuzione di una colonna sonora accattivante, interpretare drammaturgicamente i contenuti di un teorema dando vita alla cosiddetta geometria creativa, sostenuta nella drammatizzazione magari dall’allestimento di una scenografia artisticamente apprezzabile, diventano processi formativi con cui talento, creatività, spirito di iniziativa, impegno e contenuti restituiscono degli studenti che ne sono artefici e protagonisti un profilo brillante e da premiare con un buon voto. La valorizzazione di questi talenti, soprattutto se spesi all’interno di un percorso formativo di educazione allo spirito civico o di costruzione e presa di coscienza della propria identità, diventa elemento docimologicamente prevalente, mentre parallelamente viene rappresentata come eccessivamente penalizzante una valutazione negativa qualora tale successo in questa dimensione della formazione non trovasse poi riscontro nel conseguimento di conoscenze e competenze tecniche che fanno capo a quel nucleo epistemologico del curricolo che ne definisce l’indirizzo. Sì, perché non c’è alcun automatismo tra crescita nell’ambito delle competenze cosiddette “trasversali” e potenziamento di capacità, contenuti e abilità “curricolari”: frequenti sono le occorrenze in cui gli alunni, trovandosi di fronte ad esercizi o quesiti standard, come quelli – per intenderci – che si ritrovano ai test standardizzati nazionali o nelle prove agli esami di Stato, di cui hanno gestito una versione esemplificata in una fase della performance sopra descritta (sotto forma di compito o prodotto di realtà), non si rivelano in grado di individuarne la forma, di identificarli correttamente, o comunque di applicarvi la corretta logica di risoluzione. Questo perché può accadere che l’attenzione e la concentrazione dello studente, volgendosi su ciò che egli percepisce come più “attrattivo”, si sposti sulle competenze trasversali, a discapito di quelle specifiche, finendo per acquisire sul piano meramente narrativo o recitativo le conoscenze dell’argomento che dovrebbe apprendere e quindi – come dicevamo ‒ per riprodurre in altra versione le dinamiche di quell’apprendimento nozionistico o mnemonico che pure tale metodologia didattica e pedagogica avrebbe dovuto contrastare.

L’asse portante dell’incentivazione di tale – peculiare[25] ‒ modello didattico “per competenze” è il seguente: i dati restituiti dalle prove standardizzate nazionali e internazionali hanno delineato criticità significative nelle competenze di base[26]. Tali fragilità sono riconducibili al permanere provincialistico di una cultura dell’insegnamento definita in alcuni documenti ministeriali “gentiliana”[27] (v. le Linee Guida allegate alla Direttiva 4/2012 sui programmi e le metodologie didattiche degli istituti tecnici), ossia – traduciamo ‒ trasmissiva, frontale, nozionistica, mnemonica e a canne d’organo (non interdisciplinari), peraltro veicolata nel corso di lezioni che presuppongono la passività dello studente, mero ricettore di informazioni dispensate in verbose lezioni che insegnano prevalentemente ad annoiarsi. La soluzione consisterebbe pertanto nell’adozione dei modelli didattici sopra descritti, capaci di coniugare, nella “formazione”, istruzione ed educazione. E siccome finora si è puntato sull’istruzione, peraltro con risultati appunto al di sotto delle aspettative, ora si deve far leva più sul profilo educativo: educare, più che istruire. Meno competenze e conoscenze tecniche e più competenze trasversali (soprattutto “civiche”); meglio un alunno e futuro cittadino più educato, anche se meno istruito, che viceversa. E quindi: percorsi interdisciplinari[28], in cui gli alunni, chiamati a far qualcosa di attivo, anzi di “proattivo”, usufruiscano di momenti formativi in cui il docente, insieme alla classe, sappia innestare le nozioni necessarie da “programma” nelle attività collaterali che le rendano spendibili in compiti accattivanti e utili.

Ora, al di là delle perplessità di ordine didattico cui già si è accennato, e volendo tralasciare considerazioni sulla condivisibilità o meno degli standard europei sulla base dei quali stimare adeguato o meno il livello di apprendimento degli alunni, su cui pure – prima o poi – sarebbe opportuno aprire una franca discussione, il problema riguarda la tenuta di sistema, la sua coerenza.

Esistono infatti quelle che si possono inquadrare come “strozzature di sistema”. La disomogeneità o discontinuità con cui normativamente si interviene per indurre questi cambiamenti didattici comporta che – perdendosi una prospettiva organica, sistemica che dia coerenza alle varie parti emendate – si finisca per creare un terreno scabroso, in cui se da un lato si spinge verso una certa direzione, dall’altro esistono delle chiuse, dei punti di uscita e dei passaggi obbligati che non stati adeguati a tali cambiamenti, ma semmai risentono di quelle che si potrebbero definire – nell’ottica degli innovatori – “vecchie logiche”. Possiamo sbilanciare quanto vogliamo l’insegnamento su competenze trasversali, alla fine però quel che gli alunni devono saper fare agli esami è risolvere esercizi, versioni, affrontare prove disciplinari specifiche su competenze tecniche. Finché l’atto conclusivo del percorso scolastico secondario superiore (in vista del quale ci si prepara, quanto meno nel secondo biennio e nell’anno terminale) sarà calibrato sull’attribuzione di un punteggio/voto determinato dalla valutazione di specifici compiti (uno dei quali di indirizzo), quell’operazione di riconfigurazione didattica si rivelerà produttiva in modo molto relativo. Per decidere il voto degli esami la Commissione dovrebbe anche tenere indirettamente conto del curriculum con tutte le esperienze e gli interessi maturati dagli alunni (potendovi imperniare il colloquio), ma alla fine è pur vero che sarà la capacità di risolvere prove che si rivelerà prevalente. O si cambia questo, o ha poco senso cambiare altro.

In altre parole, e tirando un po’ le somme con una provocazione: se davvero dobbiamo dare molto più peso docimologico ai progressi educativi corrispondenti alla maturazione di competenze trasversali, piuttosto che all’attivazione di conoscenze e competenze specifiche, tecniche e disciplinari incardinate nel versante formativo dell’istruzione, allora tanto vale obliterare l’articolazione per indirizzi (specifici e ordinamentali) dei percorsi scolastici superiori. Tale specializzazione, che peraltro richiede processi metacognitivi all’atto della selezione o scelta che ragazzi di 13 anni, pur assistiti da docenti e famiglia, è possibile che non siano ancora in grado di fare, può essere preservata, sì, ma declinandola in altra maniera. L’esperienza insegna che il biennio “comune”, di transito, serve solo a posticipare il problema, rinviando unicamente l’onere di affrontarlo. A 14 o 16 anni, il ritornello non cambia molto, anzi diventa molto più arduo prospettare cambiamenti al terzo anno, allorquando si consolidano e manifestano le difficoltà di apprendimento ricollegabili al carico di specializzazione presente nel curricolo di indirizzo. Più utile sarebbe forse istituire un unico corso superiore di studio con Discipline di base, riservando la specializzazione e gli indirizzi – anche ordinamentali ‒ ad una quota opzionale e facoltativa di corsi caratterizzanti, la valutazione dei quali quindi inciderebbe sul quadro complessivo in modo ridotto, inferiore, a questo punto per statuto e non per effetto di tortuosi rivolgimenti o infingimenti didattici.

3. Un’alternativa di riorientamento scolastico: proposta di un protocollo operativo

Naturalmente, quanto detto per le modalità di giustificazione di quella lunga rivoluzione didattica, vale – a maggior ragione – per il principio generale di cui essa costituisce una forma di realizzazione. Trattenere alunni in un determinato Istituto viene infatti presentato come un doveroso, umano atto di inclusione e accoglienza. “Presentato”, perché a monte di questa rappresentazione sta una sorta di processo di sublimazione con cui rendere socialmente accettabile – e dunque difficilmente criticabile – un fenomeno che, invece, può prestarsi anche a letture meno “confortevoli”. Per cui, come è possibile nutrire perplessità e ipotizzare controargomentazioni rispetto all’interventismo didattico, parimenti è possibile rilevare delle incrinature rispetto ad alcuni assunti sottesi alla narrazione di questa inclusività.

Cominciamo dalle prime osservazioni. Perché “sublimare”? Freud ci direbbe che di solito lo si fa per alleggerire il carico dei sensi di colpa che potremmo provare nel fare ciò che, sotto sotto, sappiamo di non dover fare. Questa è una pratica pressocché ordinaria della didattica e dell’insegnamento che, in proposito, non conosce purtroppo mezze misure. Passati da stagioni ed epoche dell’insegnamento in cui la legge ontologica e morale della didassi era “se l’alunno non apprende la colpa è sua”, tanto che sottolinearla con rituali poco commendevoli era ritenuto normale (il voto brandito come un’arma sanzionatoria, il rimprovero aspro coram populo per mancanze in condotta o per aspetti deficitari nel rendimento), siamo approdati per compensazione all’eccesso opposto irrobustito da copiosa letteratura sociologica e cinematografica: se l’alunno non apprende la colpa è del docente (o del famigerato “sistema” e delle sue contraddizioni). Fermo restando che di fronte ad un insuccesso scolastico, per di più tradottosi magari in un fenomeno di dispersione, è inevitabile per i docenti chiedersi se per evitarlo hanno fatto tutto ciò che fosse nelle loro personali corde e nelle loro prerogative professionali, d’altro canto formulari abusati nella fenomenologia linguistica degli insegnanti del tipo “dobbiamo interrogarci su dove abbiamo sbagliato”, di fronte a scenari docimologici negativi, tradiscono questa deriva di sovrabbondante autocolpevolizzazione. In essa la chiave di lettura prevalente nell’inquadrare la fragilità di rendimento si rivela “univoca”, pendendo in termini di difettività dalla parte dei professori, mentre – a volte – sarebbe anche consigliabile dare retta a quell’interrogativo che nella pratica empirica di insegnamento ogni docente si sarà fatto rispetto ad alcuni, neanche poco numerosi, dei propri alunni, refrattari ad ogni misura di supporto didattico: siamo sicuri che questo sia il posto giusto per loro? Spesso non ci si rende conto che le immagini implicite di processo di insegnamento e apprendimento, di cosa sia la figura del docente, e di quale debba essere o sia il rapporto effettivo docente/alunno, che sta a monte dell’atteggiamento compensativo sopra descritto, per un curioso paradosso sono “autoritarie” tanto quanto quelle dell’assetto precedente. Sembra quasi che il/la docente sia una sorta di demiurgo (se non di novello re taumaturgo) che può plasmare a suo piacimento una materia prima amorfa, informe, che di per sé, contrariamente a quella platonica, si presterebbe a questo tipo di operazione, opponendo resistenze che bravi docenti non possono non superare. Ogni alunno/a può apprendere tutto; ogni docente deve essere in grado di insegnare tutto. Questa unidirezionalità di fondo, che è e rimane tale a dispetto di come si provi a mascherarla terminologicamente con irrorazioni di termini quali “interazione”, “relazione seduttiva” (nel senso pedagogico e socratico del termine), non tiene minimamente conto del fatto che l’alunno sarà forse una spugna, come si ama – infelicemente – connotare metaforicamente la coscienza e la mente dei ragazzi, ma non nuova, né “incontaminata”. Giunti nelle aule degli istituti superiori gli alunni hanno un bagaglio consolidato di schemi cognitivi e assiologici maturati nei gradi scolastici inferiori nonché nelle prassi di apprendimento e “disapprendimento” non formale e informale che popolano buona parte della loro vita. E tra queste sussistono preferenze, predilezioni, orientamenti per attività e contenuti, libera scelta di dosaggio dell’impegno, su cui i docenti non sempre possono agire efficacemente in termini di riconversione, tanto che nella valutazione del rendimento degli alunni ne terranno poi conto. Ebbene sì, esattamente come il medico e tanti altri profili professionali, in un contesto scolastico normale (in cui si tenga onestamente conto cioè – tra le altre cose – delle ore di lezioni, dell’entità media di un gruppo classe, dei livelli culturali estremamente eterogenei di composizione) il docente non è nelle condizioni di “far tutto”, deve anche tenere conto di ciò che lo studente o la studentessa è già – di suo – e del fatto che la sua vita continui al di fuori delle aule; deve anche accettare che il processo di destrutturazione di tali mappe mentali e attitudinali, propedeutico alla riconversione verso forme proficue di apprendimento, può non generare i risultati attesi, quanto meno – ripetiamo – nei tempi e nei modi che realisticamente regolano l’ordinaria vita professionale e scolastica.

