E. De Luca, Tu, mio

Erri De Luca e la vita del pensiero

di Antonio Stanca

   Di recente è stato ristampato Tu, mio, romanzo dello scrittore napoletano Erri De Luca che risale a molti anni fa. Anche allora la prima edizione era avvenuta presso la Universale Economica Feltrinelli. De Luca aveva poco più di quaranta anni, da poco aveva cominciato a scrivere di narrativa poiché altri erano stati i suoi interessi, traduzione di lingue antiche, apprendimento di lingue straniere, giornalismo, teatro, poesia. In molti sensi si era applicato prima di dedicarsi alla narrativa e sorprende che abbia continuato in questa. In verità quando è scrittore De Luca sceglie particolari momenti, frangenti di storia, di vita con i quali combinare, nei quali collocare avvenimenti, vicende che mettano in evidenza, facciano risaltare le qualità, le doti di personaggi eccezionali, di eroi positivi, capaci di trasformare situazioni pericolose, di volgerle a beneficio individuale, collettivo, di farle espressione di bene. Coraggioso, intraprendente è il De Luca scrittore. Non si è arreso alla crisi dei valori morali, spirituali sopravvenuta con i tempi moderni, non ha smesso di credere nel recupero, nella ripresa, nell’azione di quell’anima che finita sembrava a causa di una realtà di carattere soltanto materiale. Capace si è mostrato di costruire situazioni dove a farsi vedere non è lo spirito di un solo personaggio, di un singolo eroe ma di molti, dove a credere possibile l’opera della virtù sono in tanti e in tanti s’impegnano ad attuarla. È ancora convinto De Luca che si possa, si debba fare del bene. Fin dall’inizio, come prova questo romanzo, la sua narrativa lo aveva perseguito, era diventato il suo motivo ricorrente, lo aveva arricchito ogni volta, in ogni opera. In Tu, mio è un’intera isola, Capri, un intero villaggio, un’intera spiaggia, un’intera stagione, una delle tante estati degli anni Cinquanta sul Tirreno, ad essere rappresentata come percorsa da simile movimento di pensiero, di azione, da simile forza d’animo, fiducia.  

   A svolgersi è la storia di un ragazzo molto giovane, appena sedicenne, venuto da una città sull’isola per trascorrere le vacanze estive in casa degli zii, e di una ragazza tedesca, Caia, più matura, pure lei venuta a Capri perché ospitata da un’amica. Sono gli anni Cinquanta, il clima è quello della guerra fredda, del controspionaggio tra le nazioni che si sono confrontate durante la seconda guerra mondiale e che non hanno finito con le loro rivalità. Durante la guerra Caia ha perso il padre ucciso dai tedeschi e difficile le riesce rassegnarsi al dolore anche perché non sa come è successo. S’incontrerà con il giovane, si frequenteranno, si confideranno, si piaceranno, s’innamoreranno. Verranno a contatto con altri ragazzi, più e meno giovani, entreranno in delle comitive, in gruppi di adulti quale quello dello zio di lui, del cugino Daniele, dei loro aiutanti nella pesca, nella vita della barca. Si creerà un ambiente, un’atmosfera di diffusa, generale partecipazione e sarà difficile capire dove, come, quando incontrare i due. Possono stare ad una festa con gli amici, in un locale pubblico o a pesca con lo zio, col cugino o col saggio aiutante Nicola, possono fare un’escursione al Castello Aragonese o una gita in barca o un bagno prolungato o prendere il sole sulla spiaggia o inoltrarsi nel bosco. C’è poco di programmato, molte cose sono improvvisate e qui la spontaneità, la naturalezza, l’immediatezza della narrazione. Si ha l’impressione che tutto avvenga mentre lo si scrive, che acquisisca allora la sua verità. Si giunge alla fine senza che si sia fermato quel movimento di pensiero, di azione, quella fiducia nel bene che era comparsa all’inizio e che a volte si era verificata per conto proprio, in maniera naturale. Era quasi sembrata una misura, una regola necessaria alla quale De Luca aveva assegnato lo sviluppo, l’esito di certe situazioni. In questo romanzo ce ne saranno tante, si può dire che la maggior parte sia di questo genere e che la più riuscita sia quella dell’incontro dei due ragazzi, della loro frequentazione, del loro amore. Da qui si arriverà a vendicare la morte del padre di Caia da parte del suo nuovo amico che tanto l’aveva sofferta quando l’aveva saputo. Sarà lui a incendiare l’albergo dove alloggiava una comitiva di turisti tedeschi. Lo farà senza dirlo a Caia e al solo scopo di mostrarsi coraggioso, forte, capace di punire un misfatto, di fare giustizia, di ristabilire la regola. Nel giovane, nel suo spirito, nel suo ardore avviene quel che nella vita non c’era stato, l’incontro, il chiarimento, la confessione tra padre e figlia e pure la vendetta. Molta altra vita si aggiunge con questo scrittore a quella che già c’è: è il segno che lo distingue, è la vita del pensiero, è quella che si svolge senza che la si voglia.