Esatto, ogni tanto va anche detto da parte della scuola serenamente e – s’intende – motivatamente, ragionevolmente, qualche “no”. Raggiungere una meta significa anche escludere certe vie, seguirne altre, escludersi da percorsi devianti. Un “sì”, include e comporta diversi e molteplici “no”. Certo, la cultura del “no”, la cosiddetta dialettica negativa, nelle società democratiche, liberali e progressiste è accettata e promossa quando traduce un’opposizione al sistema. Sull’onda lunga di consolidate, rodate pratiche di disobbedienza civile e obiezione di coscienza la resistenza a ciò che del sistema è percepito come ingiusto viene considerata doverosa, e non semplicemente un diritto. Invece il sistema-che-(si)nega, soprattutto il sistema scolastico, vede solitamente attribuirsi delle motivazioni tutt’altro che condivisibili a monte della messa in opera di atti di “esclusione”: classismo, discriminazione, settarismo. Se la scuola dice “no” ad alcuni dei suoi studenti, se li valuta negativamente, con ciò – si sostiene – disorientandoli, lo fa perché non fornisce gli strumenti e le risorse adatte a garantire opportunità di successo formativo a chi parte da condizioni di svantaggio (socioculturale o economico). Il che, storicamente, è innegabilmente accaduto e in parte accade[29].  Ora, il punto è esattamente questo: se davvero includere tutti è imperativo indefettibile dell’intero sistema scolastico, imperativo nel senso kantiano del termine, ossia naturalmente condiviso, spontaneamente sentito, quando esso lo diventa di un singolo istituto scolastico finisce per tradursi in un “recludere” molti e “occludere” il microsistema stesso. Sia chiaro, però, quel che è ovvio: l’idea di una società che presenti tassi alti e percentuali sempre crescenti di alunni qualificati con una certificazione scolastica configura un obiettivo auspicabile, un progetto di auto investimento formativo sano e fruttuoso, tanto che elevare l’obbligo scolastico al raggiungimento della maggiore età, ricomponendo istruzione e formazione professionale all’interno di un’unica dimensione o area, senza speciose distinzioni tra istruzione professionale e “istruzione e formazione professionale” di pertinenza regionale, sarebbe “cosa buona e giusta”. Allora l’aspetto su cui lavorare dovrà essere questo: è più sensato che un ragazzo, una ragazza si diplomino, rimanendo entro e completando un circuito scolastico in modo ragionevole e coerente con le proprie attitudini, o che un ragazzo e una ragazza si diplomino in una determinata istituzione scolastica? La banalità della domanda, nella sua retoricità, sembrerebbe veicolare una riposta scontata. Ma – come abbiamo visto – né per molte istituzioni scolastiche, né per il sistema complessivo, nella prassi lo è. “Orientare” vuol dire anche selezionare, catalogare e quindi – Aristotele docet – giudicare, ragionare: tale processo è biunivoco, coinvolgendo i due soggetti interagenti. L’alunno giudica e seleziona molteplici indirizzi e istituti scolastici e, viceversa, la fondatezza della sua scelta sarà poi inevitabilmente oggetto di giudizio all’atto della valutazione del suo rendimento complessivo. La presa di coscienza di questo semplice presupposto può aiutare a rivedere alcuni snodi dell’interpretazione pratica dell’orientamento finora delineata, a illustrare quali siano le ragioni per cui soluzioni alternative possano legittimamente affermarsi (riconsiderando parimenti il concetto di successo scolastico e il suo nesso logico con l’orientamento) e – infine – a motrare quale sia questa possibile versione alternativa del “riorientamento”.

Proviamo intanto a rimettere in discussione gli elementi e i fattori su cui quel quadro di orientamento “occlusivo” si è strutturato e che abbiamo sopra delineato: 1) l’uso delle risorse ministeriali di valutazione di sistema, 2) il concetto di successo scolastico, 3) la prassi antagonistica tra istituti scolastici.

E cominciamo dalla possibile revisione logica dei modi di interpretare le risorse ministeriali.

I numeri in sé sono un po’ come i fatti qualificati da Nietzsche: muti (per non dire altro). Sono le nostre interpretazioni a farli parlare. S’è visto che nella piattaforma del RAV si riportano le cifre dei trasferimenti, ma di per sé esse possono essere suscettibili di diverse letture, anche antitetiche, nella loro eterogeneità. E la stessa piattaforma “lo sa”, infatti è previsto uno spazio in cui l’estensore illustri le considerazioni fatte a margine degli indicatori con un commento e con la possibilità di individuare punti di forza e di debolezza. E dunque: un’alta percentuale di alunni che si trasferiscono allontanandosi da un istituto, certo, può rappresentare una criticità, fatta salva qualche precisazione sia di contorno, sia di sostanza (che costituisce l’aggancio con un nuovo significato da poter associare al concetto di successo scolastico/formativo). Tanto per cominciare, naturalmente, al di là del numero occorre specificare in sede di esplicitazione del dato in piattaforma le cause dei trasferimenti in uscita. Se un alunno chiede di trasferirsi da un Istituto ad altro dello stesso indirizzo, magari nelle adiacenze[30], per dichiarate difficoltà ad accettare metodi di insegnamento o modalità relazionali strutturate con i compagni è ovvio che l’istituto “abbandonato” avvii una riflessione sul proprio operato che legittimi, in qualche modo, una lettura critica, negativa del dato. Ma se un alunno lascia una scuola per trasferirsi ad Istituto di altro indirizzo scolastico, l’automatismo di una valutazione negativa della scuola di provenienza scricchiola. E qui andiamo al secondo punto: cosa intendiamo per successo scolastico? Da quanto anticipato, successo scolastico dovrebbe essere la compiuta interazione tra sistema e utente che sbocchi nell’ultimazione del percorso di formazione scolastica, fino alla maggiore età (e oltre). Successo scolastico, quindi, non è la nominale prosecuzione dell’iter scolastico di classe in classe nel medesimo istituto, quando costellato di fragilità e criticità permanenti e strutturali non superate, bensì meramente obliterate con la certificazione puramente teorica di ammissione alla classe successiva (che copre, come polvere sotto il tappeto, lacune in effetti non colmate). Tale strategia per di più si accompagna a ricadute negative sul delicato processo di metacognizione che ogni alunno deve attivare, sia dal punto di vista psicologico, sia da quello educativo. Psicologicamente, transitare fino al diploma da una classe all’altra con un carico perdurante di punti di debolezza espone gli alunni ad una condizione che alimenta senso di frustrazione, scarsa fiducia in sé stessi e disistima eccessiva e rischiosa. Educativamente, all’opposto, trasmette in altri alunni l’idea che comunque il sistema sia premiale indipendentemente dai meriti effettivi[31] e che – al di là dei concreti risultati conseguiti in termini di crescita didattica – alla fine per una sorta di entropia auto organizzativa il sistema stesso risolva tutto con un lieto fine, tranne però che per l’istituzione scolastica stessa, la quale  ‒ nelle altre voci corrispondenti agli esiti del RAV ‒ vedrà verosimilmente attestarsi su livelli di perdurante criticità i fattori negativi equivalenti ai giudizi sospesi, alle non ammissioni e ai risultati delle prove standardizzate nazionali e degli esami di Stato: più elevato è il numero di studenti e studentesse “trattenuto” in un ordine o indirizzo scolastico che non si confà loro, più alto è il numero di alunni e alunne che frequentano una classe di annualità non corrispondente alle conoscenze e competenze da essi autenticamente acquisite, più sarà difficile per l’istituto scolastico collocarsi ad un livello medio/alto di “rendimento” complessivo. Lo abbiamo anticipato quando abbiamo parlato di “strozzature di sistema”, lo ribadiamo ora, trattando di format e criteri di conduzione dell’autovalutazione di Istituto: fintantoché non si escogiteranno, se proprio si deve, sistemi di rilevazione della qualità e dell’efficacia dell’offerta formativa calibrati sulla trasversalità delle competenze[32] cui spinge la rivoluzione didattica funzionale alla modalità di orientamento attualmente prevalente, ma si continuerà a puntare a testare competenze tecniche specifiche nell’ottica della misurazione (e non della valutazione sommativa), allora mantenere questo assetto ibrido di innesto tra orientamento contenitivo, didattica per competenze trasversali e criteri di valutazione di sistema incentrati su logiche di misurazione di competenze e abilità disciplinari non solo non ha senso, ma – constatata l’incompatibilità di fondo di questa triangolarità ‒ è pure contro attitudinale e auto difettivo. Un contributo significativo in termini di crescita culturale e benessere psicologico la scuola potrà invece offrirlo a se stessa e ai propri alunni solo nel momento in cui condurrà questi davvero a sapersi leggere introspettivamente acquisendo anche la consapevolezza di dover e sapere a volte riorientare le proprie scelte affinché il percorso intrapreso giunga ad una meta effettiva e non semplicemente trascritta su carta, mettendo poi l’istituto nelle condizioni potenziali di collocarsi a livelli superiori rispetto al rendimento complessivo della propria popolazione studentesca. Scelte opposte, al di là delle ragioni e della buona fede con cui vengono implementate, finiscono per bloccare tale processo, mortificando autentiche opportunità di progresso e formazione personale. Saper riorientare e – riorientando – accompagnare oculatamente gli studenti a scelte differenti da quelle iniziali, allorquando queste si rivelino irrimediabilmente scorrette, traducendosi in trasferimenti, diventerà allora un dato positivo del profilo di autovalutazione di un Istituto, e non un punto di fragilità.