Il Colloquio d’Esame

Maturità: il colloquio come ascolto attivo e incontro tra generazioni

di Piervincenzo Di Terlizzi

Ogni anno l’esame di Stato del secondo ciclo (o di maturità, come tornerà ad essere chiamato) rappresenta per migliaia di studenti italiani un rito di passaggio. È un momento carico di significato, non solo per ciò che certifica, ma per ciò che simbolicamente racchiude. Tra tutte le prove, il colloquio orale è quella più specifica dell’esame stesso, muovendosi tra uno spunto di partenza, argomenti diversi e le riflessioni sul cosiddetto PCTO.

Il colloquio assume una valenza particolarmente intensa, che viene manifestata, in questi ultimi anni, dalle varie forme di festeggiamento che seguono le prove dei candidati, rispetto alle quali, oltre alle considerazioni di colore, tra mazzi di fiori, calici di Prosecco, corone d’alloro, vanno fatte anche delle riflessioni sulla latente domanda di senso generazionale che esse implicano.  In questi giorni d’esame, mi è capitato spesso di riflettere su questi aspetti generazionali e su come il colloquio sia non solo una doverosa forma di verifica, ma come spazio di parola, di espressione, di riconoscimento: un tempo in cui la scuola ha l’opportunità di ascoltare davvero chi ha accompagnato per cinque anni.

L’Ordinanza Ministeriale n. 67 del 31 marzo 2025, che ha disciplinato quest’anno l’Esame di Stato, richiamando la normativa che vige da anni sottolinea chiaramente la portata del colloquio: esso ha carattere multidisciplinare e serve ad accertare “il conseguimento del profilo educativo, culturale e professionale dello studente”, ponendo l’accento sulla “capacità di argomentazione, di pensiero critico e riflessivo, nonché di collegamento tra le conoscenze acquisite”. Sono parole che delineano non una semplice interrogazione, ma un’occasione formativa profonda, che si realizza pienamente solo se sostenuta da un ascolto attivo: un ascolto che accoglie, che rispetta i tempi e i modi con cui ogni studente sceglie di raccontare sé stesso. Perché è proprio questo che accade nel colloquio, quando è autentico: lo studente prende parola non solo per mostrare ciò che ha studiato, ma per far emergere chi è diventato lungo il cammino.

L’ascolto che educa

Nel mondo della scuola, l’ascolto è spesso sacrificato alla necessità di misurare, valutare, classificare. Ma il colloquio ci ricorda che educare significa prima di tutto saper ascoltare. Come scrive Duccio Demetrio, “chi ascolta davvero educa due volte: perché custodisce la narrazione dell’altro, e perché apre lo spazio in cui quella narrazione può trasformarsi in consapevolezza”. Ascoltare uno studente che collega un testo letterario a una questione etica, che rielabora un’esperienza personale a partire da un concetto di fisica o di storia, significa offrirgli la possibilità di dare forma al proprio pensiero, di assumersi la responsabilità di ciò che dice, e quindi di ciò che è.