Questo naturalmente richiede il darsi a monte di un nuovo e diverso concetto di riorientamento e di nuove, efficaci modalità di implementazione che salvaguardino e garantiscano la positività del processo attivato.

Occorre, in prima battuta, che le singole istituzioni scolastiche (e con esse il sistema complessivo) cessino di ragionare in termini – per l’appunto – di “singole istituzioni” (incorrendo nella tentazione di mantenere anche assetti antagonistici tra esse) e operino con la consapevolezza di far parte di un sistema che condivide un unico obiettivo con l’ausilio di più elementi e risorse (le istituzioni scolastiche medesime): benessere e successo effettivo degli studenti, come detto più volte. In quest’ottica non conta più l’istituto X, ma la rete di istituzioni scolastiche che in piena logica cooperativa collabori per condurre ogni alunno esattamente là dove è più opportuno che giunga, sulla base delle facoltà possedute e sviluppate.

Perché, infatti, oggi per un alunno o un’alunna che tutto sommato sanno di non aver fatto la scelta giusta per le scuole superiori, considerando la fatica spesa e l’esiguità dei risultati ottenuti, è così difficile accettare di cambiare, e farlo?

In parte, per quanto sopra abbiamo diffusamente descritto. E cioè sia a causa della prevalente interpretazione che si fornisce del concetto di orientamento scolastico, sia per una forma di inerzia dettata da più ragioni. In primis, per alunni che mirano all’utile del diploma, la consapevolezza che in un modo o nell’altro, magari con debiti formativi mai effettivamente sanati nelle Discipline, tale meta aspirata arriverà comunque, esercita una forza frenante sull’opportunità di riconsiderare le proprie scelte, all’insegna di un invalso principio di economia pseudo didattica per cui si può conseguire il massimo risultato (agognato) col minimo sforzo. Poi, a causa del residuo di rigidità di una mentalità corporativa, espressione di retaggi storici nazionali più o meno recenti. In un assetto ultra postmoderno in cui si promuove l’idea di una società e mentalità liquide e flessibili, in cui la debolezza del pensiero indirizza a scelte che difficilmente si dovrebbero considerare ultime, definitive e irrevocabili, ecco che la scuola, il modo di intendere il proprio situarsi in essa da parte di molti alunni (ma anche, come visto, il modo in cui essa stessa sembra vorrebbe ci si stesse) si pone come l’eccezione. Rispetto alle flessibilità (lavorativa e studentesca) estreme della mentalità anglo-americana, da noi prevale il connubio tra aspirazione a mobilità sociale ascendente[33] e/o riproduzione dei profili professionali già praticati in famiglia. Per tale forma mentis,nella vita (e la scuola non fa eccezione) un cambio di rotta è difficilmente digerito e metabolizzato, vissuto com’è – semmai – nei termini di un “fallimento”.

Ma soprattutto, ed è questo il punto che qui interessa approfondire (perché su questo si può intervenire direttamente, mentre gli altri due evocano dimensioni psicosociologiche di più ampio respiro), tali resistenze o ritrosie in ordine alla possibilità di cambiare si verificano perché anche quando gli studenti maturano l’intuizione di volerlo fare, in tale critico momento sono lasciati del tutto soli, sia nella fase di auto analisi (di ciò che non va nel percorso fatto e di quale nuova direzione scolastica intraprendere), sia in fase operativa del cambio. Questi ragazzi non vengono seguiti, né preparati dal sistema scolastico ad affrontare gli esami di idoneità, confinati ad un’improvvisata auto preparazione o costretti a ripiegare sul mercato delle lezioni private che non per tutti sono economicamente sostenibili. Questo isolamento scoraggia e disorienta, inducendo pertanto gli studenti a rinunciare, vivacchiando nella precarietà e cercando di limitare i danni. È qui che si deve agire; qui si dovrebbe intervenire con misure specifiche che curino questa fase difficile di presa di coscienza prima e di transito poi; ed è invece proprio qui che le indicazioni, nell’ambito dell’orientamento, scarseggiano.

È dunque il momento di inserire la proposta di un modello ex novo di riorientamento che si auspica possa costituire (questo o qualsiasi altro che esprima concretamente in chiave attuativa il medesimo spirito) uno spunto di riflessione per una futura nota integrativa delle attuali linee di orientamento. Va premesso che in proposito esiste già un novero non indifferente di scuole che comprendono aree di intervento in chiave riorientativa che si discostano dal modello “occlusivo” invalso finora e presentano tratti di innovatività che tengono conto delle reali, effettive situazioni che si danno nella prassi e nella vita di ogni comunità scolastica. In tal senso, l’autonomia ha giocato un ruolo positivo, spingendo in una direzione “oltre sistema” rispetto alla quale si spera il sistema stesso recepisca le istanze di fondo.

Il processo di riorientamento non può che essere articolato, pur nella semplicità di fondo da salvaguardare, in modo graduale.

Le fasi operative in cui delinearlo potrebbero essere le seguenti:

PROTOCOLLO OPERATIVO DI RIORIENTAMENTO

Costituzione istituzionale di una rete d’ambito o polo che includa – nel distretto (o in quelli limitrofi) – istituti superiori rappresentativi dei principali indirizzi ordinamentali tra Licei, Tecnici e Professionali. Ogni Istituto della Rete individua un proprio Referente per il Riorientamento (anche, eventualmente, come figura inserita nel gruppo di supporto a eventuali Funzioni Strumentali o Responsabili dell’Orientamento). La Rete – con fondi misti – conferisce annualmente incarico di consulenza operativa (rinnovabile) ad una equipe formata da psicologi (esperti in psicologia dell’apprendimento) e pedagogisti. Il numero di unità dei responsabili del servizio di supporto e assistenza psicologica sarà proporzionale all’entità della Rete.
Il CdC (Consiglio di classe) di appartenenza prende in esame i risultati della prima parte del primo periodo didattico. Si isolano i casi di diffuse e/o strutturali (gravi) insufficienze, con particolare ma non esclusivo riguardo alle Discipline di indirizzo ordinamentale e curricolare. Si prendono in carico anche eventuali istanze di concessione del Nulla Osta per trasferimenti presentate dagli studenti.
PRIMI COLLOQUI ESPLORATIVI 1. Dopo un primo colloquio esplorativo con le famiglie e gli studenti, il Coordinatore del Consiglio di Classe,  esaminato il fascicolo didattico personale (rendimento degli anni scolastici pregressi, eventuali annotazioni di carattere medico o sociale, consigli orientativi), acquisisce le brevi relazioni tecniche predisposte dai docenti delle Discipline in cui si manifestano le criticità e contenenti l’esplicitazione delle competenze, capacità, conoscenze e abilità – anche trasversali – in cui emergono fragilità e carenze. 2. Primo colloquio esplorativo della famiglia e degli studenti con l’equipe psicopedagogica. L’indagine è mirata ad accertare dal punto di vista dell’autovalutazione didattica da parte degli alunni anche come essi vivono il clima relazionale di classe (rapporti con docenti e compagni) e l’ambiente scolastico, sia “fisico” che nei termini della dimensione emotiva e affettiva, il permanere o meno di coinvolgimento e interesse per le Discipline di indirizzo ordinamentale o curricolare, il rapporto bilanciato o meno (e a sfavore o favore di quale dei due fattori) tra ore dedicate allo studio e spazio riservato agli impegni extrascolastici. 3. BILANCIO dei primi colloqui: confronto incrociato, in seduta collegiale o tramite breafing delle figure di riferimento (Coordinatore CdC, Referente al Riorientamento, membro dell’equipe psico-pedagogica) dei dati acquisiti dai rispettivi gruppi (per l’ambito didattico dal coordinatore CdC e per l’ambito psicopedagogico da psicologo e pedagogista) e valutazione di primo livello. Quest’ultima consta di tre finalità: a) è volta ad escludere eventuali problematiche di carattere sociale, economico o psicologico che possono condizionare negativamente lo studio in modo del tutto indipendente dall’indirizzo scelto. In caso di riscontro di tali fattori ostativi si opererà il coinvolgimento dei servizi del territorio (in proporzione alla gravità della situazione: assistenza sociale, ASP e figura psicologica di supporto, ecc.). B) È funzionale a selezionare i casi di difficoltà didattiche transitorie e temporanee risolvibili con l’attivazione di processi di motivazione o di acquisizione di un corretto metodo di studio (inteso come instradamento verso un’ordinata organizzazione degli impegni scolastici e dello studio delle varie Discipline, nonché come dimestichezza con abilità operative quali a titolo meramente esemplificativo lettura, sottolineatura, ripetizione, confronto con tutor o gruppo di studio, elaborazione di mappe concettuali, redazione autonoma di glossari tecnici che fungano da guida nell’apprendimento e rielaborazione dei concetti chiave ecc.). Frequenza di corsi di recupero interni (mentoring, corsi di potenziamento, sportelli didattici). In tali corsi sarà essenziale il raccordo tra docente esperto e docente curricolare sugli obiettivi da conseguire, attraverso la predisposizione concordata di test di ingresso e conclusivi, al fine di ottimizzare l’efficacia dell’intervento e ridurre le possibili variazioni tra stili e orientamenti docimologici differenti. Eventuale cambio di classe o di opzione o di curvatura entro l’Istituto. In caso di cambio di opzione (es. da Scienze Applicate a Tradizionale o viceversa, per il Liceo scientifico) tutte le procedure previste per il cambio di indirizzo tra Istituti/indirizzi diversi si applicheranno al circuito interno all’Istituto stesso. C) Ha come scopo evidenziare l’eventuale sussistenza di obiettive resistenze da parte degli alunni che hanno espresso il desiderio di cambiare indirizzo scolastico.
COLLOQUIO TECNICO Nel caso C (e nel caso in cui le procedure B alla fine del primo periodo didattico non dessero risultati apprezzabili, con relative notifiche al Referente del Riorientamento da parte del Coordinatore del CdC a margine degli scrutini), avvio del secondo colloquio di carattere tecnico col gruppo psicopedagogico. L’alunno viene preso in carico dal Referente del Riorientamento di Istituto e dall’equipe psicopedagogica. Il CdC di appartenenza predispone e indirizza al Referente e al Gruppo breve relazione con l’indicazione dell’indirizzo di studio alternativo consigliabile e delle relative, specifiche motivazioni (ossia i dati frutto di osservazione, quelli emersi dalle verifiche[34] e dalle eventuali attività curricolari ed extracurricolari frequentate dall’alunno di cui il coordinatore del CdC si premurerà di prendere nota, anche con eventuali note integrative inserite dai responsabili di tali attività). Il Gruppo psicopedagogico somministra test psico-attitudinale all’alunno per guidarlo nella scelta del nuovo indirizzo o – in caso di preferenza espressa a monte dall’alunno – per evitare possibili rischi di ripetizione dell’errore di auto orientamento. Contestualmente, il Referente dell’Orientamento fornisce materiale informativo su tutti gli indirizzi scolastici disponibili nella rete di ambito. Convocazione delle famiglie e degli studenti con la proposta di riorientamento più plausibile ad esito delle analisi condotte.
STAGE e PRIMO COLLOQUIO INFORMATIVO NELL’ISTITUTO OSPITANTE In caso di condivisione della proposta (o del persistere della scelta dell’alunno in altra direzione), breve stage c/o l’Istituto e corso di studi individuato. Il Referente al riorientamento dell’Istituto di destinazione predisporrà il processo di accoglienza: notificherà al CdC ospitante l’assegnazione dell’alunno e socializzerà all’organo collegiale la documentazione (esiti del test psicoattitudinale, relazione di orientamento del CdC di provenienza) giratagli dal Referente di riorientamento dell’Istituto di provenienza. Il Coordinatore del CdC ospitante preparerà gli alunni all’accoglienza dell’alunno uditore assegnando anche un singolo o un gruppo di compagni in funzione di tutor. In un colloquio preliminare con studenti e famiglie, il Riorientatore dell’istituto accogliente illustrerà il piano dell’offerta formativa, le principali, essenziali norme di funzionamento dell’istituto e – soprattutto – con quali Discipline e programmi l’alunno dovrà integrare il corso di studi originario. L’alunno sarà avviato – in prova – a corsi extracurricolari intensivi di apprendimento delle Materie che saranno oggetto di esame di idoneità. Questi percorsi potranno essere specifiche declinazioni di spazi entro corsi ordinariamente previsti per il recupero e il potenziamento di quelle Discipline nell’Istituto (riservati agli alunni già iscritti nella scuola), oppure – e meglio – corsi predisposti e organizzati ad hoc. In ogni caso, in presenza di uno o più alunni in stage ogni Istituto della rete ha il preciso obbligo di articolare i corsi delle Discipline tecniche e di indirizzo di cui tali alunni hanno bisogno.
INSERIMENTO A margine dello stage (durata massima 1 mese; la data utile per ritiri o trasferimenti dovrebbe essere posposta al 31 marzo), in caso di conferma da parte dell’alunno e della famiglia della scelta effettuata: 1) il Referente del riorientamento dell’Istituto di provenienza assisterà e istruirà la famiglia sul disbrigo delle pratiche burocratiche, previo appuntamento con personale della Segreteria alunni, con compilazione della modulistica. Le suddette pratiche saranno inviate telematicamente dalla Segreteria alunni dell’Istituto di provenienza a quella dell’Istituto di accoglienza; 2) l’alunno continuerà a frequentare stabilmente le lezioni nella classe ospitante, questa volta come iscritto e non più come uditore. Per le Materie comuni con l’indirizzo di provenienza (es. Italiano, Matematica) si effettueranno le normali procedure di raccordo da parte dei nuovi docenti curricolari (almeno per gli obiettivi di base o minimi declinati nelle varie programmazioni dipartimentali). Se ritenuto opportuno/necessario (soprattutto nei casi di programmi istituzionalmente sfalsati), l’alunno potrà comunque usufruire delle normali misure di supporto/recupero extracurricolare attivate dall’Istituto. Per le Materie tecniche e di indirizzo nuove, l’alunno continuerà afrequentare fino alla fine dell’a.s. (nei casi di risposta positiva, soltanto fino a giugno e comunque entro la data degli scrutini e dell’esame di idoneità) appositi corsi di inserimento e alfabetizzazione intensivi funzionali a sostenere l’esame di idoneità che, si ribadisce, ogni istituto della rete ha il preciso obbligo di organizzare. Anche il contributo del docente curricolare sarà curvato a tale preparazione. A giugno, entro gli scrutini, e – in eventuale sessione integrativa, entro il 31 agosto e non prima del 16 dello stesso mese, in caso di fragilità emerse nelle verifiche di giugno – l’alunno sosterrà l’esame alla presenza dei soli docenti delle Materie oggetto dei corsi di idoneità, ossia l’esperto che li ha tenuti e il docente curricolare. Gli esiti di tali esami saranno comunicati al CdC in sede di scrutini per l’ammissione/non ammissione dello studente all’a.s. successivo. Chiude il circuito, un colloquio conclusivo del Coordinatore del CdC e del Riorientatore dell’istituto con la famiglia e con l’alunno per una profilatura generale dei punti di forza e di quelli da potenziare emersi ad esito del percorso effettuato.
MONITORAGGIO Istituzione di una banca dati di rete in cui registrare i flussi di riorientamento (numero di alunni e versi dei transiti, ossia da quale indirizzo/istituto a quale indirizzo/istituto) e gli esiti degli stessi (se l’inserimento si è risolto positivamente o meno, col superamento dell’esame conclusivo o la non ammissione). N.B. (Risorse): della Rete/Polo d’ambito deve fare parte una biblioteca con saggi campione dei libri di testo in adozione nei vari Istituti. Essi saranno concessi in comodato d’uso gratuito agli alunni ospitati o neo iscritti, al fine di evitare alle famiglie gravosi costi che possano incidere sulla fattibilità della scelta di riorientamento.

4. Conclusione e tre corollari

In questo percorso, com’è facile constatare, gli alunni sono seguiti, accompagnati, sostenuti, guidati, in una sola parola: orientati, in tutte le delicate fasi della maturazione di una scelta di per sé non facile e abbastanza travagliata.

Questa logica, dicevamo, si va timidamente e faticosamente affermando nella prassi scolastica, affidata per adesso esclusivamente al buon senso e alla buona volontà di istituzioni scolastiche, di docenti avveduti e di dirigenti scolastici illuminati e “coraggiosi”, anche sulla scorta di esperimenti ed esperienze campione o pilota purtroppo rari, quando non isolati, che hanno però visto coinvolte in piena ed efficace sinergia diverse componenti del territorio (Università, Comune, Terzo Settore ecc.)[35] e dunque con spirito e modalità anche difformi da quelle qui proposte. Più rare invero le risorse e le energie investite in tale direzione dall’Amministrazione centrale; si ricorda un PON (“Orientamento formativo e riorientamento”) di ormai 10 anni fa funzionale anche alla formazione di personale docente esperto in materia di riorientamento, oltre che ovviamente finalizzato a implementare pratiche di orientamento e riorientamento degli studenti nelle varie istituzioni scolastiche in virtù di moduli progettuali ad hoc ma chiaramente specifici di ogni realtà scolastica periferica e privi di un’impostazione organica generale e di indicazioni di criteri operativi generali. Ancora oggi il riorientamento è per la maggior parte dei casi demandato ad associazioni private o, nel migliore dei casi, no-profit che operano sul territorio, quando invece dovrebbe essere, com’è naturale che sia (e come avviene per tutte le più importanti attività formative e didattiche di recupero e contrasto ai divari ed alla dispersione scolastica implicita ed esplicita), un processo interamente gestito da reti scolastiche territoriali. In tal senso si dovrebbe incrementare l’attenzione da dedicare a questo aspetto nei corsi formativi per le figure di orientatore e tutor introdotte con le ultime linee guida, che pure contemplano la possibilità di prendere in carico soggetti e processi inquadrabili nell’ambito del riorientamento.

Non sfugga però che l’auspicio dell’adozione di un nuovo modello di riorientamento, con cui mettere a sistema, a regime organico, alcune delle pratiche già spontaneamente avviate da diverse scuole, comporta corollari, non considerati i quali ci si troverebbe di fronte all’ennesimo intervento normativo isolato, sporadico e del tutto decontestualizzato da aspetti ad esso complementari.

Il primo di tali corollari è la riqualificazione effettiva degli indirizzi tecnico e professionale, propedeutica alla possibilità di agevolare i travasi in essi dai licei e di gestire in modo altrettanto oculato anche quelli di senso inverso.

Al momento non disponiamo di dati che quantifichino questi flussi[36]. Ad ogni buon conto, anche in questo caso dobbiamo ragionare in termini di scuola “materiale”, vale a dire di ciò che effettivamente si sperimenta nelle ordinarie, quotidiane prassi di interazione e interlocuzione con studenti, studentesse e relative famiglie. Pensare che la perdurante flessione di iscritti negli istituti tecnici e professionali secondari superiori, rispetto ai dati di un paio di decenni fa, e la ritrosia degli iscritti nei licei a transitare in tali ordini e indirizzi, siano riconducibili unicamente al persistere nell’immaginario collettivo dell’utenza di arcaici pregiudizi greci, ellenistici e gentiliani incentrati sulla vantata superiorità della cultura teoretica e umanistica su quella tecnica e professionale e – di conseguenza ‒ sull’ aspirazione a processi di mobilità (e “onorabilità”) sociale ascendente, equivale ad una visione parziale di aspetti essenziali del problema. Chiunque abbia avuto occasione di confrontarsi con famiglie e ragazzi che frequentano un liceo sull’opportunità di cambiare indirizzo scolastico dirigendosi verso un tecnico o un professionale, sa che nella diffusa fenomenologia delle obiezioni opposte alla proposta formulata ricorre il mantra che in quegli istituti non si troverebbe l’atmosfera giusta per la sensibilità caratterizzante l’alunno. Anche in questo caso, però, la materialità delle esperienze scolastiche e del modo di intenderle ha avviato un percorso in controtendenza volto a porre rimedio a questo scarto, o almeno a ciò che è percepito come tale. Intraprendenti Collegi dei docenti, sostenuti e indirizzati da dirigenti altrettanto attivi, si sono adoperati per invertire la rotta e lavorare perché venisse superato lo stereotipo di scuole tecniche e professionali con un target studentesco medio non sempre predisposto a favorire il clima più adatto a dedicarsi serenamente allo studio. Si è così promosso il progressivo passaggio da situazioni ambientali difficili in cui la vivibilità del contesto scolastico non era certamente delle migliori, con docenti spesso dotati di risorse spuntate ed inefficaci per poter intervenire, lasciati soli ed esposti ad un quotidiano rito di occasioni lavorative in cui si consumava un misto di umiliazioni e frustrazioni, a realtà di vita didattica e professionale in cui si è dato spazio alla doverosa centralità dell’ascolto e dell’accoglienza nei confronti di ragazzi cosiddetti “difficili”, ossia privi di quella sostanza educativa e civica adatta alla vita comunitaria scolastica (che quindi proprio la scuola ha la missione di trasmettere loro), coniugata però con la fermezza e il rigore necessari nel gestire situazioni ostinatamente problematiche, refrattarie ad ogni sano tentativo di stabilire rapporti funzionali a processi di apprendimento effettivi. Relazioni di fiducia, ma anche di rispetto, senza il timore, laddove strettamente necessario, di accettare (e irrogare) la sanzione disciplinare come valido ausilio in tal senso. L’auspicio è che il sistema consolidi questa linea di tendenza e va detto che recenti interventi sull’assetto valutativo della condotta sembrano andare proprio in questa direzione, anche sulla scorta di inqualificabili atti di aggressione, derisione, violenza di cui i docenti sono oggetto in misura vieppiù crescente negli ultimi tempi.

Un secondo corollario riguarda la revisione del CCNL. Non sarà sfuggito che nell’ipotesi di protocollo operativo sopra delineata una parte attiva e importante è quella riservata a figure quali il Referente del riorientamento e il coordinatore del CdC. Il che, naturalmente, comporta un aggravio di oneri professionali in termini di compiti da assolvere e tempi da dedicarvi. Ciò conferma che sarebbe maturo il tempo di rivedere profondamente il CCNL di settore, quanto meno a proposito della contrattualizzazione degli incarichi aggiuntivi (se non – come invece si dovrebbe – della riarticolazione della carriera docente con profili differenziati) che, invero, stanno progressivamente diventando primari, rendendo sempre più residuale l’insegnamento puro. Atipico e curioso, invero, il CCNL del personale scolastico docente. E in tutti i suoi “rivoli”[37]. Nel CCNL viene indicata genericamente anche la funzione di “coordinamento” nel profilo professionale del docente, ma a tale enunciazione di principio non si è associata una dettagliata contrattualizzazione della stessa. E perché? Sostanzialmente perché essa potrebbe avere un senso solo all’interno di un integrale processo di ristrutturazione della carriera docente. E sappiamo che tutte le proposte e i tentativi legislativi di introdurla sono stati bloccati e osteggiati. Essendo del tutto opzionali e su base volontaria, le ragioni per cui alcuni docenti si impegnano in ulteriori attività professionali non strettamente legate all’insegnamento possono essere molteplici: incremento, ancorché minimo, degli emolumenti stipendiali di base, acquisizione di titoli spendibili nei concorsi per dirigente scolastico e dirigente tecnico, affetto e stima nei confronti di dirigenti che richiedono tale collaborazione, spirito di servizio nei confronti dei colleghi o verso l’istituzione che altrimenti non sarebbe messa nelle condizioni di funzionare adeguatamente, ambizioni personali coltivate nella ricerca di visibilità all’interno della comunità scolastica e territoriale. Un’ampia gamma di motivi, tra nobili e meno disinteressati, spinge pertanto ad accettare o richiedere incarichi che vengono retribuiti forfettariamente principalmente con i fondi economici di cui è dotata l’istituzione scolastica per effetto del finanziamento erogato dall’Amministrazione centrale; tale retribuzione è computata sulla base di un monte ore prefissato in sede di contrattazione decentrata tra dirigenza e rappresentanti sindacali all’atto dei negoziati funzionali alla stipula del contratto integrativo di istituto. Orbene, se consideriamo che le dotazioni finanziarie di cui sopra non aumentano proporzionalmente alle incombenze di cui ogni istituzione è investita per effetto dei continui aggiornamenti legislativi[38], si può ben capire quale sia la considerevole quota di lavoro (monte ore) offerta dal lavoratore di fatto su base volontaria e non retribuita. A titolo di esempio, un coordinatore di consiglio di classe (figura rimessa all’autonomia scolastica e non contrattualizzata a livello nazionale) viene retribuito mediamente per un totale di 10/15 ore di lavoro presupposte in un intero a.s. Il coordinatore di classe è un delegato del dirigente all’interno di quell’organo collegiale, e gli vengono progressivamente affidati sempre più compiti e responsabilità. Giusto per intenderci: è sufficiente che nello stesso periodo il coordinatore di trovi a redigere una seria programmazione coordinata di CdC, si occupi della redazione di Piani di studio personalizzati (in crescita esponenziale) per alunni titolari di BES e debba simultaneamente gestire magari la delicata situazione di bullismo delineatasi in un gruppo classe, che le 10 ore sono abbondantemente evase nel corso del primo mese di scuola. Tutto quello che il coordinatore farà nei restanti 7 mesi sarà svolto a titolo gratuito. In altri termini, la scuola è riuscita a travasare nel settore dei servizi quel che Marx aveva – anche discutibilmente ‒ diagnosticato come nerbo critico del sistema di sfruttamento capitalistico della classe operaia: il pluslavoro. Queste sbavature critiche richiedono ovviamente il superamento di reciproche resistenze a rivedere i termini contrattuali che le autorizzano. Resistenze opposte da un sistema che ne approfitta e da un fronte sindacale che preferisce mantenere tale iniquo status quo pur di non rivedere l’assetto strutturale di base della carriera docente, avviandola ad una distinzione e articolazione progressiva, in termini di avanzamento della stessa. Forse si preferisce volgere maggiormente la propria attenzione alla larga fetta di popolazione professionale che non è interessata a tali rivolgimenti, dato che essa limita molto la propria adesione agli incarichi aggiuntivi di cui sopra e quindi vive con una certa insofferenza l’introduzione di percorsi innovativi nella determinazione e nella differenziazione della propria categoria lavorativa. Del resto, s’è visto quanto sia stata snaturata nei fatti l’introduzione del posto di potenziamento per i docenti (che avrebbero dovuto favorire l’espletamento delle funzioni di referenza e coordinamento, nonché l’attivazione di interventi di supporto didattico e recupero), non di rado assegnati a istituti in cui non è previsto l’insegnamento della loro Materia e ridotti a far da tappabuchi nelle sostituzioni di colleghi assenti in giornata, considerato che a causa delle famose strozzature di sistema di cui sopra qualche anno fa sono state inopinatamente eliminate le ore di disponibilità/disposizione dal monte ore settimanale non prevedendo al contempo misure che consentissero agli istituti di garantire l’essenziale e prioritario compito di vigilanza degli alunni, col rischio di lasciarli così incustoditi in barba a quanto previsto dal Codice Civile e dal contratto di lavoro. Ebbene, in attesa che si metta seriamente mano a tale revisione contrattuale, e per evitare di rinviare sine die l’ipotetica riformulazione del riorientamento (considerando che non sembrano maturi i tempi di ricontrattazione), ad oggi si potrebbe investire una quota parte dei cospicui finanziamenti PNRR destinati al contrasto dei divari e della dispersione scolastica, stornandoli dalla sola organizzazione di corsi di recupero e canalizzandoli verso il finanziamento della rete di ambito auspicata. In fin dei conti, l’esperienza drammatica della pandemia qualche esempio lo ha fornito: con stanziamenti specifici si sono promosse all’interno degli istituti scolastici contrattualizzazioni di rapporti professionali con figure specialistiche che potessero supportare i membri della comunità scolastica nella gestione di quei difficili momenti.

In ultimo, il corollario concernente gli interventi a livello ministeriale. Sarebbe opportuno rivedere il format del RAV, sostituendo (o integrando) la voce in sé neutra dei trasferimenti in entrata e uscita dall’Istituto, con un indicatore specificamente dedicato al riorientamento e alla sua efficacia (attingendo dai dati riportanti gli esiti degli esami di idoneità degli alunni che si sono trasferiti c/o altra istituzione scolastica o sono stati accolti nella propria). Inoltre si dovrebbe esplicitare la qualificazione dei trasferimenti, non soffermandosi sulla mera quantificazione, ossia si dovrebbe discriminare tra quelli dettati da ragioni extra scolastiche e quelli invece riconducibili a fattori didattici e ambientali. Come già detto, infine, sarebbe auspicabile procedere all’elaborazione statistica di ulteriori informazioni o – se già attuata – ad una loro maggiore socializzazione e pubblicazione al fine di disporre di dati concernenti sia il rendimento degli studenti emerso agli scrutini (e non soltanto nelle prove standardizzate) nelle Discipline di indirizzo per i vari corsi scolastici, sia i flussi direzionali nei vari cambi di indirizzo a livello nazionale (es. quanti alunni dai licei si trasferiscono c/o altri licei, ma di diverso indirizzo, sezione o opzione, oppure verso istituti tecnici e professionali – e viceversa ‒ e con quali esiti).

Il mondo della scuola è forse quello in cui le scienze sociali e umane trovano uno dei terreni più ardui in cui dovere sperimentare e misurare il proprio statuto epistemologico. Ricette e modelli stabili, formule asettiche e di sicura efficacia, tipiche di molti versanti delle cosiddette scienze esatte, in quest’ambito rappresentano una rarità. E la proposta sopra illustrata, ovviamente, non fa eccezione. Essa nasce, oltre che dall’analisi di alcuni elementi offerti dalla letteratura e dalle fonti dell’Amministrazione, anche dall’immancabile riferimento all’esperienza professionale maturata in decenni di insegnamento (naturalmente non esclusivamente dello scrivente). L’idea è che il sentiero un po’ labirintico, accidentato e pericoloso dell’orientamento non si trasformi in una sorta di Holzwege di Heidegger, segnavie che non portano da nessuna parte, “meta non meta” cui però spesso si finisce per giungere, ancorché animati da tutte le buone intenzioni che, come si sa, spesso lastricano il viaggio verso l’inferno. Sbagliare strada è umano; quel che non si vorrebbe – e dovrebbe – è instradare sistematicamente verso lo sbaglio. Abbiamo aperto la “discussione” introducendola con un’esortazione nietzscheiana. Sarebbe già tanto se la potessimo considerare un punto d’approdo, un risultato, rispetto ad una situazione di partenza che vede molti ragazzi, che ci vengono affidati in una fase così critica della loro crescita, trovarsi spesso sull’orlo di un piccolo abisso formativo in cui ribolle qualcosa di indefinito e confuso che li porta, e ci porta, ad essere tentati di dare vita, come girovaghi della nostra stessa esistenza, a sinistre escursioni, come quelle vissute da Emil Cioran:

Ho un coraggio negativo, un coraggio rivolto contro me stesso. Ho orientato la mia vita fuori del senso che essa mi prescriveva. Ho invalidato il mio futuro.