Ma l’ascolto attivo, per essere tale, implica una presenza reale da parte dell’adulto. Significa lasciarsi interrogare, sospendere il giudizio, essere disposti a restare in silenzio per dare valore a ogni parola, anche a quelle più esitanti. Il colloquio è anche questo: un esercizio di attenzione reciproca, che educa alla democrazia, alla responsabilità, alla cura della relazione.

Un incontro tra generazioni

Il colloquio è inoltre uno spazio prezioso di incontro tra generazioni. Da una parte il giovane che si affaccia alla vita adulta, dall’altra docenti che rappresentano la scuola come comunità educante. In quel dialogo si gioca qualcosa di profondo: la possibilità che avvenga una trasmissione simbolica, un riconoscimento che non si limita alla prestazione scolastica, ma tocca la persona.

Francesco Stoppa, ne La restituzione. Perché si è rotto il patto tra le generazioni, scrive che la rottura generazionale nasce quando gli adulti smettono di trasmettere e i giovani smettono di ricevere. Recuperare quel patto significa costruire scene in cui la parola dei giovani trovi spazio, ascolto e legittimità. Il colloquio di maturità può diventare proprio una di queste scene di restituzione: uno spazio in cui lo studente restituisce ciò che ha ricevuto, e l’adulto restituisce riconoscimento e fiducia.

Una comunità che ascolta

A offrire un’altra prospettiva illuminante è bell hooks, teorica dell’educazione e del pensiero critico. Nel suo Teaching to Transgress, afferma che “la classe resta lo spazio più radicale di possibilità” e che una comunità educativa è tale solo quando si fonda sull’interesse reciproco, sulla valorizzazione delle voci, sulla reale presenza degli uni per gli altri. Scrive:

“La nostra capacità di generare entusiasmo è profondamente influenzata dal nostro interesse reciproco, dal desiderio di ascoltarci davvero, dal riconoscere la presenza dell’altro.”

Il colloquio, se vissuto con questo spirito, può diventare l’esercizio più alto di comunità scolastica. Non un rituale burocratico, ma un tempo in cui l’adulto si fa testimone e non solo giudice, e in cui il giovane può sentirsi finalmente riconosciuto come soggetto di pensiero, di parola, di storia.

Un’occasione educativa più ampia

In questo senso, il colloquio è molto più che una prova d’esame. È una scena educativa che coinvolge tutti i protagonisti della scuola.

Per lo studente, è un’occasione per riappropriarsi della parola, per collegare saperi e vissuto, per dire la propria storia attraverso ciò che ha imparato. È un gesto di responsabilità, ma anche un atto di libertà.

Per la commissione e per i docenti, è un tempo per riconoscere la singolarità di ogni percorso. Un invito ad ascoltare, non per misurare, ma per comprendere. Perché ogni discorso, ogni scelta, ogni esitazione è carica di significato e merita attenzione.

E per la scuola intera, è il momento per mettere in atto ciò che afferma nei documenti, ma che troppo spesso rischia di restare sulla carta: centralità della persona, personalizzazione dei percorsi, valorizzazione delle competenze trasversali. Il colloquio di maturità è la verifica finale anche di quanto la scuola è stata capace di educare all’interiorità, alla riflessione, alla relazione.

Lentezza, ascolto, cura

In un tempo che spesso premia la velocità, l’efficienza e la prestazione, il colloquio ci ricorda il valore della lentezza, dell’ascolto e della cura. È una soglia che si attraversa insieme: chi lascia la scuola lo fa con le proprie parole, chi vi resta lo accompagna con lo sguardo di chi sa riconoscere.

Se al termine del colloquio uno studente può dire, anche solo dentro di sé, “mi hanno ascoltato davvero”, allora la scuola avrà fatto ciò per cui esiste: educare alla vita, attraverso l’incontro.

Gazzetta ufficiale – Serie Generale n. 154

154 del 05-07-2025