Quaderni, 1957-1972 (postumo 1997).


[1] Si veda La Costituzione in senso materiale, nell’edizione con ristampa inalterata del 1998 (premessa di Gustavo Zagrebelsky), Giuffrè, Milano.

[2] Per la normativa più datata si può ancora consultare il link ad uno dei vecchi siti del Ministero: https://www.istruzione.it/archivio/web/istruzione/dg-studente/orientamento/normativa_orientamento.html.

[3] D’ora in poi abbreviata anche in A-S/L (come PCTO starà per Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento).

[4] La norma prevede l’obbligo di certificare le competenze alla fine della Primaria, nonché del primo ciclo, proprio per realizzare una prima concreta azione nella direzione dell’orientamento.

[5] Estesa obbligatoriamente a tutti gli indirizzi superiori, licei compresi, dalla Legge 107/2015 è stata poi oggetto di decretazione mirata ad associarvi le relative linee guida d’attuazione. La prima guida operativa infatti è stata poi rivista e integrata dal DM 774/2019 connesso alla Legge 145/2018 che ha, tra le altre cose, ridenominato la metodologia didattica in questione come PCTO, Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento, collegandola in maniera più esplicita sia alla funzione di orientamento, sia alle soft skills oggetto di molteplici e anch’esse aggiornate raccomandazioni europee.

[6] Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio, 18 dicembre 2006 (2006/962/CE). L’aggiornamento nel 2018 (Raccomandazione del Consiglio del 22 maggio 2018 – 2018/C/189/01) sottolinea che un’area di intervento critica e problematica su cui lavorare in campo educativo, scolastico e formativo è proprio quella della valutazione e della certificazione, vale a dire delle modalità di descrizione delle competenze all’interno di definiti quadri di riferimento dei risultati di apprendimento nel contesto di una valutazione che sia diagnostica, formativa e sommativa. La sfida sta anche nella messa a punto di una sperimentazione efficace di forme di convalida dell’apprendimento informale e non formale che coinvolgano datori di lavoro o specialisti dell’orientamento. Ebbene, tra le competenze chiave personali, sociali, metacognitive (“imparare ad imparare”), nonché di contrasto ai fattori ostativi dell’inclusività, vi sono quelle che si risolvono nella capacità di mettere a punto strategie di orientamento costruendo così un corretto rapporto, una proficua relazione tra istruzione e formazione.

[7] Per essere precisi, l’area generale è articolata al suo interno in due sotto aree: Continuità, ossia azioni intraprese dalla scuola per assicurare la continuità educativa nel passaggio da un ordine di scuola all’altro, e Orientamento, cioè azioni intraprese dalla scuola per orientare gli studenti alla conoscenza di sé e alla scelta degli indirizzi di studio successivi.

[8] Per il vaglio dei medesimi è utile riportare se le attività sono interne o esterne, il periodo in cui sono programmate (es. giorni festivi), i luoghi (estero), la tipologia dei soggetti coinvolti (enti pubblici, terzo settore, imprese, camere di commercio e del lavoro, associazioni di categorie, oppure ricorso alla forma dell’impresa formativa simulata).

[9] Prospettiva già anticipata dalla Legge 53/2003, in cui – a proposito del primo ciclo –si afferma chela scuola secondaria di primo grado si articola in un biennio e in un terzo anno che assicura l’orientamento ed il raccordo con il secondo ciclo.

[10] In tale ottica si colloca ad es. il cosiddetto Piano delle Arti (DPCM 12 maggio 2021) concepito sull’idea di sfruttare il potenziale orientativo del linguaggio artistico, con cui poter procedere alla scoperta e valorizzazione di talenti, alla tesaurizzazione e al conferimento di senso alle proprie esperienze di vita, alla creazione di occasioni di interazione col territorio, incrementando le politiche di prevenzione e contrasto alla dispersione scolastica.

[11] Decreto Interministeriale 92/2018 e successive Linee Guida di implementazione.

[12] Tale Progetto Formativo Individuale sostituisce qualsiasi documento finalizzato alla definizione di modalità didattiche personalizzate per gli alunni con bisogni educativi speciali (BES), alla documentazione delle attività di accoglienza per gli alunni stranieri, alla gestione di “passerelle” o passaggi fra ordini di scuola o sistemi diversi. In particolare, per gli alunni a forte rischio di esclusione sociale, devianza e abbandono scolastico, il P.F.I. deve individuare gli obiettivi primari in termini di contenimento e partecipazione, che saranno perseguiti prioritariamente rispetto al conseguimento dei livelli di competenza previsti dal PECUP di riferimento. Per tali alunni rivestiranno particolare importanza, nell’ambito del P.F.I., le attività di orientamento e riorientamento, anche col ricorso all’alternanza scuola lavoro e all’apprendistato.

[13] Viene prevista la figura di un Tutor che predispone il PFI (flessibile e riadattabile) da sottoporre a delibera da parte del Consiglio di Classe. Tale Tutor è indicato come un soggetto istituzionalmente preposto all’orientamento e riorientamento dell’alunno (ad es. i docenti orientatori e Tutor possono guidare gli studenti dell’istruzione tecnica e dell’istruzione professionale ad attivare e tenere aggiornato il loro profilo sul portale Europass21, “strumento personale e gratuito per studiare e lavorare in Europa”; la piattaforma è stata recentemente dotata di nuovi strumenti e servizi web per l’orientamento, l’istruzione, la formazione e il lavoro). Tale riorientamento si rende necessario laddove l’alunno denunci criticità significative nella frequenza (superando il tetto del 25% di assenza del monte ore annuale, senza poter usufruire di deroghe a normativa vigente) o nel rendimento (deficit nelle conoscenze e competenze di base e indirizzo) non compensate con le attività di recupero programmate. La figura del tutorato viene ulteriormente attenzionata nel DM 766/2019.

[14] Un’apposita Commissione si occuperà della gestione di tali passaggi; essa è nominata dall’istituzione di destinazione ai sensi dell’art. 7 dell’Accordo del 10 maggio 2018 e contribuisce a garantire la funzione di tutoraggio relativa a orientamento e supporto personalizzato.

[15] Per tale motivo viene inserita una tabella indicativa delle correlazioni tra l’offerta di istruzione e formazione tecnica professionale e le aree economiche professionali, le filiere produttive, le aree tecnologiche, gli ambiti degli ITS ed i cluster tecnologici, ai fini dell’orientamento dei giovani.

[16] Peraltro nelle linee guida del 2022 sulla redazione dei PEI si riserva una sezione specifica ai PCTO.

[17] Nel TU (artt.6, 9) a proposito delle istituzioni scolastiche statali o convenzionate col Ministero che svolgono compiti educativi speciali per alunni minori diversabili o comunque in stato di difficoltà, si prescrive che nei loro Consigli possono essere inclusi professionisti per l’orientamento che operano in regime di continuità.

[18] Ove si scrive chiaramente che ricalibrare annualmente la certificazione delle competenze è funzionale anche all’attivazione del riorientamento. Si dà così agio di modificare le scelte inizialmente operate dall’alunno in merito all’indirizzo della scuola secondaria di secondo grado ai fini di un successo scolastico più ragionevolmente fondato sulle competenze acclarate. Per ciò che concerne le linee guida esitate nel 2014, esse rappresentano da un lato lo sviluppo di quanto già decretato nel 2009 con analogo intervento legislativo e dall’altro – in qualche misura –la prefigurazione di quanto poi esplicitato nelle attuali (vedi le annotazioni sulla formazione dei docenti e sulla conseguente definizione di una figura professionale specifica, nonché quelle sulla didattica orientativa o sull’e-portfolio). Di particolare interesse, per l’oggetto del presente contributo, la tesi per cui le attività di accompagnamento e consulenza orientativa di sostegno alla progettualità individuale condotte dai docenti dovrebbero, testualmente, “essere sempre più staccate dallo specifico scolastico” (p.6), tanto da poter essere affidate a personale esperto esterno alla scuola ma con competenze fungibili per un’efficace canalizzazione degli studenti dal mondo dell’istruzione a quello del lavoro e delle professioni. Da qui la sollecitazione al transito tra sistemi complementari ma diversi, all’inclusione sociale e l’auspicio di reti interistituzionali operanti in quest’ottica. Di passaggio da scuola a scuola (ordine/indirizzo), poco o nulla (quanto meno di esplicito).

[19] Emerge qui un esempio delle non poche “anomalie” di sistema ascrivibili all’autonomia scolastica. Non basta auspicare la costituzione di reti di scopo o di ambito per trasmettere l’idea di una proficua collaborazione e interazione tra scuole di uno stesso territorio, se poi altre istanze (come la spinta verso l’incremento degli iscritti e i numeri di alunni sempre più elevati che sono necessari per la costituzione di una classe) predispongono – all’opposto e simultaneamente – ad una sorta di concorrenza tra gli istituti che i medesimi, invero, a volte interpretano con molto zelo.  

[20] Evito qui di riferirmi ad azioni di altra natura sulle pratiche valutative, ma è facilmente intuibile che se l’indicatore di efficienza/efficacia di un Istituto riposa anche sul ridotto numero di “debiti” (giudizi sospesi, insufficienze) e non ammissioni, non è poi così illogico supporre che ciò finisca per indurre a generare valutazioni più nominali che reali. Se confrontiamo determinati dati, il dubbio è legittimo. Perché aree in cui gli alunni nelle prove standardizzate nazionali ottengono risultati critici, poi alle prove degli esami di Stato (la cui correzione è spesso condizionata nei fatti dalla logica di mantenere una sorta di coerenza col quadro di presentazione dell’alunno/a) conseguono esiti superiori rispetto ad altre realtà di verso opposto (con alta resa alle prove gestite dall’INVALSI)? Si tratta di una polemica che si rinnova praticamente ogni anno, per un inquadramento più esaustivo della quale si rinvia ad alcuni contributi esemplificativi pubblicati recentemente: per il 2019 https://www.tecnicadellascuola.it/prove-invalsi-e-maturita-il-racconto-opposto-della-scuola-italiana, per il 2021 https://www.ilsole24ore.com/art/in-controtendenza-i-test-invalsi-100-maturita-prevalgono-sud-AEZmE0X, per il 2024 https://www.orizzontescuola.it/100-e-lode-alla-maturita-e-discrepanza-con-le-prove-invalsi-ma-e-cosi-importante-la-correlazione-dirigente-giovanetti-parametro-importante-ma-non-lunico-da-considerare/.

[21] Tale opzione però complica il già ingravescente e caotico panorama normativo del diritto scolastico. Se consideriamo tra l’altro che le misure di cui si discute sono a loro volta state riviste e aggiornate nel breve volgere di pochi anni dalla loro già recente promulgazione (si pensi alle linee guida Alternanza Scuola/Lavoro poi PCTO, a quelle di Educazione Civica, oppure a quelle sull’assetto degli insegnamenti negli Istituti professionali), si può dedurre quanto poco tempo abbiano docenti e istituzioni scolastiche per entrare a regime con quanto appena prescritto, per poi dover in un lasso di tempo estremamente ristretto rivedere quanto già progettato e attivato, correndo così il rischio di scadere nell’approssimazione, se non a volte nel dilettantismo. Inoltre, la frastagliata varietà di indicazioni normative che compongono il diritto scolastico, tra fonti primarie e secondarie, e dunque decreti legislativi e decreti ministeriali, quelli del Presidente della Repubblica e leggi ordinarie (tralasciando le note, circolari e ordinanze ministeriali interpretative), nonché – e non certo per ultimo – l’abitudine invalsa di inserire misure concernenti l’attività delle scuole anche in leggi “estranee” al settore (v. le leggi di bilancio) generano inevitabilmente significative difficoltà ermeneutiche. Gli esempi dello stato di sofferenza in cui versa la legislazione scolastica, a qualsiasi livello, abbondano: disposizioni normative diverse, vigenti, delineano prescrizioni che si rivelano contraddittorie. Si pensi a quanto accaduto con la Legge 107/2015 che ha esteso le prerogative della dirigenza scolastica, intervenendo sulla governance della scuola, mantenendo però quelle degli organi collegiali per come disciplinati dal TU del 1994, ritenendo di risolvere l’eventuale contrasto o sovrapposizione con un riferimento al principio di massima per il quale il dirigente deve rispettare quanto di competenza dei suddetti organi. Ebbene, nell’arco dei due anni successivi all’approvazione della legge il contenzioso è cresciuto esponenzialmente. Alla casistica si aggiungono profili di “anomalie” contenuti in alcune indicazioni normative cui sarebbero chiamati poi a porre rimedio i regolamenti di istituto, dando luogo però così ad eterogeneità talmente pronunciate tra le varie istituzioni scolastiche, su aspetti chiave dei processi deliberativi, che renderle accettabili inquadrandole come aspetti connessi all’esercizio dell’autonomia scolastica appare eccessivo. Si pensi alla questione del numero legale richiesto per la validità delle sedute di alcuni organi collegiali (Collegio dei Docenti, Consigli di Istituto), ma non di altri parimenti importanti quali i Consigli di classe, senza alcuna valida ragione addotta per tale differenziazione. Ecco che rispetto a tale “vuoto” le singole istituzioni scolastiche si comportano differentemente: alcune introducendo nel proprio regolamento la previsione del numero legale anche per i Consigli di classe, allo scopo di evitare che si trovino a deliberare su aspetti essenziali della vita scolastica due soli membri (presidente e segretario), altre invece attenendosi alla lettera del dettato normativo e non prevedendo dunque tale requisito. O, infine, si consideri quanto sia necessario per venire a capo di certi nodi operativi professionali integrare quanto prescritto da alcune norme di diretta pertinenza in ordine a temi specifici con altre a loro volta non direttamente pertinenti, le quali finiscono però per mostrare come la formulazione delle prime vada rivista. Il TU, ad es., prevede che l’anno scolastico possa essere suddiviso in due o tre periodi (art.74), con ciò deducendosi che si può anche non deliberare alcuna articolazione optando per un unicum. Ma nell’art.7 dello stesso testo si scrive che il Collegio dei docenti delibera la suddivisione dell’anno scolastico in due o tre periodi aggiungendo che tale partizione venga effettuata ai fini della valutazione, la cui normativa (v.ad es. l’OM 92/2007, ancora oggi citata in sede giurisprudenziale o nei pareri degli USR, come quello della nota 8202 del maggio 2018 in Toscana) invece parla espressamente e specificamente di quadrimestri o – comunque – di prima parte e ultimo periodo dell’anno scolastico, con ciò quindi inducendo a ritenere che la suddivisione di cui sopra sia tutt’altro che facoltativa. Si tratta solo di alcuni esempi di situazioni problematiche che sperimenta chiunque si confronti con la prassi ordinaria dell’attività professionale di docenza e dirigenza scolastiche. Parrebbe pertanto giunto il momento di dare attuazione ad una delle poche deleghe assegnate dalla legge 107/2015 ancora inevasa: la riscrittura di un Testo Unico della Scuola, posto che quello in vigore è ormai abbondantemente abrogato e rivisto in molte degli articoli e commi che lo componevano.

[22] Ad esempio le ore di lezione delle Discipline curricolari non svolte per effetto del sovrapporsi di altre iniziative didattiche o meno (per es. assemblee di classe o istituto) non devono obbligatoriamente essere recuperate; quelle di PCTO ed Educazione Civica invece sì, essendo inderogabile il tetto complessivo minimo da attuare annualmente o nel triennio.

[23] Non attenersi a linee guida e indicazioni, che sembrerebbero nella loro attestazione nominale riservarsi un potere prescrittivo depotenziato, comporta – in casi di controversie e contestazioni o ricorsi – l’obbligo preventivo di dare conto delle ragioni di tale discostamento. Detto in altri termini: se le cose non vanno per il verso giusto, non aver ottemperato alle linee guida rappresenta un fattore di criticità e “colpa” nell’operato istituzionale.

[24] Gli esiti delle prove standardizzate nazionali del 2024 sono in tal senso indicativi (fonte Rapporto INVALSI 2024, a cura dell’Istituto): in alcune regioni, quali Lombardia, Lazio, Sicilia, Sardegna, Calabria, Campania si toccano percentuali di alunni di livello 1 e 2 (ossia fragile) quasi del 20% o superiori a tale soglia (fino al 30%). La media nazionale si colloca intorno al 15%. In dettaglio, “nei licei scientifici si conferma anche per il 2024 la quota di coloro che raggiungono la soglia dell’accettabilità (85%) con un calo rispetto ai tempi pre-pandemici (-5 punti percentuali tra 2019 e 2024); tra le macro-aree geografiche, solo nel Mezzogiorno si registra un aumento: +7 punti percentuali nel Sud e +4 punti percentuali nel Sud e Isole” (p.85). L’Ufficio Statistica del MIM pubblica annualmente un rapporto o focus sugli esiti degli scrutini in cui si riportano – per annualità/classe ‒ dati su ammessi, non ammessi, giudizi sospesi per macro-indirizzi (Licei, Tecnici, Professionali) e distribuzione geografica. Sarebbe utile anche disporre di informazioni statistiche sul rendimento nelle materie di indirizzo per ciascuna tipologia di corso (es. esiti degli scrutini di Matematica, Fisica e Scienze nei Licei scientifici).

[25] La specificazione è d’obbligo, giacché in questa sede non si vuol criticare il processo di insegnamento/apprendimento per competenze in sé, ma quel particolare modello (e l’inserzione di esso nel più articolato mondo della valutazione scolastica a fini orientativi). Si può fare didattica per competenze o laboratoriale in altri, più efficaci modi nelle ore di lezione curricolare. In fin dei conti, ci sono voluti decenni di dibattiti e formazione per curvare la didattica all’implementazione di competenze specifiche delle varie Materie, sganciando l’insegnamento dal processo di trasmissione di mere conoscenze e contenuti nozionistici. All’ipotesi di inserimento di uno specifico insegnamento per l’attivazione di una competenza trasversale percepita come emergenziale (in ultimo le cosiddette competenze affettive), si può obiettare infatti che una buona selezione di contenuti, argomenti, testi, fonti iconografiche e di abilità/competenze disciplinari nelle lezioni delle varie Materie può essere di per sé già ottimale e dunque sufficiente a veicolare tale competenza efficacemente, molto ovviamente dipendendo dalle capacità dell’insegnante. Il problema è sorto quando si sono invertiti i fattori, ritenendo erroneamente che capovolgendo il peso specifico degli stessi si potesse dar luogo ad una sorta di permutazione didattica: prima si pensava che sottolineando l’importanza delle competenze tecniche e specifiche (e dei contenuti ad esse strutturalmente legate) e dedicando molto spazio e tempo al loro insegnamento e apprendimento si potessero trasmettere anche competenze più generali e trasversali, adesso invece si vuol percorrere la strada nel verso opposto; si agisce sulle seconde sperando, spesso vanamente, che si attivino anche le prime. Invece si potrebbe riservare alle attività co-curricolari o extra-curricolari, e con esperti adeguatamente formati, questa determinata tipologia di didattica appositamente dedicata alle competenze non tecniche, bensì trasversali. Perché non va nemmeno sottaciuto il fatto che molti docenti non hanno grande dimestichezza con le tecniche da impiegare per mettere a punto i compiti o prodotti di realtà, con ciò vedendo compromessa la propria funzione di orientare gli alunni nel corso dell’esperienza didattica; se può essere suggestiva l’idea di un momento di interazione formativa in cui gli alunni, con le loro passioni coltivate al di fuori dell’ambito scolastico, possono fungere da co-orientatori del docente, muovendosi quindi su un piano di mutua e reciproca orizzontalità, d’altro canto il rischio che tutto scantoni in una sorta di festival del dilettantismo è concreto. Fin tanto che la scelta degli aspetti del proprio operato professionale da aggiornare e riformare spetterà – da contratto – al docente, non si può pensare di aggirare il problema imponendo agli insegnanti gli ambiti tecnici su cui doversi formare per adeguarsi a questi nuovi modelli didattici. Non è infatti trascurabile che tali didattiche non di rado veicolano verso un’implementazione del piano formativo che richiama livelli e logiche operative di gradi scolastici per lo più pregressi, in una sorta, ci si conceda l’espressione volutamente enfatica e paradossale, di regressione didattica; cartellonistica, gadget artigianali, recite di fine anno cominciano ad imperversare in modo inflazionato nelle attività didattiche delle superiori, in misura drammaticamente proporzionale alla quantità di corsi di recupero e riallineamento che i corsi di laurea universitaria devono mettere a regime per colmare le lacune dei neo-diplomati che vi si iscrivono. La cosiddetta pedagogia ludico/artistica in fascia d’età adolescenziale avanzata non comporta meno rischi della balzana idea per cui fare buona didattica debba perciò stesso significare realizzare lezioni “seriose”. Si può forse intuirne l’intenzione “machiavellica” (nel senso nobile del termine), ossia sperare di far imparare qualcosa agli studenti coinvolgendoli e interessandoli, ma il punto è esattamente questo: cosa imparano, dal momento che l’oggetto dell’apprendimento non è corpo estraneo rispetto a come lo si è appreso?

[26] I dati negativi sono relativi soprattutto alla fase pre-pandemica e comunque agli anni immediatamente successivi o contestuali. Dopo, si è registrata un’inversione di tendenza, anche se i report vanno differenziati. L’ultima indagine IEA-TIMSS (Trends in International Mathematics and Science Studies) mostra che gli alunni delle quarte classi primarie e delle terze classi secondarie di primo grado si collocano al di sopra dei punteggi internazionali, ma al di sotto della media europea. D’altro canto i dati delle rilevazioni INVALSI 2024 evidenziano sì un calo netto della dispersione implicita (rispetto al 2019, anno di inizio indagine), però diminuisce – rispetto al 2023 – la percentuale di studenti che raggiunge i traguardi di base in Matematica e Italiano nelle primarie; nelle secondarie di primo grado sono in calo i risultati di Italiano e stabili quelli di Matematica; alle superiori, nelle classi seconde i livelli sono stabili, con lieve ribasso in Italiano, e nelle classi quinte in miglioramento. Da notare che il Presidente di INVALSI, Ricci, imputa proprio alla pratica di insegnamento errata l’incapacità di motivare i ragazzi all’apprendimento delle Discipline STEM (si veda quanto riportato in https://www.focus-scuola.it/i-risultati-invalsi-2024-e-il-sistema-distruzione-italiano/). L’ultima indagine OCSE-PISA (2022) ha evidenziato un rendimento in Matematica in linea con la media OCSE, mentre in Italiano (lettura) addirittura superiore; sotto di 8 punti invece le competenze maturate in Scienze.

[27] Il cui identikit, invero, risulta abbastanza distante dalle idee pedagogiche del filosofo castelvetranese.

[28] Sul punto si può concordare: da decenni si cerca di indurre i consigli di classe a lavorare in modo interdisciplinare e in équipe, collegialmente. Lo si è fatto già con la riforma degli esami di Sato introdotta da Berlinguer (questo, invero, il senso del colloquio e anche della terza prova), ma non è bastato. Nella prassi, si sa, docenti e Discipline marciano isolatamente, lasciando spesso all’alunno l’onere di effettuare quei collegamenti tematici e metodologici che – ovviamente ‒ non è poi in grado di fare. Le stesse prove d’esame lo dimostrano: lo spirito interdisciplinare della terza prova venne nella prassi snaturato, trasformandola in un “quizzone” di più Materie in sequenza e scollegate; al colloquio, i medesimi percorsi interdisciplinari ripetuti a migliaia di commissioni per anni (ogni sessione, ogni classe, avrà avuto un/una alunno/a che si confrontava con l’Io, il tema del doppio, il rapporto con la natura, la crisi della ragione) destando l’insofferenza dei docenti, sono incredibilmente rientrati in auge quando è toccato a questi ultimi, quasi per contrappasso e nemesi, allestire l’avvio di prova orale su spunti interdisciplinari.

[29] Proprio gli esiti delle prove standardizzate nazionali e delle indagini statistiche internazionali che abbiamo già citato evidenziano come dato costante, quando non in crescita critica, i divari sempre pronunciati tra aree territoriali a diverso indice socioeconomico con risultati positivi medi superiori al settentrione e negativi in regioni più deprivate, come quelle meridionali e insulari. Inoltre, delle istituzioni scolastiche che operano in aree cosiddette “a rischio” e di quanto il sistema fatichi a inserire/integrare generazioni di scolari di recente immigrazione la letteratura pedagogica e sociologica ha abbondantemente trattato. Assodato ciò: siamo sicuri del fatto che esista un automatismo strutturale tra status socioeconomico ed effettivo successo scolastico? Se in negativo è vero che spesso, ma per fortuna non sempre, condizioni di sofferenza in tal senso incidano significativamente sulla propria promozione formativa, è anche certo che un orizzonte analitico a più ampio spettro, che includa tutte le articolate galassie della realtà scolastica (comprese, per esempio, quelle delle istituzioni scolastiche non statali), indurrebbe a coltivare qualche dubbio in merito per quegli alunni che – all’opposto – godono di posizioni “privilegiate”, di maggiore benessere; il rendimento scolastico di questi ultimi è infatti tutt’altro che scontatamente apprezzabile.

[30] A ribadire che i dati numerici vanno letti “semanticamente”, trasferirsi ad altro istituto del medesimo indirizzo, ma di altra e distante città, per esigenze familiari (per es. trasferimenti logistici dovuti a ragioni lavorative), non può ovviamente avere nessuna ricaduta sulla capacità formativa dell’Istituto da cui ci si allontana. Considerando i tassi di mobilità che riprendono a crescere nel contesto dell’immigrazione/emigrazione interna per ragioni occupazionali, la percentuale di tali studenti potrebbe non essere trascurabile.

[31] Ammesso che, tra l’altro, l’alunno in questa logica (auto) promozionale sia tanto avveduto da essere veramente cosciente di quali punti di fragilità caratterizzino la sua preparazione. Tale consapevolezza è spesso infatti ostacolata dalla ricerca da parte dell’alunno di conferme sull’accettabilità del proprio rendimento, attuate valorizzando solo l’esito finale, generosamente sommativo, e operando una sistematica rimozione di tutte le problematicità e criticità emerse nel corso dell’intero anno scolastico. In definitiva, rispetto all’obiettivo primo di orientamento, cioè diventare sempre più consapevoli di sé, questa impostazione didattica finisce per vanificare tutto e disorientare gli studenti.

[32] Nelle indicazioni ministeriali di compilazione del RAV è stato escluso di poter individuare priorità che abbiano a che fare col raggiungimento di risultati certi in merito al conseguimento degli obiettivi formativi, proprio perché la certificabilità e la misurazione degli stessi è statisticamente non computabile, né rilevabile.

[33] Soprattutto, ma non solo, nelle fasce sociali di maggior disagio. “Non solo”, però: in Per la scuola, Sellerio editore, Palermo, 2008, raccolta di saggi diP.Calamandrei dedicati alla scuola e all’istruzione, l’insigne giurista e politico faceva notare che vera sfida della scuola non è solo quella di mettere il figlio dell’operaio nelle condizioni di studiare per intraprendere la carriera di avvocato, bensì l’altra di verso opposto, e cioè rendere i figli degli avvocati coscienti che a volte potrebbero anche decidere di fare gli operai.

[34] Es. in quali Discipline l’alunno consegue i risultati migliori, quali sono gli argomenti che lo hanno maggiormente interessato e che ha imparato meglio, ecc.

[35] Si legga in proposito quanto riportato in tale contributo di Fulvia Antonelli sull’esperienza organizzata al quartiere Pilastro di Bologna: https://rivistedigitali.erickson.it/educazione-interculturale/archivio/vol-13-n-3/perche-ho-scelto-questa-scuola-riflessioni-su-drop-out-e-orientamento-scolastico-il-progetto-europeo-il-progetto-europeo-success-at-school-sas-through-volunteering/.

[36] Dai dati socializzati a gennaio del 2024 dall’organizzazione Save the children circa il 3% degli studenti cambia indirizzo scolastico tra il primo e il secondo anno delle scuole secondarie di secondo grado. I dati sulle iscrizioni (non sui trasferimenti) generali all’a.s. 2024/2025 attestano sempre una maggioranza di alunni che scelgono il liceo (più della metà), quasi un terzo gli istituti tecnici e circa il 17% i professionali. Quelli relativi alle iscrizioni o scelte delle prime classi per gli alunni uscenti dal primo ciclo fanno registrare un live incremento di iscritti a tecnici e professionali (+ 0,6-0,7%) rispetto all’anno scolastico precedente, in un contesto di permanente divario (licei: 55,6%, Tecnici 31,6%, Professionali 12,7%). Il focus sulla dispersione scolastica pubblicato dall’ufficio di Statistica del MIM nell’ottobre 2023, concernente gli aa.ss. 2019-20/2021/2022, evidenzia come a rischio abbandono nella secondaria di secondo grado (intendendosi per tale l’interruzione di frequenza durante l’a.s. corrente o la non frequenza dell’a.s. successivo, senza valide motivazioni) sono soprattutto alunni che, tra gli altri fattori riconducibili alla cosiddetta regressione logistica, non  hanno seguito i consigli orientativi nel passaggio da primo a secondo ciclo oppure frequentano istituti tecnici o professionali.

[37] I CCNI spesso risultano ancora più “bizzarri”, trovandosi obiettivamente difficile qualificare altrimenti disposizioni contrattuali che – ad es. ‒ nella mobilità territoriale conferiscono precedenza ai movimenti di chi si sposta da un istituto ad un altro distante magari poche decine di metri (entro lo stesso Comune), rispetto a genitori che cercano disperatamente di ricongiungersi con la propria famiglia da cui li separa una sede di lavoro distante migliaia di chilometri (v. Allegato A CCNI sulla mobilità territoriale e professionale).

[38] Sempre più norme imperative primarie superano quelle pattizie o contrattuali assegnando nuovi compiti alle istituzioni scolastiche e prevedendo per ciascuno di essi delle figure professionali interne ad hoc. Quando non espressamente introdotte con la clausola “senza nuovi o aggiuntivi oneri per lo Stato”, le risorse finanziarie stanziate specificamente non appaiono sufficienti a garantire adeguata retribuzione a tutti (e sono davvero tanti) coloro che sono impegnati in tali attività, considerando tra l’altro che le operazioni da gestire e i profili di responsabilità connessi non di rado sono numerosi e complicati. Tra gli esempi ultimi: i coordinatori di consiglio di classe di Educazione Civica e i tutor PCTO, nonché i referenti di istituto dei due insegnamenti/metodi didattici.

Sciopero 10 gennaio 2025

AVVISO DI SCIOPERO

Si comunica che per l’intera giornata del 10 gennaio 2025 è previsto uno sciopero di tutto il personale docente, educativo e Ata, a tempo determinato e indeterminato, proclamato dal CSLE (Confederazione Sindacale Lavoratori Europei).

Gazzetta ufficiale – Serie Generale n. 302

302 del 27-12-2